Il Caffè: I
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Il Caffè.
Così terminò di parlare Demetrio; ed io credetti al suo discorso, poiché lo trovai conforme a
quanto ne aveva letto nelle Memorie dell’Accademia Reale delle Scienze di Parigi dell’anno 1713. in
un Memoire del Sig. Jussieu, a quanto ce ne attestano i Viaggi dell’Arabia felice del Sig. La Roque,
del Cav. di Marchais, le Memorie del Sig. Garcin. Ma poichè ebbe terminato il suo ragionamento
Demetrio, s’alzò il Curiale e uscì dalla bottega ripetendo: Gran fatto, che quel legume del Caffè,
quella fava, ci debba venire sino da Costantinopoli! P.
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Metatextualität
Cos’è questo Caffè? È un foglio di stampa che si pubblicherà ogni
dieci giorni. Cosa conterrà questo foglio di stampa? Cose varie, cose disparatissime, cose inedite,
cose fatte da diversi autori, cose tutte dirette alla pubblica utilità. Va bene: ma con quale Stile
saranno eglino scritti questi fogli? Con ogni Stile che non annoj. E sin a quando fate voi conto di
continuare quest’Opera? Infin a tanto che avranno spaccio. Se il Pubblico si determina a leggerli
noi continueremo per un anno, e per più ancora, e in fine d’ogni anno dei trentasei fogli se ne farà
un tomo di mole discreta; se poi il Pubblico non li legge, la nostra fatica sarebbe inutile, perciò
ci fermeremo anche al quarto, anche al terzo foglio di stampa. Qual fine vi ha fatto nascere un tal
progetto? Il fine d’una aggradevole occupazione per noi, il fine di far quel bene, che possiamo alla
nostra patria, il fine di spargere delle utili cognizioni fra i nostri Cittadini divertendoli, come
già altrove fecero e Steele, e Swift, e Addisson e Pope, ed altri. Ma perchè chiamate questi fogli
il Caffè? Ve lo dirò; ma andiamo a capo.
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Allgemeine Erzählung
Un Greco originario di Citera, Isoletta riposta fra la Morea, e
Candia, mal soffrendo l’avvilimento e la schiavitù, in cui i Greci tutti vengon tenuti dacchè gli
Ottomani hanno conquistata quella contrada, e conservando un animo antico malgrado l’educazione, e
gli esempj, son già tre anni che si risolvette d’abbandonare il suo paese: egli girò per diverse
Città commercianti, da noi dette le scale del Levante; egli vide le coste del Mar Rosso, e molto si
trattenne in Moca, dove cambiò parte delle sue merci in Caffè del più squisito che dare si possa al mondo; indi prese il partito di stabilirsi in Italia, e da Livorno sen venne in Milano,
dove son già tre mesi che ha aperta una bottega addobbata con ricchezza ed eleganza somma. In essa
bottega primieramente si beve un Caffè che merita il nome veramente di Caffè; Caffè vero verissimo
di Levante, e profumato col legno d’Aloe, che chiunque lo prova, quand’anche fosse l’uomo il più
grave, l’uomo il più plombeo della terra bisogna che per necessità si risvegli, e almeno per una
mezz’ora diventi uomo ragionevole. In essa bottega vi sono comodi sedili, vi si respira un’aria
sempre tepida, e profumata che consola; la notte è illuminata, cosicchè brilla in ogni parte l’iride
negli specchi e ne’cristalli sospesi intorno le pareti, e in mezzo alla bottega; in essa bottega chi
vuol leggere trova sempre i fogli di Novelle Politiche, e quei di Colonia, e quei di Sciaffusa, e
quei di Lugano, e varj altri; in essa bottega chi vuol leggere trova per suo uso e il Giornale
Enciclopedico, e l’Estratto della Letteratura Europea e simili buone raccolte di Novelle
interessanti, le quali fanno che gli uomini che in prima erano Romani, Fiorentini, Genovesi o
Lombardi, ora sieno tutti presso a poco Europei; in essa bottega v’e di più un buon Atlante, che
decide le questioni che nascono nelle nuove Politiche; in essa bottega per fine si radunano alcuni
uomini, altri ragionevoli, altri irragionevoli, si discorre, si parla, si scherza, si sta sul serio;
ed io, che per naturale inclinazione parlo poco, mi son compiaciuto di registrare tutte le scene
interessanti che vi vedo accadere, e tutt’i discorsi che vi ascolto degni da registrarsi; e siccome
mi trovo d’averne già messi in ordine varj, così li dò alle stampe col titolo Il Caffè, poichè
appunto son nati in una bottega di Caffé.
