Numero XXXVII Gasparo Gozzi Moralische Wochenschriften Klaus-Dieter Ertler Herausgeber Alexandra Fuchs Herausgeber Lena Druml Mitarbeiter Sarah Lang Gerlinde Schneider Martina Scholger Johannes Stigler Gunter Vasold Datenmodellierung Applikationsentwicklung Institut für Romanistik, Universität Graz Zentrum für Informationsmodellierung, Universität Graz Graz 20.05.2019

o:mws-103-477

Gozzi, Gasparo: L’Osservatore veneto. Herausgegeben von Emilio Spagni. Firenze: G. Barbera 1897 [1761], 153-157 L’Osservatore veneto 1 037 1761-06-10 Italien
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N° XXXVII

A dì 10 giugno 1761.

In longa via et pulvis, et lutum, et pluvia.

Senec., Ep.

A fare un cammino lungo trovi polvere,pioggia e pantano.

Non c’è al mondo più lungo cammino di quello della vita. Ogni uomo e ogni donna, quanto è a sè, non può fare una gita più lunga di questa. Mentre che si fa viaggio, mille cose t’hanno ad accadere; e mentre che si vive, sarà lo stesso. Leva il sole chiaro, senza un nuvolette per tutta l’aria dall’oriente all’occidente, da settentrione al mezzodì. Oh! bella giornata ch’è questa! Animo. Su; in poste. Oggi io avrò un viaggio prospero. Entro nel calesso; e non sarò andato oltre due miglia, che dalla parte di tramontana cominciano a sorgere certi nugolonacci neri, cenerógnoli, da’quali esce un acuto lampeggiare spesso, poi s’alzano, e mandano fuori un sordo fragore, infine volano, come se ne gli portasse il diavolo, premono certi goccioloni radi qua e colà, e finalmente riversano pioggia con tanta furia, che par che venga dalle grondaie: tu n’aspetti allora anche gragnuola, saette, e che si spalanchi l’abisso. Non è vero. Ogni cosa è sparita. Il sole ritorna come prima. Un altro dì t’avviene il contrario. Esci di letto, che giureresti che avesse a cadere il mondo; di là a mezz’ora tutto è tranquillo e quiete. Trovi un’osteria che pare edificata dal Palladio. Ti si presenta un ostiere, che diresti: Costui è uscito ora di bucato, pulito come una mosca. I famigli suoi tutti sono garbati. Tu fai conghiettura d’avere un pranzo che debba essere una signoria. Siedi alla mensa. Appena hai di che mangiare, e infine una polizza ti scortica fino all’osso. Domani in una taverna, che pare un nido di sorci, che ha per insegna un fastelletto di fieno, o una frasca legata sopra un bastone, farai la più grassa vita e il più bello trionfare del mondo. Reggi in qual modo vuoi le cose tue, e fa’quel che vuoi; prendi alterazione, o non ne prendere di quello che t’avviene; misura i tuoi passi, o lascia andare le cose come le vogliono: io credo che sia quello stesso. Una cosa sola dovremmo imparare, cioè la sofferenza. Ma noi vogliamo antivedere gli anni, non che i mesi, prima quello che dee avvenire, e oltrepassare con gli occhi dell’intelletto a quello che dev’essere; e non è maraviglia poi, se vediamo quasi tutti gli uomini pieni di pensiero, con gli occhi tralunati e malinconici, che sembrano sempre in agonia; e si dolgono che la fortuna è cieca.

Il crivello della fortuna.

