Trento I aprile 1765.
inglese, come lo chiama egli, ha un milione e mezzo di scudi romani ogni giorno. Terminato il calcolo, ed affibbiatomelo come se fosse naturalmente risultato dal mio paragrafo, il buon frate se la gode, e trionfa, e si ringalluzza, e mi chiama con la sua solita lepidezza claustrale un bel bue aritmetico, e mi dà i titoli facetissimi di « calcolatore, di computatore, di gabelliere, e di finanziere di tutti i re, e di tutti i principi, » con tanta abbondanza di frateschi sali e motti, che ti fa sganasciare dalle risa tutti gli arcadi, tutti i cruscanti, tutti gli antiquarj, e tutti i
Ossequiosissimi leccapiedi di questo reverendissimo, sentitene un altro de’suoi ingenui e leggiadri modi di citare e di confutare la Frusta, ed anche qui preparategli difesa, e versi sciolti, e canzonette chiabreresche. Io ho raccontato in quella p. 172 del n.° IV, che un milordo Charlemont
Per negarmi un fatto da me narrato con particolarissime circostanze, e per metterlo giustamente in baja, voi dovevate, don Luciano, addurre tali ragioni mediche da mostrarne l’impossibilità assoluta, o dovevate almeno farvi fare qualche attestato da qualche signore inglese che mel negasse. Ma voi non volete andar mai nè per la dritta, nè per la lunga; e per uscire d’impaccio con la maggiore celerità possibile mi chiamate Bue Medico (pag. 1179)
Notino intanto qui i prefati leccapiedi di costui, che io ho riferito nella Frusta Discorso sull’uso esterno dell’acqua fredda mostra che relativamente alla salute si otterrebbero molti beni, se vincendo la natural ripugnanza avessimo il coraggio di tuffarci spesso nell’acqua fredda. Il cercare di corroborare coi fatti le opinioni altrui è ella una prova d’avversione e d’inimicizia? Eppur voi, disingenuo frate, andate ripetendo in più pagine del Bue Pedagogo che io sono nimico del Cocchi, che ne odio e detesto la memoria, che ne calpesto le ceneri, perchè in un foglio della Frusta ho criticato severamente un suo scostumato ed irreligioso Discorso sul matrimonio pubblicato dopo la sua morte da chi appunto doveva più ch’altri aver interesse di buttarne al fuoco il manoscritto. Per la qual cosa m’è forza dirvi, frate mio, che voi siete un bugiardo, non essendo punto vero, e non apparendo punto dalla mia Frusta che io abbia o abbia avuta mai la minima antipatia a quel dottore. Io di lui non odio altro che quel suo empio Discorso sul matrimonio, come amo pel contrario quell’altro suo buon Discorso sull’uso esterno dell’acqua fredda. Ma questa è la vostra frequente logica e il vostro solito modo di formare argomenti.
Tu lodi, o autore della Frusta, un altro discorso del Cocchi, che è lodevolissimo, e procuri di corroborare coi fatti le sue dritte opinioni.
Ergo tu sei nimico del Cocchi: Ergo tu hai in odio il Cocchi: Ergo tu detesti la memoria del Cocchi: Ergo tu calpesti le ceneri del Cocchi. »
Oh va e t’annega Aristotele con tutti i Dario, i Ferio, e i Baralipton de’tuoi commentatori, che tu, ed essi, ed io siamo tutti buoi logici e buoi sillogismi, e il solo reverendissimo da Comacchio s’intende ora di logica come s’intendeva d’anguille marinate prima che s’incappucciasse!
Io ho però molta ragione di stupirmi del poco esemplare fratismo vostro, don Luciano dall’anguille, veggendo come vi scatenate a difendere il Discorso del Matrimonio da voi con molto garbo chiamato un piacevole intertenimento, e un giocoso ragionamento. Ma come non si vergognò la paternità vostra coperta d’un cappuccio e d’uno scapulare di dichiararsi campione d’un discorso che i Luterani e i Calvinisti stessi avrebbero in orrore se ne avessero notizia? Appartien’egli ad un frate il difen-l’indole e le forze, m’ha insegnato a detestarlo con la scomunica. E così non mi venite mai più a dire che i « savj non vogliono esser mariti, e che i pazzi lo voglion essere! » E così non mi venite mai più a dire che « coloro non sono in ira del cielo, che sono in ira contro le nozze! » Teneteveli per voi questi profani ed ereticali ammaestramenti, che io non saprò mai chiamarli con altri nomi che di profani ed ereticali. Cercatevi, don Luciano, degli altri scolari che io mi contento d’esserlo stato d’un Tagliazucchi in Torino, e d’un Johnson in Londra, i quali non si curarono mai d’essere riputati increduli e scostumati. Andate in buonora, don Luciano, con queste vostre sante dottrine alla moda, che io sono un secolaraccio fatto all’antica, e non ho mai voluto, nè voglio, nè vorrò mai impararle da voi o da altri, e fatemi pure in bricie minutissime con cent’altri buoi pedagoghi.
