Référence bibliographique: Luca Magnanima (Éd.): "Saggio VIII.", dans: Osservatore Toscano, Vol.1\08 (1783), pp. 105-112, édité dans: Ertler, Klaus-Dieter / Fuchs, Alexandra (Éd.): Les "Spectators" dans le contexte international. Édition numérique, Graz 2011- . hdl.handle.net/11471/513.20.3561 [consulté le: ].


Niveau 1►

Saggio VIII.

Niveau 2►

Necessità di formarsi per tempo il carattere morale.

Il bisogno della società è un bisogno assai possente. Basta il dire che ci è dato dalla Natura. Non è però che non ci sieno uomini che per un temperamento nero, e dolente, non tendano a starsene lontani dagli altri. Ci sono pur troppo; ed ognuno ne può additare non pochi, i quali tendono alla solitudine la più tetra. Nondimeno, per [106] quanto costoro si compiacciano a starsene soli, sentono che una forza opposta gli tira a ricercare il consorzio comune. E sono tanti gli oggetti, anzi tante sono le idee di essi che spingono a ricercarlo, che si può dire francamente esser la natura tutta che c’invita a farlo, quando non fossero i possenti bisogni. Noi dunque non possiamo esser soli; e se alcun uomo ci è che stiasi solo miseramente, bisogna pur dire che vi sta o per un tristo temperamento, o per un errore di calcolo nella scelta de’piaceri. Nè mi si opponga che se tutti gli uomini, per esempio, potessero darsi agli studi delle scienze astratte, si vedrebbero starsene sempre per le solitudini, sparuti, ed ignari affatto delle dolcezze della compagnia; perchè io risponderò che i soli bisogni naturali vogliono soccorso, ed il soccorso non può aversi giammai senza una certa compagnia. Non possono dunque essere un esempio coloro che si ritirano dal mondo per illustrarsi in una scienza; perchè primieramente un sì fatto ritiro è più dallo strepito della società che da essa; ed in secondo luogo non potendosi reggere a lunghi e penosi studi, bisogna interromperli; e quando si sono interrotti, andiamo a cercare il nostro conforto ne’discorsi, e nel riso innocente degli altri. Nè questo basta. Noi cerchiamo la compagnia che si confaccia colle nostre idee, e perciò colla nostra vita speciale. Cerchiamo dunque quella che più ci piace; perchè sappiamo, o almeno ci lusinghiamo, di piacerle noi pure. Ed in questa perpetua [107] vicenda di ricercare chi ci piaccia, e di piacere, è riposto il vero bisogno dell’altrui società. Nella soddisfazione di essa troviamo poi tutte le nostre delizie, tutti i nostri diletti; e conviene osservare che i potenti ed i ricchi non son punto superiori in questa soddisfazione al più mendico della terra; anzi il diletto de’mendichi sarà più puro, più durevole, più soave, perchè senza quelle ombre di pensieri, che rattristano spesso gli ambiziosi, ed i potenti appunto allora che si credono di esser più lieti.

Ma benchè tutti gli uomini abbiano il desiderio di trovar gli altri che loro piacciano e questi di piacere similmente; benchè in ciò sia risposta tutta la dolcezza della vita civile, e questa dolcezza si cerchi da tutti, quasi ansimando; nondimeno l’ultimo studio che facciamo è quello di non dispiacere a coloro, con cui viviamo, o quel che torna lo stesso, l’ultimo nostro studio è quello delle morali virtù. Io dico molto così parlando, ma dico la verità; mentre il più delle volte questo studio sì prezioso, sì necessario, e sì dolce, non è mai nè il primo, nè l’ultimo. Ci compiacciamo che un fanciullo, un giovinetto risplenda sugli altri per qualche dono di memoria, che è tutta la loro vivacità, per alcuna vaghezza di aspetto, per alcun segno di coraggio, senza curarsi gran fatto di veder germogliare in quella fresca età il seme delle più sante virtù, della giustizia, della carità, della sofferenza, della rasse-[108]gnazione, e sopra tutto l’amore per la verità. Queste degne virtù, per quanto siano belle, non feriscono la vista generale, e perciò non si curano assai. Eppure per avere de’buoni cittadini, degli uomini che abbiano nel cuore l’onesto, bisognerebbe che la vera istruzione cominciasse per tempo a fondare nell’anima un tesoro sì grande. Molto meno si reputerebbe star bene che un giovinetto sapesse dipoi e le sorgenti della vita comoda, con mettergli innanzi lo stato della propria famiglia, ed assuefarlo a buon ora all’ordine, all’ industria, all’esattezza, al risparmio. Queste sarebbero cure troppo gravi. Si dee imparare per molti anni quel che nulla importa, o tutto quel che non fa a proposito per alcuna parte della vita. Questo è certamente error grande; ed io credo che da esso dipendano molti, e molti disordini delle famiglie, e della società.