“Ad ogni modo,” diceva Giove un giorno, “dappoi in qua che sono gli uomini al mondo, io dovrei avere imparato in qual forma gli abbia a governare. E tuttavia non si contentano mai di quello ch’io fo per loro. Quando le genti da bene mi chieggono qualche cosa, fo loro quella grazia che mi domandano; e queste quando posseggono quello che hanno domandato, diventano triste e pessime. I tristi, a’quali par d’esser buoni, si querelano, bestemmiano e diventano peggiori di prima. Io non ho mai altra faccenda, che star ad udire domande, preghiere, e talora parolacce che mi fanno ingiuria, tanto che non ho più riposo; e m’è avvenuto talvolta che in sul più bello del mangiare ambrosia, o del bere nèttare, m’è convenuto riporre la forchetta o la tazza, e accorrere al romor che facevano. Conoscendo che la dignità mia ne rimaneva offesa, pendi’io avea continue agitazioni e interessi, per modo che parea piuttosto un avvocato che un Nume, deliberai di compartire le faccende con gli altri Iddii, e far sì che ciascheduno soprantendesse a qualche cosa particolare. I fatti miei sono peggiorati da quelli in poi; perchè, oltre al movimento mio, veggomi intorno tutti gli altri Dei in un perpetuo aggiramento. Marte m’assorda colle novelle di guerra; Venere vuol consiglio intorno a mille casi d’amore; Lucina mi dà ragguaglio di tutti i parti; Mercurio di tutte le ladroncellerie; ho gli orecchi pieni, il cervello intronato. Orsù da qui in poi non voglio far più nè benefizi nè malefizi ad alcuno, ma vivere quieto.”

In questa, eccoti Mercurio, che gli viene con una querela innanzi, e gli dice: “Tutti gli uccelli sono a romore. In due partiti divisi tempestano l’aria, e nascerà gravissimo macello, se la Maestà Vostra non vi mette un subito riparo.” – “Non basta dunque,” disse Giove, “ch’io abbia a farneticare con gli uomini, ch’io dovrò anche perdere il cervello con gli uccelli? Di’.”

“Il pipistrello, veduto che la rondine, facendo i viaggi suoi oltremare, s’è grandemente arricchita, s’invogliò anch’egli di trafficare. Ma non avendo egli danari da poter fare il mercatante, ebbe ricorso alla rondine, e presa da lei una buona somma, con iscrittura di pagarle l’utile, incominciò a comperare varie merci, e s’arrischiò ad un viaggio di mare. È lungo tempo che una femmina chiamata Fortuna, desiderosa d’essere stimata Dea, si frappone di furto in tutte quelle faccende, che, parendo a noi di picciola importanza, vengono in cielo trascurate. E nel vero, o sommo Scagliafolgori, chi avrebbe immaginato mai che s’avesse a girar l’occhio al mare per dar prospera navigazione ad un pipistrello? Costei dunque, impacciandosi in quello che non dovea, suscitò sin dal fondo della rena una crudelissima burrasca; tanto che il povero pipistrello vi lasciò tutto il suo avere, e con grandissimo stento salvò la vita. Ritornato a casa dopo un lunghissimo volare, la rondine lo richiese incontanente de’suoi danari; egli le narrò il fatto: ella cominciò a mandargli le citazioni, e a fargli perdere la riputazione per tutta l’aria. Il poverino che non avea di che poter pagare, incominciò ad uscire solamente la notte e a stare fra bugigattoli il giorno, mentre che la sua creditrice va svolazzando pel mondo. Gli assiuoli, i gufi e le civette si sono dati a difendere il pipistrello . . .“ “Se’tu pazzo?” esclamò Giove. “Io non voglio queste brighe: poichè il pipistrello ha trovato questo riparo d’uscire la notte per non pagare, così faccia.”

