Osservatore Toscano: Saggio XIV.

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Saggio XIV.

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Della Sardegna~i, e di alcuni Quadrupedi di essa.

Il rifiorimento della Sardegna~i per mezzo della sua agricoltura è un’opera stampata in Turino in quarto grande, in bella carta, in bel carattere, e con un bel margine ampio, quale di rado si usa oggidì dall’avarizia degli stampatori. L’Autore è un professore di eloquenza, versato nella lettura de’libri moderni di economia, nella erudizione de’latini, e citatore solenne. Nel suo proemio riporta una lettera dell’illustre Manetti scrittagli a nome dell’Accademia de’Georgofili di Firenze, colla quale, oltre a molte altre lodi, gli dà anche quella di pulito, di elegante scrittore. Un altro Naturalista della Sardegna lo chiama acutissimo ingegno, al cui comando stanno una profonda erudizione, ed una nobilissima eloquenza. Così molti uomini di questa età si cambiano le lodi, senza far fronte un istante alla falsità, alla doppiezza, e dire con libertà quel che sentono. Io dunque, che non ho alcun interesse di nascondere quel che sento, e che non lodo alcuno per la speranza di ricevere altrettanto, dico che i due Scrittori mentovati anno dette molte cose buone, ed anno scritto senza sapere, non dirò il fiore di nostra lingua, ma neppure la volgare, nè anno avuto poi da natura il dono di essere eloquenti. E come uno ha rappresentato le miserie della coltivazione, l’altro la piccolezza, la sterilità di molti quadrupedi della Sardegna, così lo stile d’ambidue è quello del clima, e de’soggetti, che trattano. Non essendosi offerti alla lor fantasia che miseri oggetti, si cercherebbe in vano ne’loro libri elevazione d’idee, scelta di disegno, di pensieri, tocchi di pennello pronti, naturali, saporiti, che sollevano in un tratto, e fanno maggiori di se i leggitori. Ma perchè in mezzo a molte inutilità anno scritto molti fatti, ne prenderò alcuni, e ne farò dono agli amici del sapere. Io darò loro un’altra vita, un altro aspetto secondo il mio naturale, essendo persuaso non esser l’amatita una materia preziosa, ma solo stimabile quel disegno, che si fa con essa, e che rappresenta la venustà, la grazia, la natura di Raffaello, o la fierezza di Michelangelo. Fralle contrade d’Italia, che anche sul più bello di questo secolo, meritano uno sguardo di compassione, è certamente la Sardegna. Per averne una prova, basta riconoscer lo stato delle sue terre, il fiorire che vi fa l’agricoltura. Questa è la pietra del paragone. In essa dunque si veggono tratti immensi di terreno abbandonati, alberi selvaggi, stagni, spine ingombrare le più belle parti. Non per tutto campagne coltivate, pulite, ma molte impraticabili, senza strade, piene di fanghi, e di pietre. Se alcuna se ne vede coltivata, non mura, non siepi, non porte vi si veggono, ma tutto aperto, e sbandato. Che diremo degli animali? Cresce le compassione. Non si ha per essi neppur ombra di quella cura, che meritan sempre. Si lasciano a pascolare quel che trovano buono o cattivo, non anno stalle, non ripari, non difesa. Si lasciano in conseguenza all’aria scoperta notte e giorno, in tutte le stagioni le più calde, le più rigide, le più miti. Quindi tutti i greggi, tutti gli armenti nella state sono stentati pel suolo spogliato d’erbe, e di fiori, e nel verno anche mal pasciuti, perchè tutto è ricoperto dalla neve. Non si sa che sian prati artificiali, raccolta fatta per tempo de’pascoli necessari. Ne muoion dunque assaissimi, com’è naturale. Dove sono, quì si potrebbe dire, quell’arie superbe, que’movimenti sì liberi, sì pronti, e sì belli, che mostra l’animale quasi abbandonato a se, alla natura del suolo, all’istinto? Dov’è l’animale su cui l’uomo non ha anche disteso un imperio di ferro? Ov’è l’animale non tormentato, non ridotta allo stato il più infelice, alla mansuetudine, alla fatica, all’obbedienza, alla schiavitù? In Sardegna, benchè si lasci vagare il più, non si trova; segno che mancano pascoli, che vi son poche acque, e non buone, che il suolo ancora, per la maggior parte montuoso, non ne favorisce la specie. Dopo tutto ciò, l’agricoltura non