Le virtù che abbiamo nominate, e che sono il fondamento della felicità, quando sono o sole o riunite, formano quel che si dice carettere morale. Questo varia costantemente a misura che quella unione è più o meno perfetta, o che signoreggia sulle altre più questa o quell’altra virtù. Or tale unione non perfezionandosi mai senz’attenzione, e senza un rigido esame de’nostri errori, e senza una passione determinata ad abituarsi a sì fatte virtù, è egli da stupire che i più sieno senza carattere, quando si vuole sì poco essere attenti, e si teme tanto a mettersi al più severo esame di noi stes-[109]si a fronte de’nostri principj, o di quel che vorremmo essere, e che non siamo? È egli da stupire che non si sappia dagli onesti come vivere colla maggior parte degli uomini; perchè non anno segno delle virtù che abbiam dette, per le quali sole è più bella, e più soave la vita? Come vivere con certi caratteri di dubbia natura, i quali perchè poco, o non mai d’accordo con se stessi, son quasi sempre tristi, simulati, feroci, vili, incostanti? Come stare con quelli che delicati e fini nell’amore di se, ad ogni ombra che passi s’intorbidano nella vista, e vi guardano tosto come nemici, o traditori? In ultimo come trattenersi con quelli altri che quantunque vi conoscano superiori nel talento, vorrebbero ogn’istante il diletto crudele di riprendervi, d’umiliarvi; che godono dell’invidia che vi circonda, ed impallidiscono allo schierarsi delle vostre virtù, de’vostri talenti? Ov’ è quel carattere fermo, e costante o nel severo costume, o nell’amicizia, o nell’ umile stato di se, o nella gioia più grande del bene altrui, o nel desiderio di fare altrui la più chiara giustizia, ov’ è, dico, un sì bel carattere che solo vale più di tutti i talenti, delle produzioni più ardue dell’ingegno? Questo è raro, non vorrei dire ne’nostri tempi; ma bisogna pur dirlo, perchè la verità non è da velarsi. Gli uomini nostri sono in generale leggieri, volubili, invidiosi, nè liberi mai. Schiavi delle più vili passioni, corrispondono perfettamente a quel che sono. Qual generazione! Qual vita con essi! [110] Saria dunque ben fatto il rovesciare il metodo de’nostri studi presenti. È cosa strana che si pensi a regolare, a cagion d’esempio, il talento per l’eloquenza, quando non si anno cognizioni, nè si anno virtù. Come scrivere senza aver la giustizia nell’anima, la continenza, la sobrietà, senza coraggio ne’casi avversi, senza moderazione ne’felici, senza essere abituati a sì belle virtù, senz’amare la verità, senza sentirne il diletto, e la forza? Come esser sublimi senza il disprezzo della fortuna, senza esser grandi, generosi, e pieni del più tenero sentimento per la patria, per le leggi, e per la difesa di esse? Il pretendere ad esse gran cittadini, e grandi scrittori in qualunque genere senza il più bel carattere, senza un gran sentimento, è follia, e mi duole che sia follia de’nostri tempi, la quale ha tutta l’apparenza di non voler terminare così presto.

Infatti nella età nostra, superiore alle passate nell’essere di pensatrice, si pensa solo ad assicurarsi un acquisto di ricchezze, ed a raffinare i mezzi di consumarle; e per questo fine i più studiano tutti i loro anni freschi, maturi e cadenti. Si studiano tutte le astuzie, tutti gl’inganni possibili, e tutte le raffinatezze del gusto per addormentare le menti le più svegliate, e torre loro di mano a tutto, o parte di quel che anno. Gran virtù quando si arriva a trionfarne! Ma questo non è difetto solamente della età nostra. La storia conserva memorie di altri tempi simili a’nostri nella fete-[111]smisurata del guadagno, nell’ avarizia, nella tristezza, non già ne’mezzi sì grandi, e sì vasti di fare acquisto di ricchezze. Noi siamo in quest’ultimo caso. Ma siamo per questo nulla più felici? Nulla. Siam più sicuri, viviamo più lungamente? No certo. Concludiamo che ogni gran carattere è perduto, perchè son perdute le virtù; e quando queste non sono nello spirito, quale immagine degli uomini! Che son mai coloro che in mezzo a’comodi, ed a’raffinamenti della società, potrebbero essere il tempio di tutte le virtù! Sono afflitto in pensarlo, e senza forza per iscriverlo. Non nego che manchi qualche esempio da seguitarsi; ma che è egli mai qualche esempio nella decadenza universale della virtù? In Roma stessa, quando regnavano i mostri sul trono, quando era un delitto esser del più severo costume, non mancavano esempi dell’antica astinenza. Sotto Domiziano vissero Agricola e Plinio; rara sorte di que’tempi. Nondimeno eran tempi di scelleraggine, di schiavitù, cominciando dal tiranno che facea le leggi. Dopo tutto questo che si dee pensare? Che lo studio principale degli uomini esser dovrebbe quello delle morali virtù, per farsene un ricco fondo, per esser capaci di comparire un giorno con un carattere degno veramente dell’uomo, dell’umile religione che si professa, delle leggi sotto di cui si vive. Se ciò non si fa, l’uomo sarà sempre cattivo a se ed agli altri. Inquieto di se stesso disturberà sempre il vicino, e in qualunque stato egli sia, sarà [112] feroce, ed avido dell’altrui. In somma sarà un essere funesto agli altri, perchè senza carattere a cui riconoscersi l’uomo dabbene, il cittadino, il generoso, l’umile, l’uomo infine il più bell’essere della Natura, ed il più utile, ed il più mansueto della società. ◀Niveau 2 ◀Niveau 1