Numero XI Gasparo Gozzi Moralische Wochenschriften Klaus-Dieter Ertler Herausgeber Alexandra Fuchs Herausgeber Angelika Hallegger Mitarbeiter Lena Druml Mitarbeiter Sarah Lang Gerlinde Schneider Martina Scholger Johannes Stigler Gunter Vasold Datenmodellierung Applikationsentwicklung Institut für Romanistik, Universität Graz Zentrum für Informationsmodellierung, Universität Graz Graz 15.04.2019

o:mws.5445

Gozzi, Gasparo: Gli Osservatori veneti. Herausgegeben von Emilio Spagni. Firenze: G. Barbera 1897 [1762], 480-483 Gli Osservatori veneti 1 11 1761-03-10 Italien
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No XI.

A dì 10 marzo 1762.

Credea già il povero poeta d’esser soffiato fuori del mondo; tanta era la furia della procella che ne lo spingeva; quando a poco a poco incominciò a cessare il vento, ed egli piano si sentiva calare, fino a tanto che si ritrovò sopra la cima d’una montagna, dove la furia del soffio l’abbandonò del tutto, e in poco d’ora vide squarciarsi quel nembo che ne l’avea quivi nel suo seno traportato. Da tutti i lati si divise quel grande ammassamento di mal tempo in nugoloni neri e cenerognoli, parte de’quali erano orlati dallo splendore del sole, e alcuni di color vermiglio trasparente, e tutti, a mano a mano dileguandosi, lasciarono il campo dell’aria tutto ripieno d’una gioconda serenità. Guardavasi il poeta intorno attonito e quasi fuori di sè, non sapendo in qual luogo egli fosse. Dall’un lato vestito era il monte di verdi selvette grate a vedersi, ripiene di dolcissimi rosignuoli; dall’altro le minute erbette guernite di fiorellini di più colori, ed un cristallino ruscello che fra essi trascorrendo gl’innaffiava, confortavano gli occhi suoi per modo che gli parea d’essere pervenuto a quella cotanto decantata beatitudine degli Elisi. Ma non sapendo in qual luogo egli fosse, e desiderando di vedere persona che gliele dicesse, non faceva altro che voltare il capo or qua ora colà, attendendo sempre che alcun uomo o donna gli comparisse dinanzi per appagare la voglia sua. Quando quelle medesime voci, che già avea egli udite la prima volta a cantare appresso alla finestra della sua cameretta, incominciarono dalla parte de’boschetti in questa guisa una novella canzone:

O intelletto uman, che in obblío poni L’alta natura e il tuo divino stato, E pregi il fango solo onde sei cinto; Questi bei colli, a cui corona fanno Liete ricchezze di verdura eterna, Son del Parnaso le beate cime. Se veder vuoi quale il verace aspetto De’beni sia tanto bramati in terra, Volgi dal monte in giù l’acuto sguardo. Dinanzi a te s’apre lo spazio immenso D’un’ampia terra e d’infinito mare, Acciò che al veder tuo nulla si celi.

