Zitiervorschlag: Luca Magnanima (Hrsg.): "Saggio V.", in: Osservatore Toscano, Vol.1\05 (1783), S. 56-74, ediert in: Ertler, Klaus-Dieter / Fuchs, Alexandra (Hrsg.): Die "Spectators" im internationalen Kontext. Digitale Edition, Graz 2011- . hdl.handle.net/11471/513.20.3558 [aufgerufen am: ].


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Saggio V.

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Sopra la maniera di studiare.

La stampa ha fatto de’gran beni, e de’gran mali. Ha fatto de’gran beni, perché ha rendute tanto comuni le cognizioni che nulla più. Ha fatto poi de’gran mali, perchè ha ripieno il mondo di libri che contengono o piccole cose, ed infruttuose, o principj falsi, e perciò sempre cattivi. Al-[57]la facilità di moltiplicare i libri è succeduta quella di comporli. Quindi il numero di coloro che leggono, e di quegli altri che si dicono studiare, è cresciuto a dismisura. Or in vedere sì grande questa turba leggitrice, e studiosa, mi era già caduto in animo, se mai facessi qualche Opera lunga, di volere scrivere in fronte di essa un discorso, per insegnare a colui, che mi volesse leggere, la vera maniera di farlo con qualche frutto. Poichè mi pare che i nostri Autori si prendano sì poca cura del loro leggitore, che lo lasciano senza insegnarli poco più del titolo, e assai volte poco più del fine che si son proposti in iscriver quel libro. Io sento diversamente da loro. Dovrebbero mostrare non pure l’oggetto che anno avuto innanzi, e l’ordine che an seguitato; ma insegnare ancora quali sieno le parti più importanti, le più felici dell’opera loro. In ultimo quali sieno i mezzi per entrare con facilità in quel che anno pensato, e scritto, quali sieno le parti da meditarsi di più, se possano ricavarsene altre idee, e per dir tutto, manifestare se stessi a chi leggi, con tutti i lor difetti, e con tutte le lor virtù sulla fronte. Ma, perchè non ho intenzione di scrivere così presto un libro che impegni il lettore alla lunga sofferenza di pensare assai, e crescendo sempre più il numero di coloro che leggono, e studiano, io stimo ben fatto di scrivere quel che ho pensato sulla maniera di studiare. Io credo che le cose, le quali son per dire, siano vere, e buone. Se alcuno le troverà cattive, pare che il male sarà sempre per lui.

[58] Il primo passo da farsi per bene studiare, è un passo assai duro, ma necessario, ed è questo, di abbandonare la società. Dirò anche di più, bisogna rinunziare eziandio all’aspetto così bello, e stupendo della Natura stessa che vi chiama, vi alletta, e v’ingrandisce a mirarla. Sì; questo è il gran sacrificio che vuole la Sapienza. Bisogna separarsi dagli uomini, fuggire i loro diletti, e le lor noie. In una parola l’uomo che vuol sapere studiare fa d’uopo che cominci dal farsi solitario. Veggo anch’io che non è uno stato molto naturale; ma chi non sa che non si può attendere alle cose grandi senza uscir fuori dalla vita ordinaria? E la ragione è pur questa che gli uomini in società son gli uomini in azione, e perciò lontani da quella che dicesi calma di spirito. Or questa calma, or questa serena tranquillità è lo stato primo che dee proporsi lo Studioso. Che se questo non può ottenere, egli non potrà mai fare quegli acquisiti che egli vorrebbe. In fatti l’anima nostra non può essere tranquilla, se è scossa da interni movimenti, se i sensi del corpo sono aperti liberamente a tutti gli oggetti che vogliono entrare. Di qui è che l’anima di colui che studia potrebbe assomigliarsi ad un’onda pura, e solitaria, ove non batte alcun vento, ma che scorre con un moto sempre eguale, e piacevole a vedersi. Conviene che ella pensi in se stessa, che si avvezzi a pensare a lungo, e sempre fissa sull’oggetto che si propone. Ognun vede che ciò non potrebbe seguire se alcun dolore l’inquietasse, se alcun rumore [59] la distogliesse. Or per sentir del dolore assai spesso, per esser di continuo interrotto da rumore, da strida, da allegria, da cose da nulla, basta esser confuso nella società. Ma tutto questo è contrario a quella pace dell’anima che è tanto necessaria per meditare; perciò è da fuggirsi la società, o siano le brigate degli uomini, da quelli che voglion far tesoro di cognizioni, e queste scavate dal proprio fondo.

