Gli Osservatori veneti: Numero XXXVI

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No XXXVI.

A dì 14 luglio 1762.

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Lettre/Lettre au directeur

Lettera terza.

Saturno a’Ricchi, salute.

I poveri m’hanno poco fa mandato lettere, nelle quali v’incolpano che delle ricchezze vostre non date loro cosa alcuna. Domandano universalmente ch’io metta tutti gli averi a comune, tanto che ognuno n’abbia una egual porzione; essendo giusto che la bilancia vada del pari, e si stabilisca che uno non abbia più del bisogno, e un altro non rimanga privo d’ogni dolcezza. Feci loro risposta che queste sono faccende le quali piuttosto aspettansi a Giove. Egli è il vero che quanto agli affari presenti e a quelle offese che credono di ricever da voi in queste mie solennità, parvemi che toccasse a me il darne giudizio, e promisi loro di scrivervi. Le domande che a voi fanno, sono, per quello che ne pare a me, assai temperate: Come avremo noi, dicon eglino, morendo di freddo e di fame, a solennizzare anche per giunta feste e allegrezze? E perciò s’io volli che anch’essi intervenissero a questa solennità, vollero ch’io v’obbligassi a dar loro tanto una parte de’vestiti vostri, se ne avete che vi sopravanzino, o di quelli che non convengano alla vostra condizione, per esser già logori e unti; quanto a colar loro nelle mani qualche porzioncella d’oro. Promettono, se così farete, di non movervi più litigi appresso a Giove per le facoltà; ma se nol fate, giurano che il primo giorno assegnato da Giove al giudicare, v’intimeranno le divisioni. Fra quelle cotante ricchezze che possedete con licenza mia, questa non è però una gran difficoltà. Hanno, oltre a ciò, aggiunto nella lettera qualche cosa intorno al cenar con voi; dicendo che al presente voi o chiudete gli usci e trionfate soli; o se dopo qualche lungo tempo ne invitate alcuni, hanno in quelle vostre cene più fastidi che consolazioni; e comportanvi molte villanie, qual è quella fra l’altre del non bere di quel vino che voi bevete. Oh spilorceria ch’è questa! E ne meritano anch’essi gastigo, perchè non si levano subito in piedi, e non piantano voi e il vostro convito. Dicono poi, che anche a questo modo non beono quanto bisogna. Imperciocchè que’vostri coppieri hanno gli orecchi turati, come gli aveano i compagni d’Ulisse con la cera. L’altre cose sono così sozze, che a pena mi dà il cuore di parlare di quello ch’essi dicono intorno alla divisione delle carni, a’trincianti e domestici che servono solamente a voi finchè vi siete ben pasciuti e ripieni fino alla gola, mentre che da loro fuggono e passan oltre, e altri somiglianti fatti molti non degni d’uomini liberi, e nei quali si vede stento e digiuno. Nel convitarsi vuol essere uguaglianza; questa è bella, questa è contentezza de’conviti; ed appunto è presidente a’banchetti quel vostro giustissimo partitore de’cibi Bacco, acciocchè ognuno v’abbia la sua parte uguale. Farete dunque per forma che non v’accusino più, ma piuttosto vi amino e onorino, per l’essere con esso voi partecipi di certe minute cose che poco vi costano; e le quali, date da voi a tempo, quasi fossero un dono, non usciranno mai più della loro memoria. Oltre di che, voi non potreste avere abitazione in città se non aveste in essa poveri, i quali d’innumerabili cose vi provveggono per la facilità vostra; nè avreste chi ammirasse le ricchezze vostre, standovi soli, privati e ricchi al buio. Veggano dunque gli uomini volgari, e ammirino l’argento vostro, le mense, e facendosi brindisi a vicenda col bellicone dell’amistà, e tenendolo in mano, lo bilancino ed esaminino il peso, con quanta accuratezza è cisellato, istoriato, e quant’oro in quel mirabile artifizio risplenda. Nè solamente diranno che siete umani e mansueti, ma sfuggirete l’invidia loro. Imperciocchè chi può avere invidia ad uno, il quale seco divida una giusta porzione del suo e te la doni? Chi non bramerà che cotale uomo lungamente sia vivo e dei suoi beni si goda? Ma voi fate oggidì in modo che la felicità vostra non ha testimoni, sono aperte le ricchezze vostre all’invidia, e priva di dolcezza la vita vostra. Nè credo io già che possa essere lo stesso diletto l’empiersi il corpo da sè solo, come sogliono fare lioni e lupi silvestri; e il vivere insieme con uomini garbati i quali cercano con buone maniere e accortezza d’acquistarsi la buona grazia d’ogni uomo; nè comporteranno in primo luogo che il convito sia mutolo e senza voce; ma faranno racconti allegri da banchetto, scherzi non discari, e ogni genere di urbanità, costume gratissimo a Bacco, a Venere e alle Grazie. Poscia il vegnente giorno raccontando a tutti la vostra cortesia, v’acquisteranno la grazia e l’amore altrui. Questo è un bene che si dee comperarlo ad ogni pregio. Una cosa vi domando io: poniamo che i poveri fossero ciechi, oh non vi spiacerebbe egli forse ciò? Voi non avreste più a cui mostrare le vostre ricche vesti, le torme de’servi, lo splendore e la bellezza delle anella. Lascerò di dire che, volendo vivere voi soli fra le delizie, egli non può essere che non si destino in loro contro di voi odio e invidia; e sappiate che minacciano di voler fare certi voti che sono orribili, e guai se necessità li costringe a fargli. Voi non assaggerete più nè salsicce, nè pasticcio, se non degli avanzati al cane; le lenticchie avranno la peste della salamoia; il cinghiale e il cervo, mentre che si arrostiscono, s’invoglieranno di fuggire al bosco; e fino alle pollastre, oh gran caso! anche pelate avranno l’ale, e se ne voleranno a’poveri; e quel che peggio è, quei vostri bellissimi coppieri in un subito diverranno calvi, e oltre a ciò il vaso vi sarà spezzato. Stabilite dunque cose convenienti a tale solennità; pensate alla sicurezza vostra, da tanta e così grave povertà sollevategli, e con picciola spesa avrete non dispregevoli amici.

