Référence bibliographique: Luca Magnanima (Éd.): "Saggio XX.", dans: Osservatore Toscano, Vol.1\20 (1779), pp. 182-199, édité dans: Ertler, Klaus-Dieter / Fuchs, Alexandra (Éd.): Les "Spectators" dans le contexte international. Édition numérique, Graz 2011- . hdl.handle.net/11471/513.20.3552 [consulté le: ].


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Saggio XX.

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Trattenimento di un Padre col suo Figliuolo

Niveau 3► Figliuol mio, dolce nome per un padre, tu se’giunto all’età più appariscente dell’uomo. Non oltrepassi i diciotto anni. Sei di una bella statura, hai carnagione la più fresca, e la più colorita, hai belli occhi, bel ciglio, capellatura bionda, e crescente, ed il tuo andare è sciolto, e leggiadro. Tutto è vago, ed ameno in te, perchè vaga è anche la stagione della tua vita. Hai dunque di che prender subito gli animi altrui; mentre pochi son que’male avventurati, che non sappiano che sempre è dolce a vedersi una bella figura nella stagione più bella dell’uomo. Sembra però che tu ti conosca, perchè ti è a cuore la tua bellezza, onde non lasci di starle molto intorno con assai cura, per farla, se possibil mai fosse, anche più bella. Io ben veggo le tue mire, ed io fui come tu sei. Quel [183] che fai dunque è molto naturale. Nella primavera dell’anno è tutto verde, e fiorito, tutto olezza, a dir così, sempre di un nuovo piacere. Nel modo stesso la primavera della nostra vita, dee farsi mirare per i bei capelli, per le fresche guance, per la bella fronte, per la bianchezza, e per tutto ciò, che dà della vaghezza, e del brio. Ma, figliuol mio, non so se tu abbi ancor tutto dalla Natura. Io voglio pertanto che tu vegga te stesso, come in uno specchio, per osservare quel che tu hai, e quel che ti manca. Io ti darò forse ora alcun dispiacere, ma un giorno sarai meno infelice.

Tu se’bello, e credi che sia il tutto, ma non è punto così. Tu sei una bella statua scolpita forse da Prassitele. Ma ad una statua, per quanto sia bella, mancan sempre i moti dell’anima, e perciò quel che avviva, ed infiamma la bellezza, e la ripone quasi direi tra’celesti. Tu non pensi ancora, Figliuol mio, o se pensi, lo fai assai male. Non sai ancora, che tu hai una sostanza diversa dal corpo, la quale ha in se delle proprietà così belle, sì rare, che ad essa pur cede ogn’altra bellezza. Per questo non conosci, nè ragioni ancora, ovvero tu non conosci la natura degli oggetti, e non sapendo questa non puoi comprendere la ragione, che passa fra loro di convenienza, o di sconvenienza; e perciò ignori che son mai in se stessi, e paragonati fra loro. In una parola non penetri ancora in te, nè ravvisi quella parte, che si dice spirituale. Non puoi parlare per conseguente senza farlo in [184] maniera da far compassione. Questo non è tutto ancora il tuo peggio. Nella gran moltitudine di coloro, che son fatti, come tu sei, molti ci sono, i quali passano per i più distinti in questo pensare, come tu passi per uno de’più belli della nostra specie. Questi parlano anche delle cose, che non si veggono con gli occhi, e ne parlano in maniera, che incantano coloro, che gli odono, vale a dire l’anima di quelli, che ascoltano, sente un piacere, un diletto fuori dell’usato. Or questi son coloro, che anno il nome di sapienti con voce assai spiegante, perchè sanno assaissimo o in alcuna cosa, o in molte. Tu con tutto il tuo bello esteriore non potrai piacere alla maggior parte, cioè alla moltitudine, ed in questa un filosofo, o sia un sasapiente (sic.) riporrà con tutta la giustizia coloro, che son ricchi, ed anno del potere, se non anno essi pure sapienza. Questi, che si dicono anche con titolo mal conveniente signori, cioè dominatori, ti gradiranno assai, perchè la tua ignoranza è grande, e perciò sei pur atto ad ogni avvilimento. La tua presenza piacerà loro similmente, perchè amano in tutto quel che non tormenta l’intelletto. Potrai in conseguenza aspirare alla loro grazia, ed ancora a qualche acquisto; perchè un ignorante, anche di non bello aspetto, ha già meritato assai quando si presenta ignorante. Tutto il resto poi cammina da se, quando ti fai conoscere per sì fatto. Non potrai opporre pensiero a pensiero, non ti verranno mai [185] dalla bocca espressioni semplici, ed animate, dalla tua fronte non sarà quasi mai per uscire, a dir così, il tuo spirito converso ne’tuoi detti. In somma quell’anima, che ti ho detto esser capace di tante belle perfezioni, giacerà al suolo come dimentica, ed ignara di se. Veggo che stupisci come questa tua ignoranza possa aprirti il cammino alla grazia di molti potenti, ed alle fortune. Basterà, per dirti ogni cosa, che tu abbia abituale sorriso sulle labbra, che mostri di approvare quel che non sai, che la tua volontà sia quella di colui, che ha ricchezze, o potenza, e qualche parte di esse è già tua. Ma quì mi dirai, che se le fortune son sicure, l’ignoranza in questi casi è necessaria. Ella è dunque avventurata. Lascia quì, Figliuol mio, che io t’insegni quel che non sai, e pensa bene a farne tesoro. Io son padre, e sento in me uno spirito, ed un cuore, che io non avrei, se tale non fossi. Io ti ringrazio, o benigna Natura, che per te io sento che il più tenero senso mi rinvigorisce, e conforta.