Ma qual sarà il luogo, ove sieno mute, per così dire, tutte le sensazioni che ci si affollano intorno, e che ci rapiscono al dolce stato di solitari? Qualunque parte della terra, ove gli uomini non siano molto frequenti. Ma risponderò anche meglio con dire esser ora il luogo migliore, anzi l’unico per questa impresa, la campagna, e di questa anche più il monte che il piano. In essa tutto è puro, tutto è tranquillo, come esser dee pura e tranquilla l’anima che farà pensatrice. Gli uomini non vi corrono gran fatto, perchè l’uomo in società, non sarà mai il più naturale, il più semplice. In conseguenza tutto è da sperarsi tranquillo, quando la Natura stessa per leggi immutabili non si turbi. Ivi lo Studioso è tutto a se; non tristi esempi ha innanzi gli occhi, molto meno oggetti capaci di metterlo in fiamme. Quell’angolo di monte, o di piano non è esposto a tumulto. La mente sua può esser sempre eguale nell’ardue cose, per dirla con Orazio, e perciò sempre in atto di attendere a se e di meditare a lungo, e con frutto. [60] Così un seno stesso di mare è sempre in sicuro da venti furiosi, ed a mirarvi posatamente quell’onda è sempre chiara, e quieta, se tolgasi quel moto medesimo che serve per tenerla sempre limpida e fresca.

Quì però sento oppormi da alcuno, che senza fiera passione per lo studio, l’uomo non può sollevarsi a cose grandi, e che quando ha quella, egli si trova si forte immerso nell’oggetto della sua passione, che il fulmine stesso, ed il tuono non lo riscuoterebbero assai. Rispondo che, per quanto esser possa vera l’opposizione, è verissimo quel che abbiam detto fin quì, per le frequenti occasioni che ti anno in mezzo agli uomini di doversi dissipare, anche fortemente appassionati, e fatti ancor solitari in mezzo al tumulto stesso delle città. Oltre di che pochissimi son coloro che sieno sì forte appassionati, che durino lungo tempo in uno stato di forte passione nello strepito delle cose, o almeno è sempre facile che si snervi quella passione, e che riducasi a un semplice gusto. Ci sono di quelle anime così sensitive ce sebbene assorbite in profondi pensieri, possono esser distratte da un solo odore, non che dalle voci degli uomini. Dunque resta immobile quel che abbiam detto; poiché chi vuol pensare, non può farlo mai bene, nè a lungo, se non si trova a poter essere nella calma maggiore.

