Osservatore Toscano: Saggio X.

Permalink: https://gams.uni-graz.at/o:mws.5415

Livello 1

Saggio X.

Livello 2

Elogio di Francesco Tozzini~iContadino.

Livello 3

Esempio

Livello 4

Eteroritratto

Francesco Tozzini nacque contadino, titolo che agli sconsiderati del secolo significa razza vile, e nata per scrivere1. Il primo dono che ebbe, non so se io dica dalla Natura, o dalla fortuna, fu quello di nascere co’ primi stami del corpo robusti. Dico il primo dono, perchè anche le genti delle nostre campagne pare che abbiano degenerato alquanto da quel che erano un tempo. Abbandonato alla Natura si lasciò governare da lei sola. Una robustezza, che sia piena veramente, suole anche dare del coraggio. Quindi sentendosi animoso ne’ primi anni, altre voci non intese, altra scienza non conobbe che i lavori della terra, e qualunque fatica. Per questo il portar grossi pesi, tagliar legne su’ monti, far lungo, e scosceso cammino, correre, montare in alto sugli alberi erano i suoi giovanili esercizi. Cresceva nella età, e sempre più vigoroso si faceva, onde apparendo molto risentiti i suoi muscoli pel continuo lavorìo si meritò subito da quei del paese il nome di gran Villano~i; onore che più non si conosce dopo che gli uomini son più civili, senza esser più felici. Un uomo sì forte era naturale che dovesse servire anche lo stato. La Toscana nostra non è certo nè militare, nè grande, com’ella è stata in tempi, che più non sono. Con tutto questo bisognò servire in qualità di soldato, quasi direi domesticamente, come allora usava, perchè la poca milizia era tutta nostrale. Stavasi alcuni mesi in guarnigione, dopo di che ognuno se ne tornava al suo paese a fare le cose sue. In questa guisa si faceva il soldato a piede, ed a cavallo da’ giovani delle buone famiglie, ed era grande onore. Il Tozzini lo fece in Livorno alcuni anni, dopo de’ quali attese per sempre al suo mestiere di contadino. In tutto quel tempo ei si mantenne nel suo primo vigore. Non si servì allora di qualche ozio per aprirsi la strada alla licenza, o per macchiare il suo costume, come fanno non pochi. Egli attese a’ suoi esercizi, al suo dovere, ed in modo da non incivilir gran fatto, perchè questa sarebbe stata la prima delle sue disgrazie. Non s’invaghì punto della Città, che suol fare qualche bene con molti mali agli uomini di villa. Ne fuggì appena ebbe fatto suo servigio. Ritornò al lavoro della terra, alla patria sua, da cui non si partì mai più. Dovea esser dunque un uomo semplice assai, come lo era infatti; perchè tornato a casa avea perdute tutte le idee di raffinatezza che avea veduta fra’ cittadini. Forse avea osservato naturalmente quanto costa agli uomini la finezza del pensare, e la gentilezza delle maniere. Forse avea imparato fin d’allora a riporre il maggior bene di questa terra nel vigor delle membra, e nella povertà; bene che non conoscono i più, bene che disprezzano ancora, e che l’arrischiano per un preteso maggiore, quasi alcune forti sensazioni, che perdono tutta la lor forza, perchè troppo replicate, siano da preferirsi a quelle che presenta agli uomini la soave Natura. Infine