Saggio V. Luca Magnanima Moralische Wochenschriften Alexandra Fuchs Editor Lena Druml Editor Magdalena Albert Editor Andrea Kaser Editor Institut für Romanistik, Universität Graz 15.12.2016 o:mws.5410 Magnanima, Luca: Osservatore toscano. Livorno: Carlo Giorgio 1779-1783, 23-29 Osservatore Toscano 1 05 1779 Italien Ebene 1 Ebene 2 Ebene 3 Ebene 4 Ebene 5 Ebene 6 Allgemeine Erzählung Selbstportrait Fremdportrait Dialog Allegorisches Erzählen Traumerzählung Fabelerzählung Satirisches Erzählen Exemplarisches Erzählen Utopische Erzählung Metatextualität Zitat/Motto Leserbrief Graz, Austria Italian Wirtschaft Economia Economy Economía Économie Natur Natura Nature Naturaleza Nature Italy Tuscany Tuscany 11.0,43.41667 La Certosa 12.37309,45.434 Italy Lucca Lucca 10.50447,43.84369 Italy 12.83333,42.83333 Italy Montemagno Montemagno 10.33984,43.90961 Fiume Arno 10.28333,43.68333 Italy Siena Siena 11.33064,43.31822 Italy Buti Buti 10.5845,43.72857 Italy Pisa Pisa 10.4036,43.70853 Italy Calci Calci 10.51791,43.72597 Italy Caprona Caprona 10.50462,43.70852 Italy Florence Florence 11.24626,43.77925

Saggio V.

La passione d’ampliare le nostre coltivazioni è soggetta ad errori che posson far piangere.

Al presente non si parla se non di ricchezze, di forza, d’ingrandimento, nè per altra via che per quella dell’agricoltura e del commercio. Se ne ragiona per tutto, e massime fra noi. Ma bisogna pensare che questi sì utili parlamenti si fanno da quelli che non posseggono molto. Quelli che anno vaste possessioni, quelli che potrebbero tentare grandi esperienze, aumentare le loro entrate, dormono sulle rose, e non è poco che sappiano di avere una villa, un giardino, un fattore. Se è vero però che l’agricoltura sia l’idolo generale, perchè è la vita di tutti, si dee considerare che men-tre si vuole andare alle nostre venture, non si vada incontro alla nostra rovina. In questa passione d’ingrandimento è facile il far degli errori, perchè le passioni non son altro generalmente che errori. Or nulla è di più facile che farne quando si pensa a far maggiori le nostre rendite colla terra. Infatti la Toscana, per esempio, ove è sì grande questo ardore, abonda di colline, e di monti. Questi e quelle sono egualmente coltivati; ma i nostri vecchi avendo lasciato le cime degli ultimi in abbandono alla natura, si son veduti quali folti di pini, di abeti, quali di castagni, di stipe, di cerri, e d’altri alberi selvaggi. Si era quasi voluto che in certe parti montane si vedesse quell’orrore di piante, che tanto piaceva agli antichi, e per cui quel silenzio era in certa maniera sacro alle loro deità. Forse non senza ragione. In tutte le parti della terra, ove la coltura è in fiore, devon esservi boschi, o selve che vogliam dire. L’uomo, nè le domestiche coltivazioni posson regger mai alle avverse stagioni; perchè l’uomo ha bisogno di alberi per impiegare nelle fabbriche, e nel fuoco, e le coltivazioni de’ nostri piani anno bisogno di riparo contra i torrenti, o contra le acque che calano impetuose da’ monti. Quest’impeto è certo che rovina in pochi momenti le più belle terre. Quello spogliare adunque i monti, ed i colli de’ loro alberi selvaggi, per troppa sete di acquisto, non può approvarsi. Così facendo si va contro al fine. Non vi reggono le nuove coltivazioni, e spogliati così i monti delle loro piante, e de’ cespugli che ritenevano le acque, si veggono scendere impetuose al piano. Allora contra un impeto sì fiero non vagliono le forze umane. La storia di ogni tempo ce ne avvisa, ma invano.

