Citazione bibliografica: Pietro und Alessandro Verri (Ed.): "XX", in: Il Caffè, Vol.1\20 (1766), pp. NaN-286, edito in: Ertler, Klaus-Dieter / Fuchs, Alexandra (Ed.): Gli "Spectators" nel contesto internazionale. Edizione digitale, Graz 2011- . hdl.handle.net/11471/513.20.4321 [consultato il: ].


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XX

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Dialoghi dei morti

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Dialogo I.
Omero, e Pitagora.

Dialogo► Omero. È dunque vero, o Pitagora, che per aver felicemente trovata la dimostrazione d’un geometrico teorema, offeristi un’ecatombe ad Apolline?

Pitagora. Verissimo: e ti par egli strano per avventura?

Omero. A me certamente non è mai caduto in pensiero di farlo, per quanto sublimi, e leggiadri versi m’abbia ispirato Apolline ne’ miei Poemi: eppure non vuolsi, per mio avviso, colle bellezze de’ versi paragonare la nuda e sterile geometria.

Pitagora. Assai più belle e pregevoli, che tu non credi, sono le geometriche contemplazioni. La soave armonìa dei versi lusinga l’orecchio, e la vivacità loro agita l’immaginazione; ma il piacere di conoscere il vero penetra, e si trattiene, e spazia nella più pura parte dell’intelletto, al quale, na-[272]to per la verità, nulla più grato riesce, che il discoprirla. I geometrici studj formano la mente nostra, e l’avvezzano a sviluppare in se stessa, e a dedurne con certo ordine i suoi giudizj. E perciò dovrebbono i giovani siffatti studj premettere per fondamento, e base d’ogn’altro. E quando queste medesime sublimi teorie, che pascono, e riempiono l’intelletto, vengono alla fisica esperienza ridotte dall’esperto Geometra, sono d’innumerevoli vantaggi cagione alla umana società.

Omero. E non è forse utile agli Uomini la Poesia? Questo linguaggio degli Dei, questa divina arte, la quale le magnanime azioni degli Eroi celebrando, e le triste opere de’ malvagi uomini spargendo d’infamia, quasi in fido specchio della umana vita ci rappresenta quanto imitare dobbiamo, e quanto fuggire. Ben lo conobbe la savia Atene, la quale, siccome fummi da molti detto, con solenne decreto ordinò, che nelle pubbliche adunanze si cantino i versi miei. E quando scese quaggiù il più valoroso Principe, che abbia avuto la Macedonia, venne con sollecita cura in traccia di me, e trovatomi, dopo mille onorevoli accoglienze, mi raccontò com’egli tenea sempre fra lo strepito dell’armi le opere mie con se, e con sommo profitto leggevale, e aveale finalmente riposte in un gemmato vaso trovato fra le spoglie di Dario. Nè la colta Grecia soltanto, ma i rimoti Indi, e i re di Persia hannole in grandissimo pregio, e venerazione.

Pitagora. Non nego io già, che non possa essere la poetic’arte d’alcun vantaggio produtrice. Ma oltreché rari sono i Poeti, che abbiano ornata la virtù, e non anzi co’ più vivi colori dipinto il vizio, [273] i versi loro ammolliscono l’animo dei giovani, e men atti li rendono ai più severi studj, e più gravi.

Omero. Ma questi gravi, e severi studj finalmente pochissimi seguaci ebbero in ogni età, e florida è stata sempre la scola d’Apolline.

Pitagora. Argomento della falsa idea, che hanno gli uomini del bello, e dell’utile. ◀Dialogo ◀Livello 3

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Dialogo II.
Mitridate, e Catone Uticense.

Dialogo► Mitridate. Generoso invero, e magnanimo fu il tuo consiglio, o Catone, di darti la morte, nè le minaccie curando, ne le promesse di Cesare,

Catone. Più grave assai della morte sarebbe a me stata la servitù, nè la libertà io dovea ricevere da chi l’avea rapita alla Patria. Il divin libro, in cui Platone ragiona della immortalità dell’anima, e della futura beata vita dei buoni, mi confortò, e la mano mia nel gran cimento rinvigorì il desiderio di mostrarmi non indegno figlio di quella Roma, che è stata, sopra ogn’altra Città, feconda madre d’Eroi.

