Gli Osservatori veneti: Numero XVIII

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Nivel 1

No XVIII.

A dì 3 aprile 1762.

Nivel 2

Nivel 3

Dialogo.

Ippocrate e Caronte.

Diálogo

Ippocrate. Oh! uh! tu sudi molto! Ti gocciolano i capelli. Che vuol dire che tu se’così trafelato e ansante? Caronte. Vuol dire che ad ogni modo io legherò questa mia sdrucita barca alla riva di qua; e chi vuole stridere, strida. Io ho tante faccende che non ho più fiato in corpo. Tu vedi pure ch’io sono uno Iddio non molto giovane, e da non poter durare a tante e così continue fatiche. Approda di qua, approda di là giorno e notte, io non ho più braccia, nè gambe. Vedi come le mani mie sono indurate da’calli. Qui fra il dito grosso e l’indice tu vedi un colore quasi di sangue. Pensa se mi duole. Oltre di che, a caricare così spesso la barca, io non ho tempo da ristopparla, né da impeciarla, sicchè per migliaia di spilli l’acqua d’Acheronte v’entra da più lati, e si diguazza nella sentina. Io fui per affondare più volte; e sarebbe pure un gran vitupèro che un Nume si trovasse imbrodolato nel fango, e fosse obbligato a menare le braccia e le mani per salvarsi. Ippocrate. Caronte, ho compassione del fatto tuo; ma ad ogni modo non saprei che fare per giovare a questa tua fatica. Tuttavia confortati, che la bellezza dell’anno comincia ad aprirsi costassù al mondo, e vedrai che fra poco tu non avrai a fare tant’opera, quanta n’hai fatta fino al presente. Caronte. Ognuno mi conforta con aglietti, e intanto io sono senza fiato. Poi credi tu ch’io presti punto di fede a’pronostici tuoi? Noi ci conosciamo. Egli non è gran tempo che tu se’venuto quaggiù. Oh! quanto può egli essere? Due anni. E sai tu quante ombre io solea tragittare, le quali si dolevano del fatto tuo, e si querelavano che l’erano uscite fuori delle polpe, mentre che tu avevi predetto loro la vicina salute? Sappi ch’io in quel tempo avea una gran voglia di vederti in viso, e di conoscere un uomo il quale affermava con tanta costanza quelle cose che poi avvenivano spesso tutto il contrario, e lasciavale in iscritto, acciocchè la posterità facesse un gran conto del suo nome e dell’arte di lui. Infine tu ci venisti; io ti conobbi, e sperava che fossero minorate le faccende mie; ma non è vero: io ho che fare quanto due anni fa, e più ancora. Ippocrate. Di queste faccende tu n’avrai fino a tanto che dura il mondo: nè tu dèi però incolpare l’arte mia, nè coloro che sono dopo di me rimasi sopra la terra. Caronte. Chi n’avrò io dunque da incolpare? Io veggo che di colà, dove non bazzicano i discepoli che tu hai lasciati, l’ombre ci scendono di rado, e piuttosto slegatesi dalle membra per vecchiezza, che per altro. I villaggi, i boschi e le capanne de’pastori non mandano quelle torme d’ombre alla nostra palude, che ci vengono dalle castella, dalle città e da’più frequentati borghi, dove si studiano le battute de’polsi. Sicchè io non posso dire altro, se non che l’arte tua non abbia in sè quella certezza che tu vorresti darmi ad intendere. Ippocrate. Buono! Io non t’ho però detto che la sia certa; anzi ti dico che, se mai la fu incerta, la diverrà tale da qui in poi. Tu vedi che gli uomini non vivono sempre ad un modo. Io ho fatte le mie osservazioni sopra le loro complessioni per tutto il corso dell’età mia, e in un tempo in cui viveano ad una forma; dalla quale nascevano alcune infermità che secondo il tenore della vita procedevano. Che so io quante novità debbono accadere in migliaia d’anni? Pensi tu che la cucina si farà sempre, come si faceva a’tempi miei? Credi tu che sempre saranno gli stessi esercizi? Che per tutt’i secoli le stesse passioni signoreggeranno gli animi delle genti? Sai tu che gli uomini, in iscambio di camminare, non si dieno un giorno tutti a starsi quasi sempre a sedere? Prevedi tu tante altre cose che possono avvenire, e tante altre usanze, diverse da quelle d’oggidì, le quali hanno grandissima influenza ne’sangui, ne’muscoli, nei nervi, nell’ossa e nelle viscere degli uomini? Caronte. L’uffizio mio non è di prevedere tante cose; ma dicoti solamente che tu medesimo, il quale ti tenevi da tanto, congiurasti con le infermità, e mi desti faccenda troppo più di quello che avrei voluto. Ippocrate. Non dire, Caronte, veramente che sia stato io quegli che ti desse faccenda, ma di’piuttosto che la colpa fu della fretta altrui di guarire. Che vuoi tu? Le genti s’erano ostinate a credere ch’io non potessi mai commettere errore, e si credevano ch’io avessi la facoltà di farle ritornare sane e fresche in un giorno; e però s’io andava a rilento, e fattomi osservatore di natura,, indugiava a scriver loro le ricette, era stimato di mal animo e un tristo uomo, che non mi curassi punto