Citazione bibliografica: Pietro und Alessandro Verri (Ed.): "VIII", in: Il Caffè, Vol.1\08 (1766), pp. NaN-110, edito in: Ertler, Klaus-Dieter / Fuchs, Alexandra (Ed.): Gli "Spectators" nel contesto internazionale. Edizione digitale, Graz 2011- . hdl.handle.net/11471/513.20.4310 [consultato il: ].


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VIII

Livello 2► Livello 3► onde [96] Orazio, Scevola, e per fine il sesso imbelle di Clelia, tutti dal nuovo vigore di libertà animati, fero attonite le genti; son domi i nemici dallo stupore di tanta virtù; e Valerio Pubblicola benchè Console (gran prova ch’era il governo Repubblicano) muore si povero, che li Funerali songli fatti a pubbliche spese. Altro non dubbio segno, che Roma era Patria, e Patria amata da’ suoi Cittadini, in che consiste la felicità delle Nazioni, fu l’aver dato licenza con un Senato Consulto alle Donne Latine sposate ai Romani, ed alle Romane sposate ai Latini di ritornare ciascune alle case loro, e l’essersi le Latine fermate a Roma, e le Romane spose dei Latini alla Patria ritornate.1

In tale Stato di cose resistè il Romano Popolo agli implacabili Tarquinj, che i Toscani, i Latini, ed altri Popoli eccitavano contro di Lui, ed al Lago Regillo il primo Dittatore Postumio uccide, e fa prigionieri 30 mila Latini. Videsi allora, qual differenza passi dal valore di soldati liberi a quello di schiavi, poiché libertà, e vittorie rapidamente si succedettero.

Ma questo fu un momento di Repubblica, giacchè cominciarono le gare civili fra i Nobili, ed i Plebei, e crebbero a segno, che questi ricusarono di andare alla Guerra contro de’ Volsci, e da ciò [97] ben comprendesi, che i soldati non guerreggiavano per proprio utile, ma per l’altrui. Allora il Console Servilio trionfò malgrado la proibizione fattagli dal Collega, ed il non comando del Senato. Veggasi da ciò, s’ella era Democrazia questa, in cui tanto era lecito ad un Console, quando che pochi anni prima il Console non potea nemmeno avere una Casa più alta di quelle de’ Plebei. Di fatto ben presto i Nobili, cioè i più ricchi, la Plebe cominciarono a deprimere, ed ella, passata la metà del secolo terzo, si ritirò nel Monte sacro, dolendosi che i Nobili per tenerla schiava la impegnassero in continue esterne guerre. Creossi allora il primo Tribun della Plebe, e Coriolano volendo abolire questo nuovo Tribunale, viene esiliato dal Popolo. Ma è forse Roma libera per questo? L’esule Coriolano collegasi co’ Volsci, e riduce la Patria a chiedergli pace, e perdono, benchè ribelle. Quindi Cassio, che cerca colla pubblicazione di una Legge Agraria di favorire l’eguaglianza de’ beni, vien rovesciato dalla rupe Tarpea, Cittadino illustre per tre Consolati, e due Trionfi. Tale era lo spirito di quella, chiamata si facilmente Repubblica, nella quale i Plebei eran Clienti, ed i Nobili Patroni, cioè questi Padroni, e quelli servi; del che puossi convincere chiunque esamini le antiche Leggi di Roma intorno ai Clienti, e patroni.