Prima di venire alle cose rilevanti, che debbo dirti, voglio che sappi aver tu imparato quelle che nulla ti anno mostrato te stesso, nè gli altri, co’quali tu dei vivere. Non ha intesa neppure quell’unica proprietà, per cui l’uomo è solo diverso dagli animali, quando è loro simile in tutto il resto. Sai a memoria molte idee, che anno scritto altri uomini; ed a queste non hai saputo nè torre, nè aggiungere. So anch’io esser difficile il far molte [186] cose grandi, ed altre belle da se, senza un primo urto, senza un baleno di luce, che parta da altri; ma questa è colpa della condizione de’tempi, ne’quali son pochissimi coloro, che anche fatti precettori del comune vogliano dar questa mossa allo spirito di coloro, che l’anno acceso, e pieghevole; oppure è raro che uomini sì fatti vogliano far conoscere onde son venute le loro dottrine, e metter così in libertà di se gli spiriti novelli. Se per amore di questa libertà volessero farlo, condurrebbero i loro scolari alla Natura stessa, ove sono le preziose sorgenti del tutto. Ma essi amano di nasconderle il più delle volte, e di veder perire miseramente i più be’talenti a ripeter sempre i loro principj con le loro espressioni. Sicchè se ti è mancato questo primo impulso, tua non è punto la colpa, ma di coloro, che dovrebbero aver fatto uno studio singolare sulle anime ancora nuove, per apprendere come e quando debbono esser mosse, onde imparino per tempo a conoscer da se, cioè ad esser libere e spiegatrici di se. Forse non è neppur colpa di essi, perchè non il loro merito, e i lor talenti gli anno fatti insegnatori, ma il favore, e la grazia. Tutta la colpa adunque, per non tacciare alcuno, diremo esser de’tempi.