mi fate voi dire modestamente) son balordi, sciaurati, puerili, bislacchi, animaleschi, bestiali, matti, cenciosi, scipiti, meschini, plebei, laidi, scimuniti, insulsi, seccagginosi, gonzi, baggei, chiacchieroni, scioperoni, cacasodi, ingegni bovini, anime di lumaca, scrittoruzzi, storicuzzi, autoruzzi, autorelli, autoracci, villanacci, stupidacci, buacci, senza grano di sale, senza invenzione, senz’estro, senza grazia, senza ingegno, tutti scempiaggine, tutti debolezza, tutti povertà, tutti bestialità. »
Se questo bel paragrafo invece di scriverlo al plurale voi l’aveste scritto al singolare, e se aveste poi detto che io l’ho scritto con intenzione di dipingere il padre don Luciano Firenzuola, o Agatopisto Cromaziano, non è fuor del proba bile che avreste trovata presso molti leggitori più facil credenza che non vi pensate. Ma poichè voi avete voluto scriverlo al plurale e non al singolare, m’è forza dirvi un’altra volta, e sarò pur troppo astretto a dirvelo cent’altre volte prima di finire, letteratacci nominatamente. Molti di que’titoli io li ho dati a gente immaginaria e che potrebbe esistere, e li ho dati parlando in generale degli uomini sciocchi o cattivi senza fissare la mente del leggitore su qualche individuata persona; onde voi operate da tristo rappresentandomi con questa vostra malizia mordace oltremodo, e mattamente cinico, raccogliendo qua e là per la Frusta tutti i vocaboli cinici e mordenti, e mettendoli tutti ad un tratto sotto la vista de’vostri leggitori. Anche i libri più pieni di cristiana mansuetudine hanno sparsi qua e là de’vocaboli cinici e mordenti, e ve ne potrei agevolmente cavare una lista molto lunga dagli stessi libri santi. Egli è vero che io ho dati degli epiteti molto caratteristici a molti scrittori antichi e moderni. È vero che ho, verbigrazia, dato quello di laido all’Aretino, e quello d’anima di lumaca al Crescimbeni, o quello di puerile al Zappi, o quello di scipito al Guarinoni, o quello d’animalesco al Borga, o quello di bislacco al Chiari, o quello di plebeo al Goldoni; e commessi tali altri enormissimi delitti verso un mondo di nemici miei, perchè è gente morta da anni e da secoli. E rispetto a quegli altri che ancora vivono e scrivono, e che io ho dovuto annoverare più fra i nemici della ragione e della verità che fra i miei, io non credo d’aver fatto un gran peccato epitetandoli di mano in mano caratteristicamente, e molto meno frustando come asinelli indocili e calcitranti ogni qualvolta mi parve che lo meritassero pe’loro brutti costumi, o per la loro prosuntuosa tracotanza, o per tal altra loro virtù.