e convien dire, che vi sia realmente una intrinseca perfezione nel vestito Asiatico in
paragone del nostro, poichè laddove i fanciulli in Costantinopoli non cessano mai di dileggiare noi
Franchi, qui da noi, non so se per timore, o per riverenza, non si vede che osino render la pariglia
ai Levantini. Gli Europei che si stabiliscono in quelle contrade vestono quasi tutti l’abito o
Armeno, o Greco, o talare in qualunque modo, nè se ne trovano male, anzi rimpatriando risentono il
tormento del nostro abito con maggior energia, in vece che nessun di essi, stabilendosi fra di noi
nelle Città dove il commercio li porta, può risolversi a fare altrettanto. Noi cambiam di mode ogni
venti’anni, e vedremmo la più ridicola incostanza del mondo se ci si presentasse una collezione
degli abiti Europei da soli quattro secoli a questa parte: i ritratti antichi ce ne fanno fede,
sembra che andiamo ciecamente provandoci con ripetuti tentativi per trovare una volta la forma
dell’involto in cui deve rinchiudersi il corpo umano, che è pur sempre lo stesso; e quel ch’è più si
è, che malgrado tutte le nostre instabilità, e malgrado la sicurezza in cui siamo, che da qui a
vent’anni chi si vestisse come facciamo ora noi sarebbe ridicolo, pure crediamo ridicole
le ragioni medesime che ci dimostrano l’irragionevolezza del nostro vestito. Gli Orientali in vece
tagliano gli abiti loro sulla stessa forma su cui li tagliavano i loro antenati alcuni secoli fa,
poichè quando si sta bene non v’e ragione per variare; l’abito loro perfino e più elegante, più
pittoresco, più sano, più comodo del nostro. Su quest’argomento io scriverei volentieri molte
pagine, se non vedessi che si scriverebbero inutilmente. E sapete perchè che le scriverei? Perche
io, nato, allevato in Italia non ho mai potuto naturalizzarmi col mio vestito; e quando devo ogni
mattina soffrire che mi si sudici il capo colla pomata, che mi si tornenti con cinquecento e non so
quanti colpi di pettine, che mi s’infarini e mi si riempian gli occhi, gli orecchi, il naso e la
bocca di polve; quando vedo rinchiudere i miei capelli entro un sacco che mi pende sulle spalle;
quando mi sento cingere il collo, i fianchi, le braccia, le ginocchia, i piedi da tanti tormentosi
vincoli, e che fatto tutto ciò al minimo soffio d’aria la sento farsi strada sino alla pelle e
intirizzarmi nell’inverno; e devo portar meco un pezzo inutile di panno, che si chiama cappello,
benchè non sia un cappello; e devo portar meco una spada, quand’anche vado dove son sicuro da ogni
oltraggio, nè ho idea di farne; non so contenermi che non esclami: Oh ragionevoli! oh felici
Sartori, Berettieri, e Uomini dell’Asia, ridete di noi che io avete ben ragione di ridere! Son pochi
di dacchè il nostro Demetrio ebbe occasione di parlar del suo mestiere, e ne parlò da maestro. Si
trovavano nel Caffè un Negoziante, un Giovane studente di Filosofia, ed uno dei mille e duecento
Curiali, che vivono nel nostro Paese; io stava tranquillamente ascoltandoli non contribuendo con
nulla del mio alla loro conversazione. Qui Demetrio, il quale in quel punto era disoccupato, prese a parlare in tal
modo:
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Fremdportrait
Il nostro Greco adunque (il quale per parentesi si chiama
Demetrio) è un uomo che ha tutto l’esteriore d’un uomo ragionevole, e trattandolo si conosce che la
figura che ha gli sta bene, nella sua fisonomia non si scorge nè quella stupida gravità che fa per