Ora hai tu per insegnatore il padre tuo. Più amico, nè sincero maestro non puoi avere al presente. Sappi adunque, amato Figliuol mio, che l’ignoranza in se stessa è un male, che non ha pari. Si tratta, che l’uomo sulla terra è circon-[187]dato da una varietà quasi immensa di oggetti, nè egli ne conosce alcuna parte, e questi posson esser buoni, o rei per lui. La cicuta è una pianta, che nasce ne’campi, e lungo i lidi del mare. Quest’ultima uccide, se l’umor suo, od essa s’ingoia. Ella è una pianta salutare se si applica a qualche malattia esterna. Similmente l’acqua, che le nubi lasciano cadere sulla terra, è la vita degli uomini, delle piante, e degli animali; ma ella in alcuni tempi cagiona delle rovine, ed a poco a poco ella sola fa molto, perchè nella sua spoglia esteriore il nostro globo si cambi. Adunque non solo è ben fatto il conoscere molti oggetti, di cui abbiamo un costante bisogno; ma il conoscerli ancora, dirò così, nelle lor varie positure. Per conoscerli poi bisogna avergli sotto gli occhi molto tempo, farseli amici, e compagni, averli per le mani ad ogni ora, vederli da tutte le parti, aprirli in se stessi, se si può, e vederne, come si direbbe, le viscere. E questo si chiama studiare, imparare a conoscere, o quel che è pure lo stesso, farsi sapienti. Non è dunque la faccenda la più difficile, anzi a me sembra la più agevol cosa dal mondo. Basta di osservare in se che l’uomo può star fisso lungo tempo sur un oggetto a vederlo con gli occhi del corpo, ed a considerarne le parti con quelli dell’intelletto, basta a poco a poco fissarsi per più lungo tempo, e l’uomo conosce, ritiene, ed a misura, che si estendono queste due proprietà di conoscere, e di ritenere, egli si fa più sapiente. Ma tutto questo si chiama con una sola voce attenzio-[188]ne. Dunque alla sola attenzione an dovuto, e dovran sempre gli uomini quel che fanno di più grande, e di raro. Io ti ho dunque insegnato come l’ignoranza è un male, e come ella si cambia. Ora io debbo insegnarti in qual senso ella è alcuna volta felice. Ella è felice non di rado, ma solo in apparenza. Le ricchezze, e il potere che sono gran beni, non può negarsi, toccano quasi sempre a quelli, che sarebbero forse sapienti, se elle non fossero. Troppa elevatezza di animo ci vorrebbe per far fronte alle passioni contrarie al sapere, che le ricchezze portano, e fanno radicare nell’animo. Segue assai volte, che questa elevatezza si dispiega in alcuno per farsi onore. Ma in generale è fortuna troppo rara. Dunque con molte sostanze alla mano gli uomini nella presente società possono muovere la volontà degli altri, che non son potenti egualmente, senz’altro bisogno che dell’opinione, del capriccio, di una vista, di un desiderio, e quasi di un nulla. Or essendo così, e credendosi per poco costoro anco i motori della Natura, non che delle povere volontà altrui, si veggono d’intorno una folla di meschini, i quali aspirano ad una piccola parte delle loro sostanze, o de’prodotti di esse. Allora fanno subito molte cose per soddisfare all’arbitro de’piaceri; e questa sapienza subitanea è l’effetto dell’inquieto bisogno. Ma qual dottrina è mai quella, che nasce dal bisogno di aver presto un pane, ed un vestito! Ella è per lo più la dottrina della schiavitù; perchè [189] per piacere ad una ricca ignoranza sarebbe un flagello l’aspetto di un’anima luminosa, libera, e veritiera. L’ignoranza adunque, che si trova a spaziare sur un vasto terreno, e sa che è suo, non può esser rivolta che a compiacersi di un’altra ignoranza, forse più innocente della sua, perchè senza sostanze, ed appoggio, o sia perchè senza tanti mezzi per fare il maggior male col possesso di tante cose in tanta oscurità d’intelletto. Ecco dunque come un ignorante, ha già un diritto per piacere ad alcuni, e per averne il favore.