può esser altro che cosa malinconica a vedersi, ed il commercio un’ombra. Ed in vero per fare un commercio, comunque siasi, ci voglion navi, marinari, scienza, esercizio, coraggio. Or manca tutto questo. Non vi son genti per navigare, navi molto meno. Vi sono alcune barche da pesca, ed altre per far trasporto di legne. È dunque per anche un zero il commercio fra’Sardi. Nè serve che le nazioni confinanti lo facciano, perchè un tanto esempio non ha conseguenze. Vengono perciò sulle coste della Sardegna a pescare il corallo altre nazioni, a salare il tonno, a trasportarlo altrove, insieme con grani, formaggi, sale, ed altro. I Sardi se ne stanno spettatori di questa miserabile scena, e non pensano che pagano ogn’anno molte somme agli stranieri, per gastigo della loro o negligenza, o volontà senza forze. Ne’secoli andati non era punto così. Al tempo di Orazio, fioriva questo regno per le sue belle coltivazioni; ond’è ch’egli dice di non chiedere ad Apolline le grasse campagne della fertil Sardegna, ed altre ricchezze, ma solo la mente sana in corpo sano, ed una vecchiezza poi che non sia dolente, nè senza il diletto di compor versi. Orazio di un giudizio sì fino, non avrebbe fatto onore a quest’Isola, se nella mente de’romani non fosse stata una delle più fertili contrade dell’Italia nostra che fu. Oltre di che Poeti sì fatti son sempre scelti nelle idee, che scrivono, e molto più nelle storie. Che non dissero alcuni della valle deliziosa di Tempe? Non sognarono punto. Ella è ancora la più amabil parte della Tessaglia, ove pare che la Natura abbia sparso per sempre a larga mano i suoi doni. Bagnata ancora dal fiume, che gli antichi dissero Peneo, ora Salampria, produce i più belli, i più scelti frutti del mondo. Bisogna dunque credere anche a’poeti, perchè sono alcuna volta gli storici de’tempi. Lascio molti altri scrittori antichi, i quali lodarono la Sardegna per la sua fertilità, e che ci fornisce l’Autore del Rifiorimento di essa. Dobbiamo dunque concludere che ella fosse fertile ed abbondante in tutte le sue parti, e perciò fossero da lodarsi le sue coltivazioni. Ora però non è l’antica Sardegna. Le cause naturali non saranno mutate; è bensì mutata la natura, e lo stato degli uomini. Ma queste son le vicende di molti paesi della terra. Ov’è mai l’antica Grecia, quella che era la maestra delle scienze, delle arti, della pulitezza? Servio Sulpicio scrive a Cicerone, che, navigando da Egina verso Megara, cominciò ad osservare intorno i paesi da lungi, e vide tante città, fioritissime un tempo, a’suoi occhi altro non presentare che diroccamenti, e rovine1. Si dee pertanto affermare che tante terre, che erano già verdeggianti, possono rifiorire, purchè gli uomini sappiano conoscere, e volere i loro vantaggi. In fatti che non è dato all’uomo? Il difficile si è che cominci a voler fare. Così se la Sardegna è ora in uno stato derelitto, può ritornare qual’era un tempo. Intanto cominciano a fruttificarvi le scienze. Il mentovato Naturalista ha cominciato; altri più felici scriveranno della Natura, ed allora la metteranno nell’aspetto il più semplice, il più ordinato, se non il più ricco. Noi frattanto scriviamo a’nostri, che non an veduta quest’Isola, quel che sono alcuni de’suoi Quadrupedi. Due sono le razze originare de’Cavalli in Sardegna, i selvatici, i comuni, o i domestici. I selvatici si trovano solo in una punta dell’isola la più silvestre ed inospita detta di S. Antioco. I Sardi vanno a caccia di essi, come si farebbe tra noi de’caprioli. Se riesce loro di prenderne alcuno, è raro che possano ridurlo a domestichezza. Forse non an tentato tutti i mezzi per arrivarvi, o quel che è più ragionevole, sono di sì vil prezzo, che non possono allettare le fatiche, le cure, le spese di un uomo, che volesse mansuefarli. Che segue adunque? Gli ammazzano, e si servon della pelle. Del resto nulla presentano al Naturalista di curioso, o d’importante. Parrebbe veramente che questa razza avesse del singolare, perchè nella libertà assoluta; ma pure altro non ha che la presenza dello stento, ed una fierezza indomabile. Il Cavallo comune è cavallo, in cui gli uomini non anno avuto alcuna parte. È quel