Appena era terminato il ragionamento, che venne Venere con una grande alterazione d’animo, e disse: “Padre mio, Giove Adunanuvoli, noi possiamo tralasciare di fare l’ufficio nostro. Una maladetta strega, chiamata Fortuna, vuole oggimai impacciarsi in tutte le faccende. Tu sai pure che la maggior occupazione ch’io abbia, è con le femmine di mondo. Odi cosa che ti farà maravigliare. Una certa Rodope, nel vero bella e garbata, ma per la sua pessima e scorretta vita divenuta l’abbominazione fino delle sue pari, andò, pochi mesi fa, in un bagno. Quivi spogliatasi, lasciò sotto la custodia delle schiave che seco avea, i suoi vestimenti; e fra l’altre cose un paio di pianelle così squisitamente lavorate e ricamate, ch’erano una bellezza a vederle. Ell’ha un piede piccioletto, e queste le calzavano così bene e assettatuzze, che pareano nate con esso piede; ed ella amavale sopra ogni altra cosa, come quelle ch’erano state il presente d’un giovane da lei caramente amato. Venne in capo a Fortuna di fare un bel tratto: perchè avvisata un’aquila di quello che volea che avvenisse, non curandosi che l’aquila sia il regale uccello della Maestà Vostra, fece sì che la volò al bagno, e presa in becco una pianella, ne la portò fino in Egitto. E mentre che quel prudentissimo re giudicava di non so quali importanti faccende sul suo seggio reale, gli lasciò cadere la pianella addosso. La ricolse egli, e mirandola con istupore, immaginato il piede che in essa dovea aver luogo, si scordò per allora tutti i suoi popoli, e gli parve di non poter più vivere, se non avea per sua compagna la donna a cui sì bel piede stava appiccato. Consegnò dunque la pianella a non so quali suoi ministri, perchè ritrovassero a qual femmina andasse bene suggellata, e gliela conducessero, perdi’egli la volea prender per moglie. Così finalmente è avvenuto; e una femminetta di mal affare, la quale poco fa tendeva le reti a chiunque passava per via, e scoccava la trappola da un finestrino, è oggidì, per opera della Fortuna, divenuta moglie d’un potentissimo re, non senza invidia delle buone e delle triste.”

Parve a Giove che gli si aprisse la via a quello che più desiderava, e ch’egli potesse oggimai togliersi una gran briga d’attorno. “Dappoichè,” diss’egli, “cotesta Fortuna che voi dite, ha così gran voglia d’impacciarsi ne’fatti del mondo, dall’un lato è meritevole di gastigo per essersi avventurata a far cosa che non dovea; ma dall’altro io stabilisco ch’ella alleggerisca tutti noi da tante faccende. Io le darò che fare.” Così detto, ordina a Vulcano che con un tizzone l’acciechi, e gli sia condotta innanzi. Fra gli Dei le cose non si fanno a stento. In un momento la Fortuna fu accecata, e condotta davanti a Giove. Egli frattanto avea fatto apparecchiare un crivello, e sì collocatolo, che ad ogni menomo crollo potea piovere da tutte le parti del mondo quello che v’era dentro. Dappoichè vide Fortuna dinanzi a sè, senza punto rimproverarle quello che fatto avea, volle che appiccasse le mani a’cerchi del crivello; e versatovi dentro da due vasi, che avea a lato, molti beni e molti mali, che nell’uno e nell’altro erano contenuti, tanto che bastassero per un centinaio d’anni, le disse: “Crolla per cent’anni, che dentro v’è materia a sufficienza. In capo a detto tempo riempirò di nuovo. Non voglio altri impacci.”

Da quel dì in poi Fortuna crivella; e a cui va, tocca bene o male.

Signor Osservatore.

Non mi sia detto mai più che la quantità delle innamorate non sia necessaria. In un momento m’è accaduto che dì tre ch’io ne avea, sono rimaso sprovveduto affatto. Questi tre biglietti ricevuti da me stamattina, ve ne possono certificare.

Mio Signore

Non potendo voi per le faccende vostre venire alla campagna, e non volendo io essere legata in città, ho preso la risoluzione stamattina per tempo d’accompagnarmi con persona che può andare e stare quando e quanto vuole. Voi direte che sono incostante; ma quando vi promisi costanza inalterabile, era d’inverno, e io non pensava alla campagna, nè voi mi faceste parola degli obblighi vostri di non uscir mai di Venezia. Una condizione di tale importanza, taciuta al tempo del patteggiare, rende ragionevole e giustifica la mia intenzione. Addio.”