Or noi toscani siamo nel caso. Giacchè tutto è desiderio di coltivare, non si è sempre considerato se sia utile il farlo. Abbiam tagliato molte piante selvagge, che eran anco riparo contra de’ venti per piantarvi ulivi, castagni; e se il terreno si è trovato buono, si son fatte delle semente ove non si era mai pensato. Che sia così, basta che si girino al presente le pendici de’ monti pisani. Noi non le troveremo più verso le cime così belle, e così cupe come erano un tempo. Si è pulito quel terreno in molti luoghi da qualunque germe spontaneo di piante. Ma se siasi ben fatto, or comincia a vedere. Narriamo perciò un caso la crimevole. Io ero a Calci l’ottobre passato, ove i tempi non correvano molto tranquilli. La notte del 14 dello stesso mese cominciò a piovere verso le nove ore in una maniera la più dirotta. Era questa pioggia accompagnata da un contrasto di fulmini orrendo. Il paese era in ispavento. Così terribile scena durò tutta quanta la notte fino alle 4 ore della mattina. Che seguì da una pioggia che mai non rimase, e sempre precipitosa? Seguì che dalla cima del monte detto i tre Colli venne in un subito l’acqua con un impeto sì fiero che in poche ore roppe mulini, portò via strade, alberi, terreno, e rovinò in parte alcuni ponti, lontani assai l’uno dall’altro, e che in altre piene eran rimasi forti. Questo non bastò. Giunta al piano franò l’argine dalla parte sinistra della Zambra, che è il letto ove scorre naturalmente, e si fece strada per alcuni campi del signore Scorzi, i quali furon subito ripieni di ghiaie con un danno generale del terreno, degli alberi, e delle viti.

La mattina si aprì agli occhi di tutti il danno già fatto con gran ribrezzo. E perchè questa pioggia era senza esempio, io uscii tosto di casa a vedere la Zambra, la quale, benchè non fosse nel suo gran colmo, pure spaventava a vederne la piena, ed a sentirne il suono. Dopo due giorni andai insieme col signor Piovano Turini ad osservare sul luogo i danni già fatti. Dalla pieve prendemmo la via verso Caprona, e di lì giungemmo fino ad Arno. Si osservò alcuni massi fuori del loro usato luogo rotolati più lontano, ed alcune grosse pietre rimase sulla ripa sinistra, ove alcuna non se ne vedea. Vedemmo il ponte, per cui si va nella parte più bassa del paese detta la Corte, e che è posto sulla Zambra, rotto dalla parte sinistra, e scalzato molto, perchè anche quì le acque si eran fatte strada in un campo, e l’avean ripieno di ghiaia. Ci avanzammo, e quì comparvero molti campi allagati e ripieni di sassi, vale a dire que’ medesimi che abbiam detto del signore Scorzi. Arrivati al ponte di Caprona si vide rotto dalla banda sinistra, e con un fossone scavato sulla strada. Potemmo sentire ancora da un Mugnaio, il quale sta subito passato il ponte, come nella notte fu vicino a vedere affogate tutte le sue bestie, tanto l’acqua era venuta improvvisamente, e si era alzata in sua casa alcune braccia. In somma non si mirò che oggetti di compassione.

Giunti fino all’Arno trovammo alcuni Monaci della Certosa, i quali pure eran venuti a fare un passeggio. Qui ci fermammo alquanto, e come la pioggia era stata precipitosa anche nel fiorentino, si potè osservare sulla sera le acque dell’Arno crescere a poco a poco. Lasciato il fiume, ritornammo per la medesima strada, e si videro caricare da’ primi occupanti molti grossi legni portati via dalle acque. Di più, si osservarono molti grossi sassi, i quali subito dopo la piena sogliono ammontarsi da alcuni diligenti, per vendersi poi a suo tempo a chi ne ha bisogno per fabbricare. Il giorno appresso andammo dalla pieve verso Castel maggiore, ove potemmo vedere molti altri danni, e massime una strada fatta di nuovo sopra la casa Passeri, rovinata, e scavato in essa un altro fossone, per cui non si potea più andar oltre. Ma non fu Calci solo che rimase così danneggiato. Montemagno poco distante, e Buti soffrirono assai; e generalmente tutte le pendici de’ monti pisani. Dalla parte di Lucca poi la disgrazia non fu minore. Le acque impetuose portaronsi dietro alberi, animali, e quel che afflisse tutti, fino una casa con alcuni in-felici a dormire, i quali restaron miseramente annegati.