Ora non creder già che la fortuna sia fatta. Prima che tu ottenga dal tuo Signore alcuna cosa, a quante amarezze, a quanti ingiusti rammarichi, a quanta vil sofferenza non dovrai esser esposto! Sentirai sempre che egli vuol avere maggiore spirito del tuo, e se non l’ha veramente, la parte che tu dovrai fare nella scena dolente sarà quella di confessarlo. Il tuo flagello sarebbe il solo mostrare di dubitarne. Così tu non dovrai esser mai tu che senti, o che pensi, quando ti riesca pur di pensare, ma un altro personaggio, che tu non sei. Così una successione di menzogne, quando tu sappia travedere alcuna verità, o sentirla da altri, sarà la tua vita, e tutto perchè tu dei fare un acquisto, che sarà sempre leggiero. E come esser mai diverso, se parte dalla mano della ignoranza, per passare in un’altra, che alla docile ignoranza aggiunge un ingiusto bisogno del necessario?

[190] La cosa però va altrimenti, quando la sapienza ha l’imperio di due, o più uomini, de’quali uno abbia tutto, e gli altri assai poco. Il sapiente, che abbonda di bene, vuole che i primi a goderne sieno gli amici; che amici son que’pochi, che si annunciarono con eminenti virtù. Egli s’innalza in certo modo alla natura celeste, quando con uno sguardo vede i gran talenti, le grandi virtù, e con un altro, mosso da una forza superiore, gli contempla più da vicino, e gli premia, o piuttosto dà quello, che è loro. E come egli è superiore nel merito, puro nelle intenzioni, facile, e naturale in tutto, così vede negli altri sapienti i suoi compagni. Non fa in conseguenza temerne, perchè il timore non può nascere da chi sente, ed ha misurato per tutti i suoi giorni se stesso. Vedi dunque che la ricchezza in mano all’uomo, che è saggio, è dispensata dalla cognizione, nè mai dalla inconsideratezza, e dalla rabbia. È certo che ella non è allora fusa in masse d’oro per farla men soggetta a consumarsi; ma ella è come una pioggia salubre, che bagna per tutto i germi, e le piante. Quell’oro allora, di cui an tanta sete i mortali, è un liquor nutritivo, che circola pel vasto corpo della società, cui ristora e rinfranca. In fine non ci ha più bella superiorità al mondo di quella, che usa a veder le anime grandi, le qualità rare, le travede anche da lungi, e ne fiorisce lo stato. Questa altezza, nata da elezione degli uomini, perchè nata dalle grandi qualità, confermata da’grandi esempi di [191] se, è la sola permessa. Ogn’altra superiorità, che sia una ed assoluta, è difficile che sia giusta, e bella perciò a vedersi. Quindi i tiranni, che godono di quest’ultima, an sempre la Natura, che gli scuote, e gli opprime. Tentano invano di nascondere se stessi. Temono dunque i talenti, le austere virtù, e alcuna volta odiano anche i tristi. I primi, perchè scuoprono i lor cupi disegni; i secondi, perchè capaci ogni momento di maggiori iniquità; o perchè i primi sono per natura opposti alla lor vita malvagia, ed i secondi son la peste degli stati.

Il saggio non può dunque temere che dall’ignorante. A questo non può piacere altri fra gli uomini che colui, il quale sia anche più ignorante di se; e se mai non lo è, gli fa ben presto concepire, che il maggiore avvilimento è il primo de’suoi meriti. Mira dunque, Figliuol mio, che cosa è mai l’ignoranza meschina sotto di un’altra che ha. Ella spegne quasi direi tutto l’uomo. Egli non può godere nè del bello, ne dell’utile delle cose, perchè non le conosce. Son dunque per lui, come se non fossero cielo, e terra, e tutte le belle produzioni, e quasi immense, che la fanno correre, e valutare. Per dir tutto, questa terra, ove la Natura è per ogni dove feconda, e mirabile, è un’ombra, è un punto ideale, è un oggetto, che si gode senza saperlo, e che si mira senza penetrarne le parti. Nulla ti dirò che cosa ella sia riguardo a’vantaggi, che toccano l’esistenza. L’ignoranza toglie l’uomo all’uomo, e lo pone in braccio della servitù, che sem-[192]pre è vile. Or colui, che serve agli altri, non può pensar mai a suo modo, e quando pur lo tentasse, il tempo gli mancherebbe. Egli è dunque per necessità del suo stato il più misero della terra. Se a tutto ciò si aggiunga, che gli altri uomini mezzanamente rischiarati, non sono i più giusti, si aggiungerà alle sue sciagure il disprezzo di essi; ed allora lo stato il più vile, e più lagrimevole è compito. Dopo tutto questo, io ti farò dono di alcuni pochi principj, i quali ti potranno scorger sicuro nel mezzo del cammino della vita, e nel resto.

