Zitiervorschlag: Luca Magnanima (Hrsg.): "Saggio IX.", in: Osservatore Toscano, Vol.1\09 (1779), S. 53-62, ediert in: Ertler, Klaus-Dieter / Fuchs, Alexandra (Hrsg.): Die "Spectators" im internationalen Kontext. Digitale Edition, Graz 2011- . hdl.handle.net/11471/513.20.3541 [aufgerufen am: ].


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Saggio IX.

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Educazione presso che generale.

La Natura è imparziale. Ovunque si volga lo sguardo, ella sparge i suoi doni. Quindi sotto la zona torrida, sotto la gelata, ne’ climi temperati, gli animali, le piante, e tutto il rimanente della famiglia degli esseri si riproduce, ove più ove me-[54]no, e si distrugge per riprodursi. Gli uomini ancora si moltiplicano ovunque trovino cibo, acque, difesa, e diletti. Le vergini, ed i giovani seguitano gl’impulsi naturali, ed il genere umano rinasce. Fin quì la sola Natura è inspiratrice e maestra. Ella sola favorisce lo sviluppo di nuovi germi, ed ella sola ne è madre, e conservatrice. Ma l’uomo appena è nato, la prima cura di quelli che lo generarono, è la conservazione. Sentono di questa cura tutta la dolcezza ed il peso, nè gli lascia un istante. Sono tutti della lor prole; e se ella languisce e geme per alcun male, la vita di essi è dolente. Tutto questo ancora è puro affare di Natura; mentre la vista di un innocente, di uno, a cui si nega riposo, forze, e cognizione, ci tocca miseramente; onde siamo afflitti, e tanto più che a queste sensazioni dolorose si fa presente la memoria delle altre infelici che si ebbero, prima che venisse alla luce.