Ma, dirà alcuno, chi avria potuto opporsi a un torrente sì precipitoso, e che avrebbero mai giovato anche gli alberi più folti, e la macchia più bassa? Risponde che la velocità delle acque non potea non esser minore, comunque fosse. Avrebbe perciò giovato assai a dar qualche tempo per salvar molte cose, ed apprestare de’ ripari. Infatti dicono i vecchi del paese, che anche fuori di questa pioggia straordinaria, le acque non venivano, con tal precipizio in un subito da’ monti, come ora fanno. Io poi dico che se ivi si fosse men coltivato, non perderebbero tanto gli stessi monti, quanto ora perdono, mentre debbono sbassare di continuo per le acque che tutto trasportano con loro. Ne viene da ciò che non si riempirebbero sì presto i letti de’ fiumi, e perciò non farebbero tanto spavento nelle piogge abbondanti, come fa l’Arno non di rado; che in fine non si perderebbe appunto il fior della terra, e la migliore, qual è quella del bosco e del monte, per essere un suolo di soli vegetabili distrutti, mentre si va in cerca ti terra si fatta. Oltre di questo disfacendosi, e sbassando così le cime de’ monti, che eran folte di pini, si perde con esse una difesa da’ venti contra le nostre coltivazioni. Perdendo poi di continuo i monti per le pioggie, pe’ venti, e pe’ soli, perdono ancora la difesa medesima molte belle parti abitate. Adunque la passione di ampliare la nostra agricol-tura può fare de’ danni irreparabili. Da ciò risulta sempre più quanto sia necessaria la cognizione delle cose naturali, che si abbandona ordinariamente alle cattedre di Pisa, di Siena, all’Accademia di Firenze, ed a coloro che vogliono farne professione, come se ella non fosse dell’ultima necessità il coloro che anno molte terre da coltivare. I Fisici s’ingegnano di scoprir la Natura, e se non la scuoprono affatto in molte cose, quel che apprendono è utile sempre. Ma la cagione del non iscoprir molto si è che non anno vaste tenute per far gli sperimenti che vorrebbero. La fortuna le ha poste in mano di coloro che per lo più si ridono della Natura, de’ Saggi che la studiano, e di coloro che gli ascoltano. Che fare in questi casi? Rassegnarsi e tacere.

Saggio V. 1779 Saggio V. La passione d’ampliare le nostre coltivazioni è soggetta ad errori che posson far piangere. Al presente non si parla se non di ricchezze, di forza, d’ingrandimento, nè per altra via che per quella dell’agricoltura e del commercio. Se ne ragiona per tutto, e massime fra noi. Ma bisogna pensare che questi sì utili parlamenti si fanno da quelli che non posseggono molto. Quelli che anno vaste possessioni, quelli che potrebbero tentare grandi esperienze, aumentare le loro entrate, dormono sulle rose, e non è poco che sappiano di avere una villa, un giardino, un fattore. Se è vero però che l’agricoltura sia l’idolo generale, perchè è la vita di tutti, si dee considerare che men-tre si vuole andare alle nostre venture, non si vada incontro alla nostra rovina. In questa passione d’ingrandimento è facile il far degli errori, perchè le passioni non son altro generalmente che errori. Or nulla è di più facile che farne quando si pensa a far maggiori le nostre rendite colla terra. Infatti la Toscana, per esempio, ove è sì grande questo ardore, abonda di colline, e di monti. Questi e quelle sono egualmente coltivati; ma i nostri vecchi avendo lasciato le cime degli ultimi in abbandono alla natura, si son veduti quali folti di pini, di abeti, quali di castagni, di stipe, di cerri, e d’altri alberi selvaggi. Si era quasi voluto che in certe parti montane si vedesse quell’orrore di piante, che tanto piaceva agli antichi, e per cui quel silenzio era