Io ho dubitato un tempo, se la Natura abbia voluto, che l’uomo si logori le molle capitali della vita per desio di sapere. Ho pensato dipoi, che ella tende in tutti i suoi moti a far del bene. Una macchina guasta in alcuna parte, o a cui manchi il necessario equilibrio, ella tende a ridurla nell’antica armonia, in quell’accordo di moti, e di figure, da cui dipende propriamente, come io mi penso, la nostra vita. Adunque non sembra ragionevole il pensare, che ella abbia voluto, che si consumino le nostre potenze dietro alle investigazioni delle cose, prima che si conoscano, e si muoia avanti di poterle destinare a’nostri contenti. Oltre di questo, io veggo, che ella per la felicità ci ha scolpiti in mente alcuni principj, i quali ben rilevati, e ben intesi, sono, e saranno sempre li stessi. Non dico che sieno innati con noi; ma eglino si manifestano appena due, o più uomini sono a fronte. Sono questi giustizia, e beneficenza. È un impossibile, che [193] colui, il quale opera con essi saldo, e costante sia un uomo sventurato.

Tutto questo è chiaro. Ma la Natura stessa ha dato all’uomo un amor così vivo di se, che in società non si modera forse mai, se non da un bell’eccesso di sapere. Se è così, l’uomo, che si ama tanto, cerca tutto quello che lo può rendere superiore. E cosa è ella mai questa superiorità? Ella non è altro che un vasto sapere, e questo pure altro non è che una maggiore indipendenza da tutto quel che ne circonda. L’uomo veramente è allora il più libero, vale a dire sciolto dalle impressioni, che pertinaci soglion fare gli oggetti, in cui ci troviamo come immersi finchè si vive. Sciolto adunque in questa guisa, egli si ferma solo su di quelli, che formano dell’uomo alcuna cosa meno mortale. Ecco perchè l’uomo, sospinto che sia una volta all’amore del sapere, si fa ogni giorno più aderente, e non sazio.

Ora come scegliere fra questi due mezzi di esser felice, abbandonarsi a’primitivi principj della Natura, e da essi soli lasciarsi guidare per esser felici, o abbandonarsi alle fatiche di mente per far tesoro di sapienza? La questione a me pare importante, nè fatta da alcuno per quanto io sappia. Si risponderà dunque che nelle piccole società di uomini, e che vivono anche in una certa distanza fra di loro, la bella idea di lasciarsi guidare affatto da’primitivi principj della natura, è la migliore, perchè la più sicura. Non ci è allora punto bisogno [194] di affaticare tutto giorno le nostre potenze dell’anima, ed essere perciò in uno stato di continua distruzione, men lenta forse della naturale, e andante da se. E la ragione anche primitiva si è, che non si ha luogo di sentirsi nascere in cuore altre passioni fuori delle naturali. Sedate che sian queste, la durata della tranquillità è assai lunga. La vita dell’uomo è allora assai semplice, quanto può essare (sic.) il più leggiero trastullo. Allora è proprio un diletto, ormai sconosciuto fra gli uomini, l’osservare la natura umana. Non ci è cosa più bella a vedersi, nè più dolce a sentirsi di quando ella opera, di quando ella parla, e va spiegando le idee de’sensi, ed i moti del cuore. Bisogna dunque confessare che tutto quel che fa la Natura sola è bello, è soave, è un bene. Si dirà che ella distrugge anche l’uomo, ed il resto degli esseri tutti, e che distruggere queste belle opere non sembra nè dolce a sentirsi, nè grazioso a mirarsi. È vero, che ella distrugge, ma in due modi; o quando ella non può soccorrere in un accidente, che sia funesto, e che può nascer dall’uomo stesso, o quando la distruzione è quel passo lento, e poco atteso, per cui ogni essere finisce. In tutto il resto ella è sempre pietosa, e benefattrice. Io t’invito, Figliuol mio, a pensare su di ciò, ed osserverai quanto il padre tuo t’incamminava alla verità.