Tutti i vicini voleano pur distruggere questo nascente Impero, ed egli non dovea la sua sussistenza che ai continui suoi sforzi per conservarsi. Per il che in Campo Marzio s’induri ogni Cittadino alle fatiche guerriere, ed ognuno fece del suo corpo una vittima alla Patria. La lotta, il corso, il cesto, ed ogni penosa fatica incallirono la sensibilità, sempre preparandosi ad una gloria avvenire [98] colla perdita dell’attuale ben essere. So, che il fanatismo della gloria, ed il vivissimo piacere di sovrastare alle emule Nazioni poteano compensare i continui disagj d’una vita durissima; ma tali sentimenti non credo io già, che saranno nati nel cuore della maggior parte de’ Cittadini, pochi essendo gli uomini capaci di quell’ estro trionfatore; che gli muove alle grandi azioni a traverso d’ogni stento, e d’ogni fatica. Bruto, Scipione, Attilio, Valerio poteano avere un’anima grande; ma il volgo, benchè volgo di Roma, non credo io che si nodrisse di grandi sentimenti. Un popolo di Eroi è una chimera, ed in ogni società d’uomini il numero de’ sublimi è sempre il minore. Onde tutta quella durissima militar disciplina, descrittaci da Vegezio, che noi risguardiamo come un effetto dell’eroismo, era piuttosto un’ effetto della ferocia istessa de’ loro costumi. La forza de’ muscoli e l’agilità del corpo era il solo pregio de’ Romani. Ed io in fatti alla parola virtus eglino non attaccavano le nostre idee, ma bensì l’idea della forza; e fu poscia in seguito chiamata virtù l’abitudine di esser utile alla società; e con tal nome a ragione chiamossi allora la forza, come la qualità più utile alla Patria in un governo guerriero.

Al principio del quarto secolo li Romani abbisognarono di Leggi, e quasi che non sapessero essere legislatori, mandarono a mendicare la greca Sapienza. Funesta fu tal spedizione, poichè i Decemviri eletti a raccoglierle, e promulgarle s’eressero in Tiranni. Ritornò la Plebe nel Monte sacro lasciando la vuota Città in preda alla Tirannia. Fu spento col dispotismo ogni resto di virtù; e fecesi allora quel vilissimo, ed iniquissimo giudicio fra gli Aricini, ed Ardeati. Questi confinan-[99]ti Popoli avendo rimessa la controversia di un campo limitrofo fra di loro a’ Romani, eglino finirono la causa coll’usurparselo.

Appena la Plebe comincia a togliersi dalla depressione de’ Nobili potenti; aggiungendo al Tribun della Plebe il diritto di avere il Matrimonio comune co’ Nobili, che ricusavano gli soldati di andare alla guerra, onde vien loro fissato circa all’anno CCCXVIII. lo stipendio del danaro pubblico; ed il mestiere della guerra, che pria faceasi con non altra ricompensa che con quella che dà la gloria, cominciö a divenir venale.

Scendono i Galli dalle Alpi nel CCCLXIII.; distruggono Roma; e poco mancò, che per fin la di lei memoria non s’annientasse; e Manlio difensor del Campidoglio, troppo favorito dalla Plebe; viene gettato dalla rupe Tarpea; miseramente sfrantumato alle falde di quel Colle, ch’era monumento di sua gloria, e del suo supplicio.

Mentre; che sono incerti, e fluttuanti i confini dell’autorità della Plebe, e de’ Nobili, fannosi lunghe; continue; e sanguinose guerre coi Volsci, coi Galli Insubri, coi Tiburtini, Falisci, Tarauiniesi. Pure malgrado tanto esercizio di guerreggiare, al principio soltanto del quarto secolo si spinsero, l’armi Romane nella Magna Grecia, appresso a poco il Regno di Napoli d’oggidì. Malcontenta di nuovo la Plebe ritirasi per la terza volta nel Monte Gianicolo. Quale era mai la felicità di questo Popolo sempre impiegato in durissime guerre, e costretto ogni tratto a fuggire la tirannia de’ Nobili?