Supponghiamo tuttavia, reverendissimo, che io avessi ammucchiata addosso a qualcuno de’letteratacci nemici miei tutta quella lunga tiritera d’epiteti senza pigliar fiato, che perciò? A voi avrebbe sempre appartenuto provare che io l’aveva ammucchiata a torto su quel tale o su quel tal altro, se volevate rendermi odioso a ragione. Stiamo a vedere che basterà ricopiare gli epiteti che si danno alla gente, perchè ne siegua di necessaria conseguenza che quegli epiteti non si confanno! E stiamo a vedere che rispondendo con qual-bugiardo appunto per la ragione che in questi Discorsi io vi caratterizzo principalmente con questo epiteto! Sarà però mia cura prima di terminarli di render vana tale vostra futura impertinenza, provando e riprovando, e poi tornando a provare che siete meritevolissimo del titolo di bugiardo, e provandovelo, e riprovandovelo, e poi tornandovelo a riprovare con tanto palpabile evidenza, che neppure il frate Facchinei possa negarmelo. Non mi lascerò portar via dal caldo e dalla collera come fate voi; non vi dirò nè « tiranno, nè carnefice, nè feccia della repubblica, nè ravagliacco; » non vi chiamerò con tre o quattrocento nomacci strani che si contraddicono 1’un 1’altro; ma bugiardo ve lo dirò a tutto pasto, perchè sono certissimo di far toccar con mano a chicchessia che siete tale innegabilissimamente. Osservate, bugiardo mio, se sono subito di parola. Io non ho di sicuro nominato mai nella mia Frusta il dottor Lami, che considero da vent’anni come mio buon amico: io non ho di sicuro mai nominato in quella l’abate Conti gentiluomo veneziano, che mi onorò quando viveva colla sua benevolenza: io non ho mai nominato alcuno de’Zanotti, gente benemerita nella
Io ho poi lodato il grande Eustachio Manfredi la sola fiata che m’è occorso nominarlo al n. XIII, pag. 563 della Frusta, eppure il nostro gentil frate afferma che io ho pur detto male d’Eustachio Manfredi, e chiamatolo anche lui cane e scimmiotto. E tu, frate Scottoni, che di’ tu di quest’altra solenne bugia, che hai voluto vedere ristampata per la seconda volta? Il tuo eroe è egli un bugiardo, o non è egli un bugiardo? Ma passiamo a cose di maggiore strepito e di più grande importanza.
ogni bazzecola e corbelleria che puta un po’ d’antico, io chiamai per derisione il mestiero loro balordo e facchinesco. Costoro, diss’io, sono pure i grandi scioperoni a buttar via il tempo in iscarabocchiare de’tomacci in quarto e in foglio sopra ogni dittico, sopra ogni vetro cimiteriale, sopra ogni lucerna, sopra ogni pignatta, o sopra ognuna di quelle iscrizioncelle e pataffi che si vanno tratto tratto scavando nell’Umbria; anzi pure sopra ogni chiodo che si disotterri dalle rovine delle città d’Industria e d’Ercolano.
Questa mia disapprovazione in termini generali di quelle tante inutili opere scritte su cotali frivoli argomenti, e bazzecole vere, e vere corbellerie, non può essere nè più ragionevole nè più giusta. E che sia giusta e ragionevole fu già deciso pro tribunali da gente importantissima, e molto più atta a giudicare della ragionevolezza e della giustizia delle cose, che non uno sciocco e cattivo frate qual è il nostro don Luciano. Contuttociò la paternità sua, a cui quella decisione in mio favore non poteva esser ignota perchè fatta pubblicamente e con qualche solennità, mi salta ogni chiodo, e grida che con que’due innocenti bissillabi d’ogni e di chiodo io ho chiamati i re balordi, e i pontefici facchini. Si può dare un animale più animalesco di questo reverendissimo? E in qual parte della Frusta mi sono io sognato di dirne una sì grossa? O con qual sorte di logica può costui far arguire che io ho perduto il rispetto in quell’arcipazzissimo modo ai re ed ai pontefici? Ma la sua logica egualuente che la sua ingenuità è sempre uniforme tanto, che non riesce mai difficile indovinare il suo costante modo di formare sillogismi, entimemi, dilemmi, ed altre tali galanterie per poterne poi trarre quelle conseguenze che soddisfacciano e satollino la sua brutale nimicizia per me, la quale secondo lui non ha ad essere circoscritta da alcuna di quelle leggi che si chiamano leggi d’ostilità dai giusperiti, e che nella nimicizia proibiscono la fraude e la soperchieria, e tutto quello che è falsità. Ecco qui il bel sillogismo ch’egli deve aver fatto per provare la sua tesi.
Concedo la minore, quantunque io abbia fatte le debite eccettuazioni in qualche luogo della Frusta.
Ergo.
Oh stupenda conseguenza! Oh irresistibile forza della logica di don Luciano, che non è un bue logico, nè un bue sillogismo, come son io! Questa affè non l’avrebbe detta nè il prete Rebellini che è sì assurdo, nè il prevosto Borga che è sì tristo!
