Osservatore Toscano: Saggio XIII.

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Livello 1

Saggio XIII.

Livello 2

sopra i Collegi d’[geonameID:3175395:Italia~b].

Tutta l’Europa, non che la nostra Italia, pare che altro non abbia in mira se non questi due oggetti, agricoltura, e commercio. Bisogna tornar sempre a quello che è naturale. Le fantasie, le opinioni, e gli esercizi che da quelle son regolati, durano per un certo tempo, cominciano a illanguidirsi, e finiscono poi per sempre. Con tutto questo finchè l’imperio della natura non ha cominciato, tutto è stato incertezza e calamità; e questa miserabile condizione ha durato de’secoli. Non bisogna dire però che siam già prevenuti all’auge di quella grandezza, che parte dal veder le cose quali sono in se stesse. Troppo presto saremmo avventurati. Son quasi ancor fumanti le cataste de’nostri fratelli trucidati, o bruciati ancor vivi; non sono ancora arrugginite le catene pesanti che strascicò la nostra oppressa libertà; sono ancor fresche le memorie della pudicizia mal sicura, della religione mal intesa delle ruberie pubbliche, e della miseria. Abbiam fatto gran viaggio, ma ne resta da fare anche molto. Grande sciagura è questa che ci voglia qualche secolo per rinvenire dalle trasversìe passate! Adunque l’Europa che pare essere assai unita nel pensare, non vedrà mai la pace, la semplicità rifiorire, se non si fanno gran mutamenti nella educazione. Questa è la colonna che regge il superbo edifizio. Ma quanto ella sia trascurata nelle più belle contrade, ogni uomo lo sa, purchè abbia veduto alcun paese, o abbia letto qualche libro. Siamo in molte cose ancor barbari in mezzo al fiorimento di tutte le cose utili, e noi non saremo prosperi mai abbastanza, quando l’educazione non abbia per tutto unità. Parlo a’miei Toscani, parlo all’Italia, la quale non riprenderà mai l’antico lustro, se non cambia i suoi principj su di ciò. Intendo per essi i primi studi, le prime idee, a cui si espongono le tenere menti de’nostri. Se a chi dritto vede le cose è pur così, veggiamo che cosa son mai questi che si dicon Seminari, o Collegi, ove tanta gioventù si va educando, quali ne sono le conseguenze, e quali dovrebbero esserne le riforme. I Collegi, o i Seminari che vogliam dire, son case ove i giovanetti son mandati per apprendere, e star come separati dal mondo. I genitori non sanno più in là. Per quello che vi s’insegna sono affatto indifferenti. Non sarebbero veramente sì fatti, se col pensiero fossero sempre legati al proprio interesse, e per questo a quello dello stato. Ma noi che non siamo sì buoni, veggiamo che s’impara mai in queste case istituite per educare i figliuoli. Il primo latte che ha la ragione de’giovanetti in esse è subito una gramatica, che insegni la lingua degli antichi romani. Per qual fine? questo non va cercato, perchè quì si tratta di non veder le cose come son in se stesse, ma di seguitare quel che si è trovato. Si potrebbe dire a buona equità, e perchè non piuttosto quella de’Greci, e, se fosse possibile, quella de’nostri predecessori, degli antichissimi Etruschi? Antichità per antichità è sempre migliore quella che è più remota. La ragione è questa che il popolo de’nostri cittadini si trova in un mondo di tante nuove istituzioni, che non son più quelle de’romani, da non aver bisogno nè punto, nè poco di esse; e se ha bisogno delle romane, avrà bisogno anche delle greche, e dell’etrusche; perchè per andare fino all’origine di molte bisogna rimontare fin là. Ma il vero si è, che i romani stessi per avere un popolo di cittadini, non ebbero bisogno di cominciare dall’apprendere la lingua de’greci, nè i greci stessi appresero mai altra lingua che la loro, per esser gran condottieri di armate, filosofi, oratori, poeti, ed i più grandi artisti. Io non so veramente se Aristotele, e il suo scolare Platone seppero altra lingua che la propria, per esser quello che furono; so bene che non si ha nulla di questo dalla storia. Così penso niun’altra ne sapesse Pericle, nè la sua maestra Aspasia. Noi dunque ci perdiamo nel sermone de’romani, senza saperne il perchè. Parlo sempre in generale, nè intendo di vituperare l’idioma de’Cesari. Ne’Collegi si comincia da esso senz’altro pensiero, perchè si è usato sempre così. Ma quì potrebbe dire alcuno: s’impara ella questa lingua alla fine, anche senza necessità? Se si apprende, il diletto di gustare gli originali di Virgilio, e di Orazio, ne compensa ben la fatica. Una parlata che il Poeta mette in bocca della sfortunata Regina, la morte del giovanetto Pallante, il dolore del vecchio Evandro, Enea che visita gli antichi monumenti del Lazio, son delizie da ingegni sublimi. Rispondo che dopo molti anni di tempo, se ne sa tanto poco, che si disperde per l’aria come un fumo. Se mi si ricercasse ragione del mio giudizio, direi addivenir ciò parte per la natura della lingua stessa, parte per difetto di metodo nell’insegnarla, o per lo scarso talento, e forse più per la negligenza di chi l’apprende. La natura, o il genio della lingua latina ama l’inversione, e l’ellissi. Intendo per questa voce un rovesciamento dell’ordine naturale delle voci, ond’è composto un discorso. Senza di essa inversione non ci sarebbe sicuramente armonia; e senza l’ellissi ancora mancherebbe spesso una certa brevità, ed una maggior forza nel dire, e oserei anche affermare, che mancherebbe una sfumatura, per dir così, al parlare, che come ella è una certa dispersione nelle tinte de’quadri, così è anche tale nelle voci de’discorsi, cioè un passaggio veloce ed insensibile da una all’altra. Un esempio prendiamo dalla Germania di Tacito.