in certa maniera sacro alle loro deità. Forse non senza ragione. In tutte le parti della terra, ove la coltura è in fiore, devon esservi boschi, o selve che vogliam dire. L’uomo, nè le domestiche coltivazioni posson regger mai alle avverse stagioni; perchè l’uomo ha bisogno di alberi per impiegare nelle fabbriche, e nel fuoco, e le coltivazioni de’ nostri piani anno bisogno di riparo contra i torrenti, o contra le acque che calano impetuose da’ monti. Quest’impeto è certo che rovina in pochi momenti le più belle terre. Quello spogliare adunque i monti, ed i colli de’ loro alberi selvaggi, per troppa sete di acquisto, non può approvarsi. Così facendo si va contro al fine. Non vi reggono le nuove coltivazioni, e spogliati così i monti delle loro piante, e de’ cespugli che ritenevano le acque, si veggono scendere impetuose al piano. Allora contra un impeto sì fiero non vagliono le forze umane. La storia di ogni tempo ce ne avvisa, ma invano. Or noi toscani siamo nel caso. Giacchè tutto è desiderio di coltivare, non si è sempre considerato se sia utile il farlo. Abbiam tagliato molte piante selvagge, che eran anco riparo contra de’ venti per piantarvi ulivi, castagni; e se il terreno si è trovato buono, si son fatte delle semente ove non si era mai pensato. Che sia così, basta che si girino al presente le pendici de’ monti pisani. Noi non le troveremo più verso le cime così belle, e così cupe come erano un tempo. Si è pulito quel terreno in molti luoghi da qualunque germe spontaneo di piante. Ma se siasi ben fatto, or comincia a vedere. Narriamo perciò un caso la crimevole. Io ero a Calci l’ottobre passato, ove i tempi non correvano molto tranquilli. La notte del 14 dello stesso mese cominciò a piovere verso le nove ore in una maniera la più dirotta. Era questa pioggia accompagnata da un contrasto di fulmini orrendo. Il paese era in ispavento. Così terribile scena durò tutta quanta la notte fino alle 4 ore della mattina. Che seguì da una pioggia che mai non rimase, e sempre precipitosa? Seguì che dalla cima del monte detto i tre Colli venne in un subito l’acqua con un impeto sì fiero che in poche ore roppe mulini, portò via strade, alberi, terreno, e rovinò in parte alcuni ponti, lontani assai l’uno dall’altro, e che in altre piene eran rimasi forti. Questo non bastò. Giunta al piano franò l’argine dalla parte sinistra della Zambra, che è il letto ove scorre naturalmente, e si fece strada per alcuni campi del signore Scorzi, i quali furon subito ripieni di ghiaie con un danno generale del terreno, degli alberi, e delle viti. La mattina si aprì agli occhi di tutti il danno già fatto con gran ribrezzo. E perchè questa pioggia era senza esempio, io uscii tosto di casa a vedere la Zambra, la quale, benchè non fosse nel suo gran colmo, pure spaventava a vederne la piena, ed a sentirne il suono. Dopo due giorni andai insieme col signor Piovano Turini ad osservare sul luogo i danni già fatti. Dalla pieve prendemmo la via verso Caprona, e di lì giungemmo fino ad Arno. Si osservò alcuni massi fuori del loro usato luogo rotolati più lontano, ed alcune grosse pietre rimase sulla ripa sinistra, ove alcuna non se ne vedea. Vedemmo il ponte, per cui si va nella parte più bassa del paese detta la Corte, e che è posto sulla Zambra, rotto dalla parte sinistra, e scalzato molto, perchè anche quì le acque si eran fatte strada in un campo, e l’avean ripieno di ghiaia. Ci avanzammo, e quì comparvero molti campi allagati e ripieni di sassi, vale a dire que’ medesimi che abbiam detto del signore Scorzi. Arrivati al ponte di Caprona si vide rotto dalla banda sinistra, e con un fossone scavato sulla