La Frusta letteraria di Aristarco Scannabue: Numero XXX
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Ebene 1
N°. XXX.
Trento, I giugno 1765.
Ebene 2
Ebene 3
tentrione dell’ignoranza sino al
Settentrione della brutalità niun altro quadrupede può
essere autore di quel fondaco di capi d’opera salvochè il
Bue Pedagogo ». Mi rallegro moltissimo con le signorie
illustrissime delle genti accorte di questo loro giudizio
favorevole; ma quanto starete voi, padre don Luciano, a
mostrare che quelle mie lettere devono anch’esse annoverarsi
fra le più tenebrose produzioni del secolo tenebroso? Io mi
struggo dalla voglia di vedervi porre i piedi
sull’orme di quel Bue col Sajo, e di vedervi attraversare
con esso l’occidentale Inghilterra, e un bel pezzo d’Oceano
Atlantico, e il Portogallo, e la Spagna, e la Francia, o per
dirla nel vostro lepido modo, vorrei vedervi attraversare il
ventricolo, e la pancia, e il pettignone e il diretro
dell’Europa. Quanto godrò, padre mio, nel sentirvi
assicurare ad ogni passo, che questo non è vero, che questo
è falso, e che questa cosa sta così, e che quell’altra sta
colà! Quanto rideremo quando vi sentiremo ripetere con
un’aria di filosofo ateniese, e parlando mezzo greco e mezzo
da comacchio, che questa è una cacofonia, e questa una
battologia, e quella una tropocachia, e quell’altra più in
là verso voi una birbologia! E poi m’apparecchio a vedervi
col cappuccio a traverso gridare a quanto n’avrete in gola,
che qui sono un bue inglese, e qua un bue oceano o
atlantico, e costà un bue portoghese, e colà un bue
spagnuolo, e più su un bue francese, soggiungendo fors’anche
per maggior cumulo di lepidezza che io sono un bue
ventricolo, o un bue petto, o un bue pancia, o un bue
pettignone, o un bue diretro. Coteste vostre spiritosaggini
immensamente fratesche corroboreranno il giudizio favorevole
dato delle mie lettere da quelle vostre genti accorte, e non
lasceranno più dubitare alcuno della mia
ignoranza settentrionale, o della mia settentrionale
brutalità. Basta che non abbandoniate il vostro stile di
birbologo, e ne sentiremo delle belle quando (come
promettete a pag. 1185) esporrete quelle mie lettere alle
irrisioni degli avveduti mercatanti. Già ne avete dato un
buon saggio della vostra perfetta birbologia, dicendo a pag.
1175 che
Quanto siete erudito e spiritoso, il mio caro
birbologo! E chi potrà mai finire di ammirarvi sentendovi
aggiungere a queste vostre erudite e spiritose birbologie,
che « previo il rito della circoncisione io ho potuto aver
di colà gli idiomi, e le lingue, e le bocche, ma le teste nè
di colà nè d’altronde! » Ah questa, padre mio, è veramente
tanto erudita e tanto spiritosa, che non si può andare più
insù! Queste sono lepidezze, queste sono grazie, queste sono
facezie tutte vostre, tutte di don Luciano, tutte del mio
birbologo; e nelle mie lettere io non ho certamente mai
potuto salire a una tanto smisurata altezza di lepidezza, di
grazia, di facezia e di birbologia; onde sarà
pur forza ch’io rinunci alla dolce speranza di vederle mai
annoverate dalle vostre genti accorte fra le produzioni e
fra le glorie del secolo tenebroso! Avete però molta
ragione, reverendissimo, laddove mi riprendete per aver
fatto dire ad uno stampatore, che quelle lettere sono « un
caos di roba, un fondaco di cose, una pirlonea ». Confesso
che ho fatto male a non far che il mio stampatore imitasse
quello del vostro Bue Pedagogo, o quello del vostro
Suicidio. Dal primo di questi voi vi fate modestissimamente
chiamare uno « scrittore illustre, a cui non mancan sali e
dottrina, e pareggiabile da pochi per la indicibile copia di
lepidezze, di vivacità, di eleganze e d’ingegnosissime
discussioni ». Poffar il mondo! Questo è ben altro che un
fondaco, un caos e una pirlonea! Questa è una birbologia
delle più sublimi e delle più ammirabili! Dallo stampatore
poi del vostro Suicidio voi fate birbologamente dire, a pag.
235, che il vostro discorso parenetico contro il Griselini è
una « scrittura dotta ed eloquente, e piena di forza e di
leggiadria, e di molt’altre buone cose ». E questa non è mo’
anch’essa una birbologia degna degnissima della paternità
vostra sempre birbologa? Non mi sono poi ignote le
tant’altre birbologhe lodi che voi avete
centinaja di volte nella bottega di monsù Guiberto diluviate
addosso alla vostra Commedia filosofica, a’vostri Ritratti,
alle vostre Malignità storiche, a quel Discorso contro il
Griselini, e ultimamente al vostro stupendissimo Bue
Pedagogo; nè ignoro tampoco quell’altre lodi birbologhissime
che di tal Bue Pedagogo avete scritte in più parti d’Italia,
e fingendo di non riconoscerlo per fattura vostra per non
muover poi vomito davvero a quelli a’quali le scrivevate.
