Gli Osservatori veneti: Numero XXXVIII

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No XXXVIII.

A dì 28 luglio 1762.

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Dream

“O divina Minerva, figliuola di Giove (io udii già esclamare ad alta voce poche notti sono ora passate); o divina Minerva, figliuola di Giove, ammaestraci, e col tuo lume fa’una volta che conosciamo in qual forma e per quali vie ci dobbiamo guidare per questi intrigati labirinti del mondo.” Tali parole mi suonavano negli orecchi, uscite ad un tratto da più gole; nè credereste già, o voi che qui leggete, ch’io desto fossi; chè anzi da profondissimo sonno erano legati gli occhi miei, e non nella mia stanza mi parea d’essere, ma in un deserto, così avviluppato fra le tenebre, che appena mettendo le mani innanzi potea muover passo. I capelli mi s’erano rizzati in sul capo, un certo freddo m’avea prese tutte le membra, e le ginocchia mi vacillavan di sotto, sicchè a pena avea vigore di sostenermi in piedi. Qual mia cecità, diceva io fra me in mio cuore, o qual mio infortunio m’ha ora condotto in questo sconosciuto luogo, e come ci sono io al presente? Chi mi trarrà fuori di qua salvo? Io odo che chiunque è qui pervenuto, si duole e chiede aiuto agli Dei; segnale certissimo che tutti sono colti dal timore; imperciocchè fino a tanto che l’umana superbia può da sè sostenersi, poco si cura delle deità, e allora solamente rivolge il cuor suo alla divina autorità, quando abbattuta si trova e riconosce la picciolezza sua nell’opporsi a’gravissimi travagli. Quali genti saranno costoro che fanno le loro supplicazioni a Minerva? Mentre ch’io in tal forma ragionava, o piuttosto meditava tacitamente, vidi nell’alto un certo splendore non altrimenti fatto che quello il quale ne viene avanti all’aurora, quando le cose non si veggono ancora, ma si comincia a sperare di poterle vedere; e a poco a poco s’allargava e cresceva, tanto ch’io vidi dalle altissime regioni de’cieli discendere fra la luce un nobilissimo carro, tirato da due splendidissimi cavalli, i quali, secondo ch’io potea comprendere, tanto spazio d’aria trascorrevano ad ogni muovere di piedi, quanto un uomo standosi sopra la punta d’uno scoglio potrebbe misurarne con gli occhi guardando sul mare. E mentre che il cocchio ricchissimo di luce andavasi alla terra accostando, sempre più udiva ch’esso era accompagnato da un soavissimo canto che vestiva di note molte virtuose parole, le quali non pervennero già tutte agli orecchi miei; ma d’una parte me ne ricordo ancora,

