Cita bibliográfica: Gasparo Gozzi (Ed.): "Numero XVII", en: Gli Osservatori veneti, Vol.1\17 (1761-03-31), pp. 504-508, editado en: Ertler, Klaus-Dieter / Fuchs, Alexandra (Ed.): Los "Spectators" en el contexto internacional. Edición digital, Graz 2011- . hdl.handle.net/11471/513.20.3578 [consultado el: ].


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N° XVII.

A dì 31 marzo 1762.

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Gl’Ingegni

Dialogo.

Omero e Ricamatrice.

Diálogo► Omero. Insegnami, o divina Musa, in qual modo io possa esercitare la pazienza in questi cupi e nuvolosi fondi sotterranei. È egli possibile che tu, o Dea, la quale m’ammaestrasti a comporre due così lunghi poemi, non sappia ora mandare all’animo mio tanta sofferenza, ch’io possa senza collera ascoltare questa vilissima donnicciuola, la quale sempre m’assedia le calcagna, e vuol far paragone dell’attività sua con la mia? Io so pure che le sue non sono altro che ciance, delle quali dovrei far quel conto che si suol fare d’un fischio del vento, o del ronzare delle mosche; e pure con tutto ciò non so patire di vedermela sempre a’fianchi, e di sentirla a borbottare. Qual così grave demerito è stato il mio costassù nel mondo, ch’io debba avere quaggiù questa mosca canina, questa mignatta, questa ventosa appiccata sempre alla pelle?

Ricamatrice. Cantore dell’ira d’Achille e della prudenza d’Ulisse, se le parole mie ti vengono a noia, questa è colpa tua. Tu arrecasti di qua quella medesima superbia che avevi su nel mondo; e di qua i vizi debbono essere sbanditi. Tu facesti così grande stima del tuo ingegno in vita, ch’egli ti parea che tutti gli altri umani capi fossero pieni di vento. Tuo danno. Egli si vuol credere che anche il prossimo [505] abbia cervello. Tu non avresti dato il tuo per quello di Minerva: tanto ti pareva di sapere, per certe poche parole che potesti accozzare insieme con un poco più d’armonia che gli altri Greci. Ogni uomo ha l’intelletto suo. E se tutti non fanno poemi, fanno però altro: e ogni cosa nel genere suo richiede tanta sapienza, quanta l’Iliade e l’Odissea, delle quali avevi tanta boria. Questo è l’errore che si punisce di qua in te con la mia perpetua persecuzione.

Omero. O Rettore degl’immensi spazi dell’Olimpo, o Nettuno scuotitore della terra, quanto è egli vero che voi siete migliori Dii di questi che regnano negli abissi! Chè certo questo travaglio che qui ora m’è dato, da altro non può procedere, che dalla malignità degli abitatori di questi luoghi.

Ricamatrice. Empio, bestemmiatore. Gorgógliati queste tue strane parole nella gola, e non fare almeno ch’altri le oda. Quanto sarebbe il meglio che tu confessassi il vero, che, ritenendo la tua prima superbia, stimolare sempre più la collera delle Deità degli abissi. Tu sei tu pure quel medesimo che in tanti luoghi de’tuoi poemi divulgasti la grandezza di questi Dii, ed ispirasti negli uomini tanto timore di Acheronte e di Cocito: e ora perchè se’tu così divenuto diverso da te medesimo, che incolpi coloro i quali furono cotanto dalla tua lingua esaltati? Che direbbe la Grecia ora del fatto tuo, la quale trasse i principii di tanti suoi riti dalle tue canzoni, s’ella t’udisse al presente a cantare la palinodía? Ella direbbe che, standoti al piano, confortavi i cani all’erta, e che in fatti eri un altro che in parole. Ma così va. Ognuno è buono a fare sentenze; ma con l’opera le distrugge.

Omero. Ma infine infine, posso io sapere quello che tu voglia da me, per avere una volta pace teco; e acciocchè quella tua mobile, anzi maladetta lingua stia cheta? Di’su, che s’ha a fare?

Ricamatrice. Tu hai a confessare che l’ingegno tuo nel mondo non fu punto superiore al mio. Quando avrai profferita questa verità di cuore, io tacerò, e me n’andrò a’fatti miei.

