Numero XXVI Gasparo Gozzi Moralische Wochenschriften Klaus-Dieter Ertler Herausgeber Alexandra Fuchs Herausgeber Lena Druml Mitarbeiter Sarah Lang Gerlinde Schneider Martina Scholger Johannes Stigler Gunter Vasold Datenmodellierung Applikationsentwicklung Institut für Romanistik, Universität Graz Zentrum für Informationsmodellierung, Universität Graz Graz 20.05.2019

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Gozzi, Gasparo: L’Osservatore veneto. Herausgegeben von Emilio Spagni. Firenze: G. Barbera 1897 [1761], 109-113 L’Osservatore veneto 1 026 1761-05-02 Italien
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N° XXVI

A dì 2 maggio 1761.

Martedì sera io mi ritrovava nella bottega di un cartaio da me a me sopra pensiero, fantasticando intorno a non so qual cosa; e sendo mia usanza che, quando mi viene qualche capriccio nella fantasia, corro subitamente al calamaio, era entrato colà per non perdere tempo. Mentre ch’io stava con la penna in mano, eccoti che in sull’uscio della bottega odo una voce che dice: “È quegli l’Osservatore?” – “Sì,” diss’io. “Or bene,” ripete un uomo mascherato che si fa innanzi, “togliete;” e mi dà una polizza. Io mosso da una curiosità naturale lo guardo, pure per conoscere chi si fosse; ed egli intanto voltatemi le spalle, ne andò a’fatti suoi: sicchè senza altri saluti nè dall’una parte nè dall’altra, noi non ci vedemmo più, e a me rimase questa carta in mano.

Sig. Osservatore pregiatissimo.

Bell’argomento sarebbe da indirizzarvi sopra qualche ragionamento ed erudito discorso, la natura degli uomini tutti; da’quali quanto più loro di bene si fa, altrettanto si ritrae di male: in modo che basta giovare assai ad uno, a molti, o ad una famiglia intera, perchè in cambio tutto si nasconda e si copra con invenzioni. Gli si fa un sommo favore a dirgli colla voce: Signore, io vi ringrazio, o vi son grato; ma venendo a’fatti, l’ultimo servito anche nella più minuta cosa, è il benefattore; e se si fa, viene fatto per forza, e col peggior garbo del mondo. E si pretenderebbe ancora che questo fosse un favore il quale estinguesse tutti i benefizi ricevuti, come se caduto fosse dal cielo. Da queste osservazioni che in poche parole vi esprimo, deduco che ha ragione chi dice che il benefattore è un continuo rimprovero alla faccia del beneficato. Io compiango questo destino (così lo chiamo, e credo di non ingannarmi, perchè lo riconobbi troppo universale) degli uomini, se conduce chi osserva molto a non giovare assai, per non aversi a pentire. Parrebbe che chi molto benefica, dovesse più essere amato; e pure non è così. La regola avrà la sua eccezione, ma rara.

Un altro utile argomento sarebbe l’educazione de’figliuoli, rispetto la loro condizione. Anche delle figliuole ne parla lo Spettatore, ma poco.

Potrebbesi anche meditare intorno al modo con cui si hanno a contenere que’giovani i quali volessero accoppiare studio e onesto divertimento, qual si conviene ad un buon cittadino che volesse avere utilità e diletto.

Attenderò qualche cosa dalla mente vostra, assicurandovi che sono di cuore e con vera stima vostro buon amico