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per modo ch’io posso a’miei amorevoli leggitori metterle innanzi nella presente scrittura.
Fra bronchi e sterpi, in luogo buio e strano, Stirpe infelice, il non veder il vero Guidò tuoi passi, onde qui cieca or tremi. Quante fïate con sonora voce Gridai dentro al tuo sen, gente non saggia: Mal segui il piè di non oneste scorte! Rideano al fianco tuo giocondi in faccia Mille diletti, indi stendendo l’ale, Scherzando in atti, e con parole liete Si fean tue guide; e tu, seguace schiera, Cupida fatta di seguirne il volo, Movesti i passi, e di fanciulli in guisa, Che dietro alle volubili farfalle Fanno lor corso e desïosi vanno, Tal pur n’andasti. Ove son or le belle Ghirlande, ond’essi si cingean la fronte, Ove le vaghe lor piume dipinte, Desio degli occhi? E chi ruppe le corde Delle lor prima armonïose cetre? E chi dinanzi a voi tolse la luce Che v’era scorta? La malvagia schiera Da voi disparve, e solitari e mesti Or qui giacete della vita in forse, Dove incerto sentier turba le menti, Ed ululato di selvagge fere Gli orecchi assorda. Pur, poi che le voci Alzaste ai gioghi dell’eterno Olimpo, Udille Giove, e al mio venir consente. Levate il guardo. I’son colei che prima Trovai l’arti più belle, ed il tesoro Delle scïenze all’ostinata terra Portai primiera, e le fei dono in parte Del ben dell’alte Intelligenze eterne. Con sì fatta canzone s’era già accostato il carro alla terra, non senza mia gran maraviglia che le parole uscite della bocca di una deità fossero così chiare e usuali; dal che m’avvidi benissimo che debbono quindi prendere esempio i più acuti ingegni; e cercare d’accomodarsi agli orecchi degli ascoltanti, quando favellano. Intanto io vidi scendere dal cocchio non so quanti venerandi vecchioni; i quali comecchè avessero fatto un lungo viaggio, pure mostravano di aver salde le ginocchia e robuste; mentre che in esso rimase a sedere la Dea, che all’elmo che portava in capo mi avvidi benissimo ch’ell’era la saggia Minerva. Intanto io circuendo con gli occhi il luogo in cui mi trovava, vedea da ogni lato qua certi alpestri sassi, che non vi sarebbero salite su le capre salvatiche, colà non so quali selve cotanto intralciate, che altri non si sarebbe aperta la via col ferro tagliente; e dall’una parte correvano torbidissimi torrenti, dall’altra stagnavano paludi, anzi pozzanghere, da lasciarvi dentro le ginocchia chi entrato vi fosse. Le genti, che poco prima avea udite ad esclamare con voce compassionevole ed implorare aiuto, avean visi che pareano disotterrate in quel punto, occhi lagrimosi, occhiaie livide, erano scapigliate, tenevansi le mani al petto, e si vedea in tutti gli aspetti pentimento e dolore. “Uditemi,” incominciò allora fra quelle la Dea, “e fate, quanto io vi dirò, se vi è pure a grado d’uscir fuori di questo tenebroso loco, donde a voi non sarebbe mai dato l’animo d’uscire. Questa compagnia d’uomini, che meco è venuta e ch’io qui lascio, dee esser quella a cui da qui in poi dovrete prestare orecchio e lasciarvi guidare fuori di questo labirinto. Non vi spaventino punto queste lunghe barbe, non queste aggrinzate pelli, nè quei calvi capi incoronati da certi pochi e canuti capelli. Questa loro lunga età non farà sì, che sieno però divenuti ruvidi, nè cotanto nemici dell’umana generazione, che la vogliano tenere in continova schiavitù ed in perpetue fatiche. Sanno ben eglino che la natura vostra è così fatta, che non potrebbe senza qualche diletto durare. Richiede l’animo vostro qualche ristoro dopo l’esercizio delle fatiche, e vuole ricreazione e rilassamento. Eglino hanno già tutto ciò imparato col loro lungo vivere nel mondo, ed aggiungendo alla meditazione una buona pratica delle cose, è gran tempo che salirono dinanzi a Giove, e gli riferirono la loro intenzione rispetto al viver vostro e qualche regolamento di quello, acciocchè possiate più facilmente e con minori fastidi passare quell’età che vi sarà conceduta sopra la terra. Questi sono i ministri miei. Prestate loro orecchio e consentite alla volontà loro, se volete avere quella quiete, che invano siete fino a qui andati cercando, seguendo que’diletti a’quali correste dietro senza veruna elezione. Ecco in qual luogo vi siete ciecamente lasciati guidare: voi avete me pregata di soccorsi; io venni: il restante sarà opera vostra. Lasciovi la luce mia in questo diserto. Non altro: reggetevi giudiziosamente.” Così detto, volse le redini, e i cavalli girandosi e alzando il capo allo insù, salirono con tanta fretta, con quanta erano poco prima discesi. I buoni vecchi, che in compagnia di Minerva erano in terra venuti, si posero a sedere in un luogo alto, circondati dal popolo, e l’uno di loro, che nel mezzo degli altri sedeva, trassesi fuori del seno un libro; e poi che gli altri con l’atto delle mani ebbero dimostrato che si richiedeva silenzio, egli aperse il suo volume e lesse in questa guisa: Proemio allo statuto de’diletti. Dappoichè egli non è possibile che colà dove non si rivolga al tutto l’animo alla virtù, gli uomini sopra la terra ritrovino quiete; e dall’altro lato non potendo la natura umana durare in continua serietà, e senza qualche ricreazione di onesti diletti; noi deputati dalla divina Minerva a ciò, abbiamo nel presente nostro statuto deliberato qual debba essere quella condizione di piaceri a’quali da qui in poi debbano le genti rivolgere l’animo loro, quando ne avranno di bisogno. E perchè sieno dall’una parte di ristoro alle umane fatiche, e dall’altra non offendano punto le nostre principali costituzioni, nè allontanino mai dalla consuetudine della virtù che intendiamo di confermare nella popolazione a noi da Minerva conceduta, gli abbiamo eletti con tale avvertenza, e con sì fatta cautela ordinati, ch’essi medesimi diletti servano al nostro fine principale: e gli scherzi stessi e le piacevolezze aprano l’adito a quell’amicissima virtù, che intendiamo da qui in poi dover essere dal nostro popolo tenuta per sua tutela perpetua. Abbiamo avuto rispetto ad ogni età, e cominciando dalla fanciullezza, assegnando ad essa i diletti suoi appropriati, passammo ad una a tutte l’altre fino alla vecchiezza, la quale per essere vicina al termine dell’umano corso, non dee perciò essere dimenticata. E tu, o santissima Virtù, la quale fosti da noi invocata nel principio di quest’opera, e che col tuo lume ci guidasti sino alla fine, fa’sì che la nostra intenzione sia volentieri dagli uomini ricevuta, e tengano per fermo finalmente, che da te sola e da que’piaceri che da te non si scostano, dipende la tranquillità degli animi loro.