Finita questa breve canzone, parve al poeta che dagli occhi suoi cadessero non so quali scaglie, come quelle che vengono da’pesci raschiate via, e la vista sua divenne cotanto penetrativa, che potea ogni cosa vedere dall’un capo all’altro del mondo senza impedimento veruno; nè l’offendeva punto quell’aria nuvolosa e torbida, oltre alla quale, dopo un certo tratto di lontananza, non può penetrare la vista di coloro che guardano dall’alte cime delle montagne. Di che rivoltando egli gli occhi allo ingiù, vide molti maligni spiriti ch’empievano tutto il mondo, e parea che intorno svolazzassero per ischerzare e burlarsi degli uomini. Avea quella maladetta stirpe certe forate canne nelle mani, un capo delle quali ficcando nell’acqua, e l’altro mettendosi alla bocca, e dentro soffiandovi, destava nell’acqua un grandissimo bollore a guisa di tempesta, donde usciva poi un vapore, che, nell’aria innalzandosi, prendeva la forma d’un castello il quale dagli uomini stimato cosa effettiva e di sostanza vi concorrevano tutti all’intorno, e parea loro di non poter vivere, se non l’aveano acquistato. Ma quando vi aveano posto il piede dentro, ritrovavano che vano era stato il desiderio loro; e di là uscendo, mettevano di nuovo la speranza loro in un altro castello; e così d’inganno in inganno quasi impazzando, non aveano mai bene o riposo. Parve al poeta una strana cosa quella che vedea, e volendo pure intender meglio quello che ciò significasse, incominciò ad attendervi con grande applicazione. Vide adunque gl’importuni spiriti in grandissima calca ficcare i capi delle canne in un fiume, le cui acque conducendo una rena gialla, acquistavano il colore di quella, e, dentro soffiandovi con grandissima forza sollevarono un indicibile bollimento; di che l’acqua innalzandosi in apparenza di muraglie, colonne, usci, finestre, e in quante altre parti sono ad un edifizio necessarie, prese la forma d’un castello forte e murato, ed, al vederlo, da tutt’i lati risplendente come oro; anzi pur veramente era d’oro, imperocchè trovavansi nell’acqua incorporate le arene, ch’erano quel metallo dalla forza dell’onde fuor delle viscere de’monti portato nel letto loro. Eravi un ponte levatoio, chiuso e aperto dalla Fortuna, che dalla parte del castello signoreggiava, e sulla fronte della porta maggiore leggevansi queste parole:

Castello in aria delle ricchezze.

Notava il poeta che le parole Castello delle Ricchezze erano scolpite in lettere maiuscole d’una sterminata grandezza, ma l’altre, che in aria dicevano, erano in minutissimo carattere descritte, e quelle anche mezze logore, sicchè giudicò che vedute non fossero da coloro a’quali non erano per celeste operazione cadute le scaglie dagli occhi. Non sì tosto apparve il castello alla vista de’circostanti, che incominciò la grandissima calca delle persone, dimenticatasi di ogni altra cosa, a struggersi e a menare smanie per entrare in esso. Molti con inni e canzoni vezzeggiavano la Fortuna padrona del luogo, per renderlasi benevola e indurla ad aprir loro il castello; alcuni altri venivano a zuffa tra loro per essere i primi a salire il ponte; e graffiavansi gli occhi fratelli e fratelli, mariti e mogli, e fino padri e figliuoli per discacciarsi l’un l’altro, senza una compassione al mondo. Ma mentre che così fatte cose colaggiù si facevano, io credo acciocchè il poeta fosse meglio informato di quanto vedea, uscì fuori del vicino boschetto Talía, e con quella sua maestà di camminare e d’aspetto gli si accostò, e cominciò a parlargli in tal forma.

Talía. Quantunque i demeriti tuoi sieno tali e sì grandi, che tu dovresti essere lasciato da me errare nella tua cecità con le altre turbe delle genti, ho avuto pietà de’casi tuoi, e fatto per modo che, se non hai il cervello di sasso, conoscerai quale fino al presente sia stato il tuo inganno. Per opera delle divine Muse hai acquistato un’acuta vista, la quale è bensì atta a giungere colà dove altri non potrebbe pervenire; ma tu hai però ancora bisogno di noi per comprendere quello che vedi. Sicchè guarda; e quando t’apparisce cosa di cui tu non intenda la sostanza, domanda, che io son qui per dichiararti quello che non potresti intendere da te medesimo.

Poeta. La maraviglia delle cose che m’appariscono innanzi al presente, fa cessare in me una parte della mia collora, e io ti sono almeno obbligato per ora che mi fai vedere queste novità, ch’io non avrei senza l’opera tua vedute giammai. Poichè se’deliberata di dichiararmi quello ch’io veggo, eccoti la mia prima curiosità.

Talía. Di’su, di’su, ch’io attentamente t’ascolto.

