Référence bibliographique: Gasparo Gozzi (Éd.): "Numero XXXIX", dans: Gli Osservatori veneti, Vol.1\39 (1761-08-03), pp. 592-596, édité dans: Ertler, Klaus-Dieter / Fuchs, Alexandra (Éd.): Les "Spectators" dans le contexte international. Édition numérique, Graz 2011- . hdl.handle.net/11471/513.20.3600 [consulté le: ].


Niveau 1►

No XXXIX.

A dì 3 agosto 1762.

Niveau 2► S’io prendo in mano un libro, in cui l’autore abbia cercato con le sue filosofiche meditazioni di farmi conoscere la verità intorno a qualche punto, quando lo chiudo e ne lo ripongo, mi pare d’essergli infinitamente obbligato. “Vedi,” dico fra me, “quanto quest’uomo dabbene s’è affaticato, quanto ha vegliato per iscoprire quella verità ch’io non avea mai conosciuta, con quanta diligenza ha egli notomizzato tutte le particola-[593]rità che essa avea d’intorno, con qual acume ha discacciate quelle tenebre che la ricoprivano, e finalmente in qual modo bello ed evidente me l’ha posta innanzi, che la pare una torcia!” Esco poi di là, e andando fra le genti, le quali pensano diversamente, certo d’avermi a fare un grande onore, comincio a voler fare intendere altrui quello che il mio libro avrà fatto intendere a me poco prima; ma ritrovo così divulgata, stabilita, confitta e ribadita l’opinione contraria, che chi mi ascolta, o mi giudica uscito del cervello, o me lo toglie con altissimo vociferare, quistionando a diritto e a torto; e quegli che non mi fa nè bene nè male, sbadiglia, e si cura delle parole mie come s’io sputassi. Allora io arrabbiato dentro di me, trovomi costretto a tacere, e non basta ancora; perchè fra pochi giorni odo che s’è sparsa una fama del fatto mio, che ho un cervello strano, lunatico, pieno di fantasie torte, di pazzie che non le direbbero i pazzi da fune; onde fra poco tempo conviene che faccia vita solitaria, o mi contenti d’andare per la comune, e pensare e dire quello che pensano e dicono tutti gli altri.

Metatextualité► Fino a qui chi legge avrà creduto che queste sieno parole mie; ◀Metatextualité ma le non sono, anzi furono dette da un certo Luigi, poche sere fa, ad un Alessandro; tenendo il primo la poesia per arte migliore che il filosofare, e il secondo giudicando il contrario; nella quale quistione riscaldandosi poi essi, come si fa, gagliardamente, andarono più oltre ancora, e dissero a un dipresso Metatextualité► quello che sotto a’loro propri nomi pubblicherò nel foglio presente. ◀Metatextualité

Niveau 3► Dialogue► Alessandro. Per un poco dunque di vanagloria e d’amor proprio, tu giudichi ora che un uomo debba abbandonare l’esame della verità; e s’egli vede gli errori delle teste popolari, abbia a tacere, e a non cercar di sgombrare dalle teste del popolo quelle tenebre che le circondano?

Luigi. Amico mio, quando il popolo non prende sbaglio intorno al sapere che del grano messo sotto alla macine gliene uscirà farina, e di questa pane; e che delle lane tosate, filate, ordite e tessute, gliene riuscirà panno da vestirsi; e quando egli sarà certo che una buona azione lo fa uomo dabbene, io non so a che tu gli voglia rompere il capo col fargli anche intendere in qual modo prenda il grano il suo nutrimento sotto il terreno, e per quali vie entri in esso la facoltà che lo fa crescere e maturare, o quanta forza d’acqua si richiegga ad aggirar la macine, dappoich’egli altro non vuole, se non ch’essa giri, e ne lascia l’impaccio a chi ha la scienza del farla andare intorno. E così ti dico delle lane, che a lui non importa di sapere in qual modo le crescano sul dosso della greggia, ma gl’importa che le crescano. E peggio è ancora, se tu vorrai troppo sottilmente disputar seco donde nascano le virtù, e se le sono una qualità di mezzo fra due estremi, o se le sono passioni indirizzate al bene. Quanto è a me, io credo ch’egli basti fargli sapere come s’esercitino tali virtù e a qual fine, e il merito e l’onore che n’ha chi le adopera, e il benefizio che da esse riceve la società in cui si vive. Tutto il restante è sottigliezza che da tutti non viene intesa; e con tali sofisticherie s’apre l’adito a ciascheduno di ragionare di quello che non sa, e ciascheduno vuol filosofare di quello che non intende; onde fra pochi giorni odi a dire cose dagli uomini, che tu non l’avresti immaginate giammai; e la tua verità, se pure è tale, si guasta negli altrui cervelli, e diventa una confusione.