non gli fece alcun male nè allo spirito, nè al corpo il veder gli uomini che si affollano insieme, che si parlano sempre, che dicon d’amarsi, e nel tempo stesso ognun cerca di togliere all’altro, se può, i suoi vantaggi. Tornò a prendere la sua vanga, tornò in una Valle non molto fiorita, e gli piacque più il monte del piano. Quindi visse tranquillo tutto questo tempo, senza sapere che fosse guerra che si fanno i più colle gentilezze, e col riso. Si consolò della sua robustezza, e della sua salute, la quale, nella semplicità di vivere, e nella sua purità di costume, non potea non sempre fiorire. E come non vederla costante dopo di esser nato per essa, averla apprezzata quando men vi si pensa, con un tenor di vita il più semplice e il meno stimato? Il suo cervello non era teso giammai. Facea quel che avea veduto fare, e quel che dovea. I lavori della terra, la coltivazione non vogliono finezza d’idee, pensamenti grandiosi. Son questi retaggio dell’ambizione, e del lusso. La Natura ha dato all’uomo de’ bisogni, l’uomo gli sente, e vede nella Natura stessa di che soddisfarli. Non gli costa gran pena ad intenderla. Basta che la vegga. Lavora adunque, ne sente diletto, la terra si rende fertile, ed ecco i bisogni al sicuro.
Pervenuto all’età de’ trent’anni, pensò a prender moglie2. Un filosofo, un uomo, che avesse studiato tutta la sua vita sugli annali delle cose umane, non si sarebbe regolato sì bene. Egli era già indurato nelle fatiche, nè guasto dal mondo. Egli era in un’età la più bella dell’uomo. Avea già sofferte tutte le mutazioni naturali, che tendono alla moltiplicazione della specie. Non sentiva la fantasia feconda d’immagini eccitatrici, era tutto tranquillo. Non avea perciò sparso al vento quel che è quasi tutta la vita, tutta la forza, tutto il bello dell’uomo, nè si sa come. Avea per conseguente ben sane le sue potenze, per le quali l’uomo intende, e gode. Si era tenuto ben lungi dall’esempio di coloro, che vivono in città, e sul fiore degli anni sono così languidi e sparuti, che la morte stessa non potrebbe far loro di più. Vegeto dunque, di buon aspetto, di buon colore, pieno della sua naturale rusticità, si congiunse con Maria di Simon Pellegrini, fanciulla sana, semplice, e buona. Il meglio di essa era l’amore della fatica, e della pace. Intese subito che il suo dovere la voleva a parte de’ travagli, e de’ riposi del suo marito. Principiò dunque la più amabile unione. Fieri ambidue, ambidue amanti i più naturali del mondo, legati insieme della necessità, non dalla convenienza, menavano una vita, che quasi più non si conosce fra quelli, che sono sempre a fronte negli agi, e nella noia, che ornati nelle vesti s’inchinano l’un l’altro facilmente, senza che nel più bello dell’anima siavi alcun’ombra nè di passione, nè di stima. Vedevasi pertanto Francesco allo spuntare de’ primi raggi del sole a riprendere le sue fatiche. Vedeasi similmente Domenica sollecita al pari del marito ora seguitarlo al lavoro della terra, ora custodire la famiglia, ora nettar erbe, ora prendere acque, ora raccogliere ulive, ora calcolare sul risparmio della casa.