Questa è la sfacciataggine fratesca che io avrei dovuta
avere per agguagliarmi al gran birbologo Agatopisto; questa
è la fratesca birbologia che io avrei dovuto usare per
pareggiarmi a don Luciano; e questo è in somma quello che
avrei dovuto fare anch’io per dar riputazione alle mie
Lettere viaggiatorie, e alla mia Frusta, ed alle mie cose,
per farle indisputabilmente annoverare come tutte le vostre
fra le maggiori glorie del secolo tenebroso! Orsù, frate
birbologo, frate illustre, frate pieno di sali e di
dottrina, frate pareggiabile da pochi, frate copioso di
lepidezze e d’eleganze, frate abbondantissimo di vivacità e
d’ingegnosissime discussioni, frate dotto, frate eloquente,
frate forte e frate leggiadro, affrettatevi a mostrare alle genti accorte ed agli avveduti
mercatanti, che quelle mie lettere non sono nè caossi, nè
fondachi, nè pirlonee come le opere vostre, e soprattutto
non vi scordate di provare che la mia traduzione delle
tragedie di Pier Cornelio non è punto fedele all’originale.
Mi sono già avveduto dalla vostra macchina montata a falso,
e dal vostro automato montato a falso, e dal giudizio da voi
dato di Voltaire in qualità di critico degl’Italiani, che
voi siete infranciosato quanto basta per giudicare
drittamente della fedeltà o della infedeltà di qualsisia
traduzione dal francese. M’è però forza avvertirvi a
proposito di Voltaire, che voi siete un birbologo molto
semplice quando v’immaginate che io non conosca quell’autore
di cui a pag. 1228 del Bue Pedagogo rifiutate di dirmi il
nome. Quantunque il libraio Guiberto non m’assista co’libri
che i torchi oltramontani vanno moltiplicando, pure le opere
postume di Guglielmo Vadè non sono cose dell’altro mondo che
voi solo abbiate ad averne notizia. Ho letto anch’io il
ragguaglio dato in quelle supposte opere postume,
dell’Hamlet di Shakespeare, ed ho ammirato per la centesima
volta Voltaire in qualità di critico degli Inglesi come l’ho
già tante volte ammirato in qualità di critico degli
Italiani, degli Spagnuoli e de’Portoghesi. Ma vorreste voi, padre mio, ch’io buttassi il tempo
a discorrere o a disputare con voi di cose inglesi, o
spagnuole, o portoghesi, e a confutare le scempiaggini che
voi dite di Shakespeare sulla fede di Voltaire? Di minestre
e di brodi credo ve n’intendereste se ve ne parlassi, ma a
che diavolo venite ad intrigarvi colla lingua inglese, e
colle tragedie d’Hamlet, e coll’altre opere di Shakespeare!
Imbacuccatevi nel cappuccio, frataccio impudente, e non
venite a parlare di cose di cui v’intendete quanto i somieri
di musica; nè vi fate difensore e antagonista di Wilkie, di
Balchloch, di Hume, di Tompson, di Milton, di Spenser, di
Pope, di Swift e d’altra tal gente, della quale non solo non
sapete la lingua, ma non sapete pronunciar i nomi, anzi
neppur copiarli esattamente senza far fatica. Questo è
quello che vi posso dire in proposito degli autori
d’Inghilterra, de’quali voleste pur cinguettare coll’ajuto
della mia Frusta e dell’Opere postume di Guglielmo Vadè. Se
parlerete più di quella gente vi scapperanno dalla bocca
dell’altre assurdità compagne di quella che v’è scappata
parlando di Shakespeare e di Goldoni. « Se i drammi di
Shakespeare (dite voi a pag. 1227 del vostro Bue) fanno
affollare gl’Inglesi al teatro un giorno dopo l’altro, come
dunque ardisci, o Aristarco, di biasimare il
Goldoni, che anch’esso fa affollare gran gente intorno ai
teatri? » Ma non vedete, frate assurdo, che questa vostra
osservazione è un’osservazione da truffaldino, e che
quantunque il Goldoni faccia a’dì nostri affollare gran
gente a’teatri non l’ha ancora come Shakespeare fatta
affollare un secolo dopo l’altro, essendo tuttavia vivente?
Io però mi scordava che voi siete uno de’principali
scrittori del secolo tenebroso, e che quindi v’è lecito dire
quante assurdità e quanti spropositi volete. Che bella cosa
vedervi aggiogato a un carro di letame con quel prete
Rebellini della Minerva, che difendendo anch’egli il Goldoni
cominciò colla protesta « di non aver mai letta nè sentita
leggere o recitare alcuna commedia del Goldoni! » E qui per
finire questo mio discorso col Goldoni, vi torno a dire con
la mia usata imperturbabilità, che darò sempre il
caratteristico titolo di pubblico avvelenatore ad ogni
poetastro drammatico che insegnerà come il Goldoni cattiva
morale dalle scene, qualunque possa essere l’opinione
vostra, quella del prete Rebellini, e quella del nostro caro
carissimo secolo tenebroso. Don Luciano, vi sono schiavo.
