La causa de’poverelli Giovanni Ferri di S. Costante Moralische Wochenschriften Alexandra Fuchs Editor Alexandra Kolb Editor Andrea Kaser Editor Institut für Romanistik, Universität Graz 30.11.2016

o:mws-117-986

Ferri di S. Costante, Giovanni: Lo Spettatore italiano, preceduto da un Saggio Critico sopra i Filosofi Morali e i Dipintori de’Costumi e de’Caratteri. Milano: Società Tipografica de’Classici Italiani 1822, 12-16 Lo Spettatore italiano 3 03 1822 Italien
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La causa de’poverelli

O quantum cogit egestas!

Mart.

A quante cose sforzane il bisogno!

Quisquis inops peccat, minor est reus

(Petro.).

Qual per inopia falla, ha minor colpa.

Hanno i poverelli per legge di natura le ragioni stesse de’ricchi; e questo è ver così, che in un’isola disabitata posti insieme un principe e un villanello, sicuramente la nobiltà di sangue non darà al primo più giusto titolo in dover principare, che la forza e l’ingegno dia all’altro. Nondimeno nel sociale stato deono i diritti del povero esser ragionati coi sagrificii, o per sua opera, o per suo consentimento fatti al bene di quello Stato. Questi sagrificii nel vero sono de’maggiori: perciocchè ai signori delle possessioni diede egli quella parte del terreno che a sue mani lavora, senza tanto averne a sè ritenuto, quanto capesse la sua tomba. Oltre a ciò, ai mercatanti ed agli artefici concede egli l’uso delle sue membra, come di certi strumenti fabbricati a doverli arricchire, per una mercede molto più piccola che a quelli non si conviene. Finalmente alle persone di più alto ordine ha egli abbandonata ogni pretensione di potenza, di dignità e di grado, contentandosi di far con la sua umile e povera condizione sovrastare e risplendere la lor grandezza. Adunque in sì disugual distribuzione, che è rimaso a lui? Certezza almeno che non sarà peggiorata la sua condizione (salvo se egli non v’avesse colpa), e che simigliante all’ape, la qual cede all’uomo il suo tesoro, egli sarà lasciato stare in pace nel suo alveare, e vivere di quella parte del mele che egli va al suo signore stipando. Qualora gli fia negata, non sarà egli con ragione tentato di domandare una nuova division della comune proprietà, e di dire? Datemi quella porzione di beni che deve essere il mio retaggio. I ricchi non desiderano certamente di rivedere così le ragioni, e appunto per questo bisogna che riconoscano il diritto che ha il povero, che il poco godere al suo stato appartenente gli deggia durare. La volontà di faticare è il solo contraccambio che gli si possa domandare; la quale però se gli fosse o dall’età o da infermità impedita, o dal non potere trovar lavoro, egli ha giusta causa di chiedere sua convenevole parte a coloro i quali, non più di lui adoperando, con interesse e pregiudicio della universal moltitudine, affogano negli agi. A provvedimento adunque del povero, il torre via che non abbia a morir di fame, dandogli sì sottilmente da vivere, non basta, se anche la possessione de’suoi averi e de’suoi gaudii non gli è assicurata.

Ma gli averi ed i gaudii del poverel quali sono? Ahi! che pon son molti; e dovrebbero per conseguente essere più privilegiati. Grande origine di consolazione è a lui la moglie e i figliuoli, se pure non gli si multiplichino troppo; e sia quanto vi vogliate negletto e schifato fuori di sua casa, dentro egli vi è di gran momento. E vi ha sempre chi cura di lui, chi il serve, e chi, dicendo egli: Andate; va; e chi, dicendo egli: Venite; viene. Sente egli appieno gli affetti de’figli, di marito e di padre: e se incontra che o tribolazione, o malattia lo travagli, l’esser governato e custodito da chi lo ha caro e in reverenza, è ogni suo conforto ed ogni suo sollevamento. E se il poverello per forza fosse divelto dal grembo della moglie, de’figliuoli e de’parenti, dispererebbesi, non sapendo sopra sè maggior disavventura, che questa, immaginare.

Piace al poverello, quantunque scarso e misero si sia, serbare alcuna idea di proprietà, e dire: La mia casa, il mio orto, le cose mie: e se per avventura gli conviene tutti i comodi domestici abbandonare, per trasmutarsi in casa di lavoro, o nell’ospedale, gl’incresce e gli duole di dover perdere le cose che l’usanza gli ha fatto apprezzare ed esser gradite. E comechè tal luogo sia molto migliore e più agiato che la sua magione, non gli diletta di esser per ospite trattato. Vestire robe, tutto che buone e calde, attribuite pure al comune, e non per lui fatte, non gli è all’animo. Ora se ciò è un essere ingannato, non giova egli al mondo questo errore, e non è da farne assai stima?