E qui avvertite, leggitori del Bue Pedagogo, che quel suo infame passaggio contro i re e contro i pontefici non si trova nella seconda edizione di quel libello, ma si trova solo nella prima. Il frate Scottoni, editore della seconda edizione, fu forzato a troncarlo via, come diremo nell’ottavo discorso più minutamente. Questo però non minora la strabocchevole iniquità di don Luciano. E il suo aver avuta l’audacia di scrivere e di stampare una ribalderia di questa sorte mi fa molto maravigliare che in Italia, e ne’paesi del pontefice stesso si lasci vivere nella società degli uomini un uomo così perfidamente fanatico, che nell’insano calore dell’ira sua dà tanto in frenesia contro un suo giusto critico, che si dimentica d’esser cristiano, si dimentica d’esser frate, si dimentica d’esser cittadino, si dimentica d’esser uomo, ed avventandosi rabbiosamente contro le più sacre persone che s’abbia il mondo, disonora il cristianesimo, il suo ordine, la patria, e l’umanità tutt’a un tratto!
due ginocchia, perchè i buoi pedagoghi hanno quattro ginocchia, e non due sole come tutti gli altri buoi e quadrupedi. Così caduto gridai pietà e scrissi con una di quelle quattro ginocchia « una confusa ed umile dedicatoria e palinodia alle corbellerie, alle bazzecole, ai balordi ed ai facchini, che l’uomo grave e venerando non lesse, e il vento la disperse. »
schiavo ubbriaco come son io, e giacchè quando vi fate a dire sapete sempre quel che volete dire, diteci un poco dove va a riferire tutto questo vostro gergo furbesco? E perchè non avete voi qui parlato tanto schietto da farvi chiaramente intendere anche da quelli che non la sanno lunga quanto voi? Chi può mai essere quel vostro personaggio grave, venerando, di serie lettere, e d’autorità che m’ha alzato quel dito in fronte? Dove sono o dove furono quegli sgherri con quelle partigianacce, con quelle travi e con quelle funi, che fecero tanta paura a tutti, e che mi fecero cadere sulle mie quattro ginocchia? Dove sono le palinodie e le dedicatorie che m’attribuite tutte piene d’umiltà, e di compunzione? Alludereste voi mai al cominciamento del nono numero della Frusta? Ma se io m’appongo, come è probabile, e come potete voi chiamare palinodia e dedicatoria fatta per paura un giudizio così libero, e così volontariamente dato d’un’opera che non tratta nè di chiodi, nè di serrature? Ah vigliacco don Luciano, tu vorresti muovermi contro un nimico un po’ più di te formidabile, e non vorresti parer quello, e ti nascondi in pugno parte di quello stiletto con cui vorresti ferirmi! Avviluppa tuttavia quante bugie vuoi nel
Fra i detti proverbiali che si sentono quotidianamente ripetere, uno è che gli uomini sono simili dappertutto; vale a dire che gli uomini pensano ed operano dappertutto pressochè nella stessa foggia, e con uniformità a malapena discernibile, poichè tutti sono composti degli stessi ingredienti, e tutti mossi dall’impulso delle medesime passioni.
A questa vecchia non meno che universale osservazione io non ho certamente che apporre. Mi sia contuttociò permesso di dire, che scorrendo qua e là per l’Europa quand’ero bue viaggiatore, ho dovuto a forza notare come in certi paesi si trovano in abbondanza degl’individui d’un certo particolar carattere di cui v’è carestia grande in altri paesi. Io non ho esempligrazia potuto mai accorgermi viaggiando, che in alcuna parte di quell’Europa da me trascorsa vi sia come nella nostra Italia un numero tanto sterminato di quegli omaccioni e di quegli omicciatoli che mai non si distinguono tra il bene e il male. Volesse Dio che questa mia osservazione fosse falsa! Ma pur trop-
Nè è da dire che coloro dai quali un così grosso granchio fu preso sieno dal comune delle nostre genti riputati volgo e plebaglia. Eglino sono anzi avuti per baccalari sommi, per eruditi e per antiquarj d’alto bordo, per poeti e per oratori de’più perfetti, e sino per filosofi della maggior magnitudine.