della salute altrui; e talvolta anche avveniva che perduto il concetto che aveano di me, mi stimavano ignorante; ond’io stimolato, e spesso contra mia voglia, o non sapendo anche se facessi bene o male, m’affrettava a compiacere l’infermo, i congiunti e gli amici, da’quali era stordito alle prime visitazioni; e volevano sapere la qualità del male, e quello che ne sarebbe avvenuto. Ond’io avea inventato un certo gergone da pronosticare, che, avvenisse quello che si volesse, si potea interpretare secondo quello ch’era accaduto; un parlare, come chi dicesse da due manichi, che si poteva prendere infine tanto dall’uno, quanto dall’altro. Oltre di che m’affrettava talvolta anche da me medesimo, e sollecitamente medicava per un’altra ragione. Imperocchè tu dèi sapere che, passati alquanti giorni d’una infermità, egli è una usanza in Grecia che si sogliono chiamare varie persone dell’arte nostra, acciocchè tengano intorno ad essa consiglio; e tu sai bene che ognuno vuol parere da qualche cosa; ond’io prevedendo che i nuovi consiglieri avrebbero suggerito chi una cosa, chi un’altra, per non lasciar loro luogo e campo a’suggerimenti, e mostrare che l’intelletto mio avea col suo acume già il tutto abbracciato, ne’primi giorni della malattia, senza punto attendere che natura mi desse più certi segnali di quello che richiedesse, facea cavar sangue allo infermo dalle braccia, da’piedi, e da quante parti del corpo se ne può trarre, e gli empieva il ventre di pillole, di polveri e di tante medicine, che i sopravvegnenti consiglieri erano obbligati a confessare ch’io avea fatto quanto dettava l’arte, e che se l’infermo moriva, era suo danno. Sicchè infine io n’acquistava grandissima lode, e non era chi non mi giudicasse degno di venerazione. Caronte. E intanto s’accrescevano a me le fatiche e gli stenti. Ippocrate. Che volevi tu ch’io facessi? Ogni uomo pensa a’casi suoi. S’io avessi fatto altrimenti, non ci sarebbe stato alcuno che fosse venuto per me; là dove a quel modo io venni fin da’re e da’principi invitato, e mi furono dalle città rizzate le statue. Anzi tanta è la fama ch’io ho acquistata, che da qui in poi le scritture mie andranno per le mani di tutti, e vi saranno fatte tante chiose e commenti, che ne sarà empiuto il mondo. Caronte. Commenti? Perchè? Non hai tu forse scritti chiari i pensamenti tuoi, sicchè ogni uomo gli possa intendere? Trattandosi d’una dottrina la più di tutte l’altre necessaria alla conservazione dell’umana spezie, almen che sia tu avresti dovuto scrivere con evidenza. Ippocrate. Scrivere con evidenza si possono quelle cose che s’intendono. Io ho quasi ogni cosa scritta co’due manichi. Acutissimi ingegni prenderanno chi un manico e chi l’altro, e vi diranno sopra il loro parere. Ne nasceranno fra loro disputazioni e romori, fra’quali sarà sempre il mio nome, e risonerà dall’un partito e dall’altro, rimbalzato di qua e di là come una palla. Di qua, Caronte, dee nascere la mia fama, ed essere l’immortalità mia sempre verde. Caronte. E di qua dee nascere ancora, che mi dovrà sudare la fronte a vogare continuamente. Ippocrate. Chi sa? Egli potrebbe anche un giorno avvenire, che avvedutisi gli uomini della bellezza della sanità, si dessero ad un vivere sobrio e temperato, e fuggissero ad ogni lor potere la calamità dello infermare, e la furia delle medicine. Io non fui già sano per tutto il corso della vita mia, e non credere perciò che ingoiassi nè pillole, nè lattovari, come gli faceva ingoiare ad altrui. Caronte. Tu facevi dunque dell’arte tua come si fa della spada. Per te la tenevi nel fodero, e la sguainavi per altrui. Ippocrate. Io non ebbi per me altri speziali che la quiete e il mangiare parcamente. Non sì tosto veniva assalito da qualche magagna il corpo mio, che io ritiravami nelle mie stanze, e guardandomi dall’intemperie dell’aria, e dall’esercizio della gola, e da tutti gli altri disordini, attendeva in pace che la natura stabilisse quello che dovea far di me; temendo sempre, s’io avessi fatto altrimenti, d’andare contro alle leggi sue, e d’interrompere le sue sapientissime disposizioni. A questo’modo l’indovinai sempre, fino a quell’ultimo giorno in cui mi convenne dipartirmi dal mondo, e nel quale io diedi a te la fatica di farmi varcare questa palude. Caronte. E io credetti allora che mancando tu sulla terra, non dovessero più fioccare tante ombre quaggiù quanto prima. Vedi granchio ch’io avea preso! Ippocrate. Che vuoi tu fare? Abbi pazienza. Credimi che molto maggiore l’hanno tutti coloro che vengono alla tua barca. Caronte. Orsù, poichè mi sono riposato alquanto, egli mi pare al presente d’essere ritornato di miglior umore di prima. Farò a modo tuo. Ippocrate, Addio. Ippocrate. Sì, va’, e voga.