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Lettre/Lettre au directeur

Lettera quarta.

I Ricchi a Saturno, salute.

Credi tu, o Saturno, che i poveri abbiano scritto solo a te di quanto ci hai detto? Pensi tu che da lungo tempo in qua non istridano, e non tolgano gli orecchi a Giove, chiedendogli che sieno fatte le divisioni, accusando il destino che abbia fatto le parti non uguali, e incolpando noi che non ci degniamo di dar loro veruna cosa? Ma quegli ch’è Giove, sa bene qual di noi abbia la colpa; e per ciò sordo lascia andare a vôto le loro preghiere. Frattanto noi diremo le nostre ragioni dinanzi a te, che pure in questi giorni ci comandi. A noi medesimi era già nota ogni cosa, e sapevamo benissimo quanto fosse bello il prestare assistenza con l’abbondanza nostra ai poveri; e pensando che il mangiare e il conversare co’poveri sarebbe stato una consolazione, facevamo per modo che, vivendo con essi in uguaglianza, non v’era alcuno di loro che, venendo invitato da noi, potesse di noi dolersi. Ma eglino, i quali da principio dicevano sè abbisognare di poco, non sì tosto, vennero loro aperte le porte da noi, che cominciarono a chiedere una cosa ed un’altra. E se non aveano tutto al primo aprir della bocca, eccogli subito all’ira, all’odio, alle maladizioni. E se ci appiccavano addosso calunnie, coloro che gli udivano, prestavano loro fede, dicendo: “Costoro sanno il vero, perchè mangiano e beono con esso loro.” Sicchè delle due cose era l’una: che se tu non davi loro nulla, gli avevi nimici in eterno; e chi concedeva loro licenza di togliersi ogni cosa, diveniva esso povero in un subito, e un di coloro che poi dovea domandare altrui. L’altre cose però si potrebbero comportare; ma egli non basta loro nelle cene empiersi a gola e tuffarsi nelle vivande; perchè, quando hanno bevuto molto più che il bisogno, divengono tanto audaci e temerari, che tentano fino alle mogli nostre. Finalmente quando hanno buttato fuori, ed empiutoci il tinello delle brutture dello stomaco, il giorno dietro dicono male di noi, e contano che hanno sofferito la sete e che sono stati convito della fame. E se tu credi che queste sieno nostre invenzioni e bugíe, ricòrdati di quel vostro parassito Issione, il quale fatto degno di sedere alla mensa vostra celeste, fatto uguale per vostra grazia a voi, ebbro come una bertuccia, ebbe ardimento l’uomo forte di tentare la pudicizia di Giunone. Queste e così fatte sono le cose per le quali abbiamo a sicurezza nostra stabilito da qui in poi di non ricevergli più nelle case nostre. Contuttociò s’eglino prometteranno, sendo tu giudice e mallevadore, di non chiedere, come ora promettono, altro che cose moderate, e di non farci ne’conviti ingiurie e oltraggi, vengano con noi a comune, al nome del cielo, e banchettino con esso noi. Manderemo, come ci comandi, loro anche dei vestiti, e quanto sarà giusto di danari; in somma non mancheremo loro in veruna cosa. Ma dall’altro lato cessino dall’usare artifizio con esso noi, e non sieno più nè parassiti, nè adulatori, ma nostri amici. S’eglino faranno in tal forma, tu non avrai più ad incolparci di nulla.