Crescono nondimeno i figli, e mentre cerchiamo di guardarli da’ mali, non lasciamo di far loro comprendere molte cose che non sapeano. E perchè si ama il loro bene, e si vorrebbero giusti, e felici, ci studiamo di sviluppare in loro l’idea del giusto, e dell’ingiusto, del bene, e del male. Tuttociò si suol fare quasi sempre di fuga, per la ragione che i padri, e le madri, secondo il parere comune, non possono, nè saprebbero dar lor più fondati precetti. Oltre di che, siccome nascono subito mille speranze in cuore de’ genitori, e pensa-[55]no più a quello che suol ferire i sensi, e la fantasia, non si danno altro pensiero d’insegnar loro che ossequi, silenzio, pulitezza nelle maniere, eleganza nelle vesti, vale a dire simulazione, e falsità. Si veggono in conseguenza proferir que’ vocaboli vuoti affatto di senso in lor bocca, facendo tutti que’ moti, e que’ giri materialmente, e come soglion fare anche gli animali, purchè siano stati addestrati. Infatti che non è mai, a cagion d’esempio, il silenzio nelle varie situazioni della società? È egli forse facile, e naturale? Qualunque uomo può usarne bene e male, quando occorre, purchè egli lo guardi. Io non credo d’ingannarmi se lo penso la cosa la più facile, e la più difficile del mondo. Ella è agevole affatto, perchè consiste in non proferir parola, ella è affatto difficile, perchè dipende dalla misura di molte e molte situazioni, che ci vengono improvvise, e che bisogna conoscere, e calcolare sul momento. Che vuol dunque dire in bocca di una madre quella voce silenzio che raccomanda al figlio? Poco veramente, e nulla poi in quella del suo diletto. Se dunque il vero silenzio racchiude in se tante e tante idee, quanto sono le circostanze che ci si presentano, e che vogliono conoscersi, e misurarsi in momenti, possiamo assicurar certamente che in generale nella bocca de’ genitori, nulla vuol dire che tacere, cioè non articolar voce, precetto sì crudo, e contrario al fare della Natura. Segue il medesimo di altre parole che una madre, ed un padre insegnano a’ loro fan-[56]ciulli. Sono queste bellezza, grazia, e simili. Oh quanto è bella, diranno, quella fanciulla, quanto bella quella rosa, quella rupe, quel cane! Che graziosa figura, seguiteranno a dire, non è quella mai! Se non avesse quell’aria graziosa che la rende si amabile, che mai sarebbe! Se alcuno però si facesse a dire che non distingue questa bellezza, questa grazia, passerebbe per poco gentile. Quel padre, e forse più quella madre non potrebbe a fare meno di non riderne. Ma se quell’uomo poco gentile chiedesse di voler sapere cosa è mai questa bellezza, questa grazia che tanto piacciono, e tirano a se, bisognerebbe confessare con tutta la mala voglia che non se ne sa niente; che si proferiscono voci senza che altro se ne sappia fuori dal suono. Che se allora colui che sembrò malgrazioso, dicesse a quella donna, che si è trovata madre, non aver lei alcun’idea di quel che dicesi bello o grazioso, converrebbe soffrire questa spiacente verità. Bisognerebbe armarsi di sofferenza ancora in sentirsi dire che la bellezza è il resultato di molte e molte affezioni che vanno tutte ad un fine; che quando veramente esprimono questo fine con chiarezza, con facilità, e che l’anima le apprende tosto, e ne ha un diletto non ordinario, allora fa pur d’uopo che quell’oggetto sia bello. Una colonna, per esempio, è fatta per sostenere. Quando ella dunque è in proporzione del peso, a cui reggerà, quando nel sostegno che far dee, nulla mostra, per dir così, di fatica, quando dal mezzo fino alla base, ed alla cima va come diminuendo, allo-[57]ra non può dirsi non bella. Ella ha in se tante parti leggiadre, e tanto diverse, che formano una dolce varietà. Questa è l’anima della bellezza, e quando ella v’entra in gran parte, il nostro diletto è compito. Bisognerebbe soffrir similmente il sentirsi dire, non esser facile per verità il fissare un’idea della grazia; ma potersi dire esser questa il primo ornamento della bellezza, e consistere nel facile atteggiamento di alcuni moti gentili, o altrimenti, i quali facciano accordo con quel bello, che anno per base. Questi moti stessi, gentilmente animati, derivano, in primo luogo dalle grazie, ond’è ornato lo spirito, in secondo dal trovare tutti gli organi sì gentili da ubbidire tosto agl’imperi graziosi dell’anima. Sicchè non serve che sian le membra create, per così dire, a gentilezza; conviene che nello spirito siano prima le idee della grazia, che dee apparir di fuori in tanti moti, che ne rappresentano le facce. L’origine prima delle grazie è dunque nell’anima. Ella si potrà assuefare ad esse con osservarle attentamente in chi ne ha il dono. Chiunque pertanto potrà esser grazioso, purchè lo voglia. Questa conseguenza è falsa. L’anima può volere, senza che trovi organi disposti. Un’aria dolcissima si apprenderà da molti a rigore di note; ma quelli che non la canteranno graziosamente, se vorranno esaminarsi, confesseranno che non possono aver grazia, sì perchè gli organi resistenti, sì perchè non l’imitarono punto in chi l’ha, sì infine per-[58]chè non si esercitarono nelle arie più dolci. Adunque la grazia, se non è un dono interamente, ella ha così poco dall’arte, che può darsi tutta alla Natura. Ed ecco pur fatto un chiaroscuro di quel che si nomina spesso, e nulla se ne sa. Io ho parlato di queste voci, perchè son le prime ad insegnarsi, e che sono così frequenti nel parlare. I primi avvertimenti dunque che si danno, specialmente dalle madri alle figlie, son quelli di esser belle, di aver della grazia. Non si manca di far suonare agli orecchi de’ maschi queste parole; onde apprendono a buon ora quel che debbon sapere per fare la lor fortuna.

Si prendono anche altre cure da’ genitori. Son queste di far loro apprendere le lettere, e le scienze, perchè si vede fare agli altri. Se il metodo non sarà il migliore, poco importa; se apprendano, molto meno; basta che si sappia che studiano le lettere, e la filosofia. Questi nomi debbono imporre, e non già la sostanza; bel nome è questo di filosofia. Oggi però non suona amore della sapienza, come un tempo, ma fasto generalmente, e procedere altiero. Si crede di più che ella consista in sapere bene a mente le opinioni di questo, o di quell’altro speculativo; e che l’esser poi cattivi a se, funesti agli altri, sia un affare di poca importanza. Quindi si va superbi di quel che disse Platone, Aristotile, si canta subito dove nacquero, dove crebbero, quali avventure, qual fine, qual vita, e tutto in tuono filosofico. [59] Un padre, ed una madre sono come fuori di se in sentire un lor figlio che vola sì alto. Oh senza fallo, si esclama, ha gran talento. Questi sarà una colonna della filosofia, e dello stato. Che memoria! Che bel dire! Che incanto con quella voce! Quanti vecchi ci sono che si contenterebbero di sapere quel che sa il nostro figlio. Quanti vecchi, o maturi di senno, e di età, anno compassione di quel vostro giovinetto infelice. Sanno che egli si pensa di saper molto; e veggono perciò che non saprà mai nulla bene. Egli già guarda gli altri come differenti da se, comanda senza riguardo, risponde con fasto, si adatta bene le vesti, già crede di essere il più elegante parlatore, il più manieroso, il più vago del mondo. Oh certo, Alcibiade, dirà egli, era assai eloquente, anzi il più veloce parlatore del suo tempo. Socrate, quel costumato filosofo che visse sì bene, e morì così male, fu il suo maestro. Gran fortuna l’aver Socrate per precettore!