Ma successe un fenomeno nel Popolo Romano, ben raro a mio avviso; poichè il Popolo sempre turbolento, ed oppresso scosse a poco a poco il giogo della servitù; quindi nell’anno CCCLXXXIV. Set-[100]timio Laterano fu Console, benchè Plebeo; e nel CDLIII stabilissi, che anche gli Plebei potessero eleggersi Auguri e Pontefici. Quest’Epoca è memorabile per il Popolo Romano, attesa l’influenza della religiosa impostura sul sistema di Governo. In altre Nazioni con violento moto fu in un lampo decisa la gran questione, se doveasi esser libero, o schiavo; ma il Popolo di Roma si tolse a poco a poco dal giogo de’ Potenti, e per ben cinque secoli ora un privilegio, or l’altro ottenendo, divenne si licenziosamente libero, che pesògli la sua indipendenza istessa. Ella è indole del Popolo d’animarsi, e fermentare tutto ad un tratto, di torsi violentemente dalla tirannia; ma il Popolo Romano, con arte, con politica, con costanza intraprese, ed esegui il progetto di esser libero, del che non era al certo debitore a se, ma piuttosto alla saggia ferocia de’ suoi Tribuni.

Ma breve fu il periodo di questa libertà, che anzi appena fu ella rapita dalle mani de’ Nobili, che ritornossi a perdere per non mai riacquistarla. Dal tempo de’ Gracchi Roma cadde sempre nel Dispotismo; e tanto a poco a poco v’inclinò, che ogni cosa dipendè dalla volontà di un solo. Misera, e luttuosa fu la sorte di questa Nazione nel tempo stesso della sua grandezza, mentre che Silla, Mario, Cesare, Pompeo se la disputavano. Le proscrizioni, le accuse segrete, ogni sorta di frode, e di tenebrosa crudeltà succedettero al fanatismo d’una disprezzata, e pericolosa virtù; e dopo le stragi di più di un secolo ebbe Roma sotto Augusto quella pace, che nacque dalla impotenza di esser libera. Ella fu una mancanza totale di moto. Or rivolgi, se ‘1 puoi senza fremere nell’intimo del cuore, il pensiero ai tempi de’ Tiberj, Neroni, Claudj, Domiziani, ed a tutta quella orrenda schie-[101]ra di mostri, la di cui sola vendetta, ch’or rimane a farsi, e di odiarli, o seppelirli nell’obblio.

Lo spazio di cinque secoli impiegato in dure, e continove guerre non bastò per conquistare tutto quel Paese, che Italia chiamiamo oggidì, onde infinito sangue si sparse per conquistare una piccola pennisola. Quindi vennero le tre lunghe, e terribili guerre Puniche, per il che per ben sette secoli il Popolo Romano mai non cessò di guerreggiare da Romolo fino ad Augusto, se non eccettuato qualche intervallo di pace sotto di Numa. Quanto barbari fossero per tal cagione i costumi, quanto crudele fosse la sua superstizione, ce ne fa fede l’orrendo sacrificio a’ Dej d’Averno di un Uomo, e di una Donna delle Gallie, e di un Uomo, e di una Donna Greci fatto nel Foro Fabio, allorchè Annibale discese in Italia con portentosa prestezza. Duro, ed insopportabile era altresi il Romano Governo nelle Provincie, poichè i Galli Insubri, i Liguri, e le Spagne sempre furono ribellanti; e molte Città delle Spagne ridotte alla disperazione s’arsero con tutti i loro Cittadini. Il barbaro costume di uccidere i prigionieri proprio delle selvagge Nazioni fu adottato da’ Romani, e CCCL. Tarquiniesi de’ più illustri furono frustati, poscia uccisi nel Foro Fabio; ed altro rimarcabile esempio di ferocia si fu quello di CLXX. Matrone Romane, che tramarono di avvelenare i loro Mariti.