Livello 3

Citazione/Motto

De minoribus rebus principes consultant, de maioribus omnes; ita tamen ut ea quorum penes plebem arbitrium est, apud principes pertractentur.
Non istarò qui a ridurre questo discorso all’ordine naturale delle voci, nè a vedere l’ellissi che vi è. Dirò solo che riducendolo alla giacitura ordinaria della parole, sarebbe men breve, e senza armonia. Dirò ancora esser più bella la frase del primo membro del periodo, per esser più breve del resto, e perciò di maggior forza; e tutto questo si dee alla ellissi che vi è. Il secondo membro non è certo così stretto, nè veloce come il primo, sì perchè nulla vi manca a supplire, sì perchè per un certo caso si sono succedute alcune consonanti l’una dopo l’altra in tutte quelle parole, che spengono tutto il diletto che nasce dall’armonia. Ora questa inversione, e le frequenti ellissi che formano, per quanto possiamo sentire, il bello della lingua de’romani, è perduto per le tenere menti de’giovanetti. Parlerò di un’altra difficoltà che io ho sempre stimata grandissima, ed è quella di non sapere la proprietà di molte e molte voci latine; e fino a qual segno da questa proprietà uno si potesse partire per trasportarla ad altri oggetti. Questa proprietà medesima, che nasce si può dir colla lingua stessa, si perde quasi tutta, come anche le più graziose e saporite maniere, perchè più non si sentono, e che nelle lingue viventi sono altrettante mezze tinte che formano gli atteggiamenti più delicati. Se poi si aggiunga a tutto ciò la precisione di certe altre maniere rapidissime di parlare, alle quali molto si dee sottintendere, e la difficoltà di trovar subito quelle che vi corrispondano esattamente, o che ad esse equivalgano, si comprenderà non poter esser questa lingua per sua natura lingua da giovanetti. Oltre di questo, la lingua de’romani è lingua, che allude a molti usi, che presso di noi più non sono, e che allora, pronunciate le voci, s’intendevano subito. Or senza la storia alla mano più non si possono intendere molte frasi. Ella è adunque divenuta una specie di erudizione, la quale bisogna imparare dagli scrittori di que’tempi; nuova difficoltà da aggiungersi alle prime. E nel vero osserviamo, per esempio, quella parola principes, di cui si è servito Tacito. Questa non vuol già dire quel che s’intende fra di noi; ma i primari di una città, o di un governo. Lo stesso dicasi di quell’altra voce imperator, la quale allora altro non suonava che condottiero di armata, o comandante. Se è vero quel che abbiam detto, possiamo riconoscerlo dal passo medesimo di Tacito, senza produrne alcun altro. E primieramente riportiamolo in nostra lingua, che ben lo merita questo grande Scrittore.

