Référence bibliographique: Gasparo Gozzi (Éd.): "Numero XXI", dans: Gli Osservatori veneti, Vol.1\21 (1761-04-14), pp. 521-524, édité dans: Ertler, Klaus-Dieter / Fuchs, Alexandra (Éd.): Les "Spectators" dans le contexte international. Édition numérique, Graz 2011- . hdl.handle.net/11471/513.20.3582 [consulté le: ].


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No XXI.

A dì 14 aprile 1762.

Citation/Devise► Non refert quam multos, sed quam bonos habeas.

Sen., Epist. XLV.

Non importa che sieno molti, ma buoni. ◀Citation/Devise

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Aristofane e il Petrarca.

Dialogue► Aristofane. La notizia ch’io ebbi dell’umore di Dante, ch’anche tra queste ombre conserva non so che del fantastico, dell rigido e dello strano, mi ritenne dal favellare a lui medesimo; ma non ho già teco questo sospetto, o gentilissimo Petrarca, il quale ne’costumi tuoi conservi anche quaggiù certi delicati modi e certa cortesia, che non veggo in altri poeti. Per la qual cosa ho affidato a te liberamente il segreto scrittomi da Poesia; e ti prego che tu medesimo mi spiani quali furono le tue regole e i modi tenuti da te nel comporre i tuoi versi. Tu sei schietto, e di buona pasta; so che lo farai volentieri.

Il Petrarca. Quantunque io m’arrechi a grandissimo onore che tu venga a me a ragionare d’un’arte ch’io esercitai su nel mondo, imperciocchè in tal modo dimostri di far qualche conto dell’ingegno mio; sappi però ch’io non mi lascio punto traportare dalla vanagloria. E quanto è a poesia, io terrò sempre per mio padre e maestro quel Dante che tu hai nominato; da cui, non altrimenti che da una fonte, uscirono dopo la morte di lui in Italia le scienze e le buone arti, delle quali, dopo i migliori secoli de’Latini, appena era conosciuto più il nome. Immagina ch’egli fosse tra gl’italiani ingegni una tromba che gli destasse dal sonno, anzi dalla morte, e gli facesse aprire gli occhi al raggio delle santissime dottrine, alle quali non erano più umani sguardi che s’innalzassero. Di che puoi tu vedere da te medesimo quanta fosse la forza del suo intelletto, poichè fu sufficiente a scuotere una nazione intera. Non sì tosto egli venne di qua, che nelle scuole fu preso il suo poema per le mani de’maestri, e si cominciò a farne pubbliche spiegazioni, commenti, chiose, e a snudare la sostanza sua universalmente; tanto che ne riuscirono parecchi buoni discepoli, e a poco a poco s’ampliarono le dottrine; e comecchè le sieno poi giunte a maggior luce, non si può negare che da lui non derivasse tanto bene. Sicchè tu vedi quanto io debba essere obbligato a lui, e quanta stima io debba fare del suo superlativo cervello.

Aristofane. Ed ecco un tratto di quella tua gentilezza e bontà, ch’io diceva poc’anzi. Tu non sei tocco dall’invidia; e comecchè il nome tuo sia celebrato generalmente dalle voci degli uomini, non perciò se’tu punto salito in superbia, nè vuoi combattere la celebrità del nome di lui. Ma dappoichè così pensi di te medesimo, dimmi in che ti credi tu inferiore a lui; e dimmi ancora se ne’componimenti tuoi tu credi d’avere alcuna parte, nella quale tu pensi d’essere a lui superiore.