N. N.

Non è picciola domanda la prima che mi vien fatta dalla maschera gentilissima nella sua polizza, e mi sbigottisco a pensare ch’io sia invitato a rispondere intorno ad un argomento che fu materia a Seneca di un volume. Oltre a ciò, conosco per prova che i leggitori di questi fogli amano più presto cosette leggiere e da scherzo, che argomenti di sostanza. Contuttociò m’ingegnerò di dire quel ch’io sento, così ad un certo modo facile e non istudiato, traendo quel ch’io sento circa alle obbligazioni de’benefizi, piuttosto dal fondo dell’umana natura, che dalle speculazioni filosofiche, le quali assottigliando ogni cosa, danno nel romanzesco e nelle apparenze. Noi siamo a questo mondo un branco di usurai, e tutto il nostro avere lo diamo fuori ad usura. Immaginatevi che tutti siamo divisi in due fazioni; una schiera di qua e l’altra di là: e nessuno mai tragge fuori della borsa sua un quattrino, che non voglia guadagno. Di qua è la fazione di chi abbisogna, di là di chi benefica. Oh! chi abbisogna, direte voi, ha egli borsa? Sì, l’ha, rispondo io; e di che? Di affanno, di verecondia, di dispiacere. Non è questa forse una borsa che a trarne fuori qualche cosa, pare di schiantarsi la curata e di spargere il sangue? Quando uno dice altrui il bisogno suo, fate conto ch’egli dia del midollo di questa sua borsa a cui lo dice, e tra sè fa ragione di aver pagato innanzi tratto. Il benefattore all’incontro ha il suo borsellino fornito di grazie, di favori, di beneficenza; ma per lo più stenta lungo tempo a cavarle fuori, e appena ne dà una porzione al chieditore, quando avrà veduto che l’altro avrà sborsato quanto avea. Quando la faccenda è stabilita, eccoti che l’uno e l’altro prendono la bilancia in mano. Ma le bilance nostre sono fatte per modo, che quando vi si mette l’altrui, sempre si trova leggiero.

Il beneficato pesa il benefizio, e questo va ad alto; il benefattore pesa l’espressioni, i ringraziamenti, le umiliazioni, e gli paiono paglia. Vorrebbe che vi fosse aggiunto qualche cosa; non guarda se l’altro possa o non possa; gli pare di aver male speso il suo. L’altro giudica fra sè che quello che ha dato in verecondia e in buone parole, pesasse come piombo, e se ne sdegna; ond’eccogli a rotta l’uno contro all’altro; ed hanno il torto tuttaddue. Il far grazie e benefizi non è mercato che si abbia a patteggiare nè in cuore, nè in parole. Le due borse hannosi a tenere volentieri aperte di qua e di là senza pensiero di utile nè di guadagno. Il benefattore si dee appagare di quel diletto che ha l’onest’uomo nel far del bene, e il beneficato è obbligato a far quanto può per compensare chi è stato verso di lui liberale. Ma s’egli nol fa, perchè tralascerà il primo, per dispetto, di far del bene ad un altro? S’egli ha trovato un tristo, due tristi, e tre, e quattro, qual consolazione sarà la sua poi, s’egli trova un giorno di aver fatto grazia ad un uomo dabbene, s’egli si acquisterà un vero amico? E quando non si abbattesse ad esso mai, perchè si avrà egli a pentire che il cuor suo abbia dato luogo in sè alla magnanimità e alla grandezza?

In così breve tempo rispondo brevemente alla domanda della polizza, riserbandomi ad altro tempo di parlare intorno agli argomenti dell’educazione di maschi e femmine, e del rimanente.

E quel che l’una fa, e l’altre fanno.

Dante.