Questo stato di solitudine quanto fosse necessario per meditare sulle idee più grandi che presenta la Regione, è stato conosciuto da tutti i santi Padri. Io non so che ve ne sia pur uno di [61] quelli che an trattato delle perfezioni cristiane, che non abbia raccomandato lo stato di solitari per esser più vivamente con se. E tanto è vero ciò, che i primi Monaci abitarono per le solitudini delle campagne, nelle opere di contemplazione, e di mano esercitandosi. Ora nella età, in cui viviamo, non resta quasi più traccia dell’antica vita solitaria degli uomini religiosi, perchè si sono raccolti coll’andare de’secoli dentro le città, e dentro i castelli, e per questo son molto meno nell’occasione di esser l’anime loro raccolte, e contemplatrici. Intendo sempre di parlare di quella vita di essi che era sì rigida, e sola, che per lo più era su i colli e ne’boschi, non per caso, ma per costituzione di uno stato che si voleva affatto separato dagli uomini. Si dirà che anche nelle città popolate gli uomini possono starsene in ritiro, ed esser contemplativi quanto lor pare. Ma io rispondo che lo spirito si fa distinto, e sublime in quelle proprietà di se stesso, che più esercita. Dunque che forte di contemplazione può esser mai quella che non nasce da uno spirito già lungo tempo, e per passione ad essa abituato? Come può egli facilmente elevarsi su di se, non sentire alcuna pena, anzi esse sostenuto da un piacere continuato, sentendo che si avanza verso di cose o non più trovate, o non sì bene stabilite? È dunque tutto vano ogni studio, quando i veri studiosi non si separano dalla moltitudine per vivere un tempo a se, ed alle scienze che si voglion far nascere, o nate apprendere, e far sue. [62] Ma il mio Studioso è già solitario, gode della campagna, aperta alla Natura, e fuggita dagli uomini. Egli respira quell’aria, gode delle piante, degli animali, de’fiori, e della semplicità. Egli è infine sano, libero, e solo. Egli vuole che il suo spirito sia tutto della sapienza, e sa che in molti libri si conserva. Sa che ormai an l’onore di esser questi eterni fra noi; che molte grandi verità sono in essi deposte; sa che il talento, l’anima sublime di chi le rinvenne, vi è per entro impressa; sa che ivi spira ancora come se fosse viva e presente, e che quasi si vuol trasfondere in noi. Questi volumi l’invitano a fissarvi il suo spirito, ed a seguitar colui che tanto nella specie nostra si distinse. Egli è inquieto, egli vorrebbe fin divorarne le carte. Qual sarà il primo passo riverente verso l’ara, per così dire, di questi eroi che parlano, ed insegnano ne’loro libri, nelle memorie che dipinsero del loro pensare? Prima d’accostarsi a quest’ara, bisogna aver presenti alcuni principj, senza de’quali è vano ogni sforzo. Il primo si è di dover esser sofferenti quanto un martire. Il secondo di pensar alto di se. Il terzo di non lasciare le cose come si trovano. Si fatti principj debbe aver presenti sempre lo Studioso. Son essi come altrettante guide che lo meneranno diritto per la via del sapere, ed a cose impensate. E quì starà bene che rendiamo ragione de’nostri principj. Lo studio delle arti, e delle scienze è studio lungo, difficile, e per questo anche tormentoso. Richiede dunque tal costanza, [63] e tal sofferenza che assai volte si direbbe che è quella di un martire. Anzi se la pertinacia, e la sofferenza non si vanno accrescendo fuor di modo, non vi è che sperare. E quì confessiamo con ingenuità, che tutti que’grand’uomini, i quali anno ampliato il sapere, sono stati pertinaci illustri, che tutto anno sacrificato al forte desiderio di esser sovrani in quello studio che presero a coltivare. È cosa mirabile a udirsi lo stato di sofferenza, in cui se ne stettero per tanti anni. Non sembra possibile che un uomo possa reggere a tanto corso di esami, di paragoni, di esperienze, di riflessioni, e di esercizio de’propri talenti nel ritrarre quel che per tanti anni ha pensato, raggiunto, e scritto dipoi. E se un uomo non sente altamente di se, cioè se non pensa che i suoi talenti, profondamente applicati, lo condurranno a qualche fine stupendo, come potrà egli esser sofferente, e pertinace a segno da non conoscere altri oggetti che quello che si è proposto? Il sentire altrimenti di se no condurrebbe a grandezza. Si dirà esser facile l’ingannarsi nel giudicarne. Io ancora porto un tal parere; ma reputo nondimeno assai più l’aver quel coraggio che nasce da un’alta idea di se, che il sentire di se bassamente; poiché dato anche un inganno alcuna volta, il male non è grande. Sarebbe però si fatto, se gli uomini che debbono esser sublimi, avessero un’umile idea de’lor talenti. Anzi io direi esser sempre più utile pel proprio avanzamento, quanto più alta è quella idea. Non è egli indubitato che [64] allora si debbono raddoppiare gli sforzi, l’ostinazione, la sofferenza? Se è così, i miei principj anno de’vantaggi.