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Citazione/Motto

Nelle piccole cose consultano i capi, nelle grandi la nazione; e quelle stesse, che sta alla nazione a giudicare, si trattano davanti i capi.
Or questo passo, in cui ho cercato d’imitare la brevità, e la forza dell’originale, suppone cognizioni anticipate, che non si trovano generalmente nella gioventù, che si applica all’intelligenza degli scrittori latini. Infatti contiene nel più stretto parlare una immagine della Democrazia, o di un libero governo, il quale, per quanto si vede, fu trovato dagli antichi tedeschi. Questo fu prima quello di molte città della grecia, e poi de’romani, che le sottomisero. Or per intendere i beni ed i mali di questo governo, bisogna saper la natura della democrazia, e le conseguenze, che sono altrettanti principj, per cui si regge e fiorisce. La storia poi conviene che ne sia, come tutto il punto d’appoggio. Veggasi dunque qual capitale di erudizione non è egli necessario per intendere un sol passo di un istorico fatto apposta per coloro che amano in tutto la riflessione. L’illustre Montesquieu lo riporta ove parla della costituzione dell’Inghilterra, e dice chiaramente che gl’inglesi anno preso l’idea del lor governo politico dagli antichi germani.

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Citazione/Motto

Questo bel sistema,
egli aggiunge, si è trovato ne’boschi. Io credo pure che sia così. Il celebre d’Alembert nondimeno, pare che non l’intenda come noi l’abbiamo portato in toscano.

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Citazione/Motto

Così egli traduce. Gli affari poco importanti son giudicati da’soli capi; i grandi son portati al tribunale della nazione dopo di essere stati agitati innanzi de’capi.
Ora il testo pare che dica che gli affari stessi, su cui la nazione in corpo ha diritto di giudicare, o di risolvere, si trattano avanti i capi, vale a dire i principali, come persone le più autorevoli, debbon presedere alle deliberazioni del popolo. Or altro è, io mi penso, il presedere ad un popolo che vuol deliberare, ed altro che gli affari i più importanti si portino al tribunale della nazione, dopo di essere stati ventilati dai capi. Quest’ultima condizione non mi pare che si contenga nelle parole di Tacito, o che io non l’intendo. Se però il testo non porta quel che dice questo gran Filosofo, ed uguale nello scrivere all’autore che traduce, nel fondo io stima che sia così, vale a dire che le deliberazioni del popolo siano state sempre un’apparenza di libertà appresso tutte le nazioni del mondo. Infatti il popolo non conosce altro che pe’sensi che ha. Se questi mancano, o sono infermi, la cognizione è finita. Or per conoscere la natura degli affari, i tempi, le circostanze, le azioni, gli uomini in particolare, altro ci vuole che sensi. Una consumata riflessione unita alla storia è necessaria; e questa non è cosa da popolo. Ha dunque bisogno di esser sostenuto, e regolato in tutto. Le deliberazioni adunque, che egli fa, son per lo più quelle già fatte da i capi, da coloro cioè, che compongono un senato. Ecco quanto ci vuole per intendere i grandi scrittori di una lingua, che non ci è più famigliare e vivuti in altri governi. Che poi non s’insegni bene per mancanza di conoscere la natura delle lingue in generale, quella del sermone latino, e per conseguente per mancanza di metodo, è manifesto. Io per me direi a questi nostri insegnatori di latino: Cosa è ella mai una lingua? Ella è un numero più o meno grande di voci, onde i popoli spiegano quel che sentono, e quel che pensano. Per intendere dunque un idioma basterà che si sappia che significano quelle voci, a cui un popolo ha affisse tali, o tali altre idee. Per saperlo poi basterà che si abbiano alla memoria quelle voci, pronte ad esprimere i concetti del pensare. Se è così, ognun vede, ognun pensa che il metodo il più sicuro per apprendere una lingua, sarà il cominciare dal far tesoro delle voci nella memoria. Sarà anche il più naturale, anzi l’unico, onde si possa imparar veramente. Dunque la lingua de’romani, essendo una lingua come tutte le altre, si dovrà dire che debba apprendersi come le altre, e come si aprende (sic.) la propria, coll’imparare cioè le voci che il bisogno ci pone innanzi come le più necessarie. Converrà dunque che anche in questo si debba seguitar la Natura, come l’unica scorta fedele, l’unica insegnatrice della vera scienza. Che diremo ora noi di tanti, e tanti gramatici, che senza esser nati al tempo di Terenzio, e di Cesare, anno scritto con tutta la burbanza le loro dicerie di lingua latina, le regole voglio dire di essa? Ma, mi dican costoro, ve n’è egli una che non abbia mille ridicole eccezioni? E che regole son eglino mai quando anno tanti casi, in cui non vaglion nulla? Dunque bisogna conchiudere, che quelle regole numerose non anno mai fatto in buon latinista, per quanto è a noi permesso di esserlo. Io per me ho qualche bella esperienza dalla mia, che prova e sconcerta il metodo falso, che si suol tenere ne’collegi d’Italia.