Giovedì io feci come tutti gli altri della città, e andai mascherato alla piazza maggiore. So ch’io mi colsi in frodo, ed ebbi che ridere del fatto mio a pensare che nello scrivere fo il filosofo, e pare che quanto dico lo tragga dalle scuole stoiche; e al caso poi riesco a somiglianza di tutti. La faccia dell’Osservatore zotico, ruvido, pensoso, taciturno, malinconico, magro, smorto, andava intorno con un cencio incerato che la copriva. E talora fu ch’egli si pose anche in capo di avere intelligenza atta a dare sentenza intorno a’vestiti delle donne, se aveano buon garbo e galanteria; e giudicava fra sè qual era più aggraziato e gentile. Se io avessi detto il mio parere, che altri l’avesse udito, credo che si sarebbero fatte grandissime risa, massime se alcuno mi avesse conosciuto. So dire che sarei stato inviato al calamaio e ai fogli più volte, e forse con le fischiate. E tuttavia, dov’erano le persone strette ed in cerchio calcate, mi apersi anch’io la via co’gomiti e con lo stomaco per vedere un vestito; e volli udire a sonar l’arpa, il violino e le corna da caccia che qua e colà si aggiravano. Ma quello che più mi fa maravigliare, si fu ch’io non sapea spiccarmi da quella via dove sono le cuffie, i ventagli, i nastri e tutti gli altri fornimenti delle femmine. Una bella e gran varietà è quella sopra tutto. Se le donne non facessero altro giovamento al mondo, che tanti ne fanno, vedi, diceva io, come l’hanno accresciuta la facoltà inventiva negli uomini! quante fogge! quante proporzioni! E questa bella industria de’bottegai nel metterle, a mostra non è forse una squisita prova dell’intelletto loro? Essi hanno trovati que’visi di cenci e gesso così bene coloriti, con quegli occhiolini neri, con quei nasettini bene acconci, da mettervi sopra le cuffie, perchè le paiano in sul vivo al naturale; tanto che a vedergli forniti con quella maestria, traggono a sè gli occhi e il cuore delle femmine circostanti, alle quali pare che sul capo loro debbano fare quell’effetto che fanno sopra quelle teste, che sono di dentro vote e che mai non si movono: e guardando se ne innamorano, nè mai si saziano, e di là si partono voltandosi più volte indietro, dopo di aver domandato or a questo mercante or a quello il valsente qua di una cosa e colà di un’altra, e fatto più volte battere i polsi a chi ne va con esso loro in compagnia. Partitomi finalmente di là, me ne andai vicino all’oriuolo in una bottega, che dall’alto scopre quella parte della piazza, ch’è in faccia ad esso oriuolo. Quivi attendendo io un cioccolatte, e affacciatomi ad una finestra, vidi da forse tremila capi di uomini congiunti spalla a spalla, immobili quai pietre, colla faccia levata tutti all’insù verso l’oriuolo, che in quella lontananza parea che non rifiatassero. Non è sempre vera quella sentenza che afferma, tanti essere i pareri, quanti sono i capi; perchè in que’tremila capi si vedea essere un solo parere, e un desiderio solo in tutti quegli animi; i quali si erano a quel modo rivolti ad attendere che scoccassero le ore, perchè si aprisse l’usciolino de’Magi. Quando piacque al cielo, il martello battè nella campana, tutti spalancarono bene gli occhi, i Magi uscirono, fecero l’uffizio loro, e quel mare di teste cominciò a disgregarsi. Pareano come una grande acqua, alla quale fossero state aperte diverse vie perchè la sboccasse da più luoghi, e in un punto prendesse il suo corso in vari rivoli, e di qua e di là si sfogasse. Liste di genti, cerchi, calca; si vedea da ogni parte un momentaneo bulicame: in brevissimo tempo fu netto il pavimento e quasi solitudine.

Quante cose nel mondo, diceva io, sono a questo modo, e quanti passano, come i Magi, onorati, riveriti, guardati allo insù da tutti! I Magi sono entrati costà pel secondo usciolino, il quale si è chiuso dietro alle loro spalle; ed ecco che ciascheduno va a’fatti suoi, e non se ne ricorda più. Bestia ch’io fui a tirare alla moralità quell’effetto di universale consentimento e quella súbita sparizione! Io non so che mi debba importare, nè perchè voglia colla mia pazza fantasia rendere malinconico ogni atto degli uomini. Ma che si ha a fare? L’umor mio è di tal qualità; e voglia, non voglia, ho a camminare per questa via. E poi io non trovo che in tali osservazioni ci sia quella tristezza che altri immagina, quando si pensa che le vere fonti del ridere sono i capricci, le vanità, le arroganze, e altre mille baie degli uomini, le quali vengono credute sostanza, e son aria. Infine infine io conosco che tutte le mie considerazioni non mi possono far dimagrare più di quello che mi sia, rido così bene io quanto ogni altro, e tutte le mie osservazioni non poterono far sì, che di là ad un’ora non mi arrestassi anch’io, con la faccia volta all’insù, a vedere quello che tutti gli altri aveano un’ora prima con tanta attenzione aspettato e mirato.