In vano cerchi fra quel Popolo di Guerrieri, e fra quelli Eroi o le arti, o le scienze, o i comodi della vita. Di ciò ne sia prova l’essersi veduta in Roma la prima moneta argentea l’anno CCCCXXXVIII., ed un mal organizzato Orologio fu esposto, ed ammirato in pubblico l’anno CCCCXC. [102] 2 , e vi fu portato dal Console Valerio dopo la presa di Cattania. Nè conobbe questo Popolo trionfatore i piaceri della vita, che dopo la distruzione della sua grand’emula; e Siracusa, e Corinto, e le ricchezze del Re Attalo nuova foggia di vita gl’insegnarono. Allora fu odiata l’eguaglianza delle fortune, e nell’anno DCXX. il proporre che fece Tiberjo Gracco la Legge Agraria fu lo stesso, che il farsi trucidare. Ma malgrado il lusso, e la mollezza de’ costumi, che meritossi tante declamazioni, Roma molle, ed effeminata fu più grande, e conquistatrice di Roma parca, e frugale; e rispose alla stoica severità di Catone colle vittorie di più secoli, finchè giunse ad avere l’adulazione di que’ poco Geografi Scrittori, che la nominarono Regina dell’Universo.

In vista di questi fatti giudichisi, se veramente la grandezza fece i Romani felici. Il decidere tal questione sarebbe un’opera di una immensa erudizione, e fors’anco ripor dovrebbesi fralle impossibili. Poichè se tanto c’inganniamo ogni giorno nel decidere della felicità, od infelicità degli uomini in particolare, quanto più sarà dubbiosa la decisione intorno ad una intiera Nazione? Nel che io mi confermo pensando, che le Storie altro per lo più non ci forniscono che la cognizione degli universali avvenimenti; ma di condurci col pensiero nei Gabinetti della Politica, e nelle Capanne de’ Plebei; di esaminare la felicità, la morale, i costumi d’una Nazione, e i piccioli ordigni, con cui bene spesso movonsi gli’Imperj, ben di ra-[103]do il fanno. Per il che io non pretendo d’aver deciso della felicita de’ Romani, ma d’aver dubitato, unica strada che rimane a chi vive quasi due mila anni dopo di loro, e che altro di essi non può sapere, che quanto in pochi Libri contiensi, l’autorità de’ quali passata al traverso di molti secoli, e di molte passioni è ragionevolmente sospetta: Poichè se cedono al tempo gl’Imperj, la gloria, e ‘1 globo istesso ha le sue rivoluzioni, egli è ben di ragione il credere, che pochi Libri per tante mani, e tanti trascrittori passati, sieno stati soggetti a sensibili mutazioni. E chi sa di qual conseguenza non fossero poche righe sole cangiate, inserite, o tralasciate? ◀Livello 3 Metatestualità► Onde se in questo mio breve ragionamento le mie asserzioni non fossero talvolta geometricamente evidenti, sarà utile il ricordarsi, ch’io vivo nel decimo ottavo secolo, e che scrivo d’una Nazione, che esistè prima dell’Era Cristiana. Per fine se ho trattato quest’ampio soggetto troppo di fretta, e se molt’altre cose rimangano a dire, per ora mi basti d’esporre le presenti alla fortuna del pubblico, giudizio. ◀Metatestualità A. [ALESSANDRO VERRI]

La festa da ballo

Oh quanti sbadigli, quanti stiramenti v’erano ieri mattina al Caffè! Gente che era stata tutta la notte al Ballo, gente annojata, e che voleva far credere d’essersi divertita, veniva in folla a ricercare qualche sorte di vita, e a ripigliare un po’ di vigore alla spossata sensibilità con una tazza del nostro eccellente Caffè. Il nostro Demetrio era tutto in facende, e di tratto in tratto mi slanciava qualche occhiata greca furbissima, perchè egli ed io eravamo i soli, che dopo aver ben [104] cenato la sera, ben dormito la notte, colle gambe in vigore, colla mente senza nebbia, godevamo del dolce sentimento di non esistere male fra tanti che combattevano colla lassitudine, col sopore, e colla incallita sensibilità. Pallidi e sformati erano i volti, rauca la voce, scomposti gli abbigliamenti, stordita la testa. Chi aveva mal di capo, chi mal di gola, chi una potentissima tosse. Oh che spedale, Lettori miei, che era mai quello! Basta, dopo aver distribuita una mezza botte di Caffè, un dopo l’altro partirono tutti i nostri nojosamente divertiti, e restammo soli Demetrio ed io, onde ebbimo tutto il campo di ragionare sulla scena, che ci era presentata.