In ultimo, se un uomo che ha un’alta idea del suo spirito, si ferma a voler sapere soltanto quel che ci an lasciato gli antichi, e quel che an trovato i moderni, sarà uomo grande per la sua memoria, ma non già trascendente pe’suoi trovati. Quell’idea così alta di se, dee guidarlo a più grande, e più rara impresa, e questa è quella di fare de’gran cambiamenti, che è quanto dire accrescere agli uomini il tesoro delle verità, e de’loro diletti. Non serve dunque il sentire altamente di se, conviene ancora guidare questo sentimento ad aumentare la scienza, e render gli uomini più felici. So che gl’invidiosi, e i dappoco si avventano contra uno Studioso che mostri in fronte la più bella fidanza ne’propri talenti per giugnere a cose grandi; ma gl’invidiosi, e i dappoco son simili a que’mastini che si trovano sulle pubbliche vie per abbaiare dietro ad alcuna carrozza che trasporti qualche eroe a visitare la capitale del mondo. Certi infelici non meritano di essere uditi, anche stando su i principj della carità; perchè la carità stessa non vuole che si perda il tempo senza frutto. Guardi il cielo che certi uomini fossero i consiglieri del gran talento. E per questo io ho sempre stimato tempo perduto che sieno insegnatrici della gioventù certe anime basse, che altro non sanno ripetere, ed anche male, il saputo. L’età giovanile è un tempo [65] di fiamme, e chi non sa accenderle in essa e farle sempre maggiori, cosa è mai agli occhi di que’pochi uomini, che sono affatto superiori? Ecco dunque fornito il mio Studioso di tre principj, i quali se son veri, non mancheranno di esser fruttuosi. Noi ne vedremo ora le conseguenze, seconde esse pure di mille beni per ogni lato.

Colui dunque che è sofferente si trova sempre confinato sull’arte, o sulla scienza a cui si sentì più disposto. In essa egli è fisso, in essa si profonda, ad essa rapporta tutte le sue fatiche, le sue ricerche, le sue riflessioni. Non ama divagarsi per altre strade di scienza, perché perdendo di vista l’unità di essa, vedrebbe rovinare il suo maggiore avanzamento, e non perverrebbe ad essere, non dirò, capo d’uomini illustri, ma di que’pochi, i quali si dicono sommi nella classe. Sicchè egli farà sempre signore della sua scienza, saprà quel ch’ella era ne’suoi principj, mostrerà lo stato, in cui la trovò, e quello maggiore, a cui la condusse. In somma egli sarà così grande da non temer paragoni.

L’aver già trovato cose nuove, cose grandi, e vantaggiose, è il primo de‘meriti, è il principio della vera gloria; ma l’averle trovate non basta all’uomo che vuol essere uno de’più rari. Bisogna che sappia legare insieme le grandi verità scoperte in un sistema, che sia uno, o quel che è il medesimo, conviene che egli faccia un grande edificio, ove risplendano ancora altri talenti. Egli è certo che una mira sì alta, e sì degna non avrà conce-[66]pita dopo il tesoro delle sue scoperte; ma egli l’avrà sentita nascere in se al primo albore delle sue applicazioni. Si vedrà dunque comparire al mondo un’opera, ove sia unità, sodezza in tutte le sue parti, corrispondenza, varietà, e, per dir tutto, un rapporto costante al grande oggetto primario. Infine tutte le parti saranno finite, e ciò si osserverà non solo in quella, ma in tutte le opere, di qualunque genere elle sieno. Niuno si accorgerà della sofferenza provata, perchè tutto sarà così naturale, così facile da credersi lavoro il più semplice per tutti. Stupiranno allora anche quelli che son usi a pensare il più; ma poi converranno che tanti pregi straordinari sono l’effetto di una semplice virtù, che può aversi da tutti, voglio dire della sofferenza. Per questa sola in pensare, giunse il Neutono a quell’altezza, a cui niuno è arrivato dipoi. Interrogato come fatto avesse a pervenire tant’oltre da essere stimato qualche cosa di più di umana intelligenza, rispose per la paziente via del pensare.1 Non credo che saranno meno da stimarsi le conseguenze del secondo principio. Io dunque non penso che l’altezza di un oggetto entri essenzialmente nell’idea di quel che dicesi Bello; poichè anche un bacolino il men osservato, il quale nulla presenta di magnifico, può esser bello in se stesso. Sia pur vero tutto ciò; ma si confesserà sempre da ognuno che è avvezzo a tener conto dell’impressione [67] che fa in se la vista delle cose, che l’altezza di esse risveglia subito un’idea di sorpresa, di meraviglia, da cui nasce un diletto non più sentito, perchè non più vedute cose sì alte. Infatti trascorrasi, se così piace, l’ampio regno della Natura; veggansi, per esempio, gli alberi, gli animali, le montagne, le selve, i laghi, i fiumi e tutti gli altri oggetti che s’incontrano alla rinfusa, si sentirà tosto aumentarsi la sorpresa, il diletto a misura che son quelli i più alti, i più scelti della specie, e del genere. Se poi, lasciando le opere della Natura, si verranno ad osservare quelle dell’arte, o della imitazione, si sentiranno destare in noi le idee medesime. Ed in vero un gran palagio, una gran torre ci fanno della meraviglia, purchè sieno però dentro i confini della bella imitazione; poichè se la cosa andasse altrimenti, ci muoverebbe a riso o a sdegno. Così tante fantasie dell’Ariosto, che son fuori affatto del naturale, non posson piacere ad alcuno che sia un poco abituato a mirare quel che fa la Natura regolarmente. L’altezza dunque degli oggetti, accompagnata dalle altre idee di essi, sorprende volgari, e non volgari, ed imprime talmente in loro se stessa, che pensano di esser quasi più grandi di prima.