Ebene 4
Zitat/Motto
« ne’ miei viaggi io ho
visitata la Mecca, e raccolto il mio prodigioso
Milione da coloro che Maccometto mise nel settimo
cielo, i quali aveano settecentomila teste, e in
ogni testa settecentomila bocche, e in ogni bocca
settecentomila lingue parlanti in settecentomila
idiomi ».
Ebene 3
Discorso sesto che comincia con un
dialogo, e che contiene alcune bugie sciempiate, ed alcuni
ritratti francesi. – L’autore della Frusta.
Pensate, padre mio, se dietro a tutte queste
antecedenze io poteva aspettarmi nel vostro Bue Pedagogo
altro che dell’ignoranza assai prima di tutto, e poi della
lepidezza falsa, e della spiritosaggine bastarda, e della
immodestia tanta, e disingenuità e malcreanza tanta tanta, e
quindi una dose più che mediocre d’ira, di maltalento, e di
perfidia? E come mai tutte queste cose venute appunto com’io
me le stava aspettando m’avrebbero potuto cagionare la
menoma maraviglia? Qual è dunque la cosa (soggiungerete voi)
che te n’ha cagionato nel leggere il mio Bue Pedagogo?
Dimmelo, dimmelo. Uh, padre poca memoria! Forse ch’io non
vel dissi già nel Discorso secondo? Tornate a leggerlo
attentamente, e vedrete che ve l’ho già detto! Ma no, state
qui, che ve lo voglio replicare per risparmiarvi l’incomodo
di leggere di nuovo quello che già leggeste. Sappiate
dunque, padre mio, che quando ebbi scorso da un capo
all’altro quel Bue Pedagogo io non mi maravigliai d’altro
che della vostra somma Scempiataggine in
somministrarmi come faceste un troppo facil modo di farvi
ripetutamente ed innegabilmente comparire un Bugiardo,
citando tanto spesso i miei paragrafi come faceste, e non
citandoli mai come stanno, ma falsificandomeli tutti nel
ricopiarli. Come mai è possibile, dicevo io a misura che
leggevo il libello, come è possibile che questo frate sia
stato così scempiato da dire in istampa alla gente delle
cose false, e la di cui falsità si può tosto riscontrare?
Come mai è possibile che costui m’abbia per tanto impotente
di non saper iscoprire alla brigata le sue ripetute ed
innegabili bugie? S’è egli più trovato uno avversario tanto
scempiato, che attaccando un’opera stampata ne citi un passo
e due, e tre, e dieci, e venti, e trenta che non sono in
tale opera, o che non istanno così com’egli li ricopia? Non
bisogn’egli essere scempiato affatto per lusingarsi che i
leggitori non sarebbero iti a confrontare il Bue Pedagogo
colla Frusta subito che si fossero da me sentiti assicurare
che il suo citare era in molti luoghi falso in parte, e in
molti luoghi falso in tutto? E come non pensò questo
scempiato bugiardo che in conseguenza d’un tal confronto
egli doveva per necessità aspettarsi dal pubblico l’infame
taccia di bugiardo, e di bugiardo intierameute scempiato?
Eccovi detta la cosa, padre mio, che nel
vostro Bue Pedagogo m’ha fatto maravigliare. Vi credevo
capace d’ogni ribalderia prima di leggerlo; e m’aspettava in
esso una buona grembiulata d’ingiurie e di villanie; ma non
avrei mai potuto persuadermi innanzi tratto che alla
ribalderia, alle ingiurie, ed alle villanie voi aveste ad
accoppiare la scempiataggine delle bugie innegabili. Questo
m’è riuscito nuovo, e questo m’ha cagionata maraviglia. Ma è
egli possibile, soggiungevo io a misura che leggevo,
possibile che in una mia opera composta di cinquanta buoni
fogli di stampa non vi sia la minima minuzia a cui un
colleroso avversario si possa appigliare? Possibile che
questa mia Frusta sia tanto buona che di cotesti preti e
frati miei avversarj, neppur uno abbia potuto confutarne una
riga, e che tutti abbiano dovuto ricorrere alle ingiurie,
alle villanie, alla cavillazione, alla mutilazione, alla
falsificazione, ed alla bugia? Vi sono pure
in quella Frusta delle cose assai, le quali si possono
piuttosto chiamare opinioni mie particolari che non ragioni
evidenti. Perchè non cercarono costoro di combattere quelle
mie particolari opinioni coll’arme almeno delle opinioni
altrui? Vi sono pure in quella Frusta delle cose in fatto di
letteratura che non sono forse mai più state dette in
Italia. Perchè non s’industriarono costoro a rispondere
qualche cosa di plausibile alle mie novita? Si cerca pure
nella Frusta di mostrar false certe massime che da un pezzo
passano per vere e per irrefragabili presso la comune
de’nostri poeti, de’nostri prosatori, de’nostri antiquarj,
de’nostri filologi, de’nostri critici, e presso la comune di
molt’altre generazioni de’letterati nostri. Perchè non
seppero costoro addurre almeno delle autorità rispettabili
se non delle ragioni in sostegno di quelle massime? Come mai
è avvenuto che nessun d’essi ha voluto, o ha saputo, o ha
potuto fare il minimo sforzo d’ingegno per confutarmi, per
convincermi, per mettermi in sacco almeno sur un articolo o
due? E perchè si sono tutti quanti buttati al facil mestiero
di strapazzarmi sempre, di vilipendermi sempre, e di
calunniarmi sempre? E come mai finalmente questo frate don
Luciano, che fra tutti i miei avversarj è giudicato il più
atletico, s’è anch’egli potuto porre alla