Poeta. Quel castello che così in un subito, e quasi a guisa di fungo, è nato dall’agitazione di quel fiume, ed è così alto, e tanto spazio comprende d’aria, perchè pare che, all’incontro di tutti gli altri edifizi del mondo, da quegli uomini ch’ivi concorrono, sia più facilmente veduto da lontano che da vicino? Con mia non picciola maraviglia noto di qua, che tutti coloro i quali prima in lontananza parea che chiaramente il vedessero, quanto più s’avvicinano, aguzzano le ciglia, come se avessero a vedere una cosa che fugge loro dagli occhi, e finalmente mettonsi gli occhiali. Questo nol saprei io già comprendere, se tu non me ne dicessi la cagione.

Talía. Appunto la cosa sta come ti pare di vederla. Tale è la natura de’materiali di cui quel castello è composto, che, fino a tanto che gli uomini sono da esso lontani, e più sembra loro grande e maraviglioso quell’edifizio. Quanto più vi s’accostano, tanto meno lo veggono; ma essi che non intendono la qualità del castello, danno la colpa agli occhi loro, e sempre più s’invogliano d’entrarvi e divenirne padroni; e di qua nasce che tu vedi quelle confusioni e quelle zuffe tra que’cotanti competitori.

Poeta. E quella canina rabbia con la quale s’offendono l’un l’altro, donde nasce?

Talía. Dal credere ciascheduno che nel castello della Ricchezza sia posta la vera felicità dell’uomo. Perciò appunto dimenticatasi ogni altra cosa che hanno d’intorno, non vedendo più punto bellezze nè di terra nè di cielo, hanno posto il cuore a voler entrare in quel castello, e si conciano co’graffi e co’morsi per essere i primi. Vedi, vedi che Fortuna ha calato il ponte, e aperto l’uscio a colui il quale con quella faccia alta e con que’baldanzosi passi cammina ed entra nel castello. Osserva quanta mutazione! Coloro i quali poco fa erano suoi sfidati nemici e mortali, e l’aveano più volte assalito con le pugna e co’morsi, ora da lontano ammirando la sua nuova beatitudine, gli si raccomandano chi con le mani giunte, altri con gl’inchini e con le sberrettate, e cantano le sue lodi, le quali tu non puoi udire di qua, ma puoi ben vedere le bocche che aprono, e le attitudini d’umiliazione e quasi di schiavitù che tutti fanno. Intanto egli fatto sordo, e con una comitiva di persone che dipendono da’cenni suoi, come i fantocci di legno e stracci dal fil di ferro che gli fa movere, è nel castello entrato, e a suo grande agio si sta mirando quello che Fortuna gli ha conceduto.

Poeta. Dirai tu forse ch’egli non istia bene, e non si goda una vita agiatissima? Così foss’io, e tutti gli amici miei!

Talía. Adagio. T’affidi tu forse a quella faccia lieta che mostra così al primo? Lascialo un breve tempo. Vedilo ora ch’egli è solo. Vedi come quella sua buona e già rubiconda cera si va cambiando a poco a poco. Ecco che gli va a’fianchi quella strana figura, che non si sa se sia ombra o corpo, la quale ora gli tocca con una mano il cervello, ora quella parte del petto dove sta il cuore, gli dà in mano quel quaderno e gli mette innanzi quel calamaio. Quello è il Sospetto, di cui non potresti immaginare serpe la più velenosa. Dall’altro lato vedi come quella comitiva ch’egli avea condotta seco per avere un corteggio di sua grandezza, con furtivo atto va traendo quante raschiature può di quelle colonne e di quelle muraglie d’oro, per modo ch’egli è obbligato con una continua vigilanza a difenderle dall’altrui cupidità e dalle ingorde mani, che a poco a poco ridurrebbero il castello a nulla, qual era prima che nascesse. Comprendi tu di qua quegli atti di dispregio che fanno del fatto suo le genti, comecchè s’ingegnino di non essere vedute da lui. Egli è, che per invidia del suo stato non è più un uomo al mondo che s’appaghi di quello ch’egli fa, e tutte l’opere sue vengono in segreto biasimate, quantunque venga in faccia commendato altamente. E quella persona che gli tiene le mani agli orecchi, e glieli tura, sai tu chi ella è? Quella è la Prosunzione, la quale leva la mano solamente dagli orecchi suoi, quando gli favellano gli adulatori e coloro che gli danno ad intendere nero per bianco, e di nuovo glieli tura alle voci di coloro che gli dicono il vero. Anzi vedi la stessa Verità con que’suoi candidissimi panni discacciata da lui, e sì temuta da’seguaci di quello, che con le villanie, e fino con le granate la perseguitano da tutti i lati, sicchè la poverina abbattuta, svergognata e quasi disperata, non sapendo più che farsi, nè avendo più ardimento d’aprire la bocca, si sta soletta in un cantuccio a piangere la sua mala ventura.