Buon per me, diss’io, letta questa polizza, che mi rimangono ancora due conversazioni da potermi consolare di tal perdita. Mentre ch’io mi confortava in tal guisa, ecco la polizza seconda di questo tenore.

Carissimo Amico.

Non ho potuto fare a meno di non accettare le offerte d’una compagnia, la quale esce di Venezia, ed è venuta ad invitarmi: in questo punto si parte. V’accerto che vo via mal volentieri, perchè vi parerà che v’usi poco buona grazia; ma vi prometto di ricordarmi di voi in ogni luogo per acqua e per terra. Non vi dico dove si va, perchè non vorrei che mi scriveste, quantunque mi sarebbero molto care le vostre lettere. Son quasi certa che anderete in collera, e che al mio ritorno non verrete più a ritrovarmi. Attribuirò tutto a mia somma sfortuna; e procurerò d’aver pazienza più che potrò, essendo già avvezza alla contrarietà della sorte. Dimenticatevi di me quanto volete, che ve lo concedo, e avrete ragione. Addio.”

Io non so, esclamai, che furia entri nelle viscere per andare in campagna. Vadano, che il buon pro faccia loro. Mi rimane la terza ancora, la quale non è avvezza a coteste grandezze; e rimarrà volentieri dov’ella è. Appena ebbi proferite queste parole, che mi fu arrecata la polizza terza.

Signor Compare.

Spero ch’ella mi farà la grazia di voler venire a vista del presente a casa mia per essere mio compare. Iersera ho concluse le mie nozze; ella vedrà il mio marito, se mi favorisce. Non si maravigli della mia risoluzione. Le posso giurare ch’è stata una cosa affatto improvvisa, alla quale io non avea un pensiero al mondo. Non so ancora se avrò fatto bene o male, ma la prego a venir subito: perchè dopo sposati, andiamo alla campagna. Spero d’essere favorita, e sono sua buona serva e comare

N. N.”

Sono stato al comparatico; ho trovato la sposa vestita da campagna; gli sponsali son fatti, e i maritati novelli andarono a’fatti loro; dandomi la signora molti saluti con la mano dal finestrino della barca. Alla venuta universale dalla campagna cercherò d’appiccare qualche amicizia nuova fino al venturo autunno.

