Osservatore Toscano: Saggio VIII.

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Saggio VIII.

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Delle nostre sepolture La Filosofia entra quasi per tutto in questa beata età nostra. Quanti errori non ha ella già dissipati dal mondo! Quanti beni non ci ha procurati finora! Alcuni non la possono soffrire dominatrice delle cose umane, com’ella è; alcuni altri la vorrebbero bandita dalla terra, e perciò si fermano a vituperarla. Ma sarebb’egli mai il suo delitto di scuoprire la fronte a’ falsi vantaggi, alla superstizione, all’inganno? Sarebbe mai la sua colpa di legare il velo alle false idee, toglier l’uomo alla schiavitù, ed alla miseria, e restituirlo tal quale egli è alla sua natura? Se egli è pur così, la Filosofia invece di scoraggirsi, s’infiamma di più, ed estende il suo dominio. Lasciatela dunque a se, o crudeli nemici. Il male che ella vi fa, non è sua colpa. È la natura stessa, natura bella sublime, natura indagatrice delle cose, e scuopritrice del vero, che vi opprime. Ma se egli è un male quel che vi fa, è un male necessario; e però non si cancella. Bisogna dunque soffrirne l’imperio, e rassegnarsi. Fra’ tanti mali, a cui ella ci ha cominciato a togliere, entra anche la vista de’ cadaveri, e l’uso delle sepolture. Ella ha in conseguenza cominciato a correggere tre gravissimi errori di fisica, d’interesse, di sentimento. Erano esposti i morti alla vista de’ vivi, spesso in grandi, spesso in angusti tempj. Da qualche secolo si permetteva ancora che in que’ tempj medesimi, ove qualche volta rigurgitanti putrefatte materie, erano esposti alle preci, ed al pianto de’ fedeli, fossero riposti in alcune fosse profonde chiamate sepolture, ed ivi lasciati marcire in gran quantità, finchè queste non fossero ripiene. Allora poi si vuotavano, e tutti que’ fracidumi dovean trasportarsi in qualche cemeterio fuori della città, o fuori all’intorno del tempio medesimo. In quanto poi all’interesse si era questo disteso a difendere, e mantenere le sepolture. Avea preso l’aspetto della carità, sebbene nel fondo questa bella virtù, questo gran fondamento della religione, questo gran principio della Natura, e di tutta l’umanità, voglio dire la carità medesima, tale non fosse. Si volea certamente che ove si venera la Maestà eterna di un Dio di pace, vi fosse un sotterraneo d’immondezza; che questa si propagasse per l’atmosfera del tempio, che disturbasse l’orazione de’ divoti ferendo l’odorato, piuttosto che per il merito della stessa virtù, vale a dire della carità, e per la memoria di una sante rinuncia ad ogni affetto mondano, abbandonare qualche acquisto. Non è però che santi istitutori, uomini ripieni di lumi, e di un raro zelo, non vietassero da principio il seppellire nelle chiese. Pur troppo parlano le loro istituzioni. Leggansi quelle de’ primi Cristiani. E che forse non abbiamo in Toscana ancora alcune chiese che si son sempre preservate dal generalissimo costume di fare de’ templi di Dio un luogo, ove si nascondesse tanta immondezza? Abbiamo la Chiesa pisana, vale a dire il Duomo di Pisa, ove non è alcuna sepoltura. In esso non s’interrano se non gli Arcivescovi senza più. A tal fine pensarono gli antichi Pisani a fabbricare il celebre lor Camposanto, ove fecero trasportare una certa terra, la quale in un sol giorno consumava i cadaveri. Si vuole che abbia ormai perduta questa sua forza consumatrice. La Certosa stessa di Pisa, che è posta nella valle di Calci, conserva l’antichissimo uso di seppellire i suoi monaci in terra nuda. Abbiamo anche una Chiesa, fabbrica a quel che pare del secolo duodecimo vicino all’arno, posta quasi rasente a una pendice de’ monti pisani, in una parte detta Uliveto~i, la qual Chiesa, sebbene non grande, conserva il suo antico istituto di non seppellire alcuno in essa. Ella ha accanto da una parte un pezzetto di terra, che serve di cemeterio, ove si fa una fossa, ed ivi si cuopre il cadavere. Io mi penso che abbia tanto durato questo naturalissimo, e sanissimo istituto, perchè ella è cura di poverissima gente. Chi sa, se vi avesse potuto penetrare il lusso de’ ricchi, e l’avarizia di alcun altro, fosse ora nella sua semplicità antica, ed amabile? Del resto per questa parte i nostri primi Cristiani sono stati più saggi di noi. Volevamo che il tempio di Dio fosse anco quello degl’incensi, e de’ fiori. Sapevano quanto l’immondezza de’ cadaveri fosse in orrore agli ebrei, i quali non volevano che dentro le città alcuno