E voi, padre don Luciano, voi volete che io mi dichiari ammiratore di questi buoni ingegni italiani? E voi volete che io mi dichiari sbalordito da quel tanto senno che allaga Italia da tutte le parti? E voi mi vituperate con mille obbrobriosi appellativi perchè non ho la vilissima turba di que’suoi baccalari in quella sfondolata riverenza in cui voi l’avete o pretendete d’averla? E voi mi comandate di chinare ossequiosamente la fronte sino a quelle tante migliaja di Scottoni e di Facchinei che abbondano in ogni terra nostra come i vermicciuoli e gl’insetti, e che gonzamente s’assicurano a vicenda non esser possibile all’autore della Frusta il dare una buona risposta al Bue Peda-
E sallo Dio, reverendissimo ammiratore de’buoni ingegni italiani, quanto tempo ancora que’nostri gonzi Scottoni e Facchinei, e quell’altra infinita plebaglia d’eruditi, d’antiquarj, di poeti, d’oratori e di filosofi sarebbe stata pertinace nello stolto pensiero che il vostro iniquo libello sia un non plus ultra di perfezione, se io non veniva caritatevolmente a disingannarla con questa mia risposta! Ed ecco, padre mio, la prima ragione che m’ha indotto a farvela, malgrado la vergogna ch’io sento d’aver a combattere con un antagonista qual voi siete, che professa di mentire ad ogni parola; che non fa studio se non di calunniare; che invece di confutare proverbia porchescamente, che mi ghigna sempre in faccia come uno stolido babbuino vago di nulla se non delle più scimunite beffe; e che in somma delle somme non sa far altro che in-
L’altra ragione che m’ha fatto determinare a rispondervi è forse migliore ancora della prima. Io trovo, padre mio, che nei nostri troppo rimessi paesi non si fa de’magistrati la menoma attenzione a cotesti nostri letteratonzoli, che inviperiscono troppo più del dovere quando una loro fanfaluca in verso o in prosa è tocca colla punta della penna da un qualche savio critico. Non si può dire la stizza di cui abbondano que’rospi di saputelli, e quanta velenosa bava spandano su tutti quelli che a caso o disegnatamente disapprovano le fanfaluche loro! Sonetti codati, sonetti non codati, e terzetti, e ottave piene delle più sconce parole, e satiracce, e libelli sull’andar del vostro riboccanti d’ogni vilipendio e d’atrocis-
Non mi biasimar dunque, brigatella savia e dabbene, e teneramente amica dell’onor mio, se mi vedi ora scendere sì basso, e menare fortemente il bastone sulla schienaccia a questo salvatico somiero, che ricopertosi a fraude colla temuta pelle del più formidabile fra gli animali, corre e galoppa su e giù pei bei colli e per le fiorite piagge delle sacre Muse, e raglia per esse credendo di ruggire, e salta, e corvetta, e morde, e tira calci con insoffribile protervia e tracotanza. E qui mi perdoni il gran cigno della Liguria, il moderno Pindaro in versi sciolti, il nostro Vate dalle canzonette chiabreresche se ho ardito di nominare i almo furor poetico e di non iscappucciare nelle sue frasi e modi di dire. Ma di questi scappucci io ne piglio di rado, e quando ne piglio alcuno, presto mi rizzo, e torno presto a camminare del mio solito uniforme passo, vale a dire torno presto alla mia solita umiltà d’espressione, lasciando a quel cigno ed a’poetini principianti tutte le muse con tutti i loro colli, con tutte le loro piagge, e con tutte quell’altre rifrittissime bellezze di greca mitologia. E che il mio dire s’accordi col fatto, notate con quale semplicità io torno ora al mio argomento e al mio don Luciano.
Al n.°II, pag. 48 della Frusta, nel carattere immaginario del vecchio Aristarco io dico che
Chi potrebbe mai figurarsi che queste mie poche parole sieno un buon compendio del sistema di Spinosa, e che questo sia un pretto parlare di Ateista? Eppure teologo bue, ma un teologo anguilla, alla pag. 1173 del suo libello me ne assicura con tutta la serietà e rabbia possibile. Emanazione! Perchè non dir anco, padre mio, qualche cosa del vocabolo Cercatore, e soggiungere con uno de’vostri soliti giuocolini di parole, che Dio non si può cercare, e che non occorre cercarlo poichè si trova in ogni luogo? Anche questa sarebbe stata degna di voi, signor teologo anguilla. Ma giacchè volete cavillare, come mai, don Luciano, poss’io essere spinosista ed ateo insieme, se ateo secondo l’importare di tal voce significa un uomo che non crede punto vi sia un Dio, e se spinosista secondo il dir vostro significa un uomo che crede in Dio e nelle emanazioni sue? Oh vedete come agevolmente vi potrei convincere di contraddizione e d’ignoranza nel mestiero che professate, dopo quello della disingenuità e della maldicenza! Difendendo però la mia teologia senza entrare nel fango della vostra io v’assicuro, padre, che quando adoperai in quel passo della Frusta il vocabolo emanazione, volli esprimere in generale tutto emanazione così adoperato non inchiude la minima ombra di spinosismo o d’ateismo, ma è un vocabolo innocente quanto qualsivoglia altro del vocabolario, perciò il padre inquisitore che m’ha rivisti i manoscritti della Frusta, me l’ha passato senza difficoltà, e me 1’ha lasciato quivi stampare.