Livello 3► Racconto generale► Mi raccontò allora Demetrio, come ne’ primi mesi dopo il suo arrivo da noi, un suo Amico gli propose di venire una sera al Ballo, ed ei curiosissimo di conoscere le usanze, ed i costumi de’ Paesi, accettò l’invito, e si preparò a godere d’un delizioso spettacolo. Venne la sera ed entrato appena nella sala del Ballo restò offeso dall’aria veramente malsana, che vi si respira, e che si manifesta e per la sensibile polve, che viene ad imbrattarvi il viso, le mani, gli occhi, e la bocca, e per quel sciagurato potpourry di odori di materie passate per gli ureterj, di arrosti, di traspirazione di corpi non tutti mondi, e di altre simili cose non certamente amene all’immaginazione. Appena, disse Demetrio, m’avvidi, che era pur forza, che alternativamente entrassero nel mio polmone tanti rifiuti d’altri uomini, appena mi sentii rosicar la pelle, impa-stare la bocca, e causticamente rodere gli occhi da tante materie eterogenee immiste in quell’aria, che mi trovai mal contento di esservi venuto. In fatti i Greci e gli abitatori tutti di quelle felici contrade sono avvez-[105]zi a respirare l’aria del Peloponeso imbalsamata dagli aranci, ed a cercare il piacere ne’ giardini, dove la natura tutta depurata ed abbellita sembra sollevarli al di là della condizione dell’uomo terreno; ne può far maraviglia, se la grave, la malsana, la ferida ammosfera, in cui Demetrio si trovò trasportato, gli parve un cattivo preludio per trovar ivi il piacere. Pure, rinvenuto Demetrio da questa prima scossa, girò l’occhio intorno per incontrarsi nei leggiadri Ichinguis (tale è il nome, che nell’Impero Ottomano dassi ai Ballerini) e non rincontrando altri che uomini e donne, vestiti tutti a lutto con nere gramaglie, s’accrebbe la sorpresa di lui sentendo, che non già ad un Funerale, ma ad un ballo cosi si costuma da noi di vestire, e che tutti gli uomini e donne che ivi vedeva erano tutti gli Ichinguis. Stette quasi per ritornarsene Demetrio a fare i fatti suoi, ma la curiosità di veder tutto lo trattenne ancora. Vide egli dunque molti Ichinguis, che passeggiando in costa ed inciampando in chi voleva passar loro frammezzo si davano ora la dritta, ora la sinistra con una serietà, colla quale si tratterebbe un affare di Stato, indi contenti d’aver ballato dieci Minuetti sbadigliavano soavemente sdraiati su una sedia. Vide Demetrio delle file, ossia delle lunghe strisce irregolari di Ichinguis grandi, piccoli, zoppi, gobbi, le quali si movevano e s’intrecciavano senza che alcuno potesse intenderne la simetria, e fra quelle due strisce ora cadeva un cappello, ora nel presentare sollecitamente la mano si dava un’ amoroso pugno, ora un buon piede impresso sul lembo della tonaca nera della donna gliela lacerava, sudavano frattanto, e si smaniavano, e facevan polvere molta gli Ichinguis, sin che giunti alla estremità della striscia protestavano di non po-[106]terne più, e quasi esiggevano la compassione de’ spettatori per una fatica, che non avevano intrappresa, nè per far bene ad alcuno, nè per divertire se stessi, malgrado la sperienza di tre mila volte di seguito, nelle quali si sono nojosamente stancati. Frattanto le trombe, i timpani, e contrabassi, avrebbero proibito ogni uomo di poter ragionare per poco con un altro, quando il continuo vagare della maggior parte, e l’urto, e il passaggio irregolare non l’avessero già reso difficile. In fatti cercando sempre il piacere vanno errando da una parte all’altra della Sala molti ammantati colle nere zimarre, e il piacere si rifugia sempre altrove. Quindi tutti i viventi che s’incontrano fra quelle innumerevoli linee incrocicchiate, destinate all’errore dei passeggianti, ricevono urti e scosse tali, che chi volesse parlare non sarebbe mai sicuro verso qual parte del Mondo debba terminare un periodo già innoltrato. I seguaci di Macone anche più fervidi ivi non potrebbero fare certamente le lor preghiere rivolte alla Mecca.