Ma va bene altrimenti la bisogna, se si tratta degli uomini affollati in società. Non è possibile che non segua un fermento d’idee, e di passioni, che [195] mai non fu. Al concorso adunque degli uomini insieme, si debbono molte passioni, che non si sariano sviluppate, se il trovarsi in buon numero a fronte non fosse stato. Io stimo che in società tutta la nostra vita sia più composta, senza essere nè più quieta, nè sicura della naturale. Ella non è esposta, si dirà, al braccio feroce del più forte. Questo non può forse negarsi; ma che può ritrarre l’uom più forte, o il più malvagio della terra, da persone, che anno un campo, una capanna, ed un fonte? La vista della semplicità disarma anche lo scellerato. Non potendosi dunque in società evitare un contrasto non mai interrotto di molte passioni, come sarebbe della gloria, dell’ambizione, dell’avarizia, e di molte altre, e massime della necessità che preme, fa pur d’uopo confessare che la mente dell’uomo ha bisogno di conoscere assai più, avvicinare gli oggetti, e vederne le conseguenze buone, o ree. Non a tutti egualmente è forse necessario questo lavoro di spirito, ma se non è, lo è ben di poco. Quelli, a cui è necessarissimo, son coloro, che in nascendo, non trovarono alcuna proprietà. Debbon essi aver la lor parte. In conseguenza debbono profittare degli errori di che ne ha, o averla per mezzo di fatiche sedentarie, e logoratrici. Tali son quelle, che si consumano nelle arti di lusso. Bisogna dunque conoscere, e pensare assai per aver poco. Per acquistar poi in società una certa eminenza su gli altri, da che le armi contengono il tutto, bisogna acquistarla colle fatiche, e co’con-[196]sumi di spirito. Io intendo di quella eminenza, che nasce da’gran pensieri, o dalle fatiche del gran pensare. Se questa si toglie, l’uomo bisogna che si rimanga disperso nella folla comune.

Tu senti dunque, Figliuol mio, quel che ti conviene. Tu non hai molte sostanze, ed i bisogni della società, più che dell’uomo, son molti. Se vuoi perciò soddisfare a tutti, fa d’uopo, che tu serva lo stato, o i privati. La scelta è in tua mano; ma ella non può esser mai giudiziosa, se la sapienza non t’insegna. Il mio voto adunque si è che tu consumi il tuo tempo sopra di alcuni libri, e con alcuni uomini insigni, che tu faccia tue le loro dottrine, e che se i tuoi talenti lo vorranno, tu aspiri al sublime, vale a dire a non ordinare, a cagion d’esempio, alcune file di soldati in battaglia, ma a saper fare una guerra. Questo è il consiglio del padre tuo. Non ci è nulla di mezzo, o sapere assai, o vivere nel disprezzo, spesso nella privazione del necessario, e spesso nella servitù. Dunque le fatiche, che conducono alla sapienza, siano la tua passione. Veggo anch’io che son lunghe e penose, ma bisogna piegar la fronte. Tale è lo stato della società, e de’bisogni, o de’deliri, che si anno in società. Tutto va a finire nel soddisfare a questi, o nel timore di vedersi mancare i mezzi per soddisfarvi. Conviene pertanto conoscer molto, pensare assai, ed esporsi poi al dolente impiego di conquistare su gli altri quel che ci manca, sebben si faccia colla scorta delle leggi. Ho detto dolente im-[197]piego, perchè a guardar bene addentro la cosa, sembra che gli uomini non possano esser felici, se non a condizione che altri diventino più o meno infelici.