Alessandro. S’avrà egli dunque a lasciare ignorante il popolo, e a non comunicargli quelle filosofiche verità che noi ritroviamo? Pare a [594] te che questa sia giustizia e amore di prossimo? Non è egli forse composto d’uomini nostri uguali? E perchè l’avremo noi a lasciare nelle tenebre dell’ignoranza?

Luigi. Adagio a ma’passi. Fratel mio, io ti dirò in primo luogo, che, dappoi in qua che fu edificato il mondo, si quistiona di quelle medesime cose; e che ogni uomo venuto dopo d’un altro si tenne più dotto e conoscitore del vero del primo, e poi nacque chi cacciò dal nido l’uno e l’altro. E ogni secolo si tenne per più sottile e capace indagatore della verità degli altri: e così sarà del 1800, il quale professerà che noi siamo stati involti nella barbarie. Sicchè, in primo luogo, io non t’assento che la verità nelle cose possa ritrovarsi così agevolmente. E quand’anche la ritrovassi, io non t’assentirei che la mettessi in quistione fra le bocche di chi non sa; dalla qual cosa tanto attentamente si guardarono, come avrai mille volte udito a dire, gli antichi filosofi. Quanto è poi all’utilità, io credo che le santissime leggi abbiano già fatto abbastanza, dappoichè sottilissimi indagatori, vedendo quello che giova o no per lungo esperimento, hanno con l’avvertenza loro ordinata la pratica del bene, e l’abborrimento del male; e detto: “Questo farai, e questo no”; ritenendo in sè medesimi i principii e gli esami che fecero a loro conoscere il bene e determinarlo con precetti. Questa, cred’io, è la più utile dottrina, e quella che fa maggior giovamento agli uomini. Imperciocchè la società ha di bisogno d’uomini i quali la sostengano con certe volontà e opere stabili indirizzate ad un certo fine; e quando è determinata la pratica del bene, io non veggo a che possa giovare l’introduzione degli esami, del sottilizzare e del cercare il pelo nell’uovo.

Alessandro. E che sì, che con questa diceria tu vorrai a poco a poco darmi ad intendere quello che già tentasti più volte, che quella poesia, della quale tu fai professione, è molto più utile e miglior arte che la filosofia? Ma ti ricordo che una delle più capaci teste del mondo la discacciò dal suo governo civile.

