Zitiervorschlag: Giovanni Ferri di S. Costante (Hrsg.): "La pietà", in: Lo Spettatore italiano, Vol.3\02 (1822), S. 7-11, ediert in: Ertler, Klaus-Dieter / Fuchs, Alexandra (Hrsg.): Die "Spectators" im internationalen Kontext. Digitale Edition, Graz 2011- . hdl.handle.net/11471/513.20.1090 [aufgerufen am: ].


Ebene 1►

La pietà

Zitat/Motto► Nulla de virtutibus plurimis admirabilior nec gra-
tior misericordia. Homines enim ad Deos nulla re
propius accedunt, quam salutem hominibus dando

(Cicer.).

Di tante virtù, niuna n’è così mirabile e così gra-
ziosa, come la misericordia. Perciocchè null’altra
cosa più avvicina gli uomini agli Iddii, quanto il
porger salute agli altri uomini. ◀Zitat/Motto

Ebene 2► Ebene 3► Allegorie► Al tempo felice del secolo d’oro discendevano in terra gli Iddii, e con gli uomini si dimesticavano ed usavano insieme. Ma non fu alcuna di quelle possenti Deità che così generalmente fosse gradita, come erano due figliuoletti di Giove nati gemelli, de’quali aveva nome l’uno Amore e l’altro Gioia. Dovunque essi apparivano, spuntavano i fiori sotto le loro piante, di più vivo lume splendeva il sole, e di più bellezza si rivestiva la natura. Andavano sempre insieme: e questa lor compagnia e questa mutua benivoglienza molto piaceva a Giove, come a colui il quale aveva deliberato di volerli, tosto che fossero fuori di puerizia, solennemente per sempre congiungere.

Avvenne che gli uomini perdettero l’originale innocenza, e incontanente vizi, peccati e misere desolarono la terra. Perchè Astrea con tutto il suo coro immortale si mossero a volo, lasciando questa viziata stanza, e si tornarono in cielo. Il solo Amore quaggiù rimase. E non [8] vi sarebbe rimaso, se non fosse che la Speranza, stata sua madre di latte, fece che egli non se ne andasse, e lo trafugò alle selve d’Arcadia, ove fu egli tra’pastori cresciuto. Ma Giove, essendo contra gli uomini crucciato, tolse ad Amore quella compagna che prima gli avea deputata; e comandamento diede che egli dovesse sposar l’Afflizione, figliuola di Ati. Mal volentieri fece Amore il comandamento del padre: sì era aspro a vedere e discortese il sembiante che colei portava: conciofossechè gli occhi ella avesse profondi e bui, crespa e rabbuffata la fronte, e senza alcun fregio, altro che una corona di cipresso e d’assenzio.

Nacque di cosiffatte nozze una Ninfa, la qual fu molto somigliante a’suoi genitori: perocchè fu in lei riconosciuto molto della malinconia della madre mischiata a molta dolcezza del padre suo. E tutta insieme non ostante che paresse mesta, era, non so come, attrattiva e piacevole. Furono tra sè a consiglio tutti quanti i pastori e le pastorelle dei circostanti campi per porle il nome; ed in brieve l’appellarono Pietà. È noto che nella capanna ove fu partorita, aveva fatto il nido l’uccelletto pettirosso: ed essendo ella tuttavia nelle fasce, una colomba, perseguitata da uno sparviere, andò e le ricoverò in grembo. Con tutto che ella all’aspetto fosse continuamente smorta e sbigottita, nondimeno avea un’aria gentile e affettuosa tanto, che per forza traeva altrui ad amarla, e ferventemente altresì. La voce aveva piana e lamentevole, ma soave oltre a quello che se ne potesse dire. Dilettavate di starsene [9] assisa su per le ripe dei segreti ruscelletti, e quivi dolcemente molte ore cantare al suono piagnevole della sua cetera. E imperciocchè dallo sparger le lagrime ella avea ritratto alcun delicato sollazzo, da essa gli uomini appararono a piangere. Più volte la Pietà, quando le villanelle s’accoglievano in brigata ai giuochi della sera, entrava pianamente fra esse, e con ragionamenti e novelle che raccontava, pieni di dolcezza e di malinconia, tutte le inebriava di sè e rendevalesi amiche. Il cerchio che ella usava sul capo di portare, era dei mirti del padre conserti col materno cipresso.