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Esempio

Ho insegnata la lingua latina ad alcun giovanetto, seguitando quel che si suol fare naturalmente per imparare la propria. Ho fatto apprendere ottimamente nomi, e verbi, e dopo di ciò le altre parti, che non sono soggette a variazione. Ho dato un’idea della sintassi semplice, e di quella, che non essendo naturale, si è detta figurata. Ho fatto ben capire la forza de’casi che son retti, e di quelli che reggono il discorso. Dopo di ciò son passato alla dichiarazione de’latini scrittori, e di quelle parti di essi, che sono le più facili, sì per la materia, sì per la semplicità dello stile. Ne ho veduto degli effetti mirabili. In otto mesi di esercizio sì fatto ho trovato alcuno, che minore di dodici anni, è stato capace di spiegare con molta franchezza le vite eleganti scritte da Cornelio Nipote, senz’alcuna precedente dichiarazione, ed ha in poco tempo osservato subito il genio della lingua. Anzi il giovanetto, che io ho fin quì disegnato in generale, dopo di avergli dettato la prima volta pochi versi volgari per trasportarsi in latino, mi domandò se dovea farvi la sintassi, cioè volea egli sapere, come quegli che non avea fatto altro esercizio che quello di tradurre dal latino in volgare, se dovea mettere in uso l’inversione, come fanno i latini.
Non s’impara poi quasi mai dalla maggior parte che la studiano, perchè non tutti son nati con una bell’indole per apprender le lingue. In tutto io penso che ci voglia il favore della natura, vale a dire quel trovarsi più adatti, senza saperne il perchè, più ad una cosa che ad un altra. Ma la diligenza, la volontà ferma, la passione possono tanto da far meravigliare. Or questo è quel ciò che manca in generale a quasi tutti i giovanetti. Se dovessi addurne una ragione, la spiegherei con una immagine. I giovanetti son vaghi di sentirsi muovere la fantasia da una successione sempre nuova di oggetti. Dunque amano di passeggiare per viali, per campi che presentino alla vista degli oggetti, che abbiano della varietà per la figura, e pe’colori. Questi son propriamente, secondo il loro cuore. La lingua de’romani, come anche tutte le altre lingue, che si debbon apprendere da’libri, sono un campo, un viale che di mezzo verno nulla presentano di ridente. Mancano i fiori, e le erbe, mancano le foglie alle piante maggiori; e spesso con questa sfrondatura generale si presentano gli alberi, o sradicati dal vento, o tronchi in alcuna parte. Ne’Collegi dunque si consumano molti anni della più dolce vita ad apprendere la lingua, in cui dettò Roma le sue leggi dal Campidoglio, senza che poi se ne sappia quanto basti per conoscere i romani ne’loro scritti. Misero tempo perduto! In essi si propongono ancora i maestri d’insegnar l’eloquenza, senza che abbiano finora determinato che cosa ella sia; se ella è un dono della natura, o effetto dello studio, se tutti gli uomini possono aspirarvi, se ella esser può di tutti i tempi, infine senza pensare che loro stessi, i quali ne fanno professione sono i più ineloquenti del mondo. Ma noi diremo che questo è un tempo perduto più miseramente del primo. Che sorta di errore non è mai pretendere d’insegnare l’eloquenza, e questa colle loro istituzioni oratorie? S’insegna egli l’eloquenza? Voi stessi miserabili insegnatori siete forse eloquenti? Questo non è tra’possibili. L’uomo eloquente che si riconosce, sente che non è effetto dell’arte; sente che la Natura è la sua benefattrice. Come dunque potrebbe egli trattenersi ad insegnar quello che sa esser un dono della Natura? Come potrebbe inoltre schierare una mano di numerosi precetti a chi o è superiore a’precetti, o se d’alcuno ha bisogno, si potrebbe ridur questo ad un solo? E non sarebbe forse abbastanza il dire all’uomo che si trovò, senz’altro saperne, eloquente, conoscete la natura dell’uomo, per quanto si può, e degli oggetti che dovrete dipingere, e parlate, e scrivete? A me pare che sarebbe forse anche troppo lungo il precetto. Nondimeno si è scritto tanto per voler fare degli uomini eloquenti nella prosa, e nel verso che fa pietà. Non an punto considerato costoro che la regola suppone i talenti, o almeno gli