Riconfortasi della sua inopia il povero, pensando pur ch’egli è libero. Ma questa sua libertà, sallo Iddio, è da tanti e sì tirannici bisogni ristretta, che appena si pare. Ben è vero che appagalo il sapere ch’egli la possiede, e che può uscire ed entrare, lavorare e posarsi a sua posta. È egli vago di giudicar egli medesimo ciò che gli è mestieri, e far quei provvedimenti che più nell’animo gli cape di dover fare. Per conseguente nei ristringimenti per forza fattigli, non può viver contento. Lo raccapriccia ogni cosa che importi o chiave o chiavistello, avendo egli per fermo ai malfattori soli star ben la prigione. Egli si ritrae volentieri dal volere esser alcun fatto nello Stato, o alcuna ragione avere nella politica; ma egli ha in odio fieramente ogni regola che sopra le sue opere ad altrui arbitrio sia osservata. O, e chi fia che porti amore agli uomini, e voglia de’cosiffatti sensi distruggere?

Alla fine nei piaceri sociali alquanto del suo bene alluoga il povero: ma ricchi spietati e crudeli, questi sollazzi, non altrimenti che se delitti fossero, dannano nel povero; e continuo hanno la lingua pronta a dirgli le più sozze e ree villanie che mai a poltrone, o a ghiotton fosser dette. È il vero che il povero se alla taverna consuma ciò che al mantenimento della sua famiglia è necessario, egli n’è da biasimare e riprender agramente. Ma secondo natura e secondo le leggi egli fa, nel volere al fine della giornata, o della settimana, pigliar dalle gravi fatiche che ha durate alcun sollievo e recreamento in questi luoghi, dove per forse un’ora diviene non so che di più. Ed al povero è così dolce e trastullevole il cianciare e novellare in su la porta del suo vicino la sera; e il ragionar delle cose politiche il dì di domenica, o d’altre feste davanti la chiesa; e il fare alle braccia, o altri giuochi villerecci, come ai ricchi e ai nobili è il teatro e le splendide conversazioni e i magnifici desinari. Deh! chi sarà sì prosontuoso, che i piaceri di quelli non esser ben guadagnati, siccome di questi altri, m’affermi? Quanto sarebbe amara al povero la vita, se di questi diletti privata fosse! E che vale il viver d’uomo che dentro ai termini d’una casa di lavoro, ove libertà, proprietà e piaceri nè eziandio per nome son conosciuti, è costretto di trarre gli sventurati suoi giorni?