Paolo Colombania’leggitori.

Avvisai nell’altro foglio che questo chiude il termine dell’associazione per quelle gentili persone le quali in essa si segnarono per tre mesi. Il foglio di mercoledì aprirà il principio degli altri tre. Attenderò le notizie da chi vuole proseguire a favorirmi. L’Osservatore mi promette molte cose nuove, ed io sulla fede di lui le prometto. M’at-terrà egli la parola o no? Io so come sono fatti gli scrittori. Tanti n’ho pratichi a’miei giorni, che ne dovrei essere informato. Quanto io posso dire si è che egli dì e notte non pensa ad altro che a fantasticare cose le quali, per quanto egli può vestite col diletto, facciano qualche poco di giovamento al pubblico. Egli s’è posto in cuore questo fine e non mira ad altro. Più volte gli ho domandato perchè egli si voglia dare tale impaccio, e chi l’abbia addottorato in questa facoltà, sicchè egli si voglia spacciare per maestro altrui. “Maestro?” rispose egli, “che maestro? io sono anzi lo scolaro di tutti, e lo dico di cuore. Tutto quello che medito e scrivo, lo fo per imparare ogni dì, e per conoscere finalmente ch’io sono come tutti gli altri e che tutti gli altri sono come io; e pubblico le mie osservazioni per togliere altrui la fatica dell’osservare quello che ognuno osserverebbe molto meglio di me, se volesse darsi tal briga. Ognuno ha le sue faccende, e non può badare a questa se non per passo. Io ho sentito nelle compagnie talora molti begl’ingegni a fare questo ufficio con tanta grazia, che mi terrei pel dappiù uomo del mondo s’io potessi giungere ad un terzo.” Così mi dice egli, e così dico io a qualunque legge. Quanto è al fatto mio, a me basta che i leggitori rimangano soddisfatti della mia diligenza.