Omero. Con tutto che la rabbia mi roda, non posso fare a meno di non ridere. Io avrò con tanta varietà di battaglie e d’accidenti condotto Ettore a morire per man d’Achille, e guidato per così lunghi viaggi e per tante maraviglie Ulisse nel suo regno, per confessare al presente che una femminetta, una ricamatrice ha avuto intelletto uguale al mio? Oh! va’, ti prego, va’, non dire queste pazzie.

Ricamatrice. S’io avessi la superbia tua, potrei anch’io così bene, come tu fai, esaltarmi e vantarmi, che l’intelletto d’una ricamatrice vale molto più di quello d’Omero; ma l’animo mio fu sempre temperato e più ragionevole del tuo, e comecchè fossi nell’arte mia peritissima, quanto fossi tu nella tua, io l’esercitai però sempre con quella modestia che si richiede a chi riconosce d’avere una testa uguale a tutte l’altre.

Omero.]. Sì, che tu avrai, per passare un panno od una tela con gli aghi e con le sete di più colori, studiato quant’io per comporre due poemi.

[506] Ricamatrice. Vorresti forse dire ch’io avessi studiato meno, e ch’io mi fossi concentrata manco nelle mie meditazioni che tu nelle tue?

Omero.]. Orsù, vegnamo a’ferri, perch’io non potrei aver teco più pazienza.

Ricamatrice. Vedi ch’io voglio anche cederti il luogo. Parla tu primo; e di’quali furono le tue meditazioni per riuscire buon poeta.

Omero. In primo luogo, poichè pure ti debbo render conto a forza de’fatti miei, io conobbi che, per essere ottimo poeta, io dovea essere un buon imitatore. Per la qual cosa io cominciai non solo a studiare con grandissima diligenza tutto quello che mi cadeva sotto agli occhi, e ad esaminare terra, monti e mare, e tutte quelle varietà che mi s’offerivano agli occhi con movimento e senza; ma penetrando con acutissima vista in tutte le passioni degli uomini, le minuzzai tutte, per così dire, col pensiero, e di tutte mi feci un ritratto, per dipingerle all’occorrenza ne’versi miei. Innalzai oltre a ciò l’animo alle cose intellettive, e penetrai con l’ingegno fin sopra gl’infiniti spazi de’cieli, e m’aggirai fra gli Dei medesimi, ritraendo agli uomini le altissime condizioni di quelli. Nè bastarono tutte queste meditazioni, e altre molte che ora sarebbe lungo a dirle, che mi diedi ancora al meditare que’modi, co’quali dovessi colorire le mie intenzioni, acciocchè tali m’uscissero della lingua, quali sfavillavano dentro; e a vestirle per modo che le potessero apparire altrui vistose e quasi palpabili. Credi tu che una ricamatrice possa mai affaticarsi tanto, nè così lungamente?

Ricamatrice. Fino a qui però non hai detto cosa ch’io non abbia io medesima meditata nell’arte mia. Perchè non sì tosto mi diedi anch’io ad essa, che conobbi che, per essere ottima ricamatrice, io dovea essere imitatrice perfetta. Per la qual cosa diedi principio dall’esaminare con diligenza tutto quello che mi cadeva sotto gli occhi, e non grossolanamente, come tu facevi; il quale quando avevi veduta una quercia, non sapevi di più, se non che l’era verde e bene a fondo colle radici; ma minutamente guardava le quasi invisibili e diverse tinte del verde d’una sola foglia, e i tortuosi rami di quanti colori erano, e i loro nodi, e se erano nudi o vestiti di moscolo. Nè solamente meditava io la terra ed i monti, ma i più menomi fiorellini che quivi spuntano, e i frutti, e altre migliaia di cose, che non finirei mai, se tutte dir le volessi. Quanto è alle passioni degli uomini, io le studiai quanto tu, e più ancora, imperciocchè io studiai insieme quelle delle donne, delle quali tu parlasti poco e di rado ne’poemi tuoi. Perchè se tu studiasti le passioni per dipingerle, e io le meditai per conoscere quello che piaceva o non piaceva a’capricci universali. Quanto è agli Dei, egli è il vero che non ebbi ardimento di voler penetrare coll’intelletto mio ne’fatti loro, che non possono mai da noi altri vilissimi abitatori della terra essere conosciuti; ma in quello scambio, venerandogli con puro cuore e con mente dinanzi a loro umiliata, io gli pregava che prosperamente assecondassero l’opere mie. Nel che, credimi, Omero, io l’intesi molto meglio di te, il quale, volendo favellare di quello che ad ogni modo non è cosa da terreni intelletti, dicesti i maggiori farfalloni del mondo, e facesti fare agli Dei di quelle cose che putirebbero se le facessero gli uomini anche tristi. E se non fossero [507] certi dottori sottili che traggono all’allegoria i tuoi superlativi errori, credimi che non avresti più lode sopra la terra. Quelle meditazioni infine che tu facesti intorno allo stile, io le feci intorno allo scegliere i vari colori delle sete, acciocchè spiccassero il più naturalmente che fosse possibile i miei fiori, le foglie e i rami ch’io intrecciava sul telaio con l’ago. Sicchè vedi che tanto costa ad un capo il ricamare, quanto ad un altro il fare poemi.