Bella erudizione! bel talento! sapere che Alcibiade fu scolare di Socrate. Ma sapete voi, Giovanetto erudito, che non sapete ancor nulla? Il sapere è una cosa delle migliori; ma non ne avete altro che l’ombra. Il vero sapere è il compagno della modestia, della pieghevolezza, della compassione, dell’amore per gli altri. Voi non avete un grano di queste virtù. Non sapete neppure come debbon vivere gli uomini con gli altri uomini, come si conoscano i loro vizi, e le loro virtù, quali rapporti avrete voi con essi, in qual classe voi siate, quali cognizioni [60] vi debbon essere famigliari. Infine voi non sapete in qual governo sia nato, quali ne sono le leggi, le ricchezze, la forza, qual parte vi possono avere certi uomini, quali fortune sperarne. Qual orgoglio insipido è dunque il vostro? Qual miserabile filosofia vi accende, e trasporta il cervello?

Questo è anche ben poco, padri e madri, che io rimprovero al vostro figliuolo. Confessate voi stessi i suoi difetti, mille volte peggiori di una preta ignoranza. Dite pure che egli non ama il suo prossimo, che non dice mai il vero, che si ostina a sostenere il falso, come se fosse vero; che non cerca per anche gl’interessi della famiglia; che già vorrebbe sciorsi da voi; che già cominciano le passioni; che ama di comandare, di adornarsi, e quel che non è anche poco, il dissipare delle sostanze si prevede. Questo facilmente confesserete. Ma se vorrete esser sinceri, direte che non sa per anche quel che vi deve; che non è umile innanzi a voi; che mille, e mille volte vi dispiace. Fate anche questa dolente confessione. Ma voi amate i belli studi. Gran Dio! perchè non amare i buoni, quelli che convengono al cittadino, quelli che insegnano presto la virtù, e la fortificano nel cuore? Perchè non siete stati i primi a gettarne il seme nel figlio vostro? L’essere onesto, veritiero, umile, benefico, virtuoso, l’essere in una parola buon cittadino, non è ella cosa forse per tutti i tempi, per tutti i luoghi? Si nomina spesso la virtù, e nulla se ne sa fuori del nome. Io per me ho sempre pensato che [61] la prima delle scienze sia la virtù. Gli stati non si regolano, nè si mantengono con un codice dell’Eneide. È cosa bella, è cosa divina; ma per altri riguardi, e per altre stagioni, che non sono la prima età.

Ma queste belle, ed utili cose si vanno dicendo dalla mattina fino alla sera, e niun frutto se ne ricava, mi sento rispondere. Ma ditemi, Genitori, siete voi virtuosi? Tutti gli esempi vostri sono di moderazione, di tolleranza, di umiltà, d’accorgimento, di compassione, di modestia, in una parola di amore per gli altri uomini, o sia di virtù? Siete sempre intorno a’ vostri figli, col precetto, e coll’ esempio? Se voi ci pensate vedrete, che tutta la colpa di una triste educazione è vostra. A chi sono abbandonati i vostri figli, che sono il vostro amore? In mano di servitori, o di pedanti. Ma che sanno mai questi sciagurati, ridotti alla continua inquietudine di dovervi una servitù? Nulla; perchè nella servitù si dimentica quel che si sapea. Che sanno quegli altri, a cui affidate i vostri tesori? Nulla, e poi nulla. Un eccellente educatore, vale a dire un saggio filosofo, farà egli il pedante a’ vostri figli? Questo è forse tra gl’impossibili. Dunque chi ha tutta la colpa de’ vizi cha anno? Voi solamente.

Questa è la sciagura comune. Si voglion de’ cittadini virtuosi, e non si curano i mezzi. Per insegnare altrui, bisogna prima saper bene per se stessi. L’insegnar la virtù è cosa naturale; ma senza averla [62] nell’anima, e nel cuore, senza praticarla mai sempre con le azioni, è un nome senza più. Ella è il fondamento della pubblica e privata felicità. Volete misurare la felicità di uno stato? Osservatene puramente il costume. ◀Ebene 2 ◀Ebene 1