N° XXVI A dì 2 maggio 1761. Martedì sera io mi ritrovava nella bottega di un cartaio da me a me sopra pensiero, fantasticando intorno a non so qual cosa; e sendo mia usanza che, quando mi viene qualche capriccio nella fantasia, corro subitamente al calamaio, era entrato colà per non perdere tempo. Mentre ch’io stava con la penna in mano, eccoti che in sull’uscio della bottega odo una voce che dice: “È quegli l’Osservatore?” – “Sì,” diss’io. “Or bene,” ripete un uomo mascherato che si fa innanzi, “togliete;” e mi dà una polizza. Io mosso da una curiosità naturale lo guardo, pure per conoscere chi si fosse; ed egli intanto voltatemi le spalle, ne andò a’fatti suoi: sicchè senza altri saluti nè dall’una parte nè dall’altra, noi non ci vedemmo più, e a me rimase questa carta in mano. Sig. Osservatore pregiatissimo. Bell’argomento sarebbe da indirizzarvi sopra qualche ragionamento ed erudito discorso, la natura degli uomini tutti; da’quali quanto più loro di bene si fa, altrettanto si ritrae di male: in modo che basta giovare assai ad uno, a molti, o ad una famiglia intera, perchè in cambio tutto si nasconda e si copra con invenzioni. Gli si fa un sommo favore a dirgli colla voce: Signore, io vi ringrazio, o vi son grato; ma venendo a’fatti, l’ultimo servito anche nella più minuta cosa, è il benefattore; e se si fa, viene fatto per forza, e col peggior garbo del mondo. E si pretenderebbe ancora che questo fosse un favore il quale estinguesse tutti i benefizi ricevuti, come se caduto fosse dal cielo. Da queste osservazioni che in poche parole vi esprimo, deduco che ha ragione chi dice che il benefattore è un continuo rimprovero alla faccia del beneficato. Io compiango questo destino (così lo chiamo, e credo di non ingannarmi, perchè lo riconobbi troppo universale) degli uomini, se conduce chi osserva molto a non giovare assai, per non aversi a pentire. Parrebbe che chi molto benefica, dovesse più essere amato; e pure non è così. La regola avrà la sua eccezione, ma rara. Un altro utile argomento sarebbe l’educazione de’figliuoli, rispetto la loro condizione. Anche delle figliuole ne parla lo Spettatore, ma poco. Potrebbesi anche meditare intorno al modo con cui si hanno a contenere que’giovani i quali volessero accoppiare studio e onesto divertimento, qual si conviene ad un buon cittadino che volesse avere utilità e diletto. Attenderò qualche cosa dalla mente vostra, assicurandovi che sono di cuore e con vera stima vostro buon amico N. N. Non è picciola domanda la prima che mi vien fatta dalla maschera gentilissima nella sua polizza, e mi sbigottisco a pensare ch’io sia invitato a rispondere intorno ad un argomento che fu materia a Seneca di un volume. Oltre a ciò, conosco per prova che i leggitori di questi fogli amano più presto cosette leggiere e da scherzo, che argomenti di sostanza. Contuttociò m’ingegnerò di dire quel ch’io sento, così ad un certo modo facile e non istudiato, traendo quel ch’io sento circa alle obbligazioni de’benefizi, piuttosto dal fondo dell’umana natura, che dalle speculazioni filosofiche, le quali assottigliando ogni cosa, danno nel romanzesco e nelle apparenze. Noi siamo a questo mondo un branco di usurai, e tutto il nostro avere lo diamo fuori ad usura. Immaginatevi che tutti siamo divisi in due fazioni; una schiera di qua e l’altra di là: e nessuno mai tragge fuori della borsa sua un quattrino, che non voglia guadagno. Di qua è la fazione di chi abbisogna, di là di chi benefica. Oh! chi abbisogna, direte voi, ha egli borsa? Sì, l’ha, rispondo io; e di che? Di affanno, di verecondia, di dispiacere. Non è questa forse una borsa che a trarne fuori qualche cosa, pare di schiantarsi la curata e di spargere il sangue? Quando uno dice altrui il bisogno suo, fate conto ch’egli dia del midollo di questa sua borsa a cui lo dice, e tra sè fa ragione di aver pagato innanzi tratto. Il benefattore all’incontro ha il suo borsellino fornito di grazie, di favori, di beneficenza; ma per lo più stenta lungo tempo a cavarle fuori, e appena ne dà una porzione al chieditore, quando avrà veduto che l’altro avrà sborsato quanto avea. Quando