Osservatore Toscano: Saggio III.

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Nivel 1

Saggio III.

Nivel 2

Quadrupedi Per conoscer la Natura bisogna cercar que’ lunghi, ove di rado, o non mai si vegga impresso vestigio umano. Ivi tutto ad essa è abbandonato, tutto è quel che dee pur essere, semplice, nudo, solitario. Gli alberi, l’erbe, gli animali, ed ogni altra creatura vi portano in se que’ segni, che fra gli uomini ormai non possono più avere. L’arte non vi ha ancor penetrato, e quando essa vi può esercitare la sua finezza, e spesso il suo capriccio, il più bello della Natura finisce. In vano si cercherebbe allora una pianta, che nel suo rigoglio natio stendesse lontani i suoi rami, e colla sua cima se ne andasse alle stelle. In vano si bramerebbe un animale, che godesse anche fra’ dirupi una sicurezza, una libertà senza pari, un pascolo sempre dolce, e ridente. Tutto si vedrebbe alterato, come si vede ne’ nostri orti, ne’ nostri giardini, nelle nostre compagne, ove l’uomo scordatosi della semplicità, ha voluto innestare l’eleganza. Più non si potrebbe godere di quell’orrore, e di quel silenzio soave, che tanto ci piace, allorchè si entra in una selva, o in un bosco. L’ordine, la pulitezza avrian preso il luogo dovuto al semplice, al vago; e l’anima che per un proprio istinto ne sente la dolcezza, quando si avviene in esso, non potrebbe non allontanarsi dal suo maggior diletto, ed assuefarsi a quello, che sempre è falso. L’uomo dunque a forza d’arte, di studio ha quasi cancellate tutte le belle arie della Natura. Ha creduto che ella suffe selvaggia senza le sue mani, cioè non punto bella a vedersi, ed in così fatto pensare si è allontanato, per grandissimo tratto, da essa. Tutte le piante pertanto che egli coltiva, non son più le primigenie, come non sono neppure gli animali. E’ sparita la prima semplicità, ed è anche venuto meno quell’apparente disordine, che si è creduto di trovare in tutte le cose lasciate alla condizione di se. Che più? L’uomo stesso è così poco naturale, che nulla più. Per ritornarvi bisogna che bisogna che egli si spogli delle false idee, degli abiti falsi già contratti. Ma spesso non può farlo. Quante leggi non tendono a cambiarlo per tutta la vita? E che forse la maniera stessa di morire è punto naturale? Questa sarebbe veramente una, quanto bella, altrettanto dolorosa, quistione. L’uomo anche morendo non è quel che dovrebbe essere. Uomo, che sei mai tu? Dopo aver faticato de’ secoli per esser più sicuro, ti trovi col piede in mille lacci, i quali ti credevi di fuggire. Terminate le tue guerre crudeli, le tue conquiste hai pensato a goderne, e ti sei trovato nel falso. Non ti sei sentito nulla più mansueto, nulla più felice di quel che speravi. Allora ti sei avveduto di aver perduta l’antica semplicità, e per ricovrarla in parte, per sentire almeno il più dolce respiro, hai dovuto ritornare, e avvicinarti al naturale. O Natura, o Natura! Bisogna conoscerti per non lasciarti mai. Teco è sempre la verità, la bellezza, la virtù. Quali oggetti! Ma giacchè tutto mira a far l’uomo men semplice di quel che sarebbe; giacchè ormai sì pochi conoscono la Natura, torniamo noi a dilettarsi in descrivere alcuna specie, ed a contemplarla. Noi seguiteremo ad osservare altri due Quadrupedi della Sardegna, non perchè sian propri di quest’ Isola sola, ma perchè gli animali anche della specie medesima portano con se l’impronta del paese, o del clima, vale a dire, qualche varietà. Si terrà dietro anche quì ad alcuna notizia che ce ne ha lasciata ne’ suoi libri l’abate Francesco Cetti, parendo che possa esser posta in quel punto di vista più vago che egli non ha fatto, o che la Natura stessa non ha voluto ch’egli faccia. Veggo che i