scempiata impresa di falsificare ogni mia sillaba che cita,
e ad infilzare un mondo di bugie facilissime a scoprirsi al
semplice confronto delle sue citazioni col mio testo? Non è
questo un andar cercando col lumicino il suo propio
discapito e la sua propia infamia presso tutti quelli almeno
che avranno la curiosità di leggere l’opera sua e l’opera
mia? Ma perchè io faccio professione di tutt’altri mestieri
che di quelli del nostro reverendissimo, e de’suoi degni
colleghi in critica, Sua
paternità mi critica con molta ragione, laddove io scrissi
barometro invece di termometro. Questo è stato veramente un
mio fallo, nè io voglio qui difenderlo, come forse potrei, e
non voglio nè anche scusarlo con dire che m’è fuggito dalla
penna una volta sola per fretta e per disattenzione; e non
voglio dire che chiunque sa con quanta velocità io fui
talvolta obbligato a scrivere qualcuno de’miei periodici
fogli si maraviglierà fors’anco ch’io non abbia commessi
de’falli molto maggiori di questo: e non voglio dire che
avendo io dimorato dieci anni in un paese dove in quasi ogni
casa v’è un barometro, e in ogni bagno un termometro, non
può troppo parer possibile che io ignori
quello che colà è saputo sino da’fanciulli e sino dalle
donnicciuole: e non voglio finalmente dire che io ho
registrati questi due vocaboli con le loro definizioni nel
mio Dizionario italiano e inglese stampato in Londra. No,
non voglio far fiato in difesa di quel mio fallo, e voglio
per concesso a don Luciano che io l’ho commesso non per
fretta e per inavvertenza ma per pura crassissima ignoranza.
Quale scempiataggine però è stata la vostra, padre mio, di
stampare una bugia majuscola anche nell’unico caso in cui
potevate trionfare della mia ignoranza crassa crassissima?
Perchè nella vostra nota a pag. 1172 del Bue Pedagogo avete
voi detto sfacciatamente che io ho commesso quel fallo due
volte, cioè a pag. 9 della mia introduzione alla Frusta, e
poi al n. II, pag. 84 della Frusta medesima? Egli è vero,
padre mio, che al n. II, pag. 84 della Frusta io ho commesso
quel fallo una sol volta, ma è una bugia ch’io l’avessi già
commesso a p. 9 della mia introduzione. Io non ho nominati
nè barometri nè termometri in quella introduzione, anzi non
ho mai più avuta congiuntura alcuna di valermi d’un vocabolo
o dell’altro in alcun’altra pagina di quella mia opera. Non
è dunque stata questa una vostra bugia, e una bugia
veramente scempiata perchè troppo facile a
scoprirsi? e non è stato questo un accoppiare la ribalderia
alla bugia? Signor Frugoni, se voi prestaste mai fede a
questo frate più che non a me, sconciatevi a scorrer
coll’occhio lungo una sola pagina di stampa, vale a dire
lungo la pagina 9 di quella mia introduzione, e confesserete
che avete il torto a prestare più fede a lui che non a me.
Non è poi anche stato un mediocre cumulo di scempiate bugie
quel vostro ripetuto asseverare che la Frusta è stata da
tutti in Italia giudicata una cosa pessima. Voi non vi siete
contentato di dire a p. 1106 che la mia Frusta « è una
stalla d’immondezze molto più sordida e dannosa di quella
d’Elide». Voi non vi siete contentato di dire a pag. 1117,
che la mia Frusta « è un libro che in ribalderia può valere
per mille »; voi non vi siete contentato di dire a pag.
1211, che la mia Frusta « ribocca principalmente di costume
grossolano, e di morale quanto più si può animalesca »; voi
non vi siete contentato di dire in nome vostro propio molte
centinaja d’altre tali calunniose e scempiate bugie, ma voi
avete voluto crearvi da voi medesimo interprete generale
delle varie opinioni di tutti i nostri compatriotti, e avete
voluto riunirle tutte quante colla vostra, e farne per così
dire una pasta sola. E così nella vostra
breve ma goffa prefazioncella al Bue Pedagogo avete
assicurato che « tutti i buoni ingegni italiani giudicano la
Frusta una censura composta di pedanterie, d’inezie e di
scurilità; sprovveduta di raziocinio, di dottrina e di
verità ». E poi a pag. 1191 del libello avete detto che « io
vivo nello scherno d’Italia »; e poi a pag. 1196-1197 avete
detto che la mia Frusta « è in irrisione e in disprezzo per
tutta la nostra contrada »: e poi a pag. 1234 avete detto
che « da tutti gli ordini di letterati io sono stato
severamente punito con tanto scherno e con tanta
esecrazione, che il regno delle lettere non vide mai la
maggiore ». Ma paternità reverendissima, e non iscorgete
voi, che tutte queste matte esagerazioni vi sono state
dettate dalla rabbia, o piuttosto dal troppo vino, e che
tutte sono bugie scempiate? Poveretto! Voi avete sicuramente
alzato un po’ troppo il fiasco dopo d’aver letta quella
critica nella quale vi consigliai caritatevolmente a non
pubblicare colle stampe quell’altre vostre stolte Commedie
filosofiche di cui ne minacciavate. Se vi foste conservato
sobrio in quel punto, la matta rabbia non v’avrebbe forse
tanto velato il discernimento, e non v’avrebbe forse potuto
spingere a dire di queste bugiacce scempiate scempiatissime.