Mitridate. Molti grand’Uomini ha certamente prodotti la tua Repubblica; ma io temo, non l’amor della Patria al pensier tuo li rappresenti più grandi ancor che non furono.

Catone. E qual altra Nazione vantar può mai e l’in-[274]corrotta virtù de’ nostri Camilli, e Curii, e Fabrizij e il militar consiglio, e l’egregio valore de’ nostri Metelli, e de’ nostri Fabj, e Scipioni?

Mitridate. Il rigido costume di quegli antichi Cittadini di Roma io l’attribuirei anzi alla condizione de’ tempi loro, che a grandezza d’animo, e a determinata virtù. Come potevano essi quelle delizie apprezzare, che non avean gustate, ed esser avidi di quelle ricchezze, che non conoscevano? E ben si vide quanto presto l’eredità del re Attalo, e le conquiste Asiatiche sbandirono da’ petti loro l’antica severità, e fecero scordare ai Romani Consoli i rustici tugurj, e ai Dittatori l’aratro. E siccome potrebbe a questi, e con più ragione opporre e un Pelopida, e un Focione, e un Aristide la Grecia, così potrebbe ai vostri Duci, e il suo Leonida, il suo Temistocle, e il suo Epaminonda paragonare. E quella Cartagine, che sparse tanto sangue Romano, e il piccolo Regno di Ponto, che vi ha per quarant’anni stancati, vanteran forse del pari e Annibale, e Mitridate.

Catone. Ma la superior forza, e l’invitto valor dei Romani tutta finalmente sentì, e riconobbe la terra.

Mitridate. E tutta sentì, e riconobbe la Terra l’ingiustizia, e la violenza dell’armi vostre. I fondatori della vostra Repubblica diedero a lei principio colle rapine, e col sangue: e questo spirito ne’ posteri loro trasfuso, l’Italia prima, e tutte poi devastò le straniere provincie: ed or con simulati pretesti, e con apparente colore di protezione spogliati furono i popoli della natìa libertà. Ma presero finalmente li Dei delle oppresse Nazioni vendetta. Que-[275]sta superba Repubblica sotto le armi di Cesare è già vicina a spirare.

Catone. La soverchia potenza, e gl’intestini odj, e le discordie han guasto il seme delle virtù Latine. Nè sarà maraviglia che senta poi anche la nostra Repubblica il comune rivolgimento delle umane cose, le quali han tutte il lor principio, l’ingrandimento loro, la decadenza ed il fine. ◀Dialogo ◀Livello 3

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Dialogo III
Corinna ed Elena

Dialogo► Corinna. Che mi vai sempre vantando, o Elena, quella tua bellezza, la quale, siccome cosa caduca, e mortale, ha dovuto sentire i danni del tempo, e della morte; mentre la fama del mio ingegno eternamente vive nella memoria degli Uomini?

Elena. E non è forse eterno il mio nome ne’ versi di tanti insigni Poeti, che il celebrarono?

Corinna. Io celebrai me da me stessa, e nel cospetto di tutta la Grecia al suo Lirico più illustre tolsi la palma co’ versi miei