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Io non so, o lettore, se tu mi presterai fede s’io ti dirò che
quegli uomini i quali si ritrovavano in tante calamità avviluppati, quando udirono così fatto proemio, cominciarono a stringersi nelle spalle, e parea che volessero dire: “Odi anticaglie! Noi avremo da qui in poi bei maestri di piaceri! Questi vecchioni senza sangue nelle vene e privi di sugo i nervi, che s’intenderanno essi di diletti? Pure udiamogli, che avremo, se non altro, di che ridere.” Mentre che con gl’indizi esterni mostravano l’intrinseco scherno de’loro maestri, il vecchio leggitore avea già letto la contenenza del primo capitolo, che diceva a questo modo: Le prime notizie che si daranno a’fanciulli, debbono essere per via di favola, la quale narri azioni mirabili, virtuose; ma senza spaventi. Sieno al tutto sbandite le favole delle vecchierelle. Sieno le nuove composte di versi, e accompagnate col canto e . . . . Qui s’udì uno sbadigliare comune; di che avvenne improvvisamente che quel lume, il quale era prima venuto col carro di Minerva e quivi era da lei stato lasciato, incominciò a poco a poco ad oscurarsi, e in breve tutto il deserto rimase coperto dalle tenebre di prima, i vecchi sparirono col libro loro, ed io dolente per la curiosità che m’era in corpo rimasa, d’udire il restante degli statuti, biasimando altamente l’ostinazione di quelle genti, non so in qual forma, mi destai, e conobbi che anche in sogno il nome della virtù, e le vie che ad essa conducono, fanno sbadigliare le genti.

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Presi dipoi la penna in mano e dettai quanto mi potè somministrare la memoria, non senza qualche sospetto che quell’argomento il quale fu tedioso a quegli uomini ch’io avea in sogno veduti, lo sia altresì a coloro i quali vegliano, o piuttosto dormono con gli occhi aperti.