N° XXXVII A dì 10 giugno 1761. In longa via et pulvis, et lutum, et pluvia. Senec., Ep. A fare un cammino lungo trovi polvere,pioggia e pantano. Non c’è al mondo più lungo cammino di quello della vita. Ogni uomo e ogni donna, quanto è a sè, non può fare una gita più lunga di questa. Mentre che si fa viaggio, mille cose t’hanno ad accadere; e mentre che si vive, sarà lo stesso. Leva il sole chiaro, senza un nuvolette per tutta l’aria dall’oriente all’occidente, da settentrione al mezzodì. Oh! bella giornata ch’è questa! Animo. Su; in poste. Oggi io avrò un viaggio prospero. Entro nel calesso; e non sarò andato oltre due miglia, che dalla parte di tramontana cominciano a sorgere certi nugolonacci neri, cenerógnoli, da’quali esce un acuto lampeggiare spesso, poi s’alzano, e mandano fuori un sordo fragore, infine volano, come se ne gli portasse il diavolo, premono certi goccioloni radi qua e colà, e finalmente riversano pioggia con tanta furia, che par che venga dalle grondaie: tu n’aspetti allora anche gragnuola, saette, e che si spalanchi l’abisso. Non è vero. Ogni cosa è sparita. Il sole ritorna come prima. Un altro dì t’avviene il contrario. Esci di letto, che giureresti che avesse a cadere il mondo; di là a mezz’ora tutto è tranquillo e quiete. Trovi un’osteria che pare edificata dal Palladio. Ti si presenta un ostiere, che diresti: Costui è uscito ora di bucato, pulito come una mosca. I famigli suoi tutti sono garbati. Tu fai conghiettura d’avere un pranzo che debba essere una signoria. Siedi alla mensa. Appena hai di che mangiare, e infine una polizza ti scortica fino all’osso. Domani in una taverna, che pare un nido di sorci, che ha per insegna un fastelletto di fieno, o una frasca legata sopra un bastone, farai la più grassa vita e il più bello trionfare del mondo. Reggi in qual modo vuoi le cose tue, e fa’quel che vuoi; prendi alterazione, o non ne prendere di quello che t’avviene; misura i tuoi passi, o lascia andare le cose come le vogliono: io credo che sia quello stesso. Una cosa sola dovremmo imparare, cioè la sofferenza. Ma noi vogliamo antivedere gli anni, non che i mesi, prima quello che dee avvenire, e oltrepassare con gli occhi dell’intelletto a quello che dev’essere; e non è maraviglia poi, se vediamo quasi tutti gli uomini pieni di pensiero, con gli occhi tralunati e malinconici, che sembrano sempre in agonia; e si dolgono che la fortuna è cieca. Il crivello della fortuna. “Ad ogni modo,” diceva Giove un giorno, “dappoi in qua che sono gli uomini al mondo, io dovrei avere imparato in qual forma gli abbia a governare. E tuttavia non si contentano mai di quello ch’io fo per loro. Quando le genti da bene mi chieggono qualche cosa, fo loro quella grazia che mi domandano; e queste quando posseggono quello che hanno domandato, diventano triste e pessime. I tristi, a’quali par d’esser buoni, si querelano, bestemmiano e diventano peggiori di prima. Io non ho mai altra faccenda, che star ad udire domande, preghiere, e talora parolacce che mi fanno ingiuria, tanto che non ho più riposo; e m’è avvenuto talvolta che in sul più bello del mangiare ambrosia, o del bere nèttare, m’è convenuto riporre la forchetta o la tazza, e accorrere al romor che facevano. Conoscendo che la dignità mia ne rimaneva offesa, pendi’io avea continue agitazioni e interessi, per modo che parea piuttosto un avvocato che un Nume, deliberai di compartire le faccende con gli altri Iddii, e far sì che ciascheduno soprantendesse a qualche cosa particolare. I fatti miei sono peggiorati da quelli in poi; perchè, oltre al movimento mio, veggomi intorno tutti gli altri Dei in un perpetuo aggiramento. Marte m’assorda colle novelle di guerra; Venere vuol consiglio intorno a mille casi d’amore; Lucina mi dà ragguaglio di tutti i parti; Mercurio di tutte le ladroncellerie; ho gli orecchi pieni, il cervello intronato. Orsù da qui in poi non voglio far più nè benefizi nè malefizi ad alcuno, ma vivere quieto.” In questa, eccoti Mercurio, che gli viene con una querela innanzi, e gli dice: “Tutti gli uccelli sono