deve supporre, e che senza talenti son perduti i precetti. Di più, non si sono avveduti, che quando son questi numerosi, son falsi assolutamente, perchè tanti legami al talento. Egli è certo che se si dovessero aver tutti presenti quelli che scrisse Cicerone stesso, noi non saremmo eloquenti mai, nè egli stesso sarebbe stato il padre dell’eloquenza. Anzi non so intendere come dopo di averne scritto tanto da far lasciare i libri di Aristotile e d’Isocrate, egli dicesse che se era oratore, dovea ringraziarne lo studio de’filosofi, non le regole de’retori. Noi dunque, per dirne quel che pensiamo, siam certi che in tutte le età, in tutti i governi, gli uomini nati con signoria d’ingegno, non an bisogno di essere sviluppati da’precetti de’nostri miserabili maestri. Dico miserabili, perchè crudelmente indurati a creder alcuna cosa quel che dettano a’male avventurati scolari, quando non è altro che falsità, e tempo perduto. Il gran talento non tarda molto a scuoprirsi, sente se stesso, si riconosce, ed eccolo già grande. Egli è sublime anche greggio; egli è poi lo stupore del mondo quando ricevette il suo pulimento. Ma si dirà, che questo pulimento son le regole vituperate. Eh no; che il gran talento le sa formare da se, ed in poco tempo di esercizio scuopre quelle che gli sono necessarie; onde saria miseria, sarian catene, il volerlo legato a imparar tanti precetti, che non anno alcun fondamento nelle facoltà dell’intelletto umano; e che sole possono dirsi direttrici, ed eterne. E che sia pur così, da chi apprese mai ad esser eloquente quel capo di assassini, quello scellerato, che poi tanto s’illustrò, di Kulicano? Un dottor Fonseca medico della corte a Costantinopoli lo conobbe, allorchè vi venne come ministro plenipotenziario di Persia, e vide in esso un uomo straordinario. Questo medico illustre ne fece il ritratto al dottor de Soria in occasione che egli venne a Pisa per farsi deporre le cateratte. Gli disse dunque che egli era profondo negli affari politici, pronto e rapido in pensare, eloquente, intrepido, e di maniere così pulite, e tanto affabili, che un uomo sì fatto non potea esser contento di una privata fortuna. Or dove apprese tutto ciò in principio quest’uomo, che cominciò dal farsi capo di una masnada di ladri? Il talento che gli diè la Natura gettò i fondamenti della sua grandezza. L’occasione, e la necessità fecero il resto. Lascio altri esempi; che ognuno può trovarne da se quanti voglia. Basta che legga le vite de’grandi uomini, che anno ormai l’onore della storia. Osserverà che niuno di essi apprese dagli altri ad esser grande. Sentirà ancora di alcun uomo mediocre scritto ne’libri, che non gli mancarono aiuti per farlo grande, maestri insigni, scrittori, viaggi, tutto quell’apparato infine di mezzi che si presentano ordinariamente a chi nacque ricco, e con bassi talenti. Conchiuderà poi che l’eccellenza somma nelle arti, e nelle scienze nasce da’sommi talenti, i quali, se dovettero agli uomini alcune verità ignote innanzi, non dovettero la loro forza singolare. Confessiamo dunque esser infruttuoso che si tormentino i giovanetti per volerne fare alcuna cosa di stupendo, che questo non è in nostra mano. Se in un gran numero ve n’è alcun raro, da se si farà conoscere su gli altri. Non si dubiti punto di questa verità. Alcune piante della medesima specie nel terreno medesimo vengon su rigogliose naturalmente, mentre le altre con tutto il favore del cielo, e delle acque, vivon senza gran vigore, senza molte frondi, nè se ne vede alcun frutto. Ecco dunque quel che si fa, quel che s’insegna ne’collegi d’Italia. Si replicherà che anche le altre scienze vi s’insegnano. Non nego che in alcuni non sia così; ma non si fanno passare ad esse gli alunni, se non si son consumati alcuni anni a parlare correttamente, ed a farsi poi eloquenti. Ognuno potrebbe vederne le conseguenze da se. Con tutto questo noi mostreremo le più essenziali, quelle che ci faranno pur vedere quali cittadini, e quali filosofi dovremo aspettarne. Egli è dunque chiaro che si avranno de’giovani di sedici e diciotto anni, i quali ancor non avranno cominciato a pensare. Io voglio intendere, che non avranno anche sviluppata