Lo Spettatore italiano: Il sedutor pentito
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Il sedutor pentito
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O quanti danni, amico mio dolce, mi diceva il giovinetto Ormondo, la
seduzione dietro si tira! Avrete voi per udita saputo, come io recai a’miei piaceri e corruppi la
figliuola di un contadino da bene, mio mezzaiuolo; e come, per tener nascosti gli effetti della
nostra usanza, io la tolsi dalla casa paterna, e nella metropoli ne la menai. Ora, conciofossechè mi
convenisse far un viaggio di tre mesi, alla fede e guardia d’un uomo e di una femmina stati gran
tempo al mio pane la commendai. Quando fui repatriato, trovai che quei disleali guardiani avevan
fatta lor propria la roba che io per servigio di lei aveva lasciata, e senza pietà l’avevano
scacciata via, nè più erano rappariti. Fui come disperato; perocchè, oltre al dolore d’aver perduta
la bellissima mia Nella, mi pungea coscienza di averla derelitta in un mar di guai. Sicchè io
compreso e infestato dai rimordimenti e dalla malinconia, avendone molto ed indarno cercato,
cominciai a fastidire la stanza della città, e me n’uscii fuora per ricogliermi alla mia villa.
Quivi nè compagnia d’amici, nè piacer di caccia, nè diletto di leggere ebbero virtù di farmi sentire
alcun conforto, o consolazione, o di operare che l’immagine della mia cara donna, fatta per mia
colpa infelice, non mi fosse sempre davanti. Anzi parendomi reamente fare, se pur
tentato avessi di sbandirla dalla mia mente, io trovava certo refrigerio nel solamente sostener le
pene che io poteva a lei aver procacciate. Il perchè ogni cosa che lei m’avesse alla memoria
tornata, m’era sommamente cara; e per più abbandonarmi al rammarico ed al dolore, d’altro non era io
vago, se non delle solinghe dimore. Avvenne che un dì ad un vallone, poche miglia al mio campestre
abituro lontano, me n’andai. Quivi l’uomo si crede diviso da tutto il mondo; sì è selvatico il
luogo: ond’io mi diedi a riguardare la contrada intorno, che mirabil cosa è a vedere, essendovi
rocce superbe e stagliate, antichissime selve e ruine d’acque smisurate. Nel profondo del burrone mi
venne un piccolo casale veduto, ricoperto presso che tutto dai circostanti alberi, e con esso una
chiesuola, cui un campanile alto soprastava. Tenni una vietta la quale al casal se ne andava: e
prima che a questa chiesa arrivassi, vidi una badia tutta caduta e disfatta, ma non sì che non
mostrasse quella più dall’umano furore che dalle ingiurie del tempo essere stata consunta. Invaghito
di considerar questo gotico monumento, smontai di sella e legai il cavallo alla inferriata del
cimiterio. Ed ecco suonò a morto la campana della chiesetta, e nell’istesso tempo m’andarono gli
occhi ad un segreto sentiero, per onde vidi venir passo passo verso la chiesa un mortorio. Avendomi
la scura solennità da ogni altro pensier dipartito, per veder trapassare la funeral processione me
ne entrai nel cimiterio. Sei donzellette bianco vestite, recando ciascuna un mazzolino
di fiori in mano, la bianca coltre, onde la semplice bara era coperta, sostenevano; ed altrettanti
garzoncelli la bara di fiori sparsa portavano. La semplicità, la divozione e la mestizia di questo
drappelletto rendevano quella vista anche più commovente. Io avvisava, quella a cui l’esequie erano
fatte, dovere alcuna figliuola essere in verde tempo dalla morte rapita; ma mi dava da maravigliar
forte il non vedere chi, di lutto vestito, lei alla sepoltura accompagnasse; perciocchè non le
veniva dietro che una piccola schiera di femmine e di fanciulli, i quali mostrava che per ventura vi
fossero concorsi. Di che io stupefatto, cominciai fra me stesso a dire: O Dio! non ha alcun
congiunto costei? Non ha ella amici? Non ha uno amante? E mentre che io volgeva in mente questi
pensieri, il mortorio trapassò a poco a poco, ed entrò nella chiesa. Allora surtomi talento
ardentissimo di sapere il nome della morta giovane, e alcuna cosa della sua fortuna, m’accontai con
una femminetta antica, la quale erbe ed altri rimedi andava su per lo cimiterio trovando, dicendole:
Avete voi veduto quell’onorevole mortorio? Per cortesia, se sapete, ditemi, non ha quella giovanetta
parenti nè amici; che io non ci veggo un abito bruno? È ella di questo contado? Oh poverella!