Livello 4

Eteroritratto

Ella era capace di tutto, perchè usata a tutto fino da’ primi anni. Il marito perciò avea affidato tutto a lei il governo della famiglia, non tratto da lusinghe per esser dominatrice assoluta, perchè ella non sapea che cosa si fossero, ma perchè credea la sua donna della più rara capacità. Egli l’avea bene scoperta prima di farla sua compagne; perchè non pochi si contentano di cuoprirla a se nell’atto stesso che l’anno scoperta senza rimedio. Ora veggendo che questa sua donna secondava le sue mire senza finzione, potea consolarsi di non essersi ingannato, cosa tanto difficile in questa età nostra, ove il lusso ha tutto sconvolto. E nel vero le nostre spose della città conoscono tutt’altro generalmente, che il governo della famiglia. S’intenderanno assai bene, se un drappo è di rosa damaschina nel colore, se un velo è più vago d’un altro, se gli occhi di bella donna anno della soavità, se un soprano che gorgheggia ne’ nostri teatri ha voce pieghevole, naturale, soave, se va al cuore, se anima il tutto con grazia, che nasce dalla passione, dal portamento, da un viso bianco, rosato, e da una capellatura lunga, sciolta in anelli, e biondissima. Tutto questo sapranno ottimamente; non già la parsimonia, e la natura in tutto. Una contadina, com’era la moglie del nostro Tozzini, quantunque esser potesse un esempio alle nostre spose, ingentilite anche troppo, sarebbe un motivo di dileggiamento a metterla innanzi. Ma se ella apparice (sic.) un’ottima consorte al marito, apparisce ancora un modello per le altre al filosofo. Si vuol egli conoscere anche di più questa donna, che mai non conobbe nè lusso, nè corruzione, che non vide altre scene che quelle del monte, e del piano, altri animali che quelli del suo gregge minore? Vediamola nel suo stato di madre. Appena ella sente che lo sarà fra pochi mesi, continua le sue faccende, sempre sana e gagliarda. Scorrono i mesi rapidamente. Il marito gode del parto futuro, mentre le ore del cibo, e le feste lo vogliono in una sua compagnia più a lungo. Ecco intanto un maschio alla luce senza preparamento di gran cose, senza bisogno di professori. La Natura, il suo vigore, la sua vita consueta l’assicurava da ogni mala sorte. La creatura è sana egualmente, e fiera come la madre. Piange tosto, annunzia i suoi bisogni, e come non ha altra favella che il pianto, con essa chiede alimento, e soccorso. Ecco che sgorga dal petto della madre abbondantissimo latte, e buono. Ecco che la creatura ne prende quanto basta, si nutre assai, cresce ogni giorno bella e vigorosa. La madre, che mediante le cure della casa e della terra, fu sempre in azione, in pochi di ritorna al suo lavoro. La casa senza di lei è come se fosse morta o languente; ma al comparire di lei tutto si ricompone, e prende come una nuova vita.
Tutto questo si ha della condotta di Domenica Tozzini, da una semplice contadina, e tutto questo si loda, non perchè sia mirabile, ma perchè raro fralle donne della città. Ecco a che son ridotti i filosofi che scrivono, a dover lodare quel che è solo naturale, straordinario non già, perchè di quel che è naturale soltanto senza mirabile, che affatichi l’intelletto, più non si anno esempi. Ecco a che avete ridotti alcuni uomini che godrebbono in pace lo spettacolo dell’ universo senza impallidire pensando e scrivendo, voi cittadine, voi che non sapete quel che suonò questo nome un tempo, e quello che valse. Voi più non conoscete il naturale; e questa è la maggiore delle nostre sciagure. Appena sentite il dolce peso della gravidanza che avete mille bisogni immaginari. Appena date alla luce un figlio, o una figlia, vi abbandonate a’ più dolci trasporti di affetto. Ma è egli veramente amore questo vostro? No certo. Subito sono in arme molte donne per iscegliere una allevatrice, in arme medici calcolatori, e amiche saccenti per esaminare se la donna la più gagliarda avrà buon latte, se lo avrà abbondante. Errori tutti e contradizioni senza fine. La madre, che partorì poco fa, non vuole allevare il suo parto, vuole che la medicina, il consiglio le sappian dire se una donna sana, e di villa avrà un latte alimentoso. E questa è quella donna che ama il suo figlio lattante, e questa è colei che avrà creduto a coloro che le avran detto aver lei del senno, e delle idee? Io