Il Petrarca. Oh! a qual ragionamento m’inviti tu al presente? Pure, poichè a te così piace, farò volentieri quello che mi domandi. Prima ti dirò qual differenza io giudico che passasse fra’nostri ingegni. L’ingegno suo, per quanto a me ne sembra, era più caldo, robusto, e più vigoroso del mio. Tutte le cose che in esso entravano, prendevano una [522] certa forma grande, virile e polputa, che oltrepassava ogni umana possanza. All’incontro, quelle ch’entravano nel mio, acquistavano delicatezza e una certa limatura, onde prendevano piuttosto grazia, che robustezza. E l’uno e l’altro fornimmo poi i nostri intelletti con lungo studio e con molto sudore e fatica; nel che siamo veramente uguali, e si vede che un uguale amore di gloria ci traportava. E voglio che tu sappia che a que’tempi, non senza un grandissimo stimolo di gloria si poteano imparare le dottrine, imperciocchè non erano i libri allora comuni come sono oggidì, ma pochi, e scritti a penna; sicchè s’avea a spendere gli occhi per acquistarne un picciolo numero. E appresso quando gli avevi alle mani, se ne volevi trarre il sugo, eri obbligato a leggerli da capo a fondo, imperciocchè non v’erano allora le diligentissime tavole, nè i copiosissimi indici, ne’quali per lo più i leggitori acquistano a questi tempi la loro dottrina; e vanno, come chi dicesse, alla mensa apparecchiata, prendendosi que’bocconi che vogliono, e facendo gran mostra di letterati con poca fatica. Ma lasciamo andare. Il mio antecessore si riconobbe poeta fin da’primi suoi anni; il che non avvenne a me, che cominciai ad avvedermene più tardi. L’uno e l’altro fummo renduti accorti della nostra poetica facoltá da una donna, ma egli ebbe in ciò ventura di me maggiore; perchè ne’primi e quasi puerili anni dell’età sua gli si presento la sua Beatrice, e a me non così per tempo la mia Laura. Queste furono le due faville che accesero in noi il fuoco poetico, e alle quali siamo entrambi obbligati di quella celebrità che di noi è rimasa al mondo. Ma ciascheduno di noi fece il cammino alla volta del monte Parnaso secondo il suo diverso ingegno. Vedi grandezza e maschia forza che fu la sua! Non solo egli ripose la donna sua nell’altissima sede de’cieli; ma la immaginò sua guida per quel lunghissimo viaggio ch’egli fece in Inferno, al Purgatorio e al Paradiso; e comecchè non sempre la si vegga in ogni luogo, pure tutto è opera di lei; e colà dov’egli la fa apparire la prima volta, non è umano intelletto che potesse immaginare tanta grandezza; sicchè il nome di Beatrice, a chi legge l’opera di lui, è rimaso maraviglia e stupore.

Aristofane. Io non credo pero che nel mondo sia punto inferiore il nome di Laura a quello di Beatrice. Tu l’hai con tante belle e rare lodi commendata, ch’ella è nelle memorie degli uomini viva oggidì, non altrimenti che se fosse ancora sulla terra.

Il Petrarca. È vero: feci anch’io dal mio lato quanto potei, e mi riuscì di renderla celebrata e famosa. Ma io non voglio pero gloriarmi d’aver saputo trarre dall’amor mio un onore uguale a quello di lui; perchè egli seppe dallo stimolo di quello trarre l’imitazione di mille cose di natura; e io non seppi altro fare, che dipingere l’amorosa passione in mille facce, è vero, ma sempre l’era però quello stesso originale ch’io avea davanti agli occhi, e non altro.

Aristofane. Questa è veramente tua modestia. Non si vuol però dire che quello sia il solo ingegno, il quale spazia per molte invenzioni; ma quello altresì, il quale in un argomento solo ritrova col suo acume e con la sua sottigliezza tutte quelle particolarità e circostanze che gli altri non aveano vedute. E se tu con l’intelletto tuo hai scoperto tante minute particolarità nella vita amorosa, non dirò che tu avessi minore forza dell’altro poeta. Di grazia, dimmi in qual forma dipingevi e imitavi tu co’tuoi versi l’amorosa passione.

[523] Il Petrarca. Io avea già pure lungo tempo, come ti dissi, fornito l’ingegno mio di molte notabili cognizioni, le quali avea io già sparse in parecchi libri che durano ancora al mondo, quando mi venne veduta quella Laura, di ch’io ti parlai. Io non so come, in un subito, que’miei pensieri, che andavano prima sparsi in molte parti, fecero massa tutti in un luogo, e si rivolsero tutti a questa donna, la quale divenne più padrona dell’intelletto mio, di quel che fossi io medesimo; e fuori di lei, io non vedea altra cosa. Una sua occhiata, un cenno, un sorriso, l’andare, lo stare incominciarono a parermi cose d’importanza; onde mi diedi a dipingerle in versi, e non so in qual forma tutto quello, che studiato avea, si convertiva in ornamento delle mie pitture. Furono queste vedute dagli uomini, e piacquero; onde al pungolo dell’amore s’aggiunse anche quello della gloria; sicchè sempre più animato e traportato dall’interno vigore, mi diedi a dipingere lei e me medesimo. Io studiava allora il mio cuore, come si leggono i libri; anzi con molto maggiore attenzione, e ad ogni suo picciolo movimento di speranza, di timore, di doglia, o d’altro, intrinsecatomi in me, ritrovava infinite circostanze che abbellivano ed accrescevano le mie interne affezioni; onde tostamente le coloriva e le vestiva con le parole, imitando di fuori quel ch’io sentiva di dentro, e facendo un quadro di quello che sente ognuno. Di che avveniva che ogni uomo, vedendo la rappresentazione di quanto ha in sè, arrestavasi volentieri a vedere, e ritrovava la somiglianza de’sentimenti suoi nelle mie pitture, e maravigliavasi che ogni picciola passioncella potesse aver tanto corpo, e si potesse ridurre a ritratto; e diceva fra sè: “Egli è vero, egli è vero: vedi ch’io non m’era avveduto di quello ch’io aveva in me, e costui ha saputo cavarne figure che quasi vivono”.