L’Osservatore. Ad ogni modo, comecchè lo scrivere questi fogli m’arrechi qualche pensiero, io mi sono perciò procacciato con essi una certa pubblica fama che mi dà qualche diletto. Non dico già ch’io sia perciò celebre tra gli uomini, per letteratura, no, ch’io non sono cotanto prosuntuoso, nè sì bestiale; ma ho caro di vedere che fra essi si sappia ch’io son vivo. Fanno in me questi fogli quell’effetto che fanno in molti le ricchezze e le speranze degli eredi; che quando uno di cotesti grandi amici della fortuna viene da qualche anche leggiera malattia assalito, la fama corre di lingua in lingua e se ne fa un gran ragionare. Quand’io, che non sono però sano come un lottatore, e vivo in questo mondo a pigione, vengo aggravato da qualche cosetta che mi dia molestia al corpo, per quel dì tralascio di dar fuori il foglio: e incontanente si sa ch’io non istò bene; onde di là a due giorni quando esco di casa, ritrovo gli amici che si consolano meco; i nimici, benchè io ne abbia pochi, che sono mesti; e molti i quali mi guardano con maraviglia, come se fossi uscito del sepolcro. Un altro giovamento ne ritraggo, che pensando alla mia obbligazione presa col pubblico, reggo la vita mia assai temperatamente, e cerco di star sano il più che posso, per non mancare al mio dovere: sicchè io posso dire che il pubblico sia il medico mio, e se non è egli la mia sanità, almeno è la mia convalescenza. Vorrei bene compensarlo dal lato mio quanto posso, e non tralascio mai di ghiribizzare quello che gli potesse far piacere. Non ispero tuttavia che ognuno abbia ad appagarsi del fatto mio, e quasi quasi do ragione ad alcuno, perchè quantunque io mi voglia quel bene che ogni uomo vuole a sè medesimo, non sempre sono contento di me, e talora vorrei essere un altro. Siccome i giorni sono quale sereno, qual nuvoloso, qual piovigginoso, qual pieno di tempesta, non altrimenti è fatto il cervello degli uomini, che un dì vuole e può, un altro nè può nè vuole; e si conviene stare alla sua volontà per amore o per forza. A me basterà l’avere un cantuccio al termine de’miei dì fra coloro che hanno fatto certe scritturette leggiere e di poca importanza. Conosco l’ingegno mio impaziente nelle cose grandi, alle quali dà talvolta principio, poi non le finisce. Vo ora pensando che se un altro dicesse di me quello che mi dico io, forse non lo comporterei, e in mia coscienza mi pare che me lo dica per ischerzo. Con tutto ciò mi vo spesso ripetendo questa favola.

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Fable

“Non ho io,” diceva ad alta voce una lucciola, “questo fuoco di dietro che risplende? Ora che fo io qui in terrà? Perchè non volo sulle sfere a rotare questi miei nobilissimi raggi dal levante al ponente, e a formare una nuova stella fra l’altre mie sorelle del cielo?” – “Amica,” le disse un vermicello che udì i suoi vantamenti, “finchè con quel tuo splendido focherello stai fra le zanzare e le farfalle, verrai onorata; ma se sali dove tu di’, sarai nulla.”
Questa favoletta ammonisca me e molti altri.