lo più l’ufficio della cassa ferrata d’un fallito, nè quel sorriso abituale che serve spesse volte
d’insegna a una timida falsità. Demetrio ride quando vede qualche lampo di ridicolo, ma porta sempre
in fronte un onorato carattere di quella sicurezza che un uomo ha di se quando ha ubbidito alle
Leggi. L’abito Orientale, ch’ei veste, gli dà una maestosa decenza al portamento, cosicché lo
credereste di condizion signorile anzichè il padrone d’una bottega di Caffè;
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Il caffè è una
buona bevanda, diceva il Negoziante, io lo faccio venire dalla parte di Venezia, lo pago cinquanta
soldi la libbra, nè mi discosterò mai dal mio corrispondente; altre volte lo faceva venir da
Livorno, ma v‘era diversità almen d’un soldo per libbra. V’è nel Caffè, soggiunse il Giovane, una
virtù risvegliativa degli spiriti animati, come nell’oppio v’è la virtù assoporativa, e dormitiva.
Gran fatto, replicò il Curiale, che quel legume del Caffè, quella fava ci debba venire sino da
Costantinopoli!
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Storia naturale del Caffè Il Caffè, Signori miei, non e
altrimenti una fava, o un legume, non nasce altrimenti nelle contrade vicine a Costantinopoli; e se
siete disposti a credere a me, che ho viaggiato il Levante, ed ho veduto nell’Arabia i campi interi
coperti di Caffè, vi dirò quello che egli e veramente. Il Caffè, che noi Orientali comunemente
chiamiamo Cauhè, e Cahua, è prodotto non da un legume, ma bensì da un albero, il quale al suo
aspetto paragonasi agli aranci ed a’limoni quand’hanno le loro radici fisse nel suolo, poichè s’alza
circa quattro o cinque braccia da terra; il tronco di esso comunemente s’abbraccia con ambe le mani,
le foglie sono disposte come quelle degli aranci, come esse sempre verdi anche nell’inverno, e come
esse d’un verde bruno; di più l’albero del Caffè nella disposizione de’suoi rami s’estende presso
poco come gli aranci, se non che nella sua vecchiezza i rami inferiori cadono alquanto verso il
pavimento. Il Caffè cresce, e si produce con poca fatica anche nelle terre, le quali sembrerebbero
sterili per altre piante; e in due maniere si moltiplica e col seme (il quale è
quell’istesso che ci serve perla bevanda) e col produrne di nuove pianticelle delle radici. È bensì
vero, che il seme del Caffè diventa sterile poco dopo che è distaccato dall’albero, ed alla natura
deve imputarsi, non alle pretese cautele degli Arabi se ei non produce portato che sia da noi,
poichè non è altrimenti vero che gli Arabi lo disecchino ne’forni, nè nell’acqua bollente a tal
fine, come alcuni spacciarono. L’albero del Caffè finalmente s’assomiglia agli aranci anche in ciò
che nel tempo medesimo vi si vedono e fiori, e frutti, altri maturi, altri nò, sebbene il tempo
veramente della grande raccolta nell’Arabia, sia nel mese di Maggio. I fiori somigliano i gelsomini
di Spagna, i frutti sembrano quei del ciriegio verdastri al bel principio, poi rossigni, indi nella
maturanza d’un perfetto porporino. Il nocciolo di esso frutto rinchiude due grani di Caffè, i quali
si combaciano nella parte piana, e son noriti da un filamento che passa loro al lungo, di che ne
vediamo vestigio nel grano medesimo: si raccolgono i frutti maturi del Caffè scuotendone la pianta,
essi non sono grati a cibarsene, si lasciano disseccare esposti al Sole, indi facendo passare sopra