Elena. Io non voglio ora disputar teco su tal vittoria: ben ti dirò, che assai più chiare e più sicure vittorie su gli Uomini ottien la bellezza. Può ben l’ingegno, e lo spirito in altrui risve-gliare i freddi, e languidi sentimenti d’ammirazione; ma la bellezza agita i cuori umani coi forti, e vivi affetti d’amore. Ella tramanda, e spira un segreto fascino, e incanto, che rapidamente passando dagli [276] occhi al core, di lui trionfa. E ben sai tu come Paride, arbitro alla gran lite trascelto dai Numi, i varj doni da Giunone, e da Minerva offertigli disprezzando, diede il pomo alla Dea della Bellezza, che aveagli in premio, e mercede promessa la bella Sposa di Menelao. Li Dei medesimi, quando fra noi scendevano sazj del Cielo, colle belle, e leggiadre Donne si ricreavano, non colle dotte, e scienziate. Il gran Padre de’ Numi si è forse alcuna volta spogliato della sua maestà, e cangiato in Toro, in Cigno, o in pioggia d’oro per qualche erudita fanciulla di Grecia, come egli ha fatto per Europa, per Leda e per Danae, Donne a lor tempi famose per la bellezza?

Corinna. Inutile è adunque il dono dell’ingegno, anzi dell’animo, che a noi del pari, che agli uomini fecer li Dei: e paghe, e contente d’esser quai simulacri vagheggiate, la miglior parte di noi lasceremo incolta, e negletta? Io per me pregerommi sempre d’avere della felicità dell’ingegno con tanta mia gloria gareggiato con Pindaro.

Elena. Ed io sempre mi pregerò d’aver colla mia bellezza sconvolta l’Asia, e l’Europa. ◀Dialogo ◀Livello 3

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Dialogo IV
Platone, e Diogene.

Dialogo► Platone. Bella con tua pace, o Diogene, bella e la gloria: a un degno oggetto, anzi un chiarissimo argomento di un’anima immortale è quel vivissimo desiderio, che in noi sentiamo d’acquistar nome, e d’essere eterni nella memoria de’ Posteri.

[277] Diogene. Per se medesima deesi cercar la virtù, la quale senza i vani applausi, e la incerta fama del volgo, è per se bella, e di se stessa contenta.

Platone. Vero, è che se potessero gli Uomini nella propria luce, e nella natia bellezza contemplar la virtù, un ardentissimo amore di se risveglierebbe ne’ petti loro. Ma poichè un denso velo agli occhi mortali l’asconde in parte, nel qual è in se medesima bella, e pregevole si manifesta, non isdegna ella che sieno i bennati spiriti anche da quella gloria invitati, che non proviene che dalla vera virtù. E chi non sa quanto possa ne’ cuori umani, e quanto alle magnanime imprese gli accenda, diretto dalla ragione l’amor della gloria? questo rende men aspre le militari fatiche, anzi la stessa morte a’ nostri Guerrieri: questo i veloci Cursori, e i robusti Atleti rinvigorisce in Elide, in Pisa, in Olimpia; questo le belle arti ravviva, e regge all’industre artefice sui bronzi, e i marmi, e sulle spiranti tele la mano: questo agita con più vivo ardore il celeste foco dei Poeti; e in questo troveran finalmente con disappassionato animo, se stessi considerando, il più forte promotore de’ loro studi i Filosofi.

Diogene. Io fui sempre nemico del fasto, e sprezzator della gloria.

Platone. Ma tu fosti del fasto nemico, per un fasto maggiore, e la gloria sprezzasti per aver la gloria d’averla sprezzata.

Diogene. E che dirai del generoso rifiuto, e della filoso-[278]fica indifferenza, colla quale accolsi il superbo Macedone?

Platone. Tu fosti allora, o Diogene, assai più superbo di lui. ◀Dialogo ◀Livello 3

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Dialogo V
Seneca, e Petronio.

Dialogo► Seneca. Ogni qualvolta io vo pensando, o Petronio, a quei cinqu’anni che con tanta gloria del nome suo e con tanta felicitá dell’imperio regno Nerone, d’un giusto sdegno m’accendo contro di te e di quanti col pravo esempio e colla sordida adulazione corrompeste i buoni semi da me nell’animo suo sparsie coltivati.

Petronio. Checche degli altri ne sia, a me certamente non deesi un tal rimprovero.

Seneca. Non eri tu, sopra gli altri, arbitro, e ministro de’ suoi piaceri?