Oh don Luciano poveretto, chi mai altri che voi, o qualche vostro cagnotto briaco, come voi,
poteva supporre che l’Italia tutta fosse d’un pensiero, e
tutta del vostro pensiero? E chi mai, se non voi e
quell’altro amico del fiasco, poteva dire che la mia Frusta
contiene delle immondezze, delle scurilità, del costume
grossolano, e della morale animalesca? Una qualche inezia
può darsi che la contenga, e non voglio neppur dire che ogni
mio raziocinio in essa sia assolutamente perfetto; e può
anch’essere che tutto in essa non sia dottrina spremuta col
torchio, e verità stillata per limbicco. Difficil cosa è lo
scrivere cinquanta fogli di stampa assai minuta senza che ti
scappi un’inezia, e senza che un qualche raziocinio zoppichi
un po’ poco; ed è più ancora difficile il riempirli tutti
cinquanta di dottrina e di verità. Ma qualunque errore io
possa aver commesso in fatto di letteratura, io so che in
fatto di costume e di morale non ho commesso errore alcuno,
e so che in que’cinquanta fogli non v’è immondezza nè
ribalderia; e voi siete un mascalzone degno d’essere scopato
dal boja fuori della società umana quando m’apponete di
queste calunnie. Io nella Frusta ho criticati de’libri
frivoli e de’libri cattivi con severità e con rigidezza, ma
con candore e con verità; e se ho tocco personalmente e
assai sul vivo qualche autore, come a dire il
Borga, il Vicini, il Rebellini o qualch’altro tale
gagliofaccio, l’ho fatto per rintuzzare quell’insolenza con
cui cominciarono ad attaccarmi nelle loro sciaurate prose e
ne’loro sciauratissimi versi; nè altri che un sofista, un
bugiardo, un mascalzone come voi poteva accusarmi d’avvere
nella Frusta violato il costume e la morale. Chi sa però,
don Luciano, che delle vostre malediche esagerazioni voi non
cantiate ancora la palinodia? Chi sa che con questi miei
Discorsi io non vi riduca un giorno a protestare ed a
giurare sulla vostra poca onoratezza e sulla vostra corrotta
coscienza, che voi non siete autore del Bue Pedagogo? Il
cuor mi dice che quando questi miei Discorsi saranno
stampati voi farete il diavolo a quattro (scusate questo
franzesismo) per far credere a quell’Italia di cui vi
faceste qui generale interprete, che voi non siete stato
l’autore di quel bricconissimo libello. Il cuor mi dice che
presto vi smentirete vigliaccamente in faccia a que’medesimi
vostri cagnotti, a’quali avete confidato il gran segreto di
questa vostra stupenda opera. Oh il bel gusto che ci darete
sgambettando a tutto potere per ricoprire come gatto le
vostre sporcizie! Ma lasciamo andare le profezie per ora, e
torniamo alle vostre scempiate bugie. A pag.
1235 del Bue Pedagogo voi avete scritte queste bellissime
parole. « I Gesuiti che soffrono molti malevoli e molti
invidiosi, come quegli che hanno assai cose degne d’invidia,
ascoltarono non è già molto un loro grande nimico, il quale
volendogli opprimere del vituperio che dir si possa
maggiore, scrisse in un celebre giornale, che i Gesuiti
aveano confederazione ed amicizia con te, la quale
accusazione quei dotti e prudenti uomini si tennero a
grandissimo improperio, e con ogni maniera d’argomenti si
studiarono a rimovere una tanta infamazione, e persuadere le
genti, che gli onesti e ragionevoli uomini, siccome essi pur
sono, non possono mai prostituirsi a così nera viltà ». Ma,
padre don Luciano, che è questa fola dell’augellin bel verde
che voi qui ci narrate? Che ho io che fare co’Gesuiti, e che
hanno essi che fare colla Frusta? Io non ho mai nominati i
Gesuiti in essa, e non ho mai fatta la minima allusione ai
disturbi avuti dal loro ordine in questi pochi anni: io non
ho mai voluto parlare nella Frusta d’alcuno di quei tanti
libri stampati contr’essi, come non volli nè anco far motto
d’alcuno di quelli scritti in loro favore. E se io non ho,
come certamente non ho dato mai nel mio carattere di
scrittore il minimo motivo all’ordine de’Gesuiti di lagnarsi
di me, e se nel mio carattere d’uomo privato
io ho sempre rispettato ed onorato quel loro ordine, e se
amo anzi ed osservo alcuni pochi d’essi che conosco di
persona, e mi pregio dell’amicizia e della benevolenza loro,
come mai avviene che i Gesuiti abbiano adoperata « ogni
maniera d’argomenti per rimuovere da se stessi una
infamazione » che non hanno e che non possono avere, che non
sussiste, che non può sussistere? Che bugia strana non meno
che scempiata è questa vostra nuova bugia? Perchè calunniate
voi i Gesuiti dicendo che m’hanno fatto un torto,
un’ingiustizia, una soverchieria che non m’hanno fatta, che
non mi fanno, e che non hanno e non avranno mai luogo di