rispose la buona vecchia: Confido che oggimai ella goda di pace, e il suo parvoletto altresì;
perciocchè ella ed egli sono nella medesima bara; ed io che a su porveli ho dato aiuto, vi giuro che
più bei corpi e meglio fatti mai non videro gli occhi miei. Quivi mi prese, e non so
perchè, un gelo, e forte incominciai a tremare; e incitato da una forza alla qual non potei
contrastare, mi feci pure a dimandare l’antica femmina, chi quella sventurata fosse, e dove avesse
casa. Signore, mi rispose, non vi potrei dire di sua condizione: ma la mulinaia Oretta, in casa cui
ella si riparava, e tutto il contado tiene che la cattivella sia stata sedotta da alcun gran signore
e poscia abbandonata: il che, se ver fosse, sana stata opera da molto malvagio e crudel uomo. Amico
mio, oh quanto patii in quel punto! La buona femmina quante parole elle cosiffatte diceva, di tante
coltella parea che per lo petto mi desse. Dio buono! gridai dentro da me, sarebbe ella per isciagura
la mia Nella? Voi sapete che non è mestieri alla mala coscienza chi l’accusi. Pur con tremante voce
continuai: Ditemi di grazia, quant’è che ella dimorava in questo contado? non m’avete detto che
aveva un fanciullo? Io, soggiunse la vecchia, vi dirò, signor mio, tutto quello che me n’è noto. Da
forse un mese e mezzo costei ci capitò, e tolse una cameretta a pigione dalla mulinaia Oretta. Della
sua bellezza, non ostante che una fiera malinconia molto consumata l’avesse, faceva ciascun che la
vedea meravigliare. Piagneva continuo e si macerava nell’amarezza, nè a reggere la sua vita pur un
soldo si ritrovava: il che non potendo ella più celato tenere, le convenne ogni sua roba vendere; ed
io ne comperai questa crocetta; e me la porse. Non vi posso dir, caro amico, quanto mi disperassi,
ravvisando quella essere una croce la quale io con altre gioie, nel principio della
nostra dimestichezza, aveva donata alla povera mia Nella. Seguitò la vecchiarella a dimostrarmi,
come dopo infinito affanno la Nella era morta di parto, e come il fanciullo poche ore era vivuto
sopra l’infelice madre. E mentre che ella andava oltre nel raccontare, entrò il mortorio nel
cimiterio, dirizzandosi ad una fossa cavata sotto un grande albero di quercia. Gran fatto fu egli
che in sì forte punto io i miei commovimenti non manifestassi: ma dolore sentii inestimabile, quando
lessi in su la bara queste lettere: Nella~i A * * di anni diciannove, e quando lei vidi porre
sotterra. Lagrimarono e infiorarono la sepoltura le verginelle, e poscia tutta la compagnia se ne
partì. Ond’io rimaso solo, inginocchiatomi, cominciai il pianto dirotto sopra il terreno che la mia
Nella ed il figliuolo, sciagurato pegno del nostro consentito amore, copriva. Ohimè! dicendo, ohimè
lasso! non ho io morta la mia Nella? sì, son io che ti ho anzi ora inviata al sepolcro. O infelice,
tu ti tirasti sin quivi a soggiornare per la speranza di trovare in queste contrade il tuo amante, e
v’hai trovata la morte. Oh Dio! che tu ne sei andata sotterra con la certezza d’averti io
dislealmente messa in oblio, nè questo ha potuto torre che tu fino a’sospiri estremi non mi amassi.
A fatica dal dolente luogo mi divelsi, e n’andai alla casa ov’era morta la Nella, per alcuna altra
particolarità della sua fiera storia sentire. La vedovella Oretta, piangendo, mi ragionava della
dolcezza, della bontà, della costanza di questa bella giovanetta; e mi contava come
innanzi che a casa sua pervenisse, aveva avuto la Nella a sostener tutte le gravezze e li
distrignimenti della povertà: e non potendo la miserella con le proprie braccia tanto guadagnare,
quanto la sua vita sofferisse, aveva ogni sua cosa venduta, tranne un anello il quale ella diceva di
non volere a verun patto da sè partire. Ahi! che quello era l’anello il quale ella per monumento e
sicurtà del nostro inseparabil consorzio avea da me ricevuto. Voi, amico, il sapete; io non fui mai
de’disonesti e degli sfrenati, anzi ho sempre pregiata la virtù ed abborrito il vizio; non per tanto
l’essermi lasciato soggiogare ad una sconvenevole passione, vedete quanto mi fa reo! Quanti mali ho
io fabbricati! mali, oh Dio, senza redenzione! Oh! potessi almeno col pentimento purgarli! potesse
il lagrimar che io faccio sulla tua tomba, o mia Nella, il perdono delle offese che da me avesti,
impetrarmi, e far che un’occhiata di compassione e di benivoglienza tu mi conceda!