Posto ciò, un’anima pensatrice che abbia sempre alta idea di se, sentirà subito impressa quest’altezza ne’suoi parlari. Si vedrà al di fuori quel che sente al di dentro; ed allora poi quest’altezza medesima si farà sentire assai più, quando avrà getta-[68]to in carta il pensato. Usa a sentire altamente di se, non potrà non concepire se non alti pensieri, i quali desteranno ammirazione, e diletto. Così un giovine disegnatore che sin dalla sua fanciullezza, dice l’illustre Algarotti, si sarà formato in mente un bel carattere, saprà nobilitare il più brutto ceffo, ch’egli abbia innanzi per modello; laddove allevato che sia in una cattiva maniera, avvilirà per sino le opere di Pirgotele, o di Glicone, che gli avvenga un giorno di ricopiare.2 Qui dunque sta il difficile, riconoscere le proprie forze, sapersi inalzare sopra di se, e sempre andarsi formando a quest’altezza. E chi è intento ad un’opera sì grande, potrà egli fare a meno di non riconoscersi, e significarsi al di fuori o con la voce o con gli scritti? Ed allora potrà egli temere di non far gli uomini che l’ascoltano o che lo leggono come più grandi dell’ordinario? E qual meraviglia soave non sentiranno allora, qual sentimento di gratitudine a chi con uno scritto rapisce gli uomini da fango a pensare più degnamente di se, comunicando loro delle idee vere, e sublimi! Ora io son sempre sul mio principio. Coloro che non son capaci di sentire un’alta idea del proprio talento, debbono darsi all’esercizio delle sole morali virtù. Ma chi è capace di tanta forza, non può non esser qualche cosa di mirabile fra gli uomini.

Fra gli oratori della Grecia ognun sa che Eschine, e Demostene furono i più chiari. Ognun sa [69] pure che son rimase alla posterità le due Orazioni sulla corona. In esse si veggono questi due sovrani ingegni fare gli ultimi sforzi del loro talento, l’uno per l’oppressione dell’altro. Eschine bisogna che pensi assai, che aguzzi il suo spirito per trovare le ragioni, o vere o apparenti, per convincere il suo avversario di uomo tristo, di nemico della repubblica. In questa situazione necessaria di mente, egli non è men alto nel presentarsi a’suoi uditori. Ragiona dunque da grande, da padrone della sua materia; ma il suo primo intendimento si è di dimostrare, e di convincere. In fatti tutto il discorso di Eschine pare che debba meritare i voti dell’assemblea. Leggasi all’incontro l’arringa di Demostene, colla quale risponde alle accuse, ed agli esami di Eschine, e si vedrà non esservi cosa più alta, nè fulminante di quell’arringa. Confesso che la prima volta che lessi l’arringa di Eschine, mi convinse, e mi fece stimarlo; ma letta appena la risposta di Demostene, io compresi che la Grecia ebbe ragione di metterlo in cima di tutti i suoi oratori. Qual’idea non dovea aver di se quest’ingegno primario? Egli è sempre libero, e franco. Si assomiglia al carattere che Orazio fa tanto bene di Pindaro. Niun ostacolo che gli pone innanzi il suo nemico, lo spaventa. Anzi egli ha tale idea di se che i maggiori ostacoli si veggon raddoppiare le sue forze, e lo fanno sempre più grande che parea. Rovescia dunque il suo nemico con tal forza, con tale altezza di pensare, e di espressio-[70]ni, che sembra un Giove terribile, che co’fulmini alla mano voglia dispersi gli uomini, e l’universo distrutto.