Luigi. Fratel mio, Platone, di cui tu intendi al presente di favellare, fu per avventura più ghiribizzoso poeta di quel che tu pensi; e s’io non temessi d’essere troppo lungo, ti farei toccar con mano, sponendoti infiniti passi dell’opere di lui, ch’egli fu invasato dalle Muse quanto ciascun altro più veemente poeta. Oltre di che è opinione ricevuta, che in più luoghi il suo stile dimostri ch’egli con grande assiduità leggeva Omero, e procurò d’imitarlo. Ma se tu avrai bene considerato, molti sono i luoghi dov’egli esalta i poeti; e colà anche dove gli manda fuori dalla sua poetica repubblica, commette che sieno grandemente onorati, e stimati cosa divina. Per la qual cosa non allegar Platone qual disprezzatore di poeti; che le sue parole provano apertamente, il contrario. Ma lasciamo stare da un lato le autorità,e vegnamo a’ferri. Io non ti dirò per ora che la poesia arrechi maggiore [595] utilità al comune, che la filosofia; ma sì dico io bene, che se la non fa utilità, la non fa male; imperciocchè essa non tenta, come la tua dottrina, d’introdurre sempre novità e travagli nel cervello umano. Anzi allo incontro rimirando attentamente le cose quali le vede, e non diversificandole punto dalla comune opinione, tenta di naturalmente dipingerle, e d’accordarsi nella pittura sua con l’umore universale. Sicchè tu comprendi che a questo modo la non áltera punto gl’intelletti, ma anzi gli conferma ne’loro pareri, e sempre più ne gli ribadisce; e non fa nascere novità di disputazioni ne’popoli. Considera ancora qual sia la condizione degli uomini, e vedrai se più sia caritativa verso il prossimo una dottrina la quale tenti ogni via d’alleggerirlo dei pensieri, che un’altra la quale cerchi ogni modo d’aggravarnelo. Io credo che tu sappia in qual forma noi viviamo. Poni qual ragione d’uomini tu voglia, nobili, ricchi, mezzani, e fino agli accattapane; non c’è alcuno il quale possa vivere spensierato. Necessità, desiderii e mille travagli infastidiscono sempre l’umana generazione. Perchè gliene vorrai tu aggiungere di nuovi, e far che i cervelli si consumino con esami d’altre novità, come se i pensieri che abbiamo, non fossero sufficienti? All’incontro poesia, quasi affettuosa balia che voglia rasciugare le lagrime del fanciullo pochi anni prima spoppato, ci prende sulle ginocchia, e ci fa passare le molestie con le sue dolcissime dicerie; ora levandoci dinanzi agli occhi una tela, e facendone davanti apparire qualche nobile e grave azione, ora una piacevole e da ridere; e tale altra volta traportandoci l’intelletto fra gli eserciti, i combattimenti e i fatti degli uomini valorosi; e, quando il vuole, facendone udire il suono dell’umile sampogna in luoghi boscherecci, all’ombra d’un faggio, con le pecorelle che ci pascono intorno. Ma quello che più d’ogni cosa è utile, e che dal tuo stesso Platone venne ne’poeti commendato, si è ch’essa, rivolgendo le sue canzoni, accompagnate dalla cetera, a lodare l’opere virtuose, di qualche gran personaggio, col suo dilettevole canto alletta ed invita all’amore della virtù, e all’imitazione di quella. Dimmi, io ti prego, a questo proposito, s’egli è più da stimare un’arte che così faccia, d’un’altra, la quale allo incontro studiando sottilmente il cuore umano, si vanterà d’avere in esso ritrovato che tutte le virtù hanno la loro radice maggiore nell’amor proprio, e che il bisogno o l’interesse sono quelle due cose che le fanno fruttificare? Di che la natura umana tragge dall’una parte avvilimento e confusione, e dall’altra disprezzo di chi esercita le virtù, giudicandole un effetto non prodotto da principio nobile e degno di lode, ma da vile e degno di biasimo. Nella qual cosa, quando anche paresse a te d’aver trovato il vero, non crederesti tu forse d’arrecare maggior utilità agli uomini a tacerlo, che a dirlo? E che fosse maggior vantaggio loro l’esercitare la virtù con quel grande e schietto animo con cui l’esercita chi non esamina più là, che metterle in opera con sospetto, e con quello stento che fa chi teme d’essere biasimato o non creduto? La poesia non fece mai così fatti farfalloni, nè gli farà da qui in poi, s’ella proseguirà a lasciare il mondo come lo ritrova, e a seguire l’opinioni delle genti, quali le vede, senza darsi gl’impacci del Rosso.

Alessandro. Sicchè, s’egli stesse a te, tu vorresti che ognuno dicesse ancora che in fine del giorno il sole si tuffa nell’oceano, e la mattina sorge da quello, e che i fiumi hanno la figura umana con un’urna sotto il braccio che sgorga l’acque?

[596] Luigi. Io non biasimo la filosofia, ch’ella abbia tolte via queste grossolane e false opinioni: ma sì dico io bene che queste non toglievano però dal mondo le stagioni, e non si arava, nè seminava perciò meno di quello che si faccia oggidì: e l’acqua de’fiumi serviva a’pesci, come fa ora, e si traeva a’bisogni fuori del suo letto per innaffiare i campi: nel che si conteneva l’utilità. Si tuffi il sole nel mare o giri intorno alla terra, o questa s’aggiri, o sia altro, che non lo sapremo affatto mai, le stagioni vanno sempre ad un modo. Tu taci? Con tutto che io t’abbia detto il mio parere, non intendo già di farti divenire poeta; egli mi basta che tu confessi che maggior benefizio arreca al mondo la poesia, che le tue tante ricerche del vero.

Alessandro. Questo non lo confesserò io giammai.

Luigi. Tuo danno. Già lo sapeva che un filosofo non si rimove facilmente. ◀Dialogue ◀Niveau 3

L’Osservatore.

Metatextualité► Io non mi maraviglio punto se Luigi ed Alessandro non si partirono d’accordo. Così avviene di tutti quelli che questionano. Non so veramente qual differenza passi tra due femminette che garriscano dall’un uscio all’altro, e due persone di lettere. Infine infine veggo che ne riesce una medesima conclusione. Dopo d’avere ognuno addotte le sue ragioni, o buone o triste che sieno, chi se ne va dall’un lato e chi dall’altro con la stessa opinione di prima. Chi domandasse però a me, s’io dia ragione a Luigi, o ad Alessandro, direi nè all’uno affatto, nè all’altro; imperciocchè nè tutto dee essere filosofia, nè tutto poesia; ma una certa mescolanza di cognizioni e d’ignoranza che renda gli uomini tali che possano vivere insieme quietamente, senza voler sapere più che il bisogno, o starsi come ceppi. Chi sa quello che parrà di tal mia opinione? Ma ne sembri quel che si voglia, l’ho profferita. ◀Metatextualité ◀Niveau 2 ◀Niveau 1