Petronio. Non già di quelle infami dissolutezze, alle quali, non per mia colpa, s’abbandonò, ma di un fino, ed erudito lusso, e delle più delicate, ed eleganti delizie. Non volli io già col assoluta privazion de’ piaceri, svegliarne in core al giovinetto Regnante più accesa la brama, nè introdurre alle soglie Reali la squallida Filosofia del Portico.

Seneca. Pur non dovrebbono gli’institutori de’ Principi insinuar negli animi loro l’amor del piacere, ma unicamente formarli cogli ottimi precetti della virtù.

[279] Petronio. Ma convien renderla dolce, ed amabile, nè rappresentarla, qual tu facesti, fiera, e selvatica. Vero è però, che quasi bastandoti d’averla con sì forti colori dipinta ne’ libri tuoi, la riducesti coll’uso a te medesimo più mansueta, ed agevole. Tu biasimasti le dilizie, e l’antica frugalità celebrasti, fra i lauti conviti, e la più splendida magnificenza; e in mezzo agl’immensi tesori da te raccolti, e colla più gelosa conservazion della vita ragionasti da grave Filosofo di povertà, e di morte. Altro dunque non fu la tua vantata severità, che vanità, e impostura. E chi non anteporrá, come io feci, alla impostura, e vanità d’uno Stoico la mode-rata Filosofia d’un virtuoso Epicureo?

Seneca. Se vero è ciò, e se tanto fosti ne’ tuoi costumi savio, e moderato Filosofo, perchè sì poco lo fosti ne’ libri tuoi?

Petronio. E se tanto lo fosti tu, o Seneca, ne’ libri tuoi, perchè sì poco ne’ tuoi costumi? ◀Dialogo ◀Livello 3

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Dialogo VI
Carlo V. e D. Giovanni d’Austria

Dialogo► Carlo. Troppo immatura fu la tua morte, o Figlio, e troppo ingrato a’ tuoi meriti Filippo II.

D. Giovanni. Assai più della mia, spiacemi la trista condizione del vostro Imperio. Io per me mi vo confortando coll’interno testimonio dell’animo mio, colla memoria delle onorate azioni, e coll’esempio [280] dei Temistocli, e degli Scipioni: tale è la malignità dell’invidia, tale il destino della virtù.

Carlo. Io non credea certamente di lasciare un sì indegno successore di Carlo V.

D. Giovanni. Non ha quel crudele, e sospettoso principe bastante forza a reggere sì vasta mole. Egli, rinchiuso nel suo gabinetto, si pasce dei vani, e immaginarj progetti d’una falsa politica, mentre gl’ingordi Ministri, non che le ricchezze del nostro, van disperdendo i tesori del nuovo mondo.

Carlo. In quale stato son’ora le cose di Fiandra?

D. Giovanni. In pessimo stato per noi. La fierezza del Duca d’Alba ha inaspriti gli animi di quelle genti, e la recisa testa del Conte d’Egmont ha renduto loro odioso il nome Spagnuolo. Colla clemenza, e colla umanità si vincono i popoli, non colle straggi, e col sangue. Ah troppo improvido fu il vostro consigli di scender dal trono prima che le sparse, e dissipate membra d’un si vasto Imperio fossero da uniforme, e concorde spirito animate, e sotto un medesimo capo unite, e composte.

Carlo. A ciò m’indusse la stanca età, la quale dopo tante cure, e tante fatiche, dimandavami alcuni anni di placida, e riposata vita.

D. Giovanni. Ma ben sapete, come debbono i Regnanti il proprio riposo alla salvezza de’ Sudditi.

Carlo. Pur non mancò chi quella risoluzion mia celebrasse col glorioso titolo di filosofica magnanimità.

[281] D. Giovanni. E quando mancaron mai anche alle meno lodevoli azioni de’ Principi gli adulatori? Ben sarà Carlo V. ne’ futuri tempi proposto qual chiaro esempio da imitare nel governo di un regno, ma gli accorti Principi non l’imiteran certamente nel rinunziarlo. ◀Dialogo ◀Livello 3

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Dialogo VII.
Augusto, ed Orazio.