in qualche modo la facoltà ragionatrice di noi, onde sian atti a trovare de’nuovi raziocini, o a rappresentare i già fatti. In conseguenza di ciò saranno affatto incapaci a fissarsi alquanto nelle cose, a vederne la natura, cioè i principj che ne vengono, e molto meno a paragonarle insieme, a vederne le somiglianze, e le dissomiglianze, e da questo paragone trarne anche degli altri principj. Non sapranno neppure che cosa è l’uomo, di quali vizi, di quali virtù è capace, quali son quelle che sono essenziali, e donde ci vengono. Molto meno sapranno che l’uomo è un essere capace di felicità, e quali vie ci rimangono per acquistarla. Che sapranno dunque i nostri giovani di collegio, se nella più bella età loro non sentono i veri, che portano scolpiti in se stessi, vale a dire tutte le virtù che fanno dolce e preziosa vita? A che mai potranno applicarsi di buono, e di grande se non conoscon punto l’uomo, e quel che deve alla società? Io non intendo come lo studio il più importante, che è appunto quello di sapere che cosa son gli uomini in società, o mai non si faccia, o si negligenti. Ecco dunque i nostri giovani o senza idee, o senza quelle che debbono essere come il cardine di tutti i loro pensieri, di tutte le loro azioni. Che verrà quando si troveranno fuori delle stanze del loro collegio, o più non sentiranno la voce del correttore? Si abbandoneranno alla prime impressioni. Qual calamità per lo stato! Il costume, quel costume che era tanto santa cosa presso i romani, e dipoi presso i primi cristiani, e su cui eran fondate le speranze della pubblica felicità, si perderà tosto. Lo stato allora perderà e ordine, e cittadini. Credo che intenderanno i miei lettori assai più di quel che potrei andar loro particolarizzando su di ciò. Veggiamo ora quel che abbiam pensato su i rimedi da proporsi. E primieramente diremo che non può alcuno stato fiorire in quiete pubblica ed in privata, come neppure nelle arti di pace, se le sue istituzioni non son tali, che vadano tutte ad un fine. Quando l’interesse de’più è diviso dal principale, da quello che è fonte del bene di tutti, non può sperarsi felicità. In secondo luogo l’esperienza de’secoli, e di tante infelici nazioni, che son vivute per esser esposte a’flutti dell’ambizione, alle stragi pubbliche, alla tirannia di alcuni, ci assicura che lo stato dell’uomo non è quello delle armi. Un tale stato non può aver lunga vita naturalmente. Greci, romani, piccoli tiranni dell’Italia, a voi mi appello. Se dunque ci è voluto tanti secoli di funesta esperienza per assicurar gli uomini, che nella guerra non si trova nè pane, nè sicurezza, dobbiamo riposarsi sulle fatiche della pace, su quelle che non vogliono quel degli altri, e che proveggono a’bisogni della vita. Tutte le istituzioni dunque degli stati, debbon mirare alla pace, ed alla sussistenza. Parlo di quelli che anno avuto la fortuna di aver delle terre da coltivare. I primi studi pertanto che si debbon far fiorire in uno stato, che non abbia la follia di esser militare, sian pur quelli dell’agricoltura. Le scuole, ove s’insegna il pensare, e si apprende cognizioni, rovescino affatto gli antichi istituti. Non s’insegni più, nè grammatica, nè rettorica. Le arti di pace sian quelle, l’agricoltura ed il commercio. Non si ragioni d’altri che di questi oggetti importanti. Sian queste le prime idee del sapere della gioventù. Non importa che alcuno debba applicarsi alla medicina, alla legge, o ad altre cose. La scienza dell’agricoltura conviene a tutti per qualche verso; e se a tutti non istà bene a rigore, tutti almeno diletta, purchè non siano corrotti. Invece di far de’teatri ne’collegi, e delle librerie si facciano degli orti, de’giardini, ove si tentino sperienze sulle piante, su i semi, sugl’insetti; ed invece di scrivere, o immaginare quel che disse quel feroce Console di Bruto, quando fece ammazzare i suoi figliuoli, si disegni una pianta, una vanga, un aratro, s’impari i termini della nostra agricoltura, senz’aver tutto di in bocca seducente, dettaglio, brillante, e simili improprietà, che finiranno poi di guastare i vezzi naturali di nostra lingua. È cosa veramente poco onorevole che il linguaggio