Poeta. Veramente tu mi fai comprendere cose che da me medesimo non avrei immaginate giammai; e oltre a ciò, veggo che Fortuna ha ora calato il ponte di nuovo, e accetta altre genti nel castello.

Talía. Maladetta! ella ride. Vedi, vedi, confusioni e garbugli che nascono al presente! Apronsi costà quelle sepolture, e fanno testimonianza quelle aride ossa di defunti che quel primo non avea ragione veruna nel castello. Vengono i concorrenti di nuovo alle mani, e chi di qua con gli scarpelli picchia nelle muraglie, chi di là co’martelli e co’picconi. Vedi tu come si crolla ogni cosa! Chi ne porta via un pezzo, chi un altro. A poco a poco il castello diroccato cade a squarci di qua e di là. Eccolo, ch’egli va in aria e in fumo come prima. Il ponte, l’uscio, Fortuna e tutto è svanito, e rimane sola la Verità padrona del vôto campo, la quale intaglia sopra quel sasso alcune parole. Leggile.

Poeta. O mal fondate e perigliose mura! Della memoria vostra altro non resta, Che picciol segno in questa pietra oscura!

Talía. Dov’è il castello in aria della Ricchezza? Lo vedi tu più? No. Se in altra cosa mettesti mai la tua beatitudine, dillo, e in poco d’ora ti farò vedere che tutte l’altre speranze e consolazioni apprezzate da voi, sono castelli in aria, come quello c’hai veduto fino al presente.