Dialogo► Augusto. Accostati, o Venosino, che anche quaggiù con piacere io riveggo uno di que’ felici ingegni, che tanto il mio regno illustrarono.

Orazio. Ed io riveggo ben volontieri quel, che con tanta cura protesse, e sotto alla benefica ombra reale accolse le buone arti, e le muse.

Augusto. Un tal esempio seguir dovrebbono tutti i Regnanti.

Orazio. Nè per il pregio solamente delle belle arti, e delle auree lettere in se, ma per il vantaggio ancora che al Protettore ne torna, danno i sublimi mi (sic!) Scrittori eterna vita al nome di un Principe, e le vere virtù sue spargono di più chiara luce e quelle sovente in lui fingono, ch’egli non ebbe per avventura. Il che io dirò, con vostra pace, essere avvenuto di voi.

Augusto. E che? Ti sembro io forse non degno in tutto di quella fama, in ch’è salito il mio nome?

[282] Orazio. Non voglio oppormi io già al comune applauso che con quei pregi, che in voi rilussero, e con alcune lodevoli azioni vi meritaste: dicovi solo, che senza le donate ville, e il largo, e cortese favore, onde amici vi rendeste i più colti ingegni del vostro secolo, sarebbe certamente la memoria vostra fra gli uomini assai men bella, ch’ella non è. E in vero s’io vi considero prima di salire al trono, altro non trovo in voi, che un barbaro, e crudel promotore del Triumvirato, e della proscrizione; veggo le natie contrade sparse di stragi, e di sangue: veggo la misera Patria, contro le straniere forze dagli antichi nostri difesa, da un proprio figlio dilacerata ed oppressa.

Augusto. Cose, io nol nego, funeste e gravi a me stesso, ma necessarie. Da me richiedevale e l’invendicata ombra di Cesare, e la condizione de’ tempi. Era già spento nel Senato, e nel Popolo l’antico spirito di libertà: nè mal s’appose chi Bruto, e Cassio chiamati avea gli ultimi de’ Romani. Deposto adunque il vano pensiero, due volte sortomi in core, di far rivivere la Repubblica, diedi a’ Romani quelle catene, che già chiedevano, e sol presi ogni cura di renderle col giusto e mansueto impero men dure e pesanti. E così appunto io feci, e regnai felice in guerra, felice in pace, temuto da’ nemici, e venerato da’ sudditi.

Orazio. Non mi negherete però, che di si prosperi successi gran parte non ne dobbiate alla cangiata costituzion delle cose, che preso aveano un placido corso, e al consiglio, e al valore di que’ grand’uomini, alcuni de’ quali la dubbia mente vi dirigeano nel gabinetto, ed altri debellavano nelle batta-[283]glie i nemici, lasciando a voi l’onor del trionfo. Così pugnarono Irzio, e Pansa per voi: cosi pugnò per voi Marc’Antonio: e così finalmente il medesimo Antonio colla regia Amante dall’intrepido Agrippa fu vinto. La poca vostra fermezza d’animo, e la poca militar disciplina fu la cagione, per cui la decima Legione, avvezza a combattere sotto il comando, e coll’esempio di Cesare, alcuna volta mostrò sì aperto disprezzo di voi. E veramente assai più, che per le fatiche di Marte, nato eravate per la dolce compagnia de’ Poeti, e per gli amori delle gentili e brillanti Dame, da voi con tanto ardor coltivati, non già per sapere, com’altri credea, i segreti de’ loro mariti, ma bensì perchè vi piacevano.

Augusto. Quelle lodi, che tu mi desti un tempo, me le ricambi ora con altrettanti rimproveri, e colla Oraziana mordacitá.