non so che ne dire. Ma ella saprà a memoria le belle arie del Metastasio, in una brigata gentile vorrà fare la tiranna, parlerà di linee, d’angoli, e di quadrati per mostrare che sa anche questi nomi. E che non dirà costei della educazione? Rammenterà la Madre de’ Gracchi, da cui invitandosi qualche dama romana a vedere le sue gioie, mostrava i figliuoli. Se però le chiedete i suoi, o non saprà ove sono, o se pur lo sa, la stanza de’ servi sarà la scuola più vicina. E ardirà questa donna, che ha il merito di partorire col resto degli animali, e ardirà, dico, di proferire il santo, e venerabil nome di educazione? Con donna sì buona, e sì faticante potè subito metter tutto in ordine nella sua famiglia il nostro Tozzini. Era allora capo di altri quattro fratelli, perchè morto il padre, e da lui solo dovea dipendere tutto il benestare della casa. Se gli altri fratelli non erano come il nostro Francesco, se gli avvicinarono non poco. Nell’anno dunque che egli si ammogliò3, per esser egli sì bravo contadino, e capo di brava gente, ottenne dal Cavaliere Michel Grassi pisano il podere detto di Valdivico. È posto nella Valle di Calci in faccia alla strada di Pisa, e si scuopre appena si entra nel territorio di essa valle. Comincia dalle falde del monte, e va terminando quasi alla cima. La sua posizione è delle più fortunate, per essere a mezzogiorno. Un sì bel dono della fortuna meritava di esser considerato da un avveduto padrone, per esser poi segnalato dalle braccia di un giudizioso villano. Entrato così il Tozzini co’ suoi fratelli sul grande Uliveto, pensò fin d’allora di farsi capo della più utile, e della più bella impresa. Non si ammirerà molto da’ volgari estimatori delle cose, perchè non punto strepitosa, ma ella è forse superiore a molte di quelle di Alessandro, perchè quì non si tratta di distruggere, e far correre il sangue, ma di edificare, non di uccider gli uomini, ma di far fruttare la terra a’ loro vantaggi. Sappiasi dunque che questo gran podere era fino alla metà del monte coltivato ad ulivi, o, come suol dirsi, ulivato. La parte superiore, e la più bella, era piena di folta macchia, nè alta. Animato il Tozzini dall’avveduto Padrone si mise egli con gli altri fratelli a diboscarlo, ed a piantarvi altri ulivi. In pochi anni si videro i novelli piantoni venir su rigogliosi e fiorire. Allora l’accorto Cavaliere divise il suo Valdivico in due parti superiore, ed inferiore. Alla prima diè il nome di Casone, alla seconda di Colombaia. Con tutto questo il Casone era solo piantato per due terzi prima della divisione, e la Colombaia accresciuta di trecento ulivi in circa. La parte superiore toccò al nostro Tozzini, l’inferiore a’ fratelli. In questa divisione ebbe in mira due cose il diligente Signore, gara, e maggior coltura. Nè s’ingannò. In capo di alcuni anni divennero queste belle parti di monte lo specchio de’ poderi ben coltivati. Infatti per darsi tutto al riposo gli affittò poi al Cavalier Francesco Ruschi4, il quali gli avrebbe ancora se altro non fosse addivenuto. Muore intanto il padrone, e colla morte di esso si cambia la fortuna del contadino. Il Cavaliere Jacopo Grassi erede disdice l’affitto, e si fa capo di tutte le cose use. Sapea egli la bravura, e l’onestà del Tozzini. Con tutto questo gli fa qualche correzione mossa da non ben chiariti sospetti. Se ne disgusta egli assai; ma bisogna soffrire. Il Ruschi sapendo questi disgusti si prevale accortamente del tempo, ed invita il nostro Villano a coltivare un suo podere nella Valle stessa, ma nel bel mezzo del paese, sapendo ottimamente il valore di quest’uomo. Il Casone da esso abbandonato si dà a Sebastiano Lupetti, che ha numerosa famiglia, ed è benestante fra’ contadini. Intanto il nostro Villano non prevede alcuno de’ cambiamenti, a cui si espone lasciando quel bel pezzo di monte così solitario. Torna sul nuovo podere; i figliuoli sono esposti all’esempio degli scioperati, fanno indebolire l’opinione, e dopo soli quattro anni si licenzia il padre co’ figliuoli. Ecco il povero uomo quasi ramingo per le strade con grossa famiglia. Si dimenticano i meriti della sua bravura, e della sua diligenza. Non fa neppur compassioni il peso che sostener deve, il poco lavoro che allora potea sperarsi. Infine un’età canuta, un’anima sempre netta dal mal