suoi scritti gran fatica gli debbono esser costata; io però non potrei seguitarlo senza il talento di scorrervi sopra senza pena, nè stento. Ma la Natura è sempre bella. Può egli farsi a credere di averla dipinta chi non sente scrivendo di far un’ombra almeno della impressione, che ella fa col solo mostrarsi non punto velata? Tra i Quadrupedi la Capra non è del minor vantaggio. Per questo si vede in tutte le parti della terra ricercarsi, e mantenersi. Serve all’ uomo colle sue carni, col suo pelo, col suo latte, colla sua pelle; e mentre lo alimenta sì bene per la parte del latte, può anche somministrare all’arte una materia per cambiarsi in veste di fasto, quando lo voglia. Tale è la materia del suo pelo. Vero si è che la Capra è un animale dannoso. Ella ama di strappare le cime delle tenere frondi; e spesso i più vigorosi germogli sono da lei troncati miseramente. Quindi è che in alcune parti non si soffre appunto per li danni, che ella suol fare alle tenere piante, o a’ rampolli delle già grandi, o se ella si soffre, suol guidarsi sempre su monti, o dentro i boschi, ove ama la varietà delle frondi, i dirupi, le vette, e l’ordinaria verzura. Veramente il monte, il bosco, la collina, i luoghi scoscesi sono il suo soggiorno favorito; perchè va in essi cercando una primavera sempre verde, sempre pura, pascolando a suo bell’ agio, senza che la poggia, la rugiada, il sole ardente le facciano alcun male. In fatti ne’ luoghi alpestri, e rilevati, ove le piante s’inalzano confusamente a varie distanze, l’aria è più pura, le frondi non tocche, e l’erbe sparse di rugiada. Tutto questo piace al nostro Animale in modo che una fronda, ove non sentisse la consueta purità, sebbene rigogliosa, non punto la toccherebbe. E’ dunque cosa dilettevole a vedersi sopra di un precipizio, su di una ripa fiorita rampicarsi o quà, or là, e stappare i germogli più teneri e saporiti, godendo la stagione, la verdura, ed il fresco. Ma le Carpe, che si conoscono fra noi sono domestiche, e perciò sono guidate. Questa guida toglie loro qualche cosa di quel naturale, che tanto è bello agli occhi di chi fa vederlo. Veggiamole dunque quali sono in natura, abbandonate all’istinto, libere, e lontane da ogni rumore, se non si voglia quello delle foglie scosse dal vento, o quello pure di un rivo che scorre. In Sardegna si trovan sì fatte Capre selvaggie, o sia nella maggior Isola adiacente a questo regno, che è l’Isola di Tavolara. Questa ormai non è più che un luogo inospito, romito, ove pare che ne abbiano tutto l’impero queste Capre lasciate a se, e alla natura del luogo. In essa si sono moltiplicate a segno che la riempion tutta. E perchè la libertà, ed uno pascolo sempre vivo, fanno il migliore stato, così si veggono esservi di una mole più grande dell’ordinaria, sparse di color vario, e coperte di un pelo più corto di quello, che anno le domestiche. In somma signoreggiano quest’Isola, ove gli alberi frondosi, l’aria, le acque correnti, i dirupi, tutto congiura insieme a prosperarvi la specie. L’Uomo nondimeno, che niuno lascia in pace de’ viventi, quando non sappia involarsi alle sue forze, al suo ingegno, cerca di turbarle, e di farne la maggiore strage, che può. E cosa è ella questa caccia, che è oggimai tra nostri diletti della villa il più dolce? Non è ella un esercizio di crudeltà il più orribile? Si corre a distruggere quel che vive nel silenzio, e che in vano potrebbe resistere alla nostra forza combinata. Si aspettano queste Capre selvaggie, quando sul calar del sole, sogliono scendere da’ lor dirupi a dissetarsi a qualche ruscello, ed allora si assaliscono, e se ne fa uccisione. La carne de’ becchi, e de’ capretti è assai buona, per essere molto saporita. Sono anche nell’interno