farmi? Ho già notato, parlando del Cocchi, che voi avete
de’molto pazzi modi di mostrarvi amico degli amici; e un
modo molto pazzo è anche quello che qui tenete di mostrarvi
amico de’Gesuiti. Ma voi non la guardate tanto pel sottile
quando si tratta di scagliarmi qualcuna delle vostre
avvelenate frecce; e zara a chi tocca se invece di ferir me
va a ferir altri. Chi sa però che con questa vostra fola voi
non abbiate avuta intenzione di rendermi odioso a’ nemici
de’ Gesuiti per un altro verso, e chi sa che non abbiate
voluto artatamente farmi passare nel mondo per un mercenario
de’ Gesuiti? Vi trovo tanto pieno di malizia
in ogni pagina del vostro Bue Pedagogo, che non è strano se
penso sempre il peggio d’un sottilissimo ed astutissimo
birbone come voi siete. Non mi sono ancora scordato che un
altro birbone, cioè il già nominato abate Giambattista
Vicini, fra gli arcadi Egerio Porconero, nella prefazione
d’una certa sua raccoltuzza di cattive rime mi toccò questa
corda, ed accennò la Gazette Ecclesiastique (da voi chiamata
un celebre Giornale) in cui si assicura con inaudita
sfrontataggine, che la mia Frusta è una lucrifera periodica
apologia de’Gesuiti. Ma, padre don Luciano, come non
arrossiste voi di rammemorare quel matto dire di quel
fanatico francese che è autore di quella gazzetta, il quale
parlò come una ghiandaja briaca, e a cui lo sciocco Vicini
fece eco come un’altra ghiandaja briaca? V’è egli dunque
bisogno di provare che la mia Frusta non ha punto che fare
co’Gesuiti, e che essi v’ebbero tanta mano quanta n’ebbero
negli scritti del mago Zoroastro e di Mercurio Trismegisto?
E se essi non v’hanno avuta mano, e se io non m’impaccio in
essa con essi, perchè hanno a procurare con ogni maniera
d’argomenti di convincere il mondo d’una cosa che il mondo
non crede punto, nè ha mai creduta, nè può credere, nè
crederà mai? Diamo nulladimeno per concesso alla paternità reverendissima che i Gesuiti sieno
disgustati meco o in qualità di scrittore, o in qualunque
altra qualità, io domando al nostro mentecatto frate quali
sono gli argomenti adoperati da’Gesuiti per persuadere al
mondo che « si riputerebbero ad improperio, ad infamazione,
e a nera viltà la confederazione meco e 1’amicizia mia? »
Forse che il loro padre generale ha pubblicata qualche
dichiarazione in tal proposito? forse che qualche loro
collegio in nome di tutto l’ordine ha fatto qualche atto,
qualche protesta, qualche proclama, o qualch’altra simil
cosa per disingannare quel loro « grande nimico, autore del
celebre giornale, » per disingannare l’illustrissimo signor
abate Vicini, e per disingannare chiunque altri prestasse
lor fede intorno a questa ridicola, insussistente,
impossibile, e mattamente sognata confederazione? Sarebbe
bella che i Gesuiti avessero usati argomenti, anzi ogni
maniera di argomenti per far dispiacere e disonore a me a
proposito d’una confederazione ridicola, insussistente,
impossibile, e mattamente sognata! sarebbe bella che i
Gesuiti si sconciassero a confutare un Vicini e un
gazzettiere francese che cianciano come due ghiandaje
briache! e sarebbe più bella ancora che il loro padre
generale o qualche loro collegio in nome di
tutto l’ordine avessero fatte dichiarazioni, e atti, e
proteste, e proclami contro di me, e ch’io non me ne sapessi
nulla, e che nessuno non ne sapesse nulla, e che questo
frataccio fosse il solo che il sapesse! Eh frataccio,
frataccio, questa è una fola da te inventata in qualche
momento che scherzavi soverchio col fiasco, o per dir meglio
questo è il tuo solito usare ogni maniera d’argomenti per
farti credere a forza un bugiardo scempiato; però si
contenti la paternità tua reverendissima, ch’io metta questa
a mazzo con quella del fallo da me commesso due volte
intorno al barometro: e con quella del Lami cane e del
Manfredi scimmiotto; e con quella delle quattromila gazzette
inglesi; e con quella de’miei segreti per guerire il
reumatismo; e con quella del mio odiare e calpestare le
ceneri del Cocchi; e con quella de’brutti nomi da me dati ai
re ed ai pontefici; e con quella del mio spinosismo; e con
quella del mio profanare i sepolcri de’martiri; e con quella
del mio consigliar le donne a non pensar mai alla vita
eterna; e con quella del mio non ammettere spiritualità ed
incorporeità; e con quella della mia ignoranza intorno alle
zone; e con quella degli sgherri con le partigianacce
mandatimi dal personaggio grave e venerando; e in somma con
tant’altre scempiatissime tue bugie miste di
somma ribalderia, che a riferirle tutte sarebbe quasi
mestiero di ricopiare il Bue Pedagogo da un capo all’altro.