strada. Potemmo sentire ancora da un Mugnaio, il quale sta subito passato il ponte, come nella notte fu vicino a vedere affogate tutte le sue bestie, tanto l’acqua era venuta improvvisamente, e si era alzata in sua casa alcune braccia. In somma non si mirò che oggetti di compassione. Giunti fino all’Arno trovammo alcuni Monaci della Certosa, i quali pure eran venuti a fare un passeggio. Qui ci fermammo alquanto, e come la pioggia era stata precipitosa anche nel fiorentino, si potè osservare sulla sera le acque dell’Arno crescere a poco a poco. Lasciato il fiume, ritornammo per la medesima strada, e si videro caricare da’ primi occupanti molti grossi legni portati via dalle acque. Di più, si osservarono molti grossi sassi, i quali subito dopo la piena sogliono ammontarsi da alcuni diligenti, per vendersi poi a suo tempo a chi ne ha bisogno per fabbricare. Il giorno appresso andammo dalla pieve verso Castel maggiore~i, ove potemmo vedere molti altri danni, e massime una strada fatta di nuovo sopra la casa Passeri, rovinata, e scavato in essa un altro fossone, per cui non si potea più andar oltre. Ma non fu Calci solo che rimase così danneggiato. Montemagno poco distante, e Buti soffrirono assai; e generalmente tutte le pendici de’ monti pisani. Dalla parte di Lucca poi la disgrazia non fu minore. Le acque impetuose portaronsi dietro alberi, animali, e quel che afflisse tutti, fino una casa con alcuni in-felici a dormire, i quali restaron miseramente annegati. Ma, dirà alcuno, chi avria potuto opporsi a un torrente sì precipitoso, e che avrebbero mai giovato anche gli alberi più folti, e la macchia più bassa? Risponde che la velocità delle acque non potea non esser minore, comunque fosse. Avrebbe perciò giovato assai a dar qualche tempo per salvar molte cose, ed apprestare de’ ripari. Infatti dicono i vecchi del paese, che anche fuori di questa pioggia straordinaria, le acque non venivano, con tal precipizio in un subito da’ monti, come ora fanno. Io poi dico che se ivi si fosse men coltivato, non perderebbero tanto gli stessi monti, quanto ora perdono, mentre debbono sbassare di continuo per le acque che tutto trasportano con loro. Ne viene da ciò che non si riempirebbero sì presto i letti de’ fiumi, e perciò non farebbero tanto spavento nelle piogge abbondanti, come fa l’Arno non di rado; che in fine non si perderebbe appunto il fior della terra, e la migliore, qual è quella del bosco e del monte, per essere un suolo di soli vegetabili distrutti, mentre si va in cerca ti terra si fatta. Oltre di questo disfacendosi, e sbassando così le cime de’ monti, che eran folte di pini, si perde con esse una difesa da’ venti contra le nostre coltivazioni. Perdendo poi di continuo i monti per le pioggie, pe’ venti, e pe’ soli, perdono ancora la difesa medesima molte belle parti abitate. Adunque la passione di ampliare la nostra agricol-tura può fare de’ danni irreparabili. Da ciò risulta sempre più quanto sia necessaria la cognizione delle cose naturali, che si abbandona ordinariamente alle cattedre di Pisa, di Siena, all’Accademia di Firenze, ed a coloro che vogliono farne professione, come se ella non fosse dell’ultima necessità il coloro che anno molte terre da coltivare. I Fisici s’ingegnano di scoprir la Natura, e se non la scuoprono affatto in molte cose, quel che apprendono è utile sempre. Ma la cagione del non iscoprir molto si è che non anno vaste tenute per far gli sperimenti che vorrebbero. La fortuna le ha poste in mano di coloro che per lo più si ridono della Natura, de’ Saggi che la studiano, e di coloro che gli ascoltano. Che fare in questi casi? Rassegnarsi e tacere.