cavallo che nato, e cresciuto in Sardegna non può esser diverso da quel che pur è. La Natura non dà di più. È perciò assai piccolo, perchè non oltrepassa i quattro piedi di Parigi. Ve ne sono anche molti al di sotto di questa misura. Son tutti veloci al corso, spiritosi, bizzarri. Sono in conseguenza agili di membra, proporzionati; e perchè nella loro piccola specie fussero bellissimi, altro non mancherebbe che una testa men grossa. Con tutto ciò sono assai sparuti, perchè trascurati affatto. Quel che anno di notabile è questo, che son capaci di soffrir le fatiche, di mangiar poco in una giornata, di non mangiar punto, nè bere. Simili in questo caso a’cavalli de’Tartari, gran corridori, sofferenti della fame, della sete, atti a tutte le miserie della guerra, e della ferocia de’padroni. Tali son pure quelli dell’Ucraina, la più bella, e la più grassa provincia della Russia, atti a quel che vuole il tempo, e la dura necessità.2Abbiam detto del Cavallo comune, qual’è dato dalla Natura; diciamo ora cosa sono in Sardegna alcune razze di cavalli, da cui ne sortono molti assai belli. Non se ne sa la generazione precisamente; ma questo non monta gran fatto. Il dire che è un uso antichissimo il corso de’palj, non prova che le razze de’cavalli siano pure antiche in Sardegna. Si corrono questi con cavalli non punto fini, ma corridori, comuni, e volgari. Dalle razze adunque che vi si mantengono al presente, si anno cavalli assai buoni, i quali nati da stalloni di Spagna, e da scelte cavalle, non son più alti di quattro piedi di Parigi, e pochi pollici, pieni di vigore, di fuoco, sottili nelle gambe, agili, di piccola testa, ed atti come i più trascurati ad un corso veloce. Questo è il lor pregio maggiore, e perciò men capaci per la lor piccolezza di strascinare gli altri cocchi dorati, ove la vanità, il lusso, la durezza umiliano quasi sempre il maggior numero, che è nella povertà. L’asino è il quadrupede che più s’avvicini al cavallo. Non ha però alcun pregio di esso. È anzi l’opposto di un animale sì spiritoso, sì vago nella sua comparsa, sì valoroso, sì utile ne’suoi servigi. Non ha veduto il fiore di questa specie chi non ha visto mai cavalli di Arabia, o almeno di Barberia. Alla comparsa di essi qualunque altro di Spagna, e delle campagne d’Inghilterra sparisce. L’asino dunque rassomiglia al cavallo più per la struttura interna, che per tutte le altre qualità. In Sardegna se i cavalli son tutti piccoli, gli asini vi sono più piccoli ancora. Sembra che la Natura siasi quì piccata di far vedere quanto ella può umiliare una specie, e ridurla alla minor mole possibile. Infatti quì sono gli asini così piccoli che non passano i due Piedi di Parigi, e pochi pollici. Si direbbe che tutti si rassomigliano, perchè son tutti di quell’altezza, che è la maggiore. Sono perciò capaci soltanto di piccoli servigi, come sarebbe di portare acqua, di girare una macina, che è appunto il destino, che anno in Sardegna, per la ragione che l’acqua buona non è presso i luoghi più abitati, ed i poveri, che sono i più, anno bisogno di macinare quel che anno raccolto. Non sono pertanto da rassomigliarsi a’nostri della Toscana, perchè fra noi, sebbene ne siano de’piccoli, ne veggiamo di quelli, che si posson paragonare a’cavalli della Sardegna. Sono per conseguente atti a fare i servigi del cavallo, quantunque la natura dell’asino sia eguale per tutto. Noi non ne abbiamo alcuno de’selvaggi, come neppure non ne anno i Sardi, e se è stato detto che fra essi alcun se ne trova, o si è detto il falso, o n’è stata distrutta la specie. Neppure il Mulo vi si trova, quel quadrupede, che nasce dalla mischianza dell’asino col cavallo, nè vi si trova, perchè facea trasandare il cavallo. Si trovano bensì cani di una specie singolare. Questi nascono dall’unione del can grosso, e del veltro. Non son però nulla di bello a vedersi; ma son bene acconci a guardare la casa, il gregge, a seguitar la lepre, ad affrontare i cinghiali. In somma son cani che nulla rassomigliano nè alle agili membra del veltro, che è propriamente il cane da seguito, come noi diciamo, nè alla forza del can grosso. Son cani di una nuova specie, e di poco odorato. E