Ora, passeggiando ella un giorno, tutta presa de’suoi pensieri, lunghesso le falde del monte Elicona, caddero alcune sue lagrime nell’Ippocrene. Da quel punto si è poscia sempre sentito l’effetto di queste dolci lagrime mescolate all’acque cui sogliono attingere le Muse.

Impose Giove alla Pietà, che si tenesse dietro all’Afflizione, e che dovesse circuire il mondo a medicare le piaghe che andava facendo la sua crudel madre, ed a risanare i cuori che quella avesse straziati. Le fu dunque appresso sempre, ma con le treccie sparte, e col seno scoperto e palpitante, e con gli occhi spesse fiate pieni di lagrime. E la seguita eziandio per mezzo agli spini che sovente le stracciano le vesti, e su per gli asprissimi sassi che i tenerelli piedi le rompono.

Mortale è questa Ninfa, come è la sua madre: e l’una e l’altra poscia che avranno compiuto il viaggio intorno a questo mondo, trapasseranno insieme. Allora sarà da capo Amore [10] congiunto alla Gioia, sua consorte immortale con inseparabile compagnia. ◀Allegorie ◀Ebene 3

Significa questa allegoria, che il principio onde muove la pietà è la disavventura. Non pertanto ha veduto un celebrato filosofo, come soprattutto questa affezion dell’anima ci è prodotta dal sentimento dell’innocenza. E questa è la ragione, dice egli, perchè ci commuove più la calamità di un fanciullo che quella di un vecchio. In noi cresce il sentimento morale dell’avversità del vecchio, quando egli è virtuoso; laonde si deduce non essere la pietà dell’uomo un’animale affezione, nè dall’infortunio procedere in quanto è infortunio, ma da una qualità morale che si scuopre nello sciagurato a cui compatisce.

Vi sono uomini i quali non si commuovono se non per gli estrinsechi segni del dolore, e per niente hanno i mali dell’animo, e questo è prova che non hanno gli animi loro alcun sentimento.

Chi può senza sentir pietà vedere un uomo nella sventura, non prenderebbe coscienza di far me sventurato.

Dice la gente: Grande crudeltà è contro gli uomini la pietà verso i malvagi. Ma non si conviene dimenticare che non ci ha ragione di rendere infelici coloro che non si possono rendere buoni, e che giusto niuno può essere se non usa umanità e compassione.

Nei mali che non hanno riparo, è una sorgente di consolazione agl’infelici l’altrui pietà, siccome quella che intende ad alleggiarli e raddolcirli, dimostrando ad essi che pur non hanno perduta appo gli altri la lor buona opinione.

[11] Par che la natura ci abbia imposto per un nostro dovere di aver degli altri compassione, quantunque ella non giovi: perciocchè ella ci ha disposti a lagrimare eziandio quei mali ai quali noi non possiamo recare alcun compenso.

Un popolo antico si mostrò ben sollecito di nudrire ed avvalorare con ordini così religiosi come civili questa felice disposizione della natura. Racconta Pausania come in Atene eravi nel foro l’ara della Pietà: e come nella Grecia a questa divinità sì necessaria agli uomini, mentre che vivono sotto la ruota della trasmutabile Fortuna, soli gli Ateniesi facevano onore. Del quale fanno menzione Euripide, Tullio, Luciano e Stazio. Quest’ultimo nel poema che egli fece della Tebaide, niun tratto ha sì bello e sì ragguardevole, come è la descrizione di questo commovente culto, la quale canta così:

(lib. XII, v. 474 e seg.).

Ebene 3► Nel mezzo alla città sorgeva un tempio,

Non dedicato ai più possenti Dei,
Ma eretto in sede alla Clemenza, e sacro
Fatto l’aveva miserabil gente.

Ognor supplici nuovi, e ognor le preci

Sono esaudite. Ognun s’ascolta: aperto
È il dì, la notte; e a mitigar la Dea
Bastano solo le querele e i pianti.

Parco n’è il culto; non l’incenso, o il sangue

Delle vittime pingui ivi s’adopra,

Son di lagrime aspersi i miti altari.

Placida selva il cinge, in cui verdeggia

Il sacro lauro e ‘l supplicante olivo.

Ma non v’è simulacro, e della Dea

Nessuna immago in vivo bronzo espressa;

Le menti e i cuori d’abitar sol gode.

Sempre di meste turbe e bisognose

E supplicanti è pieno il luogo, e solo

Ai fortunati è quell’altare ignoto.

(Trad. del Card. Bentivoglio). ◀Ebene 3 ◀Ebene 2 ◀Ebene 1