fare, un costume rozzo sì bene, ma schietto, non gli meritan nulla. Più non si ascolta il buon padre a cagione d’alcuno de’ figliuoli. Il Tozzini diventa uno di quelli, che si guardano appena e si passa. Non si sa per avventura, che uomini sì fatti unicamente reggono la corona in fronte agli stati, che per loro solamente i Signori mostrano la lor grandezza, e, facendosi strascinare dentro cocchi dorati, insultano impunemente la miseria pubblica. Non si sa che lo sprezzato contadino è il più utile soggetto della società; che per vergogna del secolo, e della ragione è quasi per tutto il più miserabile della terra; che si fa assai volte stentare la sussistenza; che ha appena ove ricoverare al coperto se, e la sua famiglia, esposto a tutte le stagioni, a tutti i mali che ne posson venire, a tutto infine il disprezzo, all’aria superba, alle minacce di alcuni ricchi ignoranti, ed alla dolorosa incertezza di esser tenuto su’ poderi. Ecco presso a poco come si tratta quasi per tutto l’uomo più benemerito dell’umanità, dopo di quello che sa governarla. Ecco quanti assurdi si veggono, e si soffrono nella età della filosofia. Che cambiamento non seguirebbe nel mondo, se ella si rivolgesse a insegnare a coloro, che per isciagura di loro stessi, e d’altrui, anno trovato tutto riascendo, a coloro, voglio dire, che affrontano con tanta audacia i diritti della Natura, che gli calpestano con tanta rabbia nello strapazzo, che spesso fanno a quegl’ infelici che coltivano le loro terre, senz’ avvedersi che quando pongono lor fatiche, ed altri il terreno, niuno di essi ha facoltà di non istimarsi, di non aiutarsi? Non pensano i compagni de’ contadini, che tali sono i padroni de’ fondi, che essendo la loro una società, e perciò essendo anche uguali, non possono imporre servitù alcuna a’ lavoratori di campagna; che non anno diritto di farli andare e tornare, nè il più funesto ed insultante la loro povertà, di farli venire innanzi al loro cospetto, come per grazia, ed infuriarsi se non veggono loro un certo timor sulla fronte, quasi il timore che sempre toglie il coraggio, e la voglia di far bene, sia il maggior segno che possa darsi da un uomo ad un altro di superiorità. Abbandonato così il Tozzini, bisognò conoscere allora la forza di stento, che cosa sono gli uomini. Egli si diede subito a lavorare ora quà ora là a giornata. I figliuoli più adulti, per fuggir miseria si arrolarono soldati; i minori furono assistiti dal provido padre. Due fanciulle poi si procacciavano il vitto co’ lavori donneschi. Figlie di sì buon padre ne seguitarono l’esempio. Intanto andava sempre cercandosi lavoro. Ci fu chi gli diede a coltivare pochi ulivi, ma questi non poteano essergli di sollievo. Una porzione non dispregevole ne trovò dipoi da un prete del paese; ma sul più bello vide perire le sue speranze. Uomo risoluto si dà a pulire quelle piante, a rivoltare il terreno, e a prestar loro un governo pronto e necessario. In far questo altro non consulta che la sue sperienza, nè ha altra mira che di veder nereggiare le frondi di quegli ulivi assai magri. Dunque taglia per tutto quel che occupa inutilmente la terra, fatta solo per essi. Il prete vien tosto a vedere la novella coltivazione, e poco men che non piange al vedersi spiantate viole, fragole selvagge, spigo, rosmarino, ed altri fiori. Che fare se quelle piante, e que’ fiori erano già morti sul terreno, se dovean servire di governo all’albero di Minerva? Disgustarsi dell’abile coltivatore, e cacciarlo. Così appunto seguì. Mentre il nostro buon Villano cercava di rimettere in buono stato gli ulivi degli altri, il podere di Valdivico andava sulla rovina. Erano già sette anni che col pianto agli occhi gli avea dato il più tenero addio. Quattro era stato sull’ altro podere del Ruschi, e tre gli avea passati nello stento del lavoro, e della vita. La famiglia del Lupetti succeduta al Casone si era rifinita. Il padrone era afflitto per veder uno de’ più bei poderi trasandato. Allora fu che egli pensò di richiamare l’antico lavoratore. Umile e grato l’accettò il Tozzini. Già ne sapea la miserabile istoria; ma il vedere co’ propri occhi è più efficace del sentire5. Bisognò piangerne e consolarsene insieme, perchè se ciò non fosse stato, non sarebbe nato il desiderio della sua nota bravura. Dunque tornato