si seppellisse. Non ignoravano quel che pensavano, e facevano su di ciò i romani, tratti da umanità. Era presso di loro legge delle dodici tavole, che non si seppellisse alcuno nella città. Quindi sì presso gli ebrei che presso i romani tutti i sepolcri erano fuori di essa. Si sa nondimeno che i romani ricevettero insieme colle altre da’ greci questa bella legge. Infatti abbiamo da Plutarco che quel fiero legislatore di Solone proibì che alcun uomo avesse sepolcro dentro le mura di Atene. Il sentimento ancora, l’anima voglio dire in passione di tenerezza, da qualche secolo avea trascorso ad approvare le sepolture dentro le chiese. Quando si perde un parente, o un amico rapitoci dalla morte, si perde quasi una parte di noi, si perde un consigliero, un conforto, un diletto. Le nostre lagrime vengono giù in abbondanza, il nostro cuore è amareggiato, e tutto il nostro sentimento scosso, e in disturbo. Noi parliamo ad un uomo fatto cadavere, come se egli fosse presente, noi gli rammentiamo la nostra amicizia, gli facciam sentire i nostri singulti, il nostro pianto, la nostra vita dolente, e inconsolabile. Noi lo spargiamo intorno di sospiri, di fiori, gli adattiamo le vesti, noi pensiamo a procurargli anche un soggiorno, ove innalzeremo una statua, scriveremo una memoria delle sue virtù, e della nostra tenerezza. In una parola noi vorremmo richiamarlo tra’ vivi; ma vedendo ciò non è dato, si vorrebbe almeno rendere immortali le sue forme. Tutto vorrebbe tentarsi, perchè tutto ardisce il dolore; e tanto più forte ci tocca, quanto più ci strazia la sensibilità nostra la perdita di alcuno. Che non dice questo stesso dolore in un Giovine, per esempio, che abbia perduto la sua sposa nel fiore degli anni, e de’ piaceri.

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Oh dolce mia sposa ove sei mai tu? Ti ho perduto quando più pensava ad amarti. Io non avea altro oggetto più caro della tua presenza. Il tuo volto, le tue rose, i tuoi occhi così dolci, e sì cari mi parlavano al cuore; ma il tuo senno, la tua dolcezza, la tua compassione, le tue virtù per dir tutto, m’innalzavano, e mi rapivano l’intelletto. Quanti giorni amari e tristi tu mi cambiasti in soavi! Quante inquiete notti tu raddolcisti col tuo parlare! Ma tu più non sei. Io più non ti sento, più non ti veggo, più non mi rallegri, nè mi aiuti a far men dolente la vita. Io venerava le savie istituzioni della Natura, e del Cielo in vedermi tuo compagno, e riguardava la nostra unione come il pegno più dolce del suo amore, il segno più certo del vegliare che egli fa sulle nostre vite. Ma la Natura, ed il Cielo si son cambiati. Tutti i lor doni sono spariti. Son rimaso senza di te. Ed ora spesso ti chiamo a nome, ti ricerco, spesso ti veggo, ti parlo, ti ascolto, e poi altro non sento che un’illusione, altro non abbraccio che ombre. Il figlio mi resta. Questo è l’immagine che più ti somiglia. Io lo riguardo come un dono, come un fiore staccato dalla nostra età. Ma che parlo di età, se la tua più bella già si è oscurata, nè più ravviva la mia. O figlio mio, che tanto mi riscuoti le viscere, vieni e vedrai ove è la tua madre. Questo è il luogo, ove dalla pietà del padre tuo fu sepolta. Sotto questa terra giace il suo corpo, la sua bellezza, giacciono le sue grazie. Ma che dico del suo bello, se la morte ha già sfiorato quel suo viso! Oimè! lasciamo a piè del suo sepolcro queste frondi, e il nostro pianto. Altro non possiamo fare. Altro non vuol la Natura, e la pietà. Noi la rivedremo, quando meno si spera. Io, caro figlio, prima di te sarò morto. Tu allora ti rappresenta la tua madre diletta, è il tuo padre che non ebbero altro frutto che te. Segui, e rammenta il mio esempio. Come io ti condussi al sepolcro della madre, tu vieni spesso anche al mio. Noi ci rivedremo ove la gioia sarà pura ed eterna. Intanto altro non ci resta che rammemorarci del nostro caso, e lagrimare. No, non può farsi che si richiami da morte, troppo saremmo felici. Il regno di morte, seppure è un regno, non ha uscita. Voglio però che provvediamo alla dimenticanza. Potremmo anche morire l’un dopo l’altro; ed il nome di questa virtuosa sposa, di questa tenera madre perire. No, non perisca; io già prevengo un dispiacere, un tormento, un affanno che ne avrei. Si distenda quì sopra al suo tumulo una pietra. Ivi si scriva . . . . Figlio che scriveremo? Lascia che il dolore mi detti le voci. Esprimeranno assai meglio le sue virtù. Ecco le voci, ed i sensi. A Placidia~k Sposa umile e bella.