a romore. In due partiti divisi tempestano l’aria, e nascerà gravissimo macello, se la Maestà Vostra non vi mette un subito riparo.” – “Non basta dunque,” disse Giove, “ch’io abbia a farneticare con gli uomini, ch’io dovrò anche perdere il cervello con gli uccelli? Di’.” “Il pipistrello, veduto che la rondine, facendo i viaggi suoi oltremare, s’è grandemente arricchita, s’invogliò anch’egli di trafficare. Ma non avendo egli danari da poter fare il mercatante, ebbe ricorso alla rondine, e presa da lei una buona somma, con iscrittura di pagarle l’utile, incominciò a comperare varie merci, e s’arrischiò ad un viaggio di mare. È lungo tempo che una femmina chiamata Fortuna, desiderosa d’essere stimata Dea, si frappone di furto in tutte quelle faccende, che, parendo a noi di picciola importanza, vengono in cielo trascurate. E nel vero, o sommo Scagliafolgori, chi avrebbe immaginato mai che s’avesse a girar l’occhio al mare per dar prospera navigazione ad un pipistrello? Costei dunque, impacciandosi in quello che non dovea, suscitò sin dal fondo della rena una crudelissima burrasca; tanto che il povero pipistrello vi lasciò tutto il suo avere, e con grandissimo stento salvò la vita. Ritornato a casa dopo un lunghissimo volare, la rondine lo richiese incontanente de’suoi danari; egli le narrò il fatto: ella cominciò a mandargli le citazioni, e a fargli perdere la riputazione per tutta l’aria. Il poverino che non avea di che poter pagare, incominciò ad uscire solamente la notte e a stare fra bugigattoli il giorno, mentre che la sua creditrice va svolazzando pel mondo. Gli assiuoli, i gufi e le civette si sono dati a difendere il pipistrello . . .“ “Se’tu pazzo?” esclamò Giove. “Io non voglio queste brighe: poichè il pipistrello ha trovato questo riparo d’uscire la notte per non pagare, così faccia.” Appena era terminato il ragionamento, che venne Venere con una grande alterazione d’animo, e disse: “Padre mio, Giove Adunanuvoli, noi possiamo tralasciare di fare l’ufficio nostro. Una maladetta strega, chiamata Fortuna, vuole oggimai impacciarsi in tutte le faccende. Tu sai pure che la maggior occupazione ch’io abbia, è con le femmine di mondo. Odi cosa che ti farà maravigliare. Una certa Rodope, nel vero bella e garbata, ma per la sua pessima e scorretta vita divenuta l’abbominazione fino delle sue pari, andò, pochi mesi fa, in un bagno. Quivi spogliatasi, lasciò sotto la custodia delle schiave che seco avea, i suoi vestimenti; e fra l’altre cose un paio di pianelle così squisitamente lavorate e ricamate, ch’erano una bellezza a vederle. Ell’ha un piede piccioletto, e queste le calzavano così bene e assettatuzze, che pareano nate con esso piede; ed ella amavale sopra ogni altra cosa, come quelle ch’erano state il presente d’un giovane da lei caramente amato. Venne in capo a Fortuna di fare un bel tratto: perchè avvisata un’aquila di quello che volea che avvenisse, non curandosi che l’aquila sia il regale uccello della Maestà Vostra, fece sì che la volò al bagno, e presa in becco una pianella, ne la portò fino in Egitto. E mentre che quel prudentissimo re giudicava di non so quali importanti faccende sul suo seggio reale, gli lasciò cadere la pianella addosso. La ricolse egli, e mirandola con istupore, immaginato il piede che in essa dovea aver luogo, si scordò per allora tutti i suoi popoli, e gli parve di non poter più vivere, se non avea per sua compagna la donna a cui sì bel piede stava appiccato. Consegnò dunque la pianella a non so quali suoi ministri, perchè ritrovassero a qual femmina andasse bene suggellata, e gliela conducessero, perdi’egli la volea prender per moglie. Così finalmente è avvenuto; e una femminetta di mal affare, la quale poco fa tendeva le reti a chiunque passava per via, e scoccava la trappola da un finestrino, è oggidì, per opera della Fortuna, divenuta moglie d’un potentissimo re, non senza invidia delle buone e delle triste.” Parve a Giove che gli si aprisse la via a quello che più desiderava, e ch’egli potesse oggimai togliersi una gran briga