No XI. A dì 10 marzo 1762. Credea già il povero poeta d’esser soffiato fuori del mondo; tanta era la furia della procella che ne lo spingeva; quando a poco a poco incominciò a cessare il vento, ed egli piano si sentiva calare, fino a tanto che si ritrovò sopra la cima d’una montagna, dove la furia del soffio l’abbandonò del tutto, e in poco d’ora vide squarciarsi quel nembo che ne l’avea quivi nel suo seno traportato. Da tutti i lati si divise quel grande ammassamento di mal tempo in nugoloni neri e cenerognoli, parte de’quali erano orlati dallo splendore del sole, e alcuni di color vermiglio trasparente, e tutti, a mano a mano dileguandosi, lasciarono il campo dell’aria tutto ripieno d’una gioconda serenità. Guardavasi il poeta intorno attonito e quasi fuori di sè, non sapendo in qual luogo egli fosse. Dall’un lato vestito era il monte di verdi selvette grate a vedersi, ripiene di dolcissimi rosignuoli; dall’altro le minute erbette guernite di fiorellini di più colori, ed un cristallino ruscello che fra essi trascorrendo gl’innaffiava, confortavano gli occhi suoi per modo che gli parea d’essere pervenuto a quella cotanto decantata beatitudine degli Elisi. Ma non sapendo in qual luogo egli fosse, e desiderando di vedere persona che gliele dicesse, non faceva altro che voltare il capo or qua ora colà, attendendo sempre che alcun uomo o donna gli comparisse dinanzi per appagare la voglia sua. Quando quelle medesime voci, che già avea egli udite la prima volta a cantare appresso alla finestra della sua cameretta, incominciarono dalla parte de’boschetti in questa guisa una novella canzone: O intelletto uman, che in obblío poni L’alta natura e il tuo divino stato, E pregi il fango solo onde sei cinto; Questi bei colli, a cui corona fanno Liete ricchezze di verdura eterna, Son del Parnaso le beate cime. Se veder vuoi quale il verace aspetto De’beni sia tanto bramati in terra, Volgi dal monte in giù l’acuto sguardo. Dinanzi a te s’apre lo spazio immenso D’un’ampia terra e d’infinito mare, Acciò che al veder tuo nulla si celi. Finita questa breve canzone, parve al poeta che dagli occhi suoi cadessero non so quali scaglie, come quelle che vengono da’pesci raschiate via, e la vista sua divenne cotanto penetrativa, che potea ogni cosa vedere dall’un capo all’altro del mondo senza impedimento veruno; nè l’offendeva punto quell’aria nuvolosa e torbida, oltre alla quale, dopo un certo tratto di lontananza, non può penetrare la vista di coloro che guardano dall’alte cime delle montagne. Di che rivoltando egli gli occhi allo ingiù, vide molti maligni spiriti ch’empievano tutto il mondo, e parea che intorno svolazzassero per ischerzare e burlarsi degli uomini. Avea quella maladetta stirpe certe forate canne nelle mani, un capo delle quali ficcando nell’acqua, e l’altro mettendosi alla bocca, e dentro soffiandovi, destava nell’acqua un grandissimo bollore a guisa di tempesta, donde usciva poi un vapore, che, nell’aria innalzandosi, prendeva la forma d’un castello il quale dagli uomini stimato cosa effettiva e di sostanza vi concorrevano tutti all’intorno, e parea loro di non poter vivere, se non l’aveano acquistato. Ma quando vi aveano posto il piede dentro, ritrovavano che vano era stato il desiderio loro; e di là uscendo, mettevano di nuovo la speranza loro in un altro castello; e così d’inganno in inganno quasi impazzando, non aveano mai bene o riposo. Parve al poeta una strana cosa quella che vedea, e volendo pure intender meglio quello che ciò significasse, incominciò ad attendervi con grande applicazione. Vide adunque gl’importuni spiriti in grandissima calca ficcare i capi delle canne in un fiume, le cui acque conducendo una rena gialla, acquistavano il colore di quella, e, dentro soffiandovi con grandissima forza sollevarono un indicibile bollimento; di che l’acqua innalzandosi in apparenza di muraglie, colonne, usci, finestre, e in quante altre parti sono ad un edifizio necessarie, prese la forma d’un castello forte e murato, ed, al vederlo, da tutt’i lati risplendente come oro; anzi pur veramente era d’oro, imperocchè trovavansi nell’acqua incorporate le arene, ch’erano quel