del regno altre Capredomestiche, le quali sono assai da stimarsi per la qualità, e per l’abbondanza del latte, anche in paragone di quello della Vacca. Così narra il mio Autore. Egli ha fatta l’analisi di tutti e due, e trova quello della Capra assai più pingue di quel della Vacca, la quale, per essere in Sardegna animale assai languido, somministra un latte debole, e sieroso. Ma è da temersi forte che queste differenze sieno accidentali, e che mutata la maniera di pascere, e di custodire questo animale, debba dare allora un latte sostanzioso, come segue negli altri paesi, e sotto altri climi, e che tanto la Capra che la Vacca ne abbonderanno di più, e potranno mungersi anche maggior tempo di quel che si fa al presente, che quattro soli mesi vi si munge. Il Porco è un quadrupede, che abbonda nell’Isola de’ Sardi. Vi è anche quello che si chiama da’ Naturalisti solipede a differenza de’ comuni, vale a dire, con un piede non punto diviso, ma tutto interno. Il Porco della Sardegna ha qualche cosa nell’invoglio esteriore, che non anno i nostri in Toscana. Ha dunque un aspetto il più selvaggio, per esser solto di setole per tutto il corpo. Gli si veggono due orecchie corte, ritte, e setolose. Sul dorso pure, o sia lungo la spina di esso, le ha ritte, se non che verso i lombi ne ha un fiocco, che va poi a finire in una coda lunga fino al ginocchio, che quasi la scambieresti con quello di un Cavallo sardo. In somma egli è coperto più de’ nostri da setole, e lunghe, di color vario, ma bianche per lo più. Un’apparenza sì fatta, secondo il mio Autore, dee sorprendere coloro, che son usi a vedere il porco domestico d’altrove, il quale nell’esteriore non rassomiglia al descritto della Sardegna. Io per me, grazie al mio clima felice, non son di quelli. Il Porco nostrale, e massime quello del Casentino, senza tanto sfogarsi in setole, ed in coda, non ha nulla da invidiare i migliori dell’ Italia, e molto meno quelli de’ Sardi. Testimoni ne sieno i Prosciutti, che si anno di Sardegna, e del Casentino. Non par che debbasi far neppur confronto, tanto i nostri son più squisiti. Anzi se nel Casentino non gli affumicassero tanto, il che dà fastidio a non pochi, quelli di Sorrento non sarebbero quasi i primi. Ma anche questo può darsi che sia accidentale; giacchè non si è anche sperimentato quel che si debba ascrivere al clima, tutte le altre cose perfezionate. Pare che l’Autor mio ne convenga; perchè dice che il sughero la querce, il leccio son tre alberi ghiandiferi, che sono sparsi per molte parti della Sardegna. Le prime ghiande le mangiano quegli animali in otttobre, poi ne vengon dietro le migliori della quercie, infine quelle ottime, e più nutritive del leccio ad impinguarli. Dice di più che i Sardi se ne cibano volentieri subito a’primi freddi, e che il pane fatto di ghianda, ed unto di lardo porcino è un boccone da non darsi per una cucina intiera. Che avrebbe detto l’Autore se avesse gustato le carni di questo animale del Casentino, i prosciutti di Sorrento, e con essi il nostro pane? Quì stupirà alcuno forse, e non crederà, che vi sian luoghi, ove si mangi il pane fatto di ghiande. Non bisogna però stupire; perchè il cibarsi di esse da un anno all’altro in alcuni villaggi della Sardegna, è un fatto. Questo richiama alla memoria non essere una favola, che i nostri antichissimi padri, quando forse la terra era anche un bosco, se ne sieno cibati (a)1. Ecco come preparano questo pane que’ ruvidi Sardi. Mondano le ghiande, come si moderebbero fra noi le castagne. Le fanno bollire in una caldaia d’acqua pura. Bollite che elle sono, si cambia quell’acqua, e si fanno bollire in altrettanta, in cui sia stata prima disfatta della terra rossa. In fine dopo di questa