Omero. Egli si vede però che le genti fanno maggior onore alle opere mie, che alle tue: imperocchè delle mie, dopo tanti anni che io non sono più in vita, si fa ancora grandissimo conto, e delle tue non si sa che sieno state al mondo.

Ricamatrice. Anche in questo siamo del pari, benchè tu non lo creda. La diversità sta nella materia di cui ci siamo serviti tu ed io per colorirvi sopra le nostre intenzioni. I libri sono più tardi rosi da’tarli, che i panni e le tele. Se gli studianti dell’antichità potessero oggidì ritrovare un cencio ricamato dalle mie mani, credi tu che non vi facessero sopra tante chiose e commenti, quanti ne furono fatti alla tua Iliade e all’Odissea, e direbbero tante pazzie del mio cencio, quante n’hanno dette e ne diranno delle tue opere? E credi tu, quando io vivea, che non avessi chi mi rubacchiasse i miei disegni e i ricami miei, come hanno a te rubacchiati i tuoi poemi? E se tu hai trovati copiatori di quelli, credi tu che se i panni e le tele da me ricamati fossero durati parecchi anni dopo la mia morte, non avessero ritrovato chi gli avesse ricopiati? Ma sai che è? I libri tuoi si riposero in armadi, vi stettero custoditi, poche mani li travagliarono; laddove i panni miei quanto più erano belli, tanto più erano adoperati, portati da luogo a luogo, e finalmente a’rigattieri venduti e rivenduti da loro, tanto che, se fossero stati di ferro, si sarebbero logorati.

Omero. Sia come tu vuoi. Io però sono sulla terra onorato come se fossi vivo ancora, e di te non si sa che tu vivessi giammai, nè qual fosse il tuo nome.

Ricamatrice. E però vedi il gran vantaggio che n’hai. Questo grande onore ti fa quaggiù ancora insuperbire, e ti rende insofferibile a’giudici di questo luogo. Degli agi che avesti in tua vita, non parlo. Vedi che mangiasti quasi sempre un pane limosinato, che andasti errando d’uno in altro paese come uno zingano, sicchè non si sa ancora qual fosse la tua patria. Quanto è a me, co’lavori delle mie mani nutricava molto bene me e la piccioletta mia famiglia; e mentre che tu cieco cantavi per le piazze, allettando gli orecchi de’Greci con le adulazioni, ed empiendogli di superbia e d’astio contra tutte l’altre nazioni, io me ne stava, forando con l’ago le tele mie, a sedere, e cantando una canzonetta per diletto, o ringraziando con qualche inno gli Dei della loro clemenza. Ti pare che la tua vita sia da uguagliarsi alla mia; e non vorresti tu essere stato piuttosto una ricamatrice agiata, che quel grande Omero vagabondo sopra la terra?

Omero. Ma di me sono scolpiti busti e medaglie.

Ricamatrice. Ma io ebbi, finchè vissi, vitto e danari.

Omero. Ma i poemi miei sono per le mani de’letterati.

[508] Ricamatrice. Ma, finch’io vissi, concorrevano alla casa mia comperatori.

Omero. Oh! va’, ch’io non posso più sofferirti.

Ricamatrice. Anzi mi dèi sofferire fino a tanto che sarai della tua boria guarito.

Omero. Mi vieni tu dietro ancora?

Ricamatrice. Ben sai che sì. O consenti di livellare il tuo ingegno al mio, e di mettere in bilancia l’Iliade e l’Odissea co’miei ricami, o ti tempesterò colle parole in eterno. ◀Diálogo ◀Nivel 3 ◀Nivel 2 ◀Nivel 1