Citation: Luca Magnanima (Ed.): "Saggio I.", in: Osservatore Toscano, Vol.1\01 (1779), pp. 1-4, edited in: Ertler, Klaus-Dieter / Fuchs, Alexandra (Ed.): The "Spectators" in the international context. Digital Edition, Graz 2011- . hdl.handle.net/11471/513.20.3553 [last accessed: ].


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Saggio I.

Alcuni lineamenti dell’Autore

Level 2► Metatextuality► E chi se’ tu, mi sento dire da taluno, che vuoi sedere a scranna, e scrivere alla nostra Toscana, all’Italia nostra cultissima? Risponderò di non essere alcuna cosa, di non sentir gran fatto di me stesso; ma confesserò anche più che la Natura mi rapisce a questo esercizio. Chi può negarsi alla Natura, quand’ella spira, quand’ella vuole, e rapisce? Bene; siamo inondati da tanti libri, e da tanti fogli, che vanno a morire l’uno dopo l’altro. Che vuoi dunque tu dire? Non posso negare che non sia così. Ma che son mai in generale tanti libri, e tanti fogli che si scrivono alla giornata, o piuttosto s’imbrattano? Ecco la prima verità che io voglio dire. Son quasi tutti volgarizzamenti di libri forestieri buoni e cattivi, i quali volgarizzamenti ormai son la peste dell’Italia, di quella Italia, che in altri tempi maestra, si saria pur vergognata di spendere il suo tempo in questo miserabil mestiere. Dico miserabile, perché rarissimi son que’ libri, e quegli originali così finiti, che meritin l’onore di esser portati in lingua altrui. Adunque se io prendo scrivere, voglio esser pur io, e non gli altri; [2] voglio esser padrone, non servo. Se gli scritti, che consumano oggimai tanta stampa, fossero il ritratto di chi pensa, o che pensa con altri e con se, il giorno della lor comparsa non sarebbe quello della lor morte. L’immagine delle anime pensatrici ha un carattere sfolgorante tutto suo, e che invano l’invidia tenta di oscurare. Voglio dunque alzar la fronte contra un abuso sì orribile di vedere i più degl’Italiani perduti dietro le cose forestiere, senza pensare a far fruttare il loro terreno, ed invece di vederlo fiorire delle proprie semenze, voler godere delle altrui, perchè solo altrui.

E che sia pur così, diasi uno sguardo alla nostra lingua. Si ravvisa più ella ne’ libri de’ nostri Italiani? Sentesi più in essa alcuna vaghezza, alcun’aria di semplicità, alcun tratto naturale che a’ buoni tempi fioriva? Nulla di questo. Chi dicesse di studiare sull’eloquenza purissima del frate Jacopo Passavanti, e di coglier da essa il fiore di nostra lingua, farebbe compassione a più d’un molle saccente. Io nondimeno sarei con colui che lo facesse. Bisogna ritornarsi verso i principj; il contagio è troppo diffuso. Noi siamo tanti schiavi delle altre nazioni. Il timore ci avvilisce, nè sappiamo quasi più fare un passo, se altri non ci guida. Non consideriamo più noi stessi, i nostri modelli, ed i nostri talenti. E che? la Natura che ci ha privilegiati in altri tempi, avrà ella ritirati i suoi doni? Questo non già. Io dunque scriverò quel che avrò veduto, quel che avrò pensato. Non [3] andrò a farmi imprestare le idee, e l’espressioni al francese ed all’inglese. Ho le medesime facoltà che essi pur anno. Il mio clima beato non si oppone al talento. La mia favella nativa è tanto ricca, sì pulita, e sì bella che gareggia in chi forte sente, e più forte pensa coll’anima stessa de’ pensieri.

Scriverò anche degli uomini. La scienza di essi è la più importante. Oh ci è stato scritto da tanti secoli per molti e molti valenti. Non importa. La lista si accrescerà di un nome di più; e quando io non lo meriti, neppur questo mi affligge. Se scriverò degli uomini, io dirò la verità. Sarà odiata. Che monta? sarà alle fine sempre ricercata da quelli che l’odiano il più. Sfido però tutto il genere umano a odiarla da vero. Qual che dicesi odio comunemente, è un amaro dispiacere che provan certuni di sentirsi scoperti, e non più. Sarai odiato tu stesso. Lo credo; ma questo sarà quel che è sempre avvenuto a coloro che an voluto pensare e dire il pensato. Io confesso che sarò ben lungi dall’offendere alcuno; il resto sarà per me un vento che passa. Tuttavia quel che scriverò sarà sempre, se non la verità, almeno quel che io penso. Non isperi alcuno di veder l’eloquenza rivolta a indorare il falso. Sento che non potrei farlo; sento che il mio naturale ci repugna, nè avrei mai pensato a scrivere se nell’Italia non si godesse ormai di una certa libertà nel pensare, che si estende a tutti gli oggetti, e là finisce ove comincian la religione e le leggi.

[4] Lascio a’ vili Scrittori il sognar la virtù ove non è, se non barbiere e alterezza. Lascio loro la funesta libertà di lodare quel che il Saggio disprezza. Uomini che imponete tanto alla terra, se non avete virtù, se la filosofia rischiaratrice non vi aprì l’intelletto, se le lettere non vi anno addolcito, non so che dirmi di voi. Non voglio alcuna cosa; non insulto alle vostre noie; ma tiro un velo sulle scene che date. Voi dunque che vorrete leggere questi Fogli, cominciate dal considerarmi un Inglese che geloso di sua libertà, non saprebbe pensare, nemmen per ombra, a venderla ad un favore. Sappiate che rispetto i grandi senza ambirne le grazie; che non ho un’espressione che sia mai la stessa, nè un riso che sia abituale; che vivo del poco; che son povero e indipendente. Dopo tutto questo considerate che io penso e che scrivo.

Ma dirai tu veramente cose nuove? perchè tu sai che la novità è la più dolce cosa del mondo. Egli è certo che no dirò quel che è stato detto dagli altri, nè quel che gli altri anno osservato io ripeterò. Vorrei nondimeno che si pensasse che non si dà idea nuova, la quale non sia legata con alcun’altra che sia già conosciuta. Oserò dire anche di più; che le teste dipinte da Raffaello non si dovranno dir sue, perchè somigliano a quelle della natura, a quelle de’ greci? Oltre di ciò le idee nuove sono una sola parte di quel che costituisce un quadro originale. Io dunque pregherò di esser giudicato sul tutto. Questo giudizio sarà il maggior onore che potrà farmi chi legge. ◀Metatextuality ◀Level 2 ◀Level 1