metallo dalla forza dell’onde fuor delle viscere de’monti portato nel letto loro. Eravi un ponte levatoio, chiuso e aperto dalla Fortuna, che dalla parte del castello signoreggiava, e sulla fronte della porta maggiore leggevansi queste parole: Castello in aria delle ricchezze. Notava il poeta che le parole Castello delle Ricchezze erano scolpite in lettere maiuscole d’una sterminata grandezza, ma l’altre, che in aria dicevano, erano in minutissimo carattere descritte, e quelle anche mezze logore, sicchè giudicò che vedute non fossero da coloro a’quali non erano per celeste operazione cadute le scaglie dagli occhi. Non sì tosto apparve il castello alla vista de’circostanti, che incominciò la grandissima calca delle persone, dimenticatasi di ogni altra cosa, a struggersi e a menare smanie per entrare in esso. Molti con inni e canzoni vezzeggiavano la Fortuna padrona del luogo, per renderlasi benevola e indurla ad aprir loro il castello; alcuni altri venivano a zuffa tra loro per essere i primi a salire il ponte; e graffiavansi gli occhi fratelli e fratelli, mariti e mogli, e fino padri e figliuoli per discacciarsi l’un l’altro, senza una compassione al mondo. Ma mentre che così fatte cose colaggiù si facevano, io credo acciocchè il poeta fosse meglio informato di quanto vedea, uscì fuori del vicino boschetto Talía, e con quella sua maestà di camminare e d’aspetto gli si accostò, e cominciò a parlargli in tal forma. Talía. Quantunque i demeriti tuoi sieno tali e sì grandi, che tu dovresti essere lasciato da me errare nella tua cecità con le altre turbe delle genti, ho avuto pietà de’casi tuoi, e fatto per modo che, se non hai il cervello di sasso, conoscerai quale fino al presente sia stato il tuo inganno. Per opera delle divine Muse hai acquistato un’acuta vista, la quale è bensì atta a giungere colà dove altri non potrebbe pervenire; ma tu hai però ancora bisogno di noi per comprendere quello che vedi. Sicchè guarda; e quando t’apparisce cosa di cui tu non intenda la sostanza, domanda, che io son qui per dichiararti quello che non potresti intendere da te medesimo. Poeta. La maraviglia delle cose che m’appariscono innanzi al presente, fa cessare in me una parte della mia collora, e io ti sono almeno obbligato per ora che mi fai vedere queste novità, ch’io non avrei senza l’opera tua vedute giammai. Poichè se’deliberata di dichiararmi quello ch’io veggo, eccoti la mia prima curiosità. Talía. Di’su, di’su, ch’io attentamente t’ascolto. Poeta. Quel castello che così in un subito, e quasi a guisa di fungo, è nato dall’agitazione di quel fiume, ed è così alto, e tanto spazio comprende d’aria, perchè pare che, all’incontro di tutti gli altri edifizi del mondo, da quegli uomini ch’ivi concorrono, sia più facilmente veduto da lontano che da vicino? Con mia non picciola maraviglia noto di qua, che tutti coloro i quali prima in lontananza parea che chiaramente il vedessero, quanto più s’avvicinano, aguzzano le ciglia, come se avessero a vedere una cosa che fugge loro dagli occhi, e finalmente mettonsi gli occhiali. Questo nol saprei io già comprendere, se tu non me ne dicessi la cagione. Talía. Appunto la cosa sta come ti pare di vederla. Tale è la natura de’materiali di cui quel castello è composto, che, fino a tanto che gli uomini sono da esso lontani, e più sembra loro grande e maraviglioso quell’edifizio. Quanto più vi s’accostano, tanto meno lo veggono; ma essi che non intendono la qualità del castello, danno la colpa agli occhi loro, e sempre più s’invogliano d’entrarvi e divenirne padroni; e di qua nasce che tu vedi quelle confusioni e quelle zuffe tra que’cotanti competitori. Poeta. E quella canina rabbia con la quale s’offendono l’un l’altro, donde nasce? Talía. Dal credere ciascheduno che nel castello della Ricchezza sia posta la vera felicità dell’uomo. Perciò appunto dimenticatasi ogni altra cosa che hanno d’intorno, non vedendo più punto bellezze nè di terra nè di cielo, hanno posto il cuore a voler entrare in quel castello, e si conciano co’graffi e co’morsi per essere i primi. Vedi, vedi che Fortuna ha calato il ponte, e aperto l’uscio a colui il quale con quella faccia