la faccenda è stabilita, eccoti che l’uno e l’altro prendono la bilancia in mano. Ma le bilance nostre sono fatte per modo, che quando vi si mette l’altrui, sempre si trova leggiero. Il beneficato pesa il benefizio, e questo va ad alto; il benefattore pesa l’espressioni, i ringraziamenti, le umiliazioni, e gli paiono paglia. Vorrebbe che vi fosse aggiunto qualche cosa; non guarda se l’altro possa o non possa; gli pare di aver male speso il suo. L’altro giudica fra sè che quello che ha dato in verecondia e in buone parole, pesasse come piombo, e se ne sdegna; ond’eccogli a rotta l’uno contro all’altro; ed hanno il torto tuttaddue. Il far grazie e benefizi non è mercato che si abbia a patteggiare nè in cuore, nè in parole. Le due borse hannosi a tenere volentieri aperte di qua e di là senza pensiero di utile nè di guadagno. Il benefattore si dee appagare di quel diletto che ha l’onest’uomo nel far del bene, e il beneficato è obbligato a far quanto può per compensare chi è stato verso di lui liberale. Ma s’egli nol fa, perchè tralascerà il primo, per dispetto, di far del bene ad un altro? S’egli ha trovato un tristo, due tristi, e tre, e quattro, qual consolazione sarà la sua poi, s’egli trova un giorno di aver fatto grazia ad un uomo dabbene, s’egli si acquisterà un vero amico? E quando non si abbattesse ad esso mai, perchè si avrà egli a pentire che il cuor suo abbia dato luogo in sè alla magnanimità e alla grandezza? In così breve tempo rispondo brevemente alla domanda della polizza, riserbandomi ad altro tempo di parlare intorno agli argomenti dell’educazione di maschi e femmine, e del rimanente. E quel che l’una fa, e l’altre fanno. Dante. Giovedì io feci come tutti gli altri della città, e andai mascherato alla piazza maggiore. So ch’io mi colsi in frodo, ed ebbi che ridere del fatto mio a pensare che nello scrivere fo il filosofo, e pare che quanto dico lo tragga dalle scuole stoiche; e al caso poi riesco a somiglianza di tutti. La faccia dell’Osservatore zotico, ruvido, pensoso, taciturno, malinconico, magro, smorto, andava intorno con un cencio incerato che la copriva. E talora fu ch’egli si pose anche in capo di avere intelligenza atta a dare sentenza intorno a’vestiti delle donne, se aveano buon garbo e galanteria; e giudicava fra sè qual era più aggraziato e gentile. Se io avessi detto il mio parere, che altri l’avesse udito, credo che si sarebbero fatte grandissime risa, massime se alcuno mi avesse conosciuto. So dire che sarei stato inviato al calamaio e ai fogli più volte, e forse con le fischiate. E tuttavia, dov’erano le persone strette ed in cerchio calcate, mi apersi anch’io la via co’gomiti e con lo stomaco per vedere un vestito; e volli udire a sonar l’arpa, il violino e le corna da caccia che qua e colà si aggiravano. Ma quello che più mi fa maravigliare, si fu ch’io non sapea spiccarmi da quella via dove sono le cuffie, i ventagli, i nastri e tutti gli altri fornimenti delle femmine. Una bella e gran varietà è quella sopra tutto. Se le donne non facessero altro giovamento al mondo, che tanti ne fanno, vedi, diceva io, come l’hanno accresciuta la facoltà inventiva negli uomini! quante fogge! quante proporzioni! E questa bella industria de’bottegai nel metterle, a mostra non è forse una squisita prova dell’intelletto loro? Essi hanno trovati que’visi di cenci e gesso così bene coloriti, con quegli occhiolini neri, con quei nasettini bene acconci, da mettervi sopra le cuffie, perchè le paiano in sul vivo al naturale; tanto che a vedergli forniti con quella maestria, traggono a sè gli occhi e il cuore delle femmine circostanti, alle quali pare che sul capo loro debbano fare quell’effetto che fanno sopra quelle teste, che sono di dentro vote e che mai non si movono: e guardando se ne innamorano, nè mai si saziano, e di là si partono voltandosi più volte indietro, dopo di aver domandato or a questo mercante or a quello il valsente qua di una cosa e colà di un’altra, e fatto più volte battere i polsi a chi ne va con esso loro in compagnia. Partitomi finalmente di là, me ne andai vicino all’oriuolo in una bottega, che