che vi fu, incoraggì tutti i Figliuoli a tentare la più utile, e la più degna della fatiche. Non lasciò di far loro intendere qual mezzo sarebbe stato per accreditarsi, e qual vantaggio per ristorare una famiglia così desertata dagli anni scorsi. Qual amore non rinacque per quelli ulivi! Ei gli avea piantati co’ fratelli già morti, ed eran come cresciuti insieme co’ figliuoli al favore delle sue braccia. Il monte, la solitudine, la lontananza dal mondo riconcentrò nella sua più cara povertà, nelle antiche inclinazioni, nel possesso di una delle più belle parti fruttifere del paese una famiglia afflitta dalla necessità, e quasi dispersa. In breve tempo quelle numerose piante, onde era composto il podere del Casone, tornarono ad infrondarsi, ed esser folte, e più appariscenti che mai. Pare che la Natura si compiacesse della innocenza di quest’ uomo, e che volesse premiare anche innanzi tempo i sudori presenti, e passati con operar meraviglie. Infatti in due anni consecutivi produssero due consecutive ricolte contra il fare dell’ulivo, che un anno fiorisce, e l’altro riposa. Non si dee ciò attribuire alle fatiche, all’attenzione, alla vigilanza? Ma che non può nel tempo stesso il luogo vasto, e solitario? Non dà egli forse occasione al più bel rifiorimento di un luogo, già in abbandono per la svogliatezza dell’uomo, che non è più molto naturale. È pur troppo così. L’uomo a fronte è l’uomo in un continuo fermento d’idee, e di passioni. Egli è quasi una vampa di se, perchè tutto vede, tutto pensa, tutto vorrebbe; e se non è in fiamma colle passioni, egli si giace al suolo, come languido, scuorato, afflitto, ed in se stesso come fuori di se. Nell’un caso, e nell’altro egli non sente se non le sue passioni, conosce alcuna volta che son follìa, che son rovine, perhè (sic.) non anno per principio nè il bene, nè il giusto. Ma sente che ormai l’imperio che anno, è radicato, è possente, nè gli rimane una sublime energia per trionfarne. Quindi se ne sta mesto, e sparuto ad aspettare il suo fine; e vede alle volte con occhi di pianto che le cose più belle già son languenti, perchè abbandonate, e che periranno con lui. Egli è stato assai nel tumulto degli uomini, e molte impressioni dagli oggetti ha ricevute. Egli non è più quello di un tempo. Troppo ha veduto, troppo ha sentito, troppo desiderato. Una varietà continuata di piaceri è stata troppo dolce, e questa dolcezza è fatta mortifera. All’incontro l’uomo solitario è quasi sempre puro, e tranquillo con se. Non vede molti uomini, non ne conosce i mali ed i beni, nè impara a vedere, e mentire. Non segue per conseguente il disordine delle passioni che sbalzano in tante parti, e gettano su tanti scogli in mezza al flutto civile. Non ha un grandissimo numero d’idee, ma in vece di esso ne ha poche, ottime, e necessarie. Ha egli perciò de’ limiti al suo pensare, alla forte inquietudine del bramare. Quindi sempre il cuor sulle labbra, senza fasto, nè finezza nel parlare. Odorano della sua vita le sue espressioni. Nato sopra di un monte, destinato dalla Provvidenza a coltivarlo, a pascere del gregge, altro non sente che i suoi bisogni, altro non vede che il suo abituro circondato intorno dalle piante migliori. Altro non cura che il suo gregge, la sua terra, la sua famiglia. Dorme e riposa lietamente. Non ha sonno interrotto, non ha palpiti al cuore, non è vicino a spirare per mire deluse, o per ambizione non appagata. Sorge dal letto vigoroso, e giulivo, e sorge all’apparire del primo luminare in cielo. Vede che a poco a poco dà su tutte le piante che coltiva. Ne ringrazia l’Eterno, ed il più dolce ed il più tenero sentimento è il primo passo della sua religione. Comincia allora le sue fatiche che son sempre le stesse. Non sente stanchezza, perchè ora è coperto dall’ombra, ora canta, ora si ferma, e mira che anno già frondi le sue piante, e promettono assai. Spera adunque. O speranza tu sei la sola delle sue passioni. Ma tu non tradisci quasi mai i suoi desideri. Tu figlia di Natura, e delle leggi che la Natura sostengono, non puoi far male alla innocenza. Se spunta il germe, se il germe spuntato fiorisce, si vedrà anche il frutto. Se è stato fissato che la pianta si nutra per vederla frondosa, per coglierne i frutti, se l’uomo non manca, se il cielo v’influisce, tutto sarà