Tu, o Figliuol mio, non sai anche nulla, o poco, e questo poco non è il migliore. Pensa ora che dei vivere con gli uomini. Io non ti voglio atterrire, spiegandoti quel che sono i tuoi fratelli insieme. Voglio risparmiare all’età tua un dolore, che avrai un giorno, se sarai saggio. Senza di che io non t’istruirei gran fatto di quel che dei pensare, e di quel che dei fare. Bisogna imparare la trista virtù di conoscerli, o per via di errori propri, o d’altri, oppure osservandoli, studiandoli, nelle relazioni, che anno tra loro. Allora s’impara quel che sono veramente. E pensa che son divisi in varie nazioni, e che il conoscerne bene una, non vuol dire conoscer le altre similmente. Questo è un punto capitale, che io ti accenno. Alcune ce ne sono in questo mondo, che per conoscerle a fondo, bisogna studiarle a lungo fra di loro, vale a dire entrare collo spirito nelle loro passioni, e ne’loro interessi. Allora se ne ha la cognizione la più fondata. Se ella è una trista cognizione, mi dirai a che acquistarla? Figliuol mio, quante ve ne sono di queste triste cognizioni, ma pure son necessarie. Ricordati che siamo in società, e che tu vi dovrai restare più assai di me. Io mi avvicino a gran passi al mio fine. Non veggo passare più velocemente gli anni di quel che ora gli vegga, e quando un [198] buon numero di essi è passato, non è da rattristarsi. Si è fatta la parte nostra, conviene ritirarsi per sempre. Io pertanto dovrò farti la strada naturalmente. Tu che faresti sprovveduto di cognizioni, di consigli, di sostanze? Rimarresti a far fede, che da gran tempo entrano molti uomini nel mondo, e sono i più, e trovano tutto occupato. Se la Natura volle, che per tutti fusse il tutto, una combinazione puramente umana, volle, che per pochi fusse assaissimo, per alcuni molto, per alcuni altri la mendicità; o che il necessario fusse conceduto, per quanto apparisce in tutte quante mai le nazioni, a prezzo di servigi, di stento, e d’incertezza. Sicchè in tale stato di cose conviene prender per tempo le tue misure. Cerca di assicurarti, quando io più non ci sarò, il tuo necessario, ed alcun comodo ancora. Per la mancanza, o per l’incertezza di questo, quanti uomini, che son padri, muoion d’afflizione, e d’affanno! Mentre ti assicuri una mediocre porzione di sostanze, ama gli uomini, che son tuoi fratelli, usa la misericordia verso di essi, senza guardare se siano buoni, o rei. Quando poi alcuno ti offenda, perdonagli; se t’invidia, rallegrati; se ti vuole avvilire, compassionalo. Rifletti che ha natura umana è trista forse per circostanze sociali, e che le passioni alterano il senso naturale. Così tu sarai il men disturbato degli uomini. Così avrai campo di esercitare le virtù, che sanno tanto risplendere l’uomo. Non ti lamenterai d’alcuno, e procurerai, che l’indulgenza si faccia in te un’altra natura. Ti [199] rammenterai spesso di questi miei consigli, e dirai, che hai imparato più dall’unica volta, che avesti per maestro il padre tuo, che da molti anni di scuola, ove t’insegnarono persone senza gran lumi, senza sofferenza, e, quel che è peggio, senza trasporto per le virtù umane, per le leggi, per l’ordine, per l’eguaglianza, per la patria, pe’talenti. Sia memorando questo giorno negli annali della tua vita. Io sarò contento, se vedrò germogliare questi semi di bontà, che ho sparsi nel tuo intelletto. Allora sì che la carriera della mia vita sarà la più dolcemente compita. Non ci è sentimento in tutta la natura più tenero di quello di padre. Sia questo un giorno la corona delle tue virtù. ◀Niveau 3 ◀Niveau 2

Fine del primo volume. ◀Niveau 1