Orazio. Non vi sdegnate, o Signore. E se già vi piacquero le lodi, onde foste da me, e dagli altri celebrato, e che tanto vi aggiunser di gloria, non increscavi ora d’intendere da un Poeta

la verità, quando nè a voi gloria apporterebbe, nè ai Poeti vantaggio l’adulazione. ◀Dialogo ◀Livello 3

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Dialogo VIII
Carlo XII. re di Svezia. e la contessa di Konigsmarck

Dialogo► Carlo. Voi certamente vi lusingate, o Madama, che tanta bellezza, e tante grazie aver dovessero un più felice successo, nè creduto avreste, che appena [284] d’un fugace sguardo degnandovi, io mi partissi da voi.

Contessa. Io nol credea certamente: pure nelle deluse mie speranze mi confortò il pensare, che Carlo non temeva altri, che me.

Carlo. Non e viltà negli Eroi un siffatto timore. L’amore, a tant’altri funesto, esserlo potea a me ancora, arrestando il prospero corso delle mie vittorie, ed estinguendo, o scemando almeno 1’ardor guerriero, che mi chiamava alla gloria.

Contessa. Meglio era forse per la Patria vostra, e per voi: che nè essa vedute avrebbe esauste le sue ricchezze, e giacente il commercio, e il fiore delle sue genti ai vani e temerarj vostri disegni sacrificato; nè voi dopo la funesta giornata di Pultowa, e l’infelice spedizione in Ukrania, e le romanzesche imprese di Bender, sareste in Svezia tornato errante, e ramingo, maggiori prove lasciando d’un folle ardire, che d’eroismo. Eroi ci furono, e assai più grandi, e nel tempo stesso a una bella passione meno ritrosi, e delle gentili Donne più amanti di voi.

Carlo. Ben so, che in maggior pregio sarà presso di voi e un Annibale, che perdendo il frutto delle felici battaglie, e dell’abbattuta Roma scordandosi, in molle ozio langui fra le delizie di Capua; e un Marc’Antonio, che dal vittorioso Augusto colla disperata regina vergognosamente fuggì.

Contessa. Tutte le cose, comecché ottime in se, possono col meno retto uso in altrui danno rivolgersi. Se alcuni alle amorose catene troppo vilmente s’abban-[285]donarono, fu colpa loro, non già d’amore. Sovvengavi, per lo contrario, di un Cesare, e lo vedrete di quella stessa Regina fortunato Amante, e conquistator dell’Imperio. Mirate un Luigi XIV. e lo troverete colle belle, e leggiadre Dame di Francia amoroso, e brillante, e saggio del pari nel gabinetto, e valoroso nel campo. Volgetevi finalmente a quel vostro Emulo illustre, a quel Creatore de’ Russi, e vi dirà quanto a lui fosse propizio l’amore, e quanto egli debba alla magnanima Eroina del Pruth. Che oltre la lusinghiera bellezza, onde s’accende negli umani petti l’amore, abbiamo e animo, e costumi, e valore per meritarlo; e sovente da quei begli occhj, onde ricevono agli onorati sudori alleviamento, e ristoro, apprendono anche il dover loro gli Eroi. Se con un altro io ragionassi delle amorose Donne meno nemico, direi quanto il commercio loro affini il più rozzo intelletto, e i delicati sentimenti risvegli, e le altrui maniere ringentilisca. A voi dirò solo, che quell’inumano genio e feroce, che i barbari oggetti dell’armi inspirano ai Conquistatori, è dalle amabili Donne temperato e raddolcito in gran parte. E questo sarebbe di voi pure avvenuto: avrebbe l’amore la natural fierezza del vostro cor mitigata, nè andrebbe forse quaggiù della crudeltà vostra dolendosi l’ombra sdegnosa del troppo per sua disavventura intrepido e generoso Patkul.

Carlo. Io m’immagino che vi sarete più volte scambievolmente confortati, egli della sua morte, e voi del mio disprezzo.

Contessa. Insieme ne ragionammo alcuna volta: egli in [286] voi condannò un ingiusto persecutore, io un selvatico abitatore del Nord. ◀Dialogo ◀Livello 3

G. C. [Giuseppe Colpani] ◀Livello 2 ◀Livello 1