dall’alto scopre quella parte della piazza, ch’è in faccia ad esso oriuolo. Quivi attendendo io un cioccolatte, e affacciatomi ad una finestra, vidi da forse tremila capi di uomini congiunti spalla a spalla, immobili quai pietre, colla faccia levata tutti all’insù verso l’oriuolo, che in quella lontananza parea che non rifiatassero. Non è sempre vera quella sentenza che afferma, tanti essere i pareri, quanti sono i capi; perchè in que’tremila capi si vedea essere un solo parere, e un desiderio solo in tutti quegli animi; i quali si erano a quel modo rivolti ad attendere che scoccassero le ore, perchè si aprisse l’usciolino de’Magi. Quando piacque al cielo, il martello battè nella campana, tutti spalancarono bene gli occhi, i Magi uscirono, fecero l’uffizio loro, e quel mare di teste cominciò a disgregarsi. Pareano come una grande acqua, alla quale fossero state aperte diverse vie perchè la sboccasse da più luoghi, e in un punto prendesse il suo corso in vari rivoli, e di qua e di là si sfogasse. Liste di genti, cerchi, calca; si vedea da ogni parte un momentaneo bulicame: in brevissimo tempo fu netto il pavimento e quasi solitudine. Quante cose nel mondo, diceva io, sono a questo modo, e quanti passano, come i Magi, onorati, riveriti, guardati allo insù da tutti! I Magi sono entrati costà pel secondo usciolino, il quale si è chiuso dietro alle loro spalle; ed ecco che ciascheduno va a’fatti suoi, e non se ne ricorda più. Bestia ch’io fui a tirare alla moralità quell’effetto di universale consentimento e quella súbita sparizione! Io non so che mi debba importare, nè perchè voglia colla mia pazza fantasia rendere malinconico ogni atto degli uomini. Ma che si ha a fare? L’umor mio è di tal qualità; e voglia, non voglia, ho a camminare per questa via. E poi io non trovo che in tali osservazioni ci sia quella tristezza che altri immagina, quando si pensa che le vere fonti del ridere sono i capricci, le vanità, le arroganze, e altre mille baie degli uomini, le quali vengono credute sostanza, e son aria. Infine infine io conosco che tutte le mie considerazioni non mi possono far dimagrare più di quello che mi sia, rido così bene io quanto ogni altro, e tutte le mie osservazioni non poterono far sì, che di là ad un’ora non mi arrestassi anch’io, con la faccia volta all’insù, a vedere quello che tutti gli altri aveano un’ora prima con tanta attenzione aspettato e mirato. Paolo Colombania’leggitori. Avvisai nell’altro foglio che questo chiude il termine dell’associazione per quelle gentili persone le quali in essa si segnarono per tre mesi. Il foglio di mercoledì aprirà il principio degli altri tre. Attenderò le notizie da chi vuole proseguire a favorirmi. L’Osservatore mi promette molte cose nuove, ed io sulla fede di lui le prometto. M’at-terrà egli la parola o no? Io so come sono fatti gli scrittori. Tanti n’ho pratichi a’miei giorni, che ne dovrei essere informato. Quanto io posso dire si è che egli dì e notte non pensa ad altro che a fantasticare cose le quali, per quanto egli può vestite col diletto, facciano qualche poco di giovamento al pubblico. Egli s’è posto in cuore questo fine e non mira ad altro. Più volte gli ho domandato perchè egli si voglia dare tale impaccio, e chi l’abbia addottorato in questa facoltà, sicchè egli si voglia spacciare per maestro altrui. “Maestro?” rispose egli, “che maestro? io sono anzi lo scolaro di tutti, e lo dico di cuore. Tutto quello che medito e scrivo, lo fo per imparare ogni dì, e per conoscere finalmente ch’io sono come tutti gli altri e che tutti gli altri sono come io; e pubblico le mie osservazioni per togliere altrui la fatica dell’osservare quello che ognuno osserverebbe molto meglio di me, se volesse darsi tal briga. Ognuno ha le sue faccende, e non può badare a questa se non per passo. Io ho sentito nelle compagnie talora molti begl’ingegni a fare questo ufficio con tanta grazia, che mi terrei pel dappiù uomo del mondo s’io potessi giungere ad un terzo.” Così mi dice egli, e così dico io a qualunque legge. Quanto è al fatto mio, a me basta che i leggitori rimangano soddisfatti della mia diligenza.