Nivel 3

Carta/Carta al director

Signori Osservatori. Più volte s’è letto ne’vostri fogli che la poesia è arte d’imitazione. Lo credo, ma avrei caro che alcuno di voi discendesse ad alcuni particolari. Molti sono i modi dell’imitare, e molti per conseguenza saranno i caratteri degli imitatori. Avrei caro per esempio che alcuno di voi mi dicesse, in qual forma fosse la natura imitata da Dante, in quale dal Petrarca, e in quale da alcun altro de’maggiori poeti italiani. Quali forme tenesse nell’imitarla il Berni, chiamato "Padre e maestro del burlesco stile," e in somma in qual maniera l’imitassero altri buoni poeti d’ogni genere. Se così farete, n’avrà qualche ammaestramento chi legge, e non sarà forse discaro l’entrare in alcuni particolari a’quali sembra che fino a qui non abbia pensato alcuno. Io gitto questa favilla. Sta a voi il soffiarvi dentro e accendere quel fuoco, se volete. Se non volete ancora, fate a modo vostro, ch’io per me leggo quello che mi viene offerito da voi, avendo un’infinita gratitudine verso persone, le quali si contentano di stare a sedere parecchie ore alla settimana e a scrivere, per darmi da leggere cosette brevi e varie, delle quali l’una ha di rado che fare con l’altra. Ho detto e vi saluto.
Risposta del Velluto. Veramente è favilla quello che V. S. ci scrive e può accendere grandissima fiamma. La materia da lei proposta è maggiore e più abbondante di quanto altri possa immaginare. È argomento da farne un grosso volume. Pensi quanti aspetti ha natura, e che quanti ingegni poetici sono al mondo ne guardano un aspetto diverso secondo le forze e le qualità loro, e consideri qual tema ci venne dato da lei. Con tutto però che sia grande e pieno d’una somma fatica, sono inanimati i compagni miei a trattarlo anche in questi fogli, ristringendolo sotto quella brevità che conviene a tali picciole e brevi scritture. Non è alcuno di loro, il quale non abbia occupato un tempo della sua vita a leggere e considerare gl’italiani poeti, appunto con quella intenzione che fu da lei dichiarata nella sua lettera. Ve n’ha fra loro degli innamorati di Dante, altri del Petrarca, altri del Berni, altri d’altro poeta. Ognuno ha fatto le sue osservazioni. Resterà solo il vestirle con qualche colore, che possa essere gradito da chi legge. Così tenteranno di fare per compiacerla, sperando nello stesso tempo che il pubblico non disapproverà una cosa la quale può servire, se non altro, di qualche lume a que’giovanetti, i quali inclinati alle belle arti debbono lungo tempo affaticarsi per trarre da sè medesimi que’lumi che possono ritrovare in un breve giro di parole; e da essi poi guidati, giungere più presto all’intelligenza della vera bellezza d’un’arte in tutti i tempi stimata leggiadra, e quel che più è, tanto collegata con l’eloquenza.