Aristofane. E ti pare d’aver fatto sì poco? Egli è bene il vero che tu hai preso un argomento universale, e che il vizio comune sarà stato cagione della grande accoglienza fatta all’opere tue.

Il Petrarca. No, Aristofane, no, il vizio. Imperocchè io voglio che tu sappia ch’io non dipinsi altro dell’amorosa passione, fuorchè quanto è in essa di nobile, di gentile e di garbato, lasciando indietro tutto quello che può descriversi facilmente da ogni ingegno ravvolto nelle sozzure e nel fango. Molte parti sono in natura che hanno infinita bellezza, e molte bruttezza. Quell’imitatore che si dà al dipingerla, dee scegliere quanto ha di più bello, e questo imitare. Chi così non fa, non può essere chiamato buon pittore, ma di quelli che traggono la somiglianza da’difetti, dall’aggravare col pennello le sproporzioni, e fare que’ritratti che si chiamano caricature. Da ciò io mi sono guardato sempre come dal fuoco.

Aristofane. Egli si può dunque dire che tu sia stato il primo pittore di questo genere.

Il Petrarca. Di’come vuoi. Quanto è vero si è che certamente i tuoi Greci, nè i Latini che vennero dopo di quelli, non immaginarono mai di scrivere cose amorose, traendole al verso dell’onesta: nè mai fu tra loro chi ritrovasse nel suo cuore que’principii ch’io pure ritrovai nel mio; comecchè fossero stati avvisati dal vostro Platone che pur v’erano. [524] Sicchè veramente si può dire che a’tempi nostri io fossi quel primo che con le mie pitture risvegliassi questa cognizione in Italia, la quale durò parecchi anni anche dopo la morte mia, finchè vennero nuovi poeti, i quali imitarono natura in altro modo; e io rimasi dimenticato.

Aristofane. Amico mio, a quanto tu hai ragionato fino a qui, io veggo che tanto Dante, quanto tu sareste necessari al mondo. L’uno e l’altro siete stati due egregi pittori; l’uno per li suoi colpi fieri e arditi, e l’altro per la sua dilicatezza. Ma del tuo stile tu non m’hai fino a qui detto cosa veruna.

Il Petrarca. Quanto è allo stile, ti dico io bene ch’egli mi pare in questa parte d’averne superato il mio antecessore. Io ebbi l’orecchio alquanto più armonioso di lui; i tempi miei usavano parole alquanto più purgate, soavi, e più lontane dalla corruzione, dond’erano nate. Ebbi sempre pensiero alla dolcezza, alla varietà, alla grazia, e talora anche alla forza, secondo che mi pareva che convenisse agli argomenti ch’io avea alle mani. Ma tu vedi bene ch’egli è gran diversità anche fra il descrivere le cose grandi di Dante, e una passione, come fec’io; onde non è maraviglia se in questa parte mi riuscì d’essere più soave di lui. Pensa che il mio stile non avrebbe però potuto mai dipingere l’Inferno. Nel che grandemente s’ingannerebbero tutti coloro, i quali volessero prenderlo da me in altri argomenti, fuorchè amorosi. Come sono diverse le materie, così sono vari i colori da dipingerle: e per ritrarre anche le materie d’amore non è buono il mio stile a chi non sente nel suo cuore quello che sentiva io medesimo, e a chi non guarda quella passione con quegli occhi, co’quali io soleva guardarla quando l’imitava col mio canzoniere.

Aristofane. Oh! questa, ti so dir io, sarebbe cosa difficile. Ho parlato quaggiù con parecchie ombre, le quali mi rendevano conto a’passati giorni del modo del far all’amore nel mondo; e a quanto mi parve d’intendere, quando si nomina Platone, tutti ne ridono sgangheratamente. Sicchè egli è il meglio, quando il tuo stile non è buono altro che per li Platonici, che tu rimanga quaggiù, e che vada sulla terra Dante.

Il Petrarca. Lasciolo andare volentieri, e dicoti ch’egli verrà più facilmente imitato, perch’egli ha qua e colà una certa salsa e un condimento di satira che può dar nell’umore.

Aristofane. Io ne scriverò a Poesia, e dirò ch’è stato anche tuo consiglio. ◀Dialogue ◀Niveau 3 ◀Niveau 2 ◀Niveau 1