Dopo tutto questo vediamo se la Filosofia è venuta in nostro soccorso. Ha detto a molti Saggi, ed a molti Principi la verità senza forza, nè pompa nel dirsi. Ha dimostrato che l’uomo appena è cadavere, dee togliersi alla vista di pochi ne’ templi. Egli è pieno allora di materie animali corrotte, le quali sono in un moto costante, onde si dissipano per l’aria, e la caricano di se stesse. Son queste atte a corrompere i nostri liquidi, perchè s’inspirano coll’aria, ed a rendere l’aria medesima incapace di servire poi alla nostra vita. Un’aria corrotta e ristretta si communica facilmente al di fuori, e non solo al di fuori, ma anche in lontananza. Quelli adunqe, che non son presenti al pestifero veleno, posson esserne vinti anche lontani. Non si può dire quanto si possa communicar prestamente, ed attaccare gli umori ed i nervi. Che stupidità, che ignoranza non è ella mai, dice la Filosofia, rivestire un cadavere di panni, ed esporlo nel tempio della Divinità ad appestare l’atmosfera colle materie corrotte, che da tutta la superficie di esso vanno esalante, e per l’aria disperdendosi di continuo? Quelle particelle, sebbene invisibili, agiscono tosto sopra i vivi, e lasciano in essi la loro natura morbifera, e tanto più lasciano, quanto l’aria tutta è più ristretta. È dunque un errore il più grave il lasciare come in balìa di se, in mezzo alla frequenza degli uomini, un pezzo di materia che ha alcune forme; ma che nell’interno ci prepara un’infermità, una morte. Questo sia detto dell’uso di esporre gli uomini che più non sono, alla vista di chi gli mira, e gli piange. Ma che dice quì la Filosofia delle sepolture? Ella non può approvare, che, visti i mali effetti di un’aria imbevuta di aliti pestilenziali, e ristretta in certe fosse ben chiuse, si debba soffrire che si aprano queste ogni giorno, e si chiudano; e che alcune si tengano aperte per molte e molte ore in mezzo ad un popolo che corre al tempio per pregare Iddio. Son quelle fosse un serbatoio di veleno sempre pronto a scaturir fuori, a communicarsi a tutti quanti. Ma queste debbon riempirsi, e si debbon vuotare. Come! non serve dunque che si aprano ogni giorno, che si profumi l’interno del tempio in questa guisa, che anche si debbon poi trasportare altrove tutti que’ frantumi corrotti? Questo è lo stesso che lo spargere intorno i semi delle malattie, della pallidezza estrema, e della morte. L’uomo che più non è animato dal calore di vita, più non dee mantenere le sue forme. In questa trasmutazione, se si lascia alla vista degli altri, come si è detto, egli è micidiale. Quell’aria balsamica che inspirava, si cambia in un tratto; ed egli che parte ad essa, e parte alla terra vuol comunicarsi, n’è la cagione funesta. Egli non è più che materia. Si confonda dunque col resto, e si lasci al destino di patire tutte le sue trasmutazioni. Lasci comunicarsi a’ fiori, alle piante, agli uomini, agli animali. Non si turbin le leggi naturali, si dia alla terra quella materia che potrebbe offendere gli abitatori insepolta, o male interrata. Si lasci che ella faccia tutto quel bene che vuol la Natura senza alcun male. Veggasi con diletto fiorire il suolo ove si ripose, nutrir molte piante, ed in vece di turbar l’aria con esalazioni impure, nutrirla di balsami odorosi, che esalano dalle piante, dalle frondi, da’ fiori, che fecero sì bella prova in quel terreno. A che mai tanti serbatoi di fracidumi ove la Divinità è presente? A qual fine tanti trasporti di materie corrotte? Ma come la Filosofia va guarendo da errori sì grandi l’umanità, potrà ella guarire in simil guisa dagli errori di passione, di quelli voglio dire che si commettono per il più tenero, e doloroso sentimento che si ha quando si perde alcuno che ci fu caro? Io per non lo so, nè lo veggo. Le passioni