ubertà, diletto semplice, ed allegria. Così l’uomo solitario lavora, e spera. Spera nella Natura, che vegeta, s’infiora, produce. Non veggendo ingannate speranze così pure, è il più avventurato dalla terra. Non sa che sia quel senso molesto che dicesi noia, nè ha bisogno il suo spirito di esser delicato per sentire un diletto. Sente e gusta Natura senz’ ambirne le produzioni. È rozzo, ma giusto, non conosce varietà, ma egli è contento. Se non ha vicino alla casa rose doppie, ne ha delle scempie; men grandi, ma più odorose; di minor pompa, ma di più lunga durata. Se ha dunque il contento sulla fronte, ha anche la virtù nel cuore, e se egli è anche innocente, egli è perchè i più de’ suoi giorni è solitario. Piacesse a Dio, che a’ nostri Contadini non si facessero conoscere maggiori bisogni di quelli che son puramente naturali! Noi gli vedremmo men frequenti alla città, e con ciò più rozzi, e veritieri. Abbiam veduto, che i Giovani del nostro Tozzini appena si trovarono in varie compagnie, lasciarono la semplicità. Con essa pure sparì anco la buona voglia di faticare, e il vero si travisò. Il padre ne fu dolente; ma la gioventù non si frena quasi mai, quando anno cominciato i trascorsi. Egli ebbe però di che consolarsi, quando la fortuna gli ebbe aggirati per alcun tempo. Gli potè riveder tutti riuniti in un altro comporre di nuovo una valorosa famiglia. Ma quando spera di vederla prosperare assai più, il Cielo si oppose. Morì sua moglie. Questo colto appassionò a dismisura l’ afflitto Vecchio, onde ne fu inconsolabile. Sentiva il dolore, nè potea fare a meno di non dirlo. Distesa sul feretro l’ottima Donna, che avea ancora tutti i segni nel volto delle cure passate, e l’aria della verità, si gettò al collo di lei, piangendone più che mai la perdita amara. L’accompagnò co’ suffragi, e col cuore fino alla tomba; e nell’ essergli tolta dinanzi gli occhi, per restituirsi alla terra, sentì allora tutto il colmo de’ suoi mali. Canuto come egli era, trafitto da questa perdita, addolorato sostituì una figliuola alle dure della madre. Ma, oh dio! che il Cielo voleva il Tozzini un esempio di maggior sofferenza, e di rassegnazione, virtù che son sempre l’insegna dei giusti. In pochi mesi si morì anche la povera figlia, degna di esser figlia più lungo tempo, e finire coll’ esser sposa, e di madre. A questo secondo colpo rimase come fuori di se il Vecchio dolente. Sentì tutto il peso delle sue disgrazie, e si rassegnò. Ma questi travagli non eran morti nel suo cuore (sic.) Gli risentiva, nè si fermava a comunicarli altrui con vane parole. Continuava il suo corso, senza negare però di esser men forte, e men lieto. Finalmente in pochi mesi dalla morte della Figliuola egli pure morì, colpito da apoplessia vicino all’ settantesimo anno? Appena fu morto, alcuno non ne disse male, perchè trattandosi di pura virtù, ognuno crede di averne sempre altrettanta di un altro. Se fosse stato uomo che avesse fatto suonare il suo nome pe’ suoi talenti, e per le opere di essi, era certo che si sarebbe domandato, se avea dato segni di religione, quasi che la filosofia, che ha tanti persecutori in questa età, faccia fronte in se stessa alla religione. Ma la buona sorte del Tozzini fu di essere oscuro, senza esser meno uno de’ migliori cittadini, il che non risveglia molto l’invidia. Oltredichè era come separato dagli uomini; onde non potea molto temere de’ mali che vengono da essi. Vediamolo ora tutto da un sol punto di vista. Egli dunque ci comparisce in aria del miglior cittadino, o sia dell’uomo il più utile alla società. In tanta tristezza umana questo nome basterebbe ormai per giustificare un elogio. In fatti egli compi finchè visse a’ doveri dell’uomo, e del cittadino; e per questo titolo io intendo colui, che osserva esattamente i doveri della sua vocazione, e le leggi dello stato. Non dirò nulla della sua religione. Soleva ogni giorno camminare due miglia di via scoscesa per visitare il tempio di Dio, e mettersi alla sua presenza. Nulla diremo neppure dell’amore verso degli altri, perchè egli non insidiò, non offese alcuno. Soddisfatto ogni giorno alla religione, ristorato alquanto, presi in ispalla i suoi rusticani istrumenti, se ne andava al suo travaglio; nè i ghiacci, nè i freddi lo ritenevano al fuoco. La sera, fatte di nuovo sue