Almeno, soggiunse Demetrio, almeno avessi potuto vedere qualche oggetto, che mi ricompensasse di tutt’i mali che soffriva; ma le donne erano coperte il volto con una tela annerita, e con una melanconica barba di velo nero, gli uomini con una maschera, che aveva l’aspetto d’un cranio umano imbianchito; e chi russava sonoramente da una parte, chi spalancava eloquentissimamente la bocca dall’altra, annunziandoci il tedio mortale, in cui era assorto, chi svogliatamente andava errando con un perpetuo moto, sin tanto che la pazienza del buon Demetrio fu tutta esaurita, e se ne venne a casa sua più convalescente che sano, ripetendo quel detto d’Orazio: Livello 4► Citazione/Motto► Sic me servavit Apollo? ◀Citazione/Motto ◀Livello 4

[107] Demetrio non v’incappa più. Oh uomini, si pose egli ad esclamare, oh uomini che volete avere la definizione di Animali ragionevoli; non basta a voi l’aver trovata nel mondo la febbre, la podagra, il mal di pietra, e l’infinita schiera degli altri mali innestati alla natura umana, che volete anche cambiare in tormenti veri e reali quelle azioni, che avete destinate alla vostra gioja! Oh uomini non sapete ancora, che l’indole d’ogni piacere è di essere di breve durata, e che protraendo per tutta la lunga notte d’inverno i vostri baccanali, quand’anche fossero tutti all’opposto di quello che pur sono, dovete ritornarvene carichi di noja! Oh uomini non sapete ancora, che l’uniformità e la madre del tedio, e che una variata successione di oggetti è la sola, che può tenervi l’animo in un dolce movimento, e che perciò condensando tutti i vostri tetrissimi, lunghissimi balli in un solo mese dell’anno, e ripigliandoli più volte la settimana dovrebbono stomacarvi, quand’anche fossero le Feste che davano le Fate ne’ Romanzi! Oh uomini . . . ◀Racconto generale ◀Livello 3 Bel bello, caro Demetrio, soggiunsi io, lasciate a parte le vostre Filippiche, lasciate lo stile del patriota vostro Demostene; ne patirebbero i vostri polmoni, e gli uomini non si cambieranno per tutto ciò. Gli uomini cercano il piacere, ma la maggior parte degli uomini crede di trovar piacere negli oggetti, dove si dice che vi si trovi, e quando non ve lo trovano, essi ne incolpano se stessi anzi che rivocare in dubbio l’autorità della moltitudine; onde per non aver la taccia di avere un guasto sentimento del buono, fingono di avere gioja, laddove adoperano sforzi infiniti per farla comparire. Cosi la moltitudine composta tutta di individui, che rispettano il parere della moltitudi-[108]ne, è un vero composto di tanti uomini, i quali non palesano il loro vero sentimento, ma bensì ciascuno lo simula credendo, che gli altri non lo simulino.