In ultimo il mio Studioso, che avrà bene in mente il proposito di non voler lasciare le cose come le trovò, perderà affatto di vista le strade battute, cercando di aprirsene delle nuove. A questo fine penserà su quel che è stato pensato prima di lui, ed esaminerà sempre quel che rimane a pensarsi, ed a farsi. Per ottener ciò, egli non si fiderà di quel che è stato detto, e sperimentato, ma tutto chiamerà a nuovo esame, ed a nuove esperienze. Ogni giorno sarà censore de’suoi pensieri, e de’suoi sperimenti. Non penserà che tal cosa, o tal altra non possa dirsi, perchè non fu mai fatta, né detta. Questo sarebbe un errore. Penserà egli all’incontro che debba tentarsi di fare, e di dire quel che mai non fu tentato nè di dirsi, nè di farsi. Si vedrà per questo esser geloso del suo tempo. Stimerà che ciò sia il gran segreto per uscir fuori della schiera comune, per aprire al mondo nuovi tesori d’idee, e nuove verità. Si guarderà di seguitare la corrente degli uomini. Nulla di più contrario a un disegno sì vasto. Molto meno si offrirà alla dipendenza di alcuno. Questi ostacoli morali sarebbero come l’ultimo eccidio di uno spirito che si andasse preparando a scuoprir nuove terre. Questo sarebbe il fine miserabile di un coraggio, di una mente libera, imperiosa, e nata per far mutamenti nelle cose men belle, e men felici del [71] mondo. Nemico dunque del seguitare alcuno, sarà sempre desto su quel, che s’inventa, su quel che si pensa alla giornata, per saperlo, e andare più lungi. In conseguenza le sue fatiche saranno incredibili, o, quel che torna lo stesso, formerà a se, ed al suo corpo una nuova disciplina per disporsi a pensare, ed a scuoprire cose non più sapute, né osservate. Gli spiriti nati per si gran fine nulla debbono aver di comune con gli altri. Essendo così, è bene da sperarsi che quando vorranno farsi conoscere al mondo, lo faranno in modo da veder vibrare l’invidia le sue lingue di fuoco, e nel tempro stesso restare soffocata forse per sempre.

Tale è stata la vita di coloro che an voluto fare de‘cambiamenti nelle arti, e nelle scienze. Demostene che pensò di voler esser il sommo degli oratori nel suo paese, fu tale studioso che fa stupire anche oggi. Plutarco scrive le diligenze che egli solea fare quando si andava formando oratore. In mezzo alla società strepitosa di Atene, sapeva involarsi a tutti i disturbi, a tutti i piaceri. Si nascondeva in un suo gabinetto sotterraneo fatto per suo ritiro. Ogni giorno vi discendeva a starsene con se, e co’libri; e spesso vi dimorava due o tre mesi di continuo; e perchè non gli venisse il pensiero di uscire, si radeva la metà del capo, onde fosse ritenuto dalla vergogna di uscire di casa, quando volesse. Si vede bene da tutto quel che ne dice il greco Autore essere stato Demostene un di quegli uomini che divenne veramente quel che si era pro-[72]posto, che volle cioè lasciare nelle sue opere alla Grecia ed alla posterità quel che non si sarebbe potuto distruggere dal tempo. Infatti è addivenuto quel, che egli non avrebbe mai pensato. La Grecia è un mucchio di rovine, è abitata da infelici, ed altro non le rimane che un aspetto il più deplorabile mercè la tirannia, sotto di cui ella geme a’nostri giorni; e le sue opere si leggono per istudio, si apprendono, si guardano come modelli, e si rispettano come altari.