Orsù, notiamo ancora una o due di queste scempiate bugie del
nostro reverendissimo, e poi affrettiamoci a terminare un
discorso, che come gli altri dovrebbe riuscirgli in sommo
grado dilettevole quand’egli non abbia ancora totalmente
soffocata quella sua meschina cosuccia chiamata coscienza.
Don Luciano mio, a pag. 1107, voi dite che avete incontrato
non è molto un valente uomo, il quale vi disse di me queste
belle ciceroniane parole.
Ma, padre mio, è egli poi vero che oltre all’essere
sovente briaco, e che oltre all’esser sempre pazzo e sempre
frenetico, voi non pratichiate neppur mai con altri che con
persone briache, pazze e frenetiche? e chi può mai essere,
se non un qualche briaco, un qualche pazzo, un qualche
frenetico quel vostro amico valente uomo che v’ha detto di
me queste belle ciceroniane parole? credete
però voi difficile a me 1’indovinare che questo vostro
immaginario valente uomo non è altri che quello stesso
illustre uomo al quale già deste tanto incenso? Padre sì, il
vostro valente uomo è quello stesso illustre uomo, di cui
diceste che è pregno di dottrina, di sali, di vivacità, di
lepidezze, e d’altre buone cose assai, e seguace di Menippo,
e di Luciano, e di Demostene, e di Timoleonte, e
soprammercato buon storico, buon antiquario, buon filosofo,
e buonissimo teologo. Padre reverendissimo, oh se sapeste
quanto affanno mi date facendo parlare di me i valenti
uomini e gl’illustri uomini appunto come Cicerone parlava di
Vatinio! Chi sa ch’io non ne muoja come Erasmo e Cardano, o
come il minore Scaligero, o come Vossio, o come Salmasio, o
come Pope, che secondo il vostro dire a pag. 1233 del Bue
Pedagogo furono tutti ammazzati colla penna, taluno da un
nimico vivo, e taluno da un nimico morto! Capperi! Sentirmi
dire da voi che tutti mi condannano, mi evitano, mi fuggono,
mi detestano, mi scacciano, mi maladicono, è cosa propio
micidiale, e da farmi andare intorno pel bosco cercando un
albero a cui impiccarmi come un secondo Bertoldo! Parlate
però di me in istile ciceroniano a grado vostro, giacchè
v’ho fatta la grande offesa di consigliarvi a
non istampare quell’altre vostre Commedie filosofiche; e
così assicurate a pag. 1224 che Voltaire ha descritto me
quando descrisse un Petit Singe in sei versi; e un Polisson
in sei altri versi; ma abbiate almeno avvertenza nel copiare
que’suoi versi di non gliene storpiare alcuno, come faceste
copiando quelli del Polisson, de’quali guastate il secondo e
l’ultimo, grazie al vostro profondo sapere di
lingua francese. Che direste però, don Luciano, se anch’io
assicurassi che lo stesso Voltaire ha dipinto voi come
autore di commedie filosofiche e di buoi pedagoghi? Guardate
se m’appongo.
Vi pare che questo ritratto s’assomigli,
reverendissimo? E non voglio dirvi da quale opera di
Voltaire io l’abbia tolto per rifarmi della vostra inciviltà
in non volermi dire a pag. 1227 da quale delle sue opere
avevate rubati tutti que’grandi spropositi che diceste
dell’inglese Shakespeare. Vedete come sono vendicativo! Anzi
perchè la vendetta sia eguale all’offesa, dopo il primo
ritratto da opporsi a quello del Petit Singe ve ne voglio
dar un altro da opporsi al Polisson. Eccovelo.
Guardate ora, padre mio, se potete trovare nella
bottega di monsù Guibert il libro di Voltaire da cui ho
cavato questo vostro secondo ritratto. Se a voi non
dispiacesse (come diceste a pag. 1151) vedermi scommettere i
denti, ve ne scommetterei tosto uno colla gingiva che nol
trovate. Ma che lo troviate o che non lo troviate, non mi
stuzzicate mai più coi Petits Singes, e coi Polissons a
rovistare i miei libri oltramontani, se non volete ch’io vi
trovi di questa sorte di ritratti a centinaja. Intanto
paragonate bene questi due coll’originale, e serbateveli che
li dono tutti due, e son vostri. Viva don Luciano.
Ebene 4
Dialog
Io ve l’ho già detto,
reverendissimo padre, che nel vostro Bue Pedagogo
v’è una cosa la quale m’ha cagionata maraviglia. D.
Luc. Sì, me l’hai detto, e me ne ricordo, bue mio.
Quello che t’ha cagionata maraviglia è stato il mio
discorrere in quel libello con la più perfetta
ignoranza di cose trivialissime, e note sino agli
sbarbati discipuli a malapena iniziati negli studj.
L’Aut. No, padre non bue, non fu questo. D. Luc.