orazioni, cenava con tutta la famiglia. I discorsi, che si facevano allora, erano intorno i lavori da farsi il giorno seguente, e in ciò aveano il lor principio, ed il lor fine. Non conoscendosi altro che innocenza, non si potea fare una guerra nè a’ vicini, nè a’ lontani, con vituperarli. Era poi economo giudizioso, e faceva sue provvisioni in tempo. Esaminava i bisogni avvenire per trovare a tutti un riparo. Non lo facea tanto per un vantaggio, quanto per non trovarsi nella penuria. Quindi nelle crude stagioni, che sembran fatte perchè l’uostia (sic.) al coperto, era nell’abbondanza. Pane e libertà non mancaron mai. Dunque fu buon economo senza essere avaro. Che si così, morta la moglie le fè celebrare de’ suffragi; morta la figlia, il corredo che avea di vesti, ed altro fu venduto, e il tutto si erogò in suffragi.
Felice la nostra Toscana, se i suoi contadini somigliassero a questo esempio! Quale stima, quale affetto non si dee alla loro condizione! Se non ne conoscono il meglio, se ne incolpi l’ignoranza di chi nacque nelle ricchezze. Ella è la radice di tutti i mali di questo genere. Non possiamo lamentarcene mai troppo, da che la morbidezza civile fa star lungi dagli affari villeschi. Non si conosce abbastanza il pregio di un ottimo contadino. Eppure il primo merito è di chi sa governare uno stato, il secondo di chi gli dà il pane. Che val mai un uomo che non lavora, o poco si affatica? Egli è il più vicino ad esser la causa della miseria di tutti. Il commercio dà certo grandi ricchezze; ma son sempre incerte. Quelle della terra son le sole sicure, perchè le più naturali. Felici coloro che le conoscono, e sopra di esse riposano tranquilli! Più felici ancora quelli che intendono la Natura nella coltivazione delle terre, e la veggono, loro mercè, frondeggiare per ogni dove. Fra questi bene avventurati fu il nostro Villano lodato fin quì. Lasciò morendo un Podere di ulivi, che non ha l’eguale nella Valle di Calci. Era morto di pochi giorni, quando io stesso andai a vedere questo Uliveto bellissimo. Mi parve un giardino; mi parve che questa veduta meritasse la pena di esservi andato. La bellezza delle piante giovani, e folte di foglie, il degradamento elegante del monte, il non vedervene alcuna che venisse a stento, la terra erbosa per tutto, l’ordine, la diligenza, la proprietà, mi riempirono di un diletto, che non avea mai provato. Bisognerebbe che i Calcesani andassero a studiarvi sopra, come vanno i nostri pittori a studiare le stanze del Vaticano. Un ulivo ben tenuto può ammaestrare tanto almeno, quanto una bella testa di Raffaello. Eppure, chi lo crederebbe, morto che fu il Tozzini, non sentii dirne alcuna cosa da coloro, che vengono a portare la noia ed il lusso nelle campagne. Io però ne cercai tosto le notizie dopo la sua morte, sapendo che non sono i soli da celebrarsi coloro, che sentirono il peso di un gran nome. Il mondo guasto, e non sempre il giudice migliore delle azioni, è preso più dallo strepito di esse, che da una tranquilla virtù. Il filosofo spoglia l’uomo della immaginazione degli altri, e lo pesa secondo la natura delle cose che ha fatto. In conseguenza stima più il contadino del grande, quando il grande non conosca altro che lusso. Questo lo mette in cima degli uomini più benemeriti dello stato, l’altro lo segna non di rado al numero delle disgrazie. Quindi il filosofo si trattiene più volentieri colla semplicità, colla naturalezza del primo, che col fasto del secondo. Il filosofo infine pensa egli pure di fare il bene del comune, se s’ ingegna di metter sotto gli occhi de’ suoi compatriotti gli esempi di alcuno de’ migliori uomini che siano stati, di quelli che sono gli eroi della nostra agricoltura. Questa è la felicità degli stati. Fortunato quello che ha le frasi più belle del suo linguaggio da essa! Noi crediamo di aver bene impiegato il nostro tempo, di aver fatto abbastanza se questo scritto sarà letto senza indifferenza. Se ciò segue, riconosceremo dal nome di un Contadino virtuoso un diletto di più; e ci consoleremo del disprezzo che si ha generalmente per la filosofia e per le lettere.

1Nacque il 13. Giugno 1708. da Gius. Tozzini in Calci, ove son molte famiglie di questo casato, e tutte contadine.

2Ciò accade nel 1738.

3Chef u nel 1738.

4Nel 1743.

5Ciò seguì nel 1768.