Ebbene, soggiunse Demetrio, io lascio le mie declamazioni, lasciate voi le vostre riflessioni filosofiche, e se volete questa primavera nel mio Casino fuori di Città balliamo ogni quindici giorni per tre o quattr’ore. Avremo dodici Signore, avremo venti Signori. La Sala è comoda, l’aria salubre, a mezza notte il ballo sarà finito. Vi darò una cena dilicata e non pesante; ritornerete sani e allegri alle vostre Case, e vedrete che è miglior mestiero il passar bene il nostro tempo, ed il cercare i piaceri nostri di quello che non lo sia colle declamazioni, o colle ragioni il voler insegnare alla moltitudine, a passar bene i suoi giorni, cosa che non farà mai.

Cosi terminò la nostra conversazione. Entrò nella Bottega in quel punto un nuovo sonnacchioso, venuto dal ballo, il quale si disperava pensando di dovervi ritornare fra poche ore, quasi che dovesse perire lo Stato, s’egli vi avesse mancato; Metatestualità► ed io me ne venni placidamente verso mia Casa a scrivere questo fatto, e mi preparo a godere delle deliziöse feste del mio Demetrio. Frattanto ecco il seguito delle Osservazioni meteorologiche. ◀Metatestualità

P. [PIETRO VERRI]

Livello 3► Lettera/Lettera al direttore► Il Termometro è una piccola Macchina molto interessante anch’essa per l’Uomo. Le conseguenze derivate dalle osservazioni de’ moti della medesima sono molto relative a differenti gradi di calor del corpo umano, o dell’aria, o degl’altri corpi, che immediatamente lo circondano. Metatestualità► Sino dal Dicembre 1755. ho marcati a ore fissate, e scritti i diversi fenomeni di questo stromento, ed [109] eccovi in breve ciò, che fino al di d’oggi vi ho veduto. ◀Metatestualità

La minore altezza del Termometro, ossia il maggior freddo effettivo, che in tutto questo tratto di tempo ho io osservato, fu nell’anno 1758. il giorno 27. Gennajo, nel quale di il Termometro a Mercurio, graduato colla scala del Signor di Reaumur abbassò a nove gradi sotto il termine del ghiaccio, e nel 1763. il 5. Gennajo parimenti a nove gradi sotto il freddo del ghiaccio, essendosi trovato otto giorni prima a 8 1/2 sotto il termine suddetto. Il maggior caldo effettivo, o la maggiore altezza dello Termometro da me veduta in tutto il già nominato tratto di tempo sino al di d’oggi, è stata ne’ giorni 8. 9. Agosto 1757. 29. Giugno 1760. e 22. Luglio 1762. a gradi 29. sopra la nulla.

Ne’ miei giornali trovo, che ordinariamente il maggior freddo in Milano accade tra li 21, Dicembre e la metà di Gennajo, ed il maggior caldo dalla fine di Giugno a tutto Luglio, ed alle volte anche fino alla metà di Agosto; dipendendo il più, o il meno del caldo, e del freddo dalla combinazione de’ venti colle piogge, o colle nebbie, o coll’asciuto.

Ho costantemente col Termometro osservato, che il vento di Mezzodì è sempre il più caldo, o il men freddo in tutto l’anno. Quello di Tramontana il più freddo nell’Inverno. Quello di Ponente il meno caldo nella State, massimamente di notte; ed il vento di Levante il più umido in tutto l’anno. Più volte ho io medesimo sperimentato sentendomi in un eguale stato di salute, tranquillità di moto, e di spirito; e per quanto nell’atto istesso venivami confermato dall’asserzione di altri [110] che trovavansi nelle eguali disposizioni alle mie, secondo era l’aria o nuvolosa, e nebbiosa, od umida, o asciutta e ventosa, o serena e tranquilla, differente era parimenti la sensazione, che provavano, cioè di maggior o minore ◀Lettera/Lettera al direttore ◀Livello 3 ◀Livello 2 ◀Livello 1

1Questo fatto tuttochè stano io lo suppongo vero, poiché ragiono sopra i Dati, che mi somministra la Storia, senza entrare in un critico esame; lo riferisce Dionigi d’ Alicarnasso Lib. V. cap I.

2Plinius. H.N. L.8. Cap. 60. ultim.