d’attorno. “Dappoichè,” diss’egli, “cotesta Fortuna che voi dite, ha così gran voglia d’impacciarsi ne’fatti del mondo, dall’un lato è meritevole di gastigo per essersi avventurata a far cosa che non dovea; ma dall’altro io stabilisco ch’ella alleggerisca tutti noi da tante faccende. Io le darò che fare.” Così detto, ordina a Vulcano che con un tizzone l’acciechi, e gli sia condotta innanzi. Fra gli Dei le cose non si fanno a stento. In un momento la Fortuna fu accecata, e condotta davanti a Giove. Egli frattanto avea fatto apparecchiare un crivello, e sì collocatolo, che ad ogni menomo crollo potea piovere da tutte le parti del mondo quello che v’era dentro. Dappoichè vide Fortuna dinanzi a sè, senza punto rimproverarle quello che fatto avea, volle che appiccasse le mani a’cerchi del crivello; e versatovi dentro da due vasi, che avea a lato, molti beni e molti mali, che nell’uno e nell’altro erano contenuti, tanto che bastassero per un centinaio d’anni, le disse: “Crolla per cent’anni, che dentro v’è materia a sufficienza. In capo a detto tempo riempirò di nuovo. Non voglio altri impacci.” Da quel dì in poi Fortuna crivella; e a cui va, tocca bene o male. Signor Osservatore. Non mi sia detto mai più che la quantità delle innamorate non sia necessaria. In un momento m’è accaduto che dì tre ch’io ne avea, sono rimaso sprovveduto affatto. Questi tre biglietti ricevuti da me stamattina, ve ne possono certificare. “Mio Signore Non potendo voi per le faccende vostre venire alla campagna, e non volendo io essere legata in città, ho preso la risoluzione stamattina per tempo d’accompagnarmi con persona che può andare e stare quando e quanto vuole. Voi direte che sono incostante; ma quando vi promisi costanza inalterabile, era d’inverno, e io non pensava alla campagna, nè voi mi faceste parola degli obblighi vostri di non uscir mai di Venezia. Una condizione di tale importanza, taciuta al tempo del patteggiare, rende ragionevole e giustifica la mia intenzione. Addio.” Buon per me, diss’io, letta questa polizza, che mi rimangono ancora due conversazioni da potermi consolare di tal perdita. Mentre ch’io mi confortava in tal guisa, ecco la polizza seconda di questo tenore. “Carissimo Amico. Non ho potuto fare a meno di non accettare le offerte d’una compagnia, la quale esce di Venezia, ed è venuta ad invitarmi: in questo punto si parte. V’accerto che vo via mal volentieri, perchè vi parerà che v’usi poco buona grazia; ma vi prometto di ricordarmi di voi in ogni luogo per acqua e per terra. Non vi dico dove si va, perchè non vorrei che mi scriveste, quantunque mi sarebbero molto care le vostre lettere. Son quasi certa che anderete in collera, e che al mio ritorno non verrete più a ritrovarmi. Attribuirò tutto a mia somma sfortuna; e procurerò d’aver pazienza più che potrò, essendo già avvezza alla contrarietà della sorte. Dimenticatevi di me quanto volete, che ve lo concedo, e avrete ragione. Addio.” Io non so, esclamai, che furia entri nelle viscere per andare in campagna. Vadano, che il buon pro faccia loro. Mi rimane la terza ancora, la quale non è avvezza a coteste grandezze; e rimarrà volentieri dov’ella è. Appena ebbi proferite queste parole, che mi fu arrecata la polizza terza. “Signor Compare. Spero ch’ella mi farà la grazia di voler venire a vista del presente a casa mia per essere mio compare. Iersera ho concluse le mie nozze; ella vedrà il mio marito, se mi favorisce. Non si maravigli della mia risoluzione. Le posso giurare ch’è stata una cosa affatto improvvisa, alla quale io non avea un pensiero al mondo. Non so ancora se avrò fatto bene o male, ma la prego a venir subito: perchè dopo sposati, andiamo alla campagna. Spero d’essere favorita, e sono sua buona serva e comare N. N.” Sono stato al comparatico; ho trovato la sposa vestita da campagna; gli sponsali son fatti, e i maritati novelli andarono a’fatti loro; dandomi la signora molti saluti con la mano dal finestrino della barca. Alla venuta universale dalla campagna cercherò d’appiccare qualche amicizia nuova fino al venturo autunno.