rustico de’nostri maggiori, e di autori di cose villereccie, sia quasi sepolto presso de’nostri nell’oblio. Io scommetterei che da que’saccenti, che altre voci non sanno che quelle della sciocchezza, si stima linguaggio barbaro, per esempio, quello che usò Pier Vettori, quel senatore illustre, e tanto dotto, nel trattare della coltivazione degli ulivi. Potrebbe dirsi ancora che porta loro della noia, perchè incapaci di sentire più il bello della semplicità, o il naturale delle cose che son nostre. Gli studi dunque dell’agricoltura debbon esser il primo latte de’nostri giovanetti. E che non era forse quello delle armi, e dell’eloquenza, presso i greci e presso i romani? Era certo così; ma essi si eran proposti la guerra, vale a dire il saccheggio, la strage degli uomini. Noi però, che ci proponiamo la pace, e i comodi della vita, dobbiamo pensare altrimenti. La scienza delle cose rustiche, qualche utile scoperta in esse, qualche nuovo strumento, qualche verità novella, l’uso per gran tempo della villa, del piantare, e del seminare apra la strada agli onori. Saran essi più giusti di quel che siano stati negli antichi tempi. Non si tratta di assaltare, nè di desertare le terre altrui, non si tratta neppure di ammazzar i nostri fratelli, perchè non si rendono, nè di ridurli in servitù; si pensa di far loro il maggior de’beni, con insegnar loro come si fa la terra fruttare, come si provede alla sussistenza pura, e a tutte le delizie della vita. Noi siamo nella dolce necessità di questa riforma. Diasi pure uno sguardo all’antica Italia, all’Italia de’romani, si pensi all’antica popolazione, che si calcola da ventisei milioni, si vegga la presente, e si apprenderà se è ormai più tempo che la lingua, ed i libri de’romani debban esser il nostro alimento per molti anni, senza saper poi quel che è l’interesse della nostra vita. Non ci sarà alcuno, che non vegga l’inutilità de’nostri primi studi letterari generalmente, in vista de’bisogni, e degl’interessi presenti. Ed in vero crediamo noi che tante parti dell’Italia, anticamente per coltura delle terre fiorenti, sian ora quelle che erano un tempo? Volgasi l’occhio a tutto l’Agro romano, si veggano le nostre Maremme, si visiti la Sardegna, spettacolo di miseria, e di barbarie, l’isola dell’Elba, e molte altre contrade d’Italia, e si piangerà di dolore. Si vedrà che tutto è coperto ormai, da giunchi, e da pietre. Si vedrà che vi mancano le arti necessarie, le stalle pel gregge, le siepi, e fino le strade. Appariranno ora in un luogo ed ora in un altro delle celebri rovine, e si scuoprirà infine che la Natura è anche feconda, ed anche bella in luoghi resi ormai fangosi, e selvaggi. Infatti si osserveranno de’folti boschi, ove le piante son alte, dure, e frondose, si scuopriranno de’marmi, de’metalli, delle terre per ogni genere di coltura. Non mancheranno delle vene d’acqua naturali, che scendono da qualche masso a bagnare il terreno. Il piano, la collina, ed il monte daranno tutti i segni di esser fertili ovunque. In somma sarà quel che dicemmo, la Natura non men varia, nè men bella ovunque, sebbene velata da un aspetto sì orrido, e selvaggio. Non solo adunque abbiamo bisogno di studiare l’agricoltura, e di farla succedere a tutte le puerilità delle nostre scuole, perchè è studio fondamentale della pubblica felicità, ma perchè siamo nel caso di averne un preciso bisogno. Come restituire l’antico onore alle nostre contrade, se non si comincia dal togliere la miseria pubblica? E come può egli farsi tutto ciò, se non si comincia dall’insegnare l’agricoltura, e se tutte le ordinanze non riguardano la stima, il vantaggio di essa? A me pare questo un punto capitale. Si dirà che il non poter fare gli studi che si vogliono, è un distruggere in questa parte la libertà. Ma si risponde che tutti i cittadini debbon volere il bene del comune. Se è così, nè questo bene primario, immancabile, universale, potendo aversi altronde che dal sapere, e dall’esercitare la coltivazione, o almeno ordinarla, ne viene che ogni cittadino debba giovare allo stato con saper quel che gli giova. Ma io penso che mai non seguirà una riforma negli studi, se non si comincia ad aprirne