Sarà dunque stata, bue carnivoro, quella mia smania
ridicola di voler fare il faceto e lo spiritoso
malgrado la natura che m’ha onninamente negata
quella snellezza d’ingegno, quella dilicatezza di
fantasia, e quella esattezza di giudizio che si
richiede per fare lo spiritoso e il faceto. L’Aut.
No, padre non bue, non fu nemmeno questo. D. Luc.
Dunque sarà stata, bue automato, quella mia
smoderata immodestia nel farmi da me stesso
replicatamente il panegirico, e nel chiamarmi da me
stesso un uomo illustre, nudrito
nella pulitezza e nella eleganza, buono storico,
buon antiquario, buon filosofo, e buon teologo
quantunque io sia... L’Aut. No, padre non bue, non
fu nemmeno questo in vostra malora! Oh che poca
memoria, storico mio, antiquario mio, filosofo mio,
e teologo mio! D.Luc. Dunque, bue legislatore, sarà
stata quella mia abbondanza di concetti intorno al
Bue, che mi sono tutti fortunatamente riusciti tanto
ottusi, e che ho appiccati collo sputo al cognome di
Scannabue. A dirtela in confidenza io costì feci
propio una fatica da asino. L’Aut. Questo non
occorre che me lo diciate, padre non bue. Lo so
anch’io che costì faceste una fatica da asino, e che
il ridicolo cognome da me dato all’immaginario
Aristarco per far isbigottire gli sciocchi con
quella strana parolaccia, non meritava che
v’affaticaste così asinescamente a stravolgerlo in
tanti modi. Ma lasciamo andar questo e lasciatemi
dire che non avete ancora toccato il punto della mia
maraviglia. D. Luc. Sarebbe stata mai, bue medico,
quella mia sbirresca maniera di darti più nomi
oltraggiosi che non ne furono dati a Giuda, a
Nerone, e a Gano da Pontieri? L’Aut. No, padre non
bue, io mi rido della vostra stupida malignità. D. Luc. Sarebbe mai stata quella mia
ira, quel mio maltalento, e quella mia sottile
perfidia in procurare, bue cipolla, di farti un
nimico d’ogni mio leggitore, interpretando sempre in
modo iniquo e fraudolente ogni tuo sentimento
intorno alla letteratura, alla morale, ed alla
religione? L’Aut. No, no, e poi no, paternità mia
non buesca, non fu nè tampoco alcuna di queste cose!
Queste sono cose da destare maraviglia in chi non
conosce troppo bene 1’irascibile ciurmaglia di voi
altri scrittori italiani moderni; ma queste cose non
potevano destare maraviglia in me che ho piena
pratica di voi altri, irascibile ciurmaglia
ciurmagliaccia. Prima di leggere il vostro Bue
Pedagogo io avevo casualmente saputo che voi siete
un frataccio più orgoglioso e più burbero di
Belzebubbe e più artificioso e più maligno
d’Astarotte; e m’era in oltre stato scritto da
Bologna che la mia giusta critica alla vostra
Commedia filosofica v’aveva mossa tanto la bile
(scusate se questa mossa di bile non è
anatomicamente vera), che in sul vostro primo
leggerla schizzaste fuoco dagli occhi, e bava dalla
bocca come rospo calpestato. Avevo poi anche veduto
il vostro Discorso Parenetico contro il Griselini, e
notato con quanto attossicata dispettosaggine
1’avevate maltrattato per aver lodato
forse un po’troppo fra Paolo Sarpi in quel suo
libro; nè m’era scappato dall’occhio il nauseoso
elogio da voi fatto al vostro stesso Discorso
Parenetico in una lunga e non necessaria postilla al
vostro Suicidio Ragionato.
Metatextualität
voglio
qui confessare al leggitore, che vi è una parola da lui
criticata drittamente nella mia Frusta.
Ebene 4
Zitat/Motto
« Niuno guarda in volto
costui che non senta fastidio: niuno lo ricorda che
nol condanni. Lo evitano, lo fuggono, ricusan
d’udirne parlare; come mal augurio lo detestano. I
famigliari lo scacciano; i popolani lo maledicono; i
vicini lo temono; gli affini se ne vergognano. »
Ebene 4
Zitat/Motto
« Le langage d’Agatopiste
sent son misérable charlatan. Ce sont les pointes
les plus basses et les plus dégoûtantes. Il n’est
pas même plaisant pour le peuple, et il est
insupportable aux gens de jugement, et d’honneur. On
ne peut souffrir son arrogance, et les gens de bien
détestent sa malignité »
Ebene 4
Zitat/Motto
« Vous croiriez que ce
vilain Agatopiste est un portefaix du
Pont-noeuf. Mais laissons là sa choquante figure. Ce
n’est pas sa faute s’il ressemble aux portefaix.
Sourcilleux Littérateur, il poudre tous ses discours
et tous ses écrits de facéties et de grec. On le dit
ami du bon vin à cause de son visage parsemé de
boutons rouges. Cela est croyable. On le dit propre
à peupler une colonie, et négligeant son talent par
des raisons socratiques. Cela est croyable aussi. On
le dit bon homme et bon chretien: mai cela est il
croyable? »