che si risentono, non posson guarirsi quando si vuole dalla ragione, perchè non può la ragione farci liberi da uno stato interno di tumulto che rattrista. Siamo, è vero, padroni di fare alcuni moti, e di farli anche cessare quando a noi piace; ma non segue così di quelli che si communicano all’anima, e per lei a tutte le fibre motrici del corpo. Una trista nuova eccita tosto un maggior moto dell’ordinario nel sangue. Il viscere che è sorgente, almeno se altro non se non scuopre, della nostra vita, si scuote, e batte più forte; questo ci affanna, e ci può gettare in un deliquio mortale. Si sente che tutto questo è stato quella nuova male avventurata. La Filosofia che fa? Sia pur quì tutta possente, come si pensa ad alcuni. Faccia cessare quel moto non ordinario, che può uccidere. La Filosofia quì si confessa impotente. Ella non trova alcun passaggio per moderare quel palpito; perchè non ci è veramente. Infatti ragione che consiglia, e moto che agisce, e già si è propagato a tutti i nervi, non anno una relazione nè vicina nè lontana. Son due nature diverse che agiscono, al parer mio, per vie contrarie. So che una voce è capace di gettare nell’anima, e per essa in tutta l’economìa animale un fiero disordine; ma so altresì che un’altra voce, e sia pur la possente della ragione, non è capace di acquietare quel moto sì forte, e sì fiero che pone tutto in tumulto. Questa è la triste condizione di noi. Le voci miserabili della sciagura posson disordinarci in un tratto, e farlo a segno da seccar le sorgenti della vita; ma le mansuete della ragione non posson fare altrettanto. Adunque noi non possiam dedurre per questa parte alcun vantaggio della ragione, finchè dura il fremito del dolore già propagato a tutte le fibre dall’anima. La ragione, che fa tutte le sue operazioni tranquillamente, non può agir nulla ove non trova tranquillità. Possiamo sempre più meglio dimostrare con ciò che la natura nostra non è tanto sensitiva al piacere, quanto lo è al dolore; e che il dolore in conseguenza ha il più terribile imperio sopra di noi, ed a segno da rigettare qualunque idea moderatrice della ragione. In questo caso quella costernazione, in cui ci getta la perdita di quelli che ci an generato, di coloro che ci an fatto del bene, di quelli che erano il conforto della nostra povera vita, non può esser moderata, niuno può ritenerci dall’immaginare, e dall’eseguire le più belle cose del mondo sopra di una fredda spoglia, sopra di uno che ora è pura materia. Niuno potrà frenarci dal farne uno spettacolo di lusso a’ vivi, con portarlo attorno carico di ori, di gemme, e di fiori. È vero; niuno potrà frenarci, quando questo non sia un divieto pubblico, ed eguale per tutti. Allora tace il dolore, perchè una forza esterna prevale. Non già che il dolore non sia sempre vivo; è tale, ma non può agire; e queste azione è quella che non avrebbe mai impedita la più dolce filosofia. Troppo ci vorrebbe. Bisognerebbe, perchè quel divieto non fosse necessario che tutti gli uomini fossero consumati nella sapienza. Allora molte inutili azioni che produce il dolore, non si vedrebbero punto. Non è già che il sapiente non sia sensitivo, e non pianga; piange egli pure, ma il suo pianto è l’effetto di una pura sensazione dolorosa, senza che l’immaginativa alterata vi abbia alcun luogo. Dunque per evitare il male che può venire agli uomini della vista de’ cadaveri, delle sepolture, e dal sentimento aggirato dall’altrui interesse, altro non ci vuole che una Filosofia sempre pura e rischiaratrice di chi è destinato al governo degli altri. Vietata la vista degli uomini che son morti, e le tombe ne’ sacri tempj, il povero sentimento che sbalza ove si vuole, purchè trovi un certo ristoro momentaneo, rimane senza forze di far male a se, ed agli altri.