pubbliche scuole, ed a far su di ciò delle leggi, che mettano in moto l’interesse, e l’onore di tutti; se la scienza dell’agricoltura non sarà un requisito per esser nobili, o almeno se non si mostri che le nostre terre sono nel più bel fiorimento di coltura; che tutte son coltivate; che la coltivazione è la più utile, e la più necessaria allo stato; che le nostre o piccole o vaste tenute alimentano nella pace, e nel comodo molte e molte famiglie coltivatrici. Una volta i nostri Toscani sapienti erano anche agricoltori, come lo erano molti nell’antica Roma. Che non sapea intorno alla cultura degli ulivi quell’uomo memorevole, che abbiam già nominato, di Pier Vettori? Che non ne sapea un Luigi Alamanni, un Bernardo Davanzati, il fondatore della più stretta maniera di scriver fra noi, e tanti e tanti altri, di cui si fa tanto bella la storia letteraria del nostro paese? Ora poi la cosa va altrimenti. Si ha in gran pregio da molti e molti nobili, come si ha in gran dispregio da molti, e molti altri. Io per me ne conosco non pochi, i quali altro non sanno che si dee segare il grano, battere sull’aia, e fare la vendemmia. Passeggiano per le lor tenute, passano la dove un torrente avrà franato qualche ripa, qualche, angolo di un colle, ove gli ulivi saranno quasi sfrondati, ove le viti son vecchie, ove le stalle son mezze rovinate, ove mancano siepi, ove il contadino non ricoglie per vivere, ove bisogna che lasci il luogo o per andare a far legne alla macchia, onde vivere, o lavorare in altre terre, veggono pure tutto ciò, e seguitano il lor cammino. Tanti oggetti di negligenza, di miseria, di casi fortuiti non lo fermano un passo. Gli arresterà bene un ballo innocente, over si divertano fanciullette villane. Eglino allora si dimenticheranno che visitano il lor terreno. Non penseranno che il tempo, l’occasione non son per loro. Ma chiunque sia savio, ed osservi alcuni di questi possidenti, che fan pompa di lusso, gli vedrà o vestiti da corriere, o da qualche cosa di peggio. Nella semplicità della campagna voglion far conoscere la loro mollezza, ed assicurare che tutti i lor pensieri sono un capriccio. Non dirò altro su questa materia, perchè il mio leggitore sa bene dove ha sua radici la mollezza, il dispregio degli studi, dell’agricoltura, l’alterezza, ed il capriccio. Auguriamoci che sian cambiate le case de’nostri Collegi come ora stanno, che altre ne sorgano, ove le istituzioni sian ricavate dallo stato della nostra natura, e dagli esercizi più naturali, e più vantaggiosi. Non si lascino più alla cura di quelli che per vocazione, e per istituto, non sanno i primi, e gli ultimi interessi dello stato, quali le sorgenti della miseria, e della felicità, quali i doveri dell’uomo, e del cittadino, in una parola quale la natura del governo, e quali i principj che lo reggono. Diansi in mano a persone addottrinate, piene di buon costume, eloquenti. Non importa che sappiano le quistioni più intricate della metafisica, nè quelle dell’astronomia; basta che sappiano la natura, la posizione delle terre, la fortuna degli stati confinanti, i lor bisogni, ed i nostri, le cause dell’ingrandimento, e della decadenza delle nazioni, lo stato attuale dell’agricoltura fra noi, quello degli altri, e sappia sopra d’ogn’altra cosa insegnare come si faccia una novella coltivazione in un data quantità di terreno in certe date situazioni. Questi saranno gli Scevoli, ed i Varroni del nostro tempo, questi i maestri della nazione, i primi seminatori de’comodi, e della quiete pubblica. Questi converrano a tutti gli stati, saranno utili in tutti i tempi. Sì, voi sarete gli uomini vantaggiosi della nazione. A voi farà grazie il Principe in prò degl’infelici, a voi farà onore, a voi darà premi convenienti, a voi non sarà contesa la presenza di esso. Sì, voi spiegatori delle regole dell’agricoltura, mentre farete degli uomini importanti, troverete di averli creati anche mansueti. Non ambiranno alle grandi ricchezze, che produce un vasto commercio, non vorranno que’generi pagati a prezzo di vite umane perite fra i mali, e frall’onde; ma contenti della pace, della semplicità, dell’innocenza, saranno i migliori de’cittadini.