bollitura, vi si getta sopra del ranno di leccio, e di sarmenti, e le ghiande precipitano al fondo del vaso. Allora è certo che debbono aver perduto quell’amaro, quell’ostico, che anno, raddolcite che sieno con quel ranno. Fatta così questa preparazione, se ne fa subito pane. Non si può negare che non sia questo un cibo stranissimo pe’ nostri tempi; ma se noi pensiamo bene, comprenderemo quel che fummo un giorno, e quel che siamo di presente. Credo che coloro, i quali se ne cibano in Sardegna abbiano stomachi di bronzo; e se per noi sarebbe micidiale, dobbiamo ringraziarne la nostra vita civile, oggimai anche troppo ammollita. Quanto abbiamo degenerato! Confessiamo di non esser più quelli di tanti secoli sono. Non si crederebbe che il pane di prette ghiande fosse l’ordinario alimento di alcune genti della Sardegna, come non si credeva in Sardegna stessa, se il mio Autore non lo accertava a’ Sardi medesimi. Ma ormai non ci è più da dubitarne. La vita però di quelle genti non è punto civile; perchè se tale generalmente ella fosse, addio quegli stomachi sì forti. Non è dunque sedentaria, nè litigiosa. Si trovano nelle fatiche sì bene; ma anno seco la pace. Non sanno che sia inganno, falsità, od altra tristezza. Tutto è buona fede, e semplicità. Temiamo che presto non si cambi quella vita robusta, unico avanzo, cred’ io, delle nostre prime vite, che vissero alla Natura. Ne teme anche il mio Autore; perchè a misura che abonda il frumento, rinunziano alle ghiande. Un solo villaggio collocato sul pendio di Montesanto detto Baune si preserva nella sua maniera antica di cibarsi, e di vivere. Felici questi uomini rozzi! La vita loro, sebbene attiva, non è la più faticosa, nè la più incerta del mondo, come fra noi, che siam sempre a fronte coll’ingegno, e con la pulitezza. Non sanno generalmente che siano lunghe, e pertinaci malattie, e molto meno le nostre anche troppo funeste, perchè troppo civili. Ignorano i piaceri troppo raffinati, ma in lor vece godono i più naturali, i soli che sian veri, nè sentono le spine, che lasciano nell’anima i nostri. Che importa che non sappiano, per esempio, le più belle proprietà del circolo, o che sia stata nel mondo una famosa potenza, qual’ è stata la romana, se anche senza queste idee son felici abbastanza? Che non è forse vero, che le nostre speculazioni sono il flagello della nostra salute? Mentre scrivo questi pensieri, io provo pur troppo queste verità dolenti. Sento debole il mio stomaco, antichissimo male degli uomini applicati, e con esso sento alcuna indigestione. E perchè tutto e ciò? Perchè si vuole consumare l’intelletto speculando; perchè vogliam farci una forte passione del pensare; perchè si ha dinanzi quel fantasma tanto prezioso, e sì vano della gloria; perchè in ultimo veggiamo i nostri mali, nè sappiamo ancora esser filosofi a noi. Fortunati coloro, che vivono solo in seno della Natura, vicino ad una selva, ad un orto, ad un fonte (a)2! Non bisogna dire esser questa una vita selvaggia. Ella è una vita, in cui gli uomini sono stati de’ secoli. Bisogna che anch’essa sia pur fatta per l’uomo, e che abbia que’ diletti, che per nostra sciagura più non si fanno. Perché ella sia memoranda agli occhi di chi vede l’uman genere nello stato antico, e nel presente, basta che ella sia stata inventrice di molte cose importanti, e fra queste della coltura degli animali. Ora noi conosciamo necessari. Forse ci scorderemo un giorno delle ineguaglianze, e de’ capricci della vita sociale. Questo tempo però verrà assai tardi, per la ragione che troppo ci vuole per tornare alla semplicità, dopo di averne perdute le idee.

1[a] Manetti Memoria della Pannizzazione pag. 171. Venezia 1766.

2(a) Orazio Sat. VI. Iloc erat in votis, ec.