di essi un rotolo di sasso pesante si schiudono i gusci, e ne esce il grano. Ogni pianta presso poco
produce cinque libbre di Caffè all’anno, e costa sì poca cura il coltivarla, ch’egli è un prodotto
che ci concede la terra con una generosità che poco usa negli altri. Nell’Oriente era in uso la
bevanda del Caffè sino al tempo della presa di Costantinopoli fatta da’Maomettani, cioè circa la
metà del secolo decimo quinto; ma nell’Europa non è più d’un secolo da che vi è nota. La più antica
memoria che sen abbia è del 1644. anno in cui ne fu portato a Marsiglia, dove si stabili la prima
bottega di Caffè aperta in Europa l’anno 1671. La perfezione della bevanda del Caffè
dipende primieramente dalla perfezione del Caffè medesimo, il quale vuol essere Arabo, e nell’Arabia
stessa non ogni campo lo produce d’egual bontà, come non ogni spiaggia d’una provincia produce vini
di forza eguale. Il migliore d’ogni altro è quello ch’io uso, cioè quello che si vende al Bazar,
ossia al Mercato di Betelfaguy, città distante cento miglia circa da Mocha. Ivi gli Arabi delle
campagne vicine portano il Caffè entro alcuni sacchi di paglia, e ne caricano i Cameli; ivi per
mezzo dei Banian i forestieri lo comprano. Comprasi pure il buon Caffè al Cairo, ed in Alessandria,
dove vi è condotto dalle Carovane della Mecca. I grani del Caffè piccoli e di colore alquanto
verdastro sono preferibili a tutti. Dipende in secondo luogo la perfezione della bevanda dal modo di
prepararla, ed io soglio abbracciarlo appena quanto basti a macinarlo, indi reso ch’egli è in polve
entro una Caffettiera asciutta lo espongo di nuovo all’azione del fuoco, e poichè lo vedo fumare
copiosamente gli verso sopra l’acqua bollente, cosicchè la parte sulfurea e oleosa, appena per
l’opera del fuoco si schiude dalla droga, resti assorbita tutta dall’acqua; ciò fatto lascio
riposare il Caffè per un minuto, tanto che le parti terrestri della droga calino al fondo del vaso,
indi profumata altra Caffettiera col fumo del legno d’Aloe verso in essa il Caffè che venite a
prendere, e che trovate sì squisito. Il Caffè rallegra l’animo, risveglia la mente, in alcuni e
diuretico, in molti allontana il sonno, ed è particolarmente utile alle persone che fanno poco moto,
e che coltivano le scienze. Alcuni giunsero perfino a paragonarlo al famoso Nepente tanto celebrato
da Omero; e si raccontano de’casi ne’quali coll’uso del Caffè si son guarite delle febbri, e si son liberati persino alcuni avvelenati da un veleno coagulante il sangue; ed è sicura cosa
che questa bibita infonde nel sangue un sal volatile, che ne accelera il moto, e lo dirada, e lo
assottiglia, e in certa guisa lo ravviva. Questa pianta animatrice, naturale per quanto sembra al
suolo dell’Arabia, fu verso il fine dello scorso secolo dagli Olandesi trasportata nell’isola di
Java a Batavia, indi moltiplicatasi, ivi se ne dilatò dai medesimi la piantaggione anche nell’isola
di Ceylon, poscia col tempo se ne portò in Europa; e in Olanda, e in Parigi per curiosità se ne
coltivano le piante, le quali nelle Serre riscaldate l’inverno reggono e producono frutti, e tanto
sen è universalizzata la cultura presentemente, che nell’America, e nell’Indie Orientali se ne fa la
raccolta, cosicchè abbiamo Caffè di Surinam, dell’Isola Bourbon, di Cayenne, della Martinica, di S.
Domingo, della Guadalupa, delle Antille, dell’Isole di Capo-Verde. IL Caffè d’Arabia è il primo,
quello dell’Indie Orientali vien dopo, il peggiore d’ogni altro è quello d’America.