quì è da notarsi che, quantunque molti ve ne siano, è cosa rara la rabbia di essi. Non saprei dirne il perchè, non piacendomi di supporre in fisica, e molto meno di appagarmi sulle ragioni popolari. La Vacca, ed il Bue sono pure oggetti i più tristi a vedersi in Sardegna, sebben numerosi. La vacca è piccola assai, di gran corna, languida, brutta, macilenta. Partorisce ogni due anni, e considerata in mandra forse non sempre. Il suo latte è debole, non saporito, nè abbondante. Si lascia perciò a nutrire il suo parto. È dunque quest’animale sterile assai, e di poverissimo vantaggio. Dice il mio Autore essere il suo cacio cosa preziosa; ma non è da credere che sia così, per aver detto che il latte della vacca è senza sapore. Che diremo del Bue, di quell’animale sì alto, sì grosso, sì faticante tra noi, di quell’animale, che divide quasi coll’uomo il merito dell’agricoltura, che serve di buon alimento, quando non è più capace per gli anni di faticare, quando si fa alcun male senza rimedio, quando ha qualche imperfezione per non esser forte abbastanza da lavorare alla terra? In Sardegna, se si confronta col nostro, è alcuna cosa di miserabile. Ha poco più di tre piedi di altezza, di corna grandissime, stentato sempre, rifinito, talchè condotto al macello, e tolta la testa, e le interiora, non passa le libre trecencinquanta, e per arrivare a questo peso fa mestiero che il fiore della sua misera specie. È cosa anche dolente a scriversi quanto sia debole, riguardo alle forze. Spesso si veggono otto di questi animali tirare un carro quasi vuoto. Si pensi in conseguenza quanto può esser capace al lavoro della terra. In somma la vacca ed il bue della Sardegna meritano più la compassione, che gli sguardi di un attento Naturalista; ed è così vero che il mio Autore poco allettato dalla natura degli animali, che descrive, va a perdersi in un altro mare, che è quello di riguardarli per la parte dell’economia. Se non si protestasse di esser puro Naturalista, avrebbe ragione; ma tutto si rovescia in quell’Isola. La vacca, ed il bue, animali così utili, così necessari, così stimati per tutto quel che sono, per tutto quel che fanno, in Sardegna portano legna sul dorso, e frumento, senza pensare che il loro vero destino son le fatiche della terra, e del carro. In quanto alle pecore, ed a’montoni poco si può dire. È questa specie piccola assai come tutte le altre. Son le pecore abbondantissime di latte, talchè a parità di numero sono più abbondanti delle vacche. Non si può dire quanto appariscano ben coperte di lana. Si vede pendere da esse in lunghi fiocchi, i quali son sei pollici almeno. Non ne rendono meno di due libbre le pecore per ciascuna, e meno di cinque, e anche più i montoni. Questi poi non arrivano in generale a cinquanta libbre di peso. Si pensi qual può esser quello delle pecore. La lana però è assai cattiva, vale a dire è si grossolana, che non può ad altro servire, che per ruvidi panni, quali portano i Contadini della Sardegna. Chi volesse sapere come sono, può leggere il mio Autore, che anche quì si perde a descrivere quel che non può interessare alcuno, cioè le vesti de’sardi pastori. Io non posso seguitarlo nelle sue digressioni, le quali oltre l’uscire de’confini del Naturalista, non son proprie a sollevare il lettore. Dopo questo breve viaggio se noi ci rivolgiamo ad osservare tutti insiemi i Quadrupedi descritti fin quì, noi vedremo non esser la Sardegna una parte della terra, ove le belle speci possano allignare. Qualunque siasi la cagione, tutto, per quanto si vede, tende a diminuire le belle arie, i fieri istinti, la bellezza, la varietà degli animali. E non serve che si traggano da altre parti avventurate per quivi fargli moltiplicare. Il clima tutto a lungo andare vince, e dopo alcuna generazione tutto ad esso si conforma. O Natura se questo non è il luogo, ove tu fai pompa delle belle varietà delle speci, se non apri quì i tesori della grandezza, se quì non fai crescere gli animali, forse non è tua tutta la colpa. Gli uomini non ti studiano, non ti curano gran fatto. Non è dunque meraviglia, che tu nasconda qualche favore in più.

1Lib. 4. Epist. 5

2Algarotti Viaggi di Russia.