alta e con que’baldanzosi passi cammina ed entra nel castello. Osserva quanta mutazione! Coloro i quali poco fa erano suoi sfidati nemici e mortali, e l’aveano più volte assalito con le pugna e co’morsi, ora da lontano ammirando la sua nuova beatitudine, gli si raccomandano chi con le mani giunte, altri con gl’inchini e con le sberrettate, e cantano le sue lodi, le quali tu non puoi udire di qua, ma puoi ben vedere le bocche che aprono, e le attitudini d’umiliazione e quasi di schiavitù che tutti fanno. Intanto egli fatto sordo, e con una comitiva di persone che dipendono da’cenni suoi, come i fantocci di legno e stracci dal fil di ferro che gli fa movere, è nel castello entrato, e a suo grande agio si sta mirando quello che Fortuna gli ha conceduto. Poeta. Dirai tu forse ch’egli non istia bene, e non si goda una vita agiatissima? Così foss’io, e tutti gli amici miei! Talía. Adagio. T’affidi tu forse a quella faccia lieta che mostra così al primo? Lascialo un breve tempo. Vedilo ora ch’egli è solo. Vedi come quella sua buona e già rubiconda cera si va cambiando a poco a poco. Ecco che gli va a’fianchi quella strana figura, che non si sa se sia ombra o corpo, la quale ora gli tocca con una mano il cervello, ora quella parte del petto dove sta il cuore, gli dà in mano quel quaderno e gli mette innanzi quel calamaio. Quello è il Sospetto, di cui non potresti immaginare serpe la più velenosa. Dall’altro lato vedi come quella comitiva ch’egli avea condotta seco per avere un corteggio di sua grandezza, con furtivo atto va traendo quante raschiature può di quelle colonne e di quelle muraglie d’oro, per modo ch’egli è obbligato con una continua vigilanza a difenderle dall’altrui cupidità e dalle ingorde mani, che a poco a poco ridurrebbero il castello a nulla, qual era prima che nascesse. Comprendi tu di qua quegli atti di dispregio che fanno del fatto suo le genti, comecchè s’ingegnino di non essere vedute da lui. Egli è, che per invidia del suo stato non è più un uomo al mondo che s’appaghi di quello ch’egli fa, e tutte l’opere sue vengono in segreto biasimate, quantunque venga in faccia commendato altamente. E quella persona che gli tiene le mani agli orecchi, e glieli tura, sai tu chi ella è? Quella è la Prosunzione, la quale leva la mano solamente dagli orecchi suoi, quando gli favellano gli adulatori e coloro che gli danno ad intendere nero per bianco, e di nuovo glieli tura alle voci di coloro che gli dicono il vero. Anzi vedi la stessa Verità con que’suoi candidissimi panni discacciata da lui, e sì temuta da’seguaci di quello, che con le villanie, e fino con le granate la perseguitano da tutti i lati, sicchè la poverina abbattuta, svergognata e quasi disperata, non sapendo più che farsi, nè avendo più ardimento d’aprire la bocca, si sta soletta in un cantuccio a piangere la sua mala ventura. Poeta. Veramente tu mi fai comprendere cose che da me medesimo non avrei immaginate giammai; e oltre a ciò, veggo che Fortuna ha ora calato il ponte di nuovo, e accetta altre genti nel castello. Talía. Maladetta! ella ride. Vedi, vedi, confusioni e garbugli che nascono al presente! Apronsi costà quelle sepolture, e fanno testimonianza quelle aride ossa di defunti che quel primo non avea ragione veruna nel castello. Vengono i concorrenti di nuovo alle mani, e chi di qua con gli scarpelli picchia nelle muraglie, chi di là co’martelli e co’picconi. Vedi tu come si crolla ogni cosa! Chi ne porta via un pezzo, chi un altro. A poco a poco il castello diroccato cade a squarci di qua e di là. Eccolo, ch’egli va in aria e in fumo come prima. Il ponte, l’uscio, Fortuna e tutto è svanito, e rimane sola la Verità padrona del vôto campo, la quale intaglia sopra quel sasso alcune parole. Leggile. Poeta. O mal fondate e perigliose mura! Della memoria vostra altro non resta, Che picciol segno in questa pietra oscura! Talía. Dov’è il castello in aria della Ricchezza? Lo vedi tu più? No. Se in altra cosa mettesti mai la tua beatitudine, dillo, e in poco d’ora ti farò vedere che tutte l’altre speranze e consolazioni apprezzate da voi, sono castelli in aria, come quello c’hai veduto fino al presente.