Ma senz’andare verso i secoli scorsi, noi possiam vedere quel che opera chi si propose di non lasciare il mondo come lo torvò. Vogliamoci a Federigo il grande, il Re di Prussia. Quest’uomo straordinario si è alzato a quella grandezza, in cui ora si trova, per aver avuto in mente il principio che dicemmo. Ha creato il suo stato, e la sua milizia. Vide per tempo esser questa il nerbo di un grande imperio. Fondò adunque una scuola militare, la quale non ha avuto esempio in alcuna delle passate età, e molto meno nella nostra. Egli è stato dunque la vita di tutte le grandi riforme de’suoi stati; e l’Europa nostra attonita sulla scienza, e su gli acquisti fatti da questo gran Re, ha dovuto cedere al destino di esser gran tempo ammiratrice, e determinarsi poi a seguitare i suoi passi nella maniera di mantenere eserciti, e di fare una guerra. Ha imparato anche da lui a far leggi come Solone, e a dare l’esempio di una certa sobrietà, che si potrebbe dire spartana. E giacchè siamo su i grandi [73] esempi; e poichè la Toscana è nome antichissimo e glorioso, cosa non ha operato Pietro Leopoldo, nostro Sovrano in meno di dodici anni, ch’egli ci governa? La Toscana non è più quella. Noi siam divenuti, salve le sante leggi, i più liberi senza gl’inconvenienti della libertà. Questa si è estesa a tutto. Gli uomini sono eguali, debbon fare quel che loro sembra più utile delle cose loro. Non ha più catene, come in passato, il nostro commercio. Quì d’altro non si ragiona che di agricoltura, e di regolamenti economici. Questa si va facendo la scienza universale; ed è quasi per ogni parte talmente trascorsa che ad altro non si pensa che ad esercitarla. Girisi la Toscana, le città, le campagne, i castelli, le colline, i monti, e si stupirà come in tanti pochi anni siamo passati dalla miseria ad acquisti considerabili assai. E di questa felice rivoluzione è stato cagione un Uomo, che ha saputo operare in una età che gli uomini appena cominciano a pensare. Io non credo che alcuno dubiterà di quel che scrivo; perchè dovendo scrivere il falso, io piuttosto risolverci di tacere. Oltre di che risponderei ad alcuno che dubitasse de’nostri beni presenti, nati, e cresciuti in sì breve tempo: Venite e vedete.

Felici conseguenze de’tre principj stabiliti! Felici coloro, che ne sentono tutta la verità, tutta la forza, e che possono sollevarsi da terra! Con essi tenacemente impressi nella memoria, quali avanzamenti, quali scoperte non si possono aspettare! Son essi tutto il fondamento della maniera di [74] far suoi studi. Io non gli propongo ad altri che a coloro, i quali si sentono nati per alcuna cosa di grande. In quanto a quelli che non nacquero con ali sì forti, bisogna che sappiano altro non restare ad essi che apprender le leggi, ad esse obbedire, e fare le faccende comuni della vita. La gloria di altissimi ingegni non è per loro. Voi dunque che per esser memorandi nasceste, apprendete a buon ora che i ricchi tesori dell’ingegno, che vi diè la Natura, son tesori preziosi, e sono anche un nulla, se non pensate che ci vogliono fatiche senza esempio. La Natura fa tutto con poco, e per le vie le più semplici. Noi dobbiam far poco con molto, e spesso per lunghissimi tempi, e travagli incredibili. Dunque il tempo è un altro tesoro, ed è quasi un lampo per chi non sa pregiarlo quanto conviene. Al tempo che fugge si abbian le mire, non perchè possa farsi più breve, ma per vederlo passare con profitto. Ricordiamoci della sublime origine nostra, de’nostri privilegi, appena abbiamo scoperto qualche dono naturale non a tutti concesso; e pensiamo che si parlerà di noi infin che dura l’universo, perchè le nostre cose o saranno tutte verità grandi da Natura ricavate, o quadri stupendi imitati dal più bello che ella seppe mostrare fra noi. ◀Ebene 2 ◀Ebene 1

1By a patient way of thinking; cioè colla perseveranza. Vedi Alzarotti Opere Tomo 7.Ediz. di Livorno pag. 64.

2Algarotti Saggio sulla Pittura.