La causa de’poverelli O quantum cogit egestas! Mart. A quante cose sforzane il bisogno! Quisquis inops peccat, minor est reus (Petro.). Qual per inopia falla, ha minor colpa. Hanno i poverelli per legge di natura le ragioni stesse de’ricchi; e questo è ver così, che in un’isola disabitata posti insieme un principe e un villanello, sicuramente la nobiltà di sangue non darà al primo più giusto titolo in dover principare, che la forza e l’ingegno dia all’altro. Nondimeno nel sociale stato deono i diritti del povero esser ragionati coi sagrificii, o per sua opera, o per suo consentimento fatti al bene di quello Stato. Questi sagrificii nel vero sono de’maggiori: perciocchè ai signori delle possessioni diede egli quella parte del terreno che a sue mani lavora, senza tanto averne a sè ritenuto, quanto capesse la sua tomba. Oltre a ciò, ai mercatanti ed agli artefici concede egli l’uso delle sue membra, come di certi strumenti fabbricati a doverli arricchire, per una mercede molto più piccola che a quelli non si conviene. Finalmente alle persone di più alto ordine ha egli abbandonata ogni pretensione di potenza, di dignità e di grado, contentandosi di far con la sua umile e povera condizione sovrastare e risplendere la lor grandezza. Adunque in sì disugual distribuzione, che è rimaso a lui? Certezza almeno che non sarà peggiorata la sua condizione (salvo se egli non v’avesse colpa), e che simigliante all’ape, la qual cede all’uomo il suo tesoro, egli sarà lasciato stare in pace nel suo alveare, e vivere di quella parte del mele che egli va al suo signore stipando. Qualora gli fia negata, non sarà egli con ragione tentato di domandare una nuova division della comune proprietà, e di dire? Datemi quella porzione di beni che deve essere il mio retaggio. I ricchi non desiderano certamente di rivedere così le ragioni, e appunto per questo bisogna che riconoscano il diritto che ha il povero, che il poco godere al suo stato appartenente gli deggia durare. La volontà di faticare è il solo contraccambio che gli si possa domandare; la quale però se gli fosse o dall’età o da infermità impedita, o dal non potere trovar lavoro, egli ha giusta causa di chiedere sua convenevole parte a coloro i quali, non più di lui adoperando, con interesse e pregiudicio della universal moltitudine, affogano negli agi. A provvedimento adunque del povero, il torre via che non abbia a morir di fame, dandogli sì sottilmente da vivere, non basta, se anche la possessione de’suoi averi e de’suoi gaudii non gli è assicurata. Ma gli averi ed i gaudii del poverel quali sono? Ahi! che pon son molti; e dovrebbero per conseguente essere più privilegiati. Grande origine di consolazione è a lui la moglie e i figliuoli, se pure non gli si multiplichino troppo; e sia quanto vi vogliate negletto e schifato fuori di sua casa, dentro egli vi è di gran momento. E vi ha sempre chi cura di lui, chi il serve, e chi, dicendo egli: Andate; va; e chi, dicendo egli: Venite; viene. Sente egli appieno gli affetti de’figli, di marito e di padre: e se incontra che o tribolazione, o malattia lo travagli, l’esser governato e custodito da chi lo ha caro e in reverenza, è ogni suo conforto ed ogni suo sollevamento. E se il poverello per forza fosse divelto dal grembo della moglie, de’figliuoli e de’parenti, dispererebbesi, non sapendo sopra sè maggior disavventura, che questa, immaginare. Piace al poverello, quantunque scarso e misero si sia, serbare alcuna idea di proprietà, e dire: La mia casa, il mio orto, le cose mie: e se per avventura gli conviene tutti i comodi domestici abbandonare, per trasmutarsi in casa di lavoro, o nell’ospedale, gl’incresce e gli duole di dover perdere le cose che l’usanza gli ha fatto apprezzare ed esser gradite. E comechè tal luogo sia molto migliore e più agiato che la sua magione, non gli diletta di esser per ospite trattato. Vestire robe, tutto che buone e calde, attribuite pure al comune, e non per lui fatte, non gli è all’animo. Ora se ciò è un essere ingannato, non giova egli al mondo questo errore, e non è da farne assai stima? Riconfortasi della sua inopia il povero, pensando pur ch’egli è libero. Ma questa sua libertà, sallo Iddio, è da tanti e sì tirannici bisogni ristretta, che appena si pare. Ben è vero che appagalo il sapere ch’egli la possiede, e che può uscire ed entrare, lavorare e posarsi a sua posta. È egli vago di giudicar egli medesimo ciò che gli è mestieri, e far quei provvedimenti che più nell’animo gli cape di dover fare. Per conseguente nei ristringimenti per forza fattigli, non può viver contento. Lo raccapriccia ogni cosa che importi o chiave o chiavistello, avendo egli per fermo ai malfattori soli star ben la prigione. Egli si ritrae volentieri dal volere esser alcun fatto nello Stato, o alcuna ragione avere nella politica; ma egli ha in odio fieramente ogni regola che sopra le sue opere ad altrui arbitrio sia osservata. O, e chi fia che porti amore agli uomini, e voglia de’cosiffatti sensi distruggere? Alla fine nei piaceri sociali alquanto del suo bene alluoga il povero: ma ricchi spietati e crudeli, questi sollazzi, non altrimenti che se delitti fossero, dannano nel povero; e continuo hanno la lingua pronta a dirgli le più sozze e ree villanie che mai a poltrone, o a ghiotton fosser dette. È il vero che il povero se alla taverna consuma ciò che al mantenimento della sua famiglia è necessario, egli n’è da biasimare e riprender agramente. Ma secondo natura e secondo le leggi egli fa, nel volere al fine della giornata, o della settimana, pigliar dalle gravi fatiche che ha durate alcun sollievo e recreamento in questi luoghi, dove per forse un’ora diviene non so che di più. Ed al povero è così dolce e trastullevole il cianciare e novellare in su la porta del suo vicino la sera; e il ragionar delle cose politiche il dì di domenica, o d’altre feste davanti la chiesa; e il fare alle braccia, o altri giuochi villerecci, come ai ricchi e ai nobili è il teatro e le splendide conversazioni e i magnifici desinari. Deh! chi sarà sì prosontuoso, che i piaceri di quelli non esser ben guadagnati, siccome di questi altri, m’affermi? Quanto sarebbe amara al povero la vita, se di questi diletti privata fosse! E che vale il viver d’uomo che dentro ai termini d’una casa di lavoro, ove libertà, proprietà e piaceri nè eziandio per nome son conosciuti, è costretto di trarre gli sventurati suoi giorni?