Il disinganno dell’ambizioso Giovanni Ferri di S. Costante Moralische Wochenschriften Alexandra Fuchs Editor Alexandra Kolb Editor Jürgen Holzer Editor Institut für Romanistik, Universität Graz 19.12.2016

o:mws-117-965

Ferri di S. Costante, Giovanni: Lo Spettatore italiano, preceduto da un Saggio Critico sopra i Filosofi Morali e i Dipintori de’Costumi e de’Caratteri. Milano: Società Tipografica de’Classici Italiani 1822, 342-348 Lo Spettatore italiano 2 65 1822 Italien
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Il Disinganno dell’Ambizioso

Heureux qui, satisfait de son humble fortune,Libre du joug superbe où je suis attachè,Vit dans l’etat obscur où les Dieux l’ont cachè!

Racine, trag. d’Iphigenie.

Ne’miei giovani anni, contava Piaggiro, tradito da una bella ed infedel donna, e disperato di più trovar conforto in amore, cercai la vita solitaria, disposto a dar opera a’savi studi. Nè lunga fiata io era in questa deliberazion dimorato, quando in sogno mi apparve come una Dea, in cui risplendeva, benchè mista a grave maestà, un’allettatrice bellezza. Ove vuoi tu fuggire? mi disse. Vuoi tu, per la ingratitudine d’una vil femminetta, gittar via quantunque è all’uom conceduto per divenir felice? Andrai tu vergognosamente a sotterrarti in un deserto con quell’altezza d’ingegno di cui è stato a te sì liberale il cielo? Or non sai tu in altro porre del tuo bene la speranza, se non se nella Dea di Pafo, distributrice di que’pochi e volubili diletti, i quali non meno il corpo snervano che ingrossino l’intelletto? Alla gloria, alla gloria: a lei volgiti, ed io sarò tua guida; io che ciò che voglio, posso; che sol d’un cenno edifico ed atterro i sogli a mia posta; che per miei servi tengo i re, e nominata Ambizione, sono di tutto il mondo imperadrice.

Scosso io da cosiffatta visione, mi diedi a bilanciar con la mente il testè preso consiglio. È pur l’ambizione, dissi fra me stesso, la passion de’magnanimi e de’valorosi. Bello e piacevole è il meritar la pubblica stima virtuosamente operando, e l’eternare suo nome recando beneficii all’uman genere. In su queste immaginazioni riscaldato, e per fermo avendo la via dell’ambizione guidare così alla virtù come alla gloria, volte le spalle alla campagna, ne venni alla Corte. A volere entrar nel campo d’onore, fu mestieri parimente di essere gradito da coloro che alluogati erano in quelle cariche e dignità alle quali io aspirava. Bisognò adulare i miei fautori, e il loro umor sostenere coi lor dispregi, e le lor turpitudini idolatrare e secondare le loro scelleratezze. Ahimè, a che mortificazioni fui io sottomesso ed umiliato per un buon viso, od un ghigno che m’era alcuna volta fatto! A prima giunta m’eran sì amare e gravose a comportare, che io parecchie fiate fui in su lo abbandonare la Corte; se non che mi facea ogni veleno ingozzare la viltà nella quale io veniva a cadere, se mi fossi arrenduto a simiglianti malagevolezze, contra il costume de’sinceri amanti della gloria, i quali seppero superarle. Queste furon l’arti e gl’inganni onde il mio amor proprio mi fece nel mio proponimento ostinare; alla quale ostinazione porse alimento la vergogna di lasciar la palma agli emuli miei, ovvero di udirmi accusare d’insufficienza e di pusillanimità nell’altera impresa.

Deliberato di tener dietro alla cagion della mia ambizione, feci il callo agli scherni ed agli insulti, e posi in disparte schiettezza ed innocenza, le due amorose sorelle, nel cui luogo accolsi la lusinga e l’astuzia. Non andò guari che seppi assai ben parere ammirator di quelli che io fra me condannava; ed a meglio acquistare la loro grazia, non mi vergognai di avere con essi comuni i più infami piaceri. Vinte alla fine tutte le contraddizioni atte a sgomentare qualunque saldissima pazienza, ma che altro non fecero se non che assodar la signoria della mia cupidigia, montai in grande stato alla Corte. Ma non furono per questo compiuti i miei desiderii; onde drizzai l’animo a più alto grado, e di quel che io teneva m’increbbe. Che luogo è questo in ch’io seggo, dissi con meco, dove nè gran potenza è, nè arbitrio? Che se ne può trarre di bene? qual nome averne? — In tal guisa, sotto spezie di laudevoli avvisi, l’amor proprio mi veniva di una sfrenata ambizione infiammando.

E volendo ottenere il mio intento, dandomi un’altra volta attorno, mi trovai aperte più brevi ed agevoli strade di prima, per la grande esperienza che le mi avea mostrate: nè macchinamenti, nè sollecitudini, nè cure, nè accorgimenti lasciai indietro, fin che ebbe vittoria l’importunità mia, e fui sollevato ad un officio potentissimo, e della sovrana rappresentanza fornito. Qui doveva io aver tocco il segno della mia ambizione, veggendomi posare in sul desiderato seggio, e starmivi e goderne tranquillamente. Ma quando mai si sentì sazia l’ambizione? In prima quello che m’avea messo brama delle sublimi dignità, cioè la volontà di far pro altrui, cominciommisi ad ammorzare, non altrimenti che se l’aver conseguita la potenza di farlo, me ne avesse distrutta l’intenzione. E quindi posi il cuore a più alte cose. Splendido è il poter promovere la fortuna di tutto un popolo, discorsi io meco stesso; per indi si va diritto ad immortalar sua fama e suo onore. O fortunato a cui incontra poter sedere a governo dello Stato, e reggere e comandare per un fortissimo principe!

Questa fantasia m’innebriò per modo ch’io ni attentai di avere l’officio del maggior ministro, il quale tenevalo ed esercitava secondo la dignità e l’importanza: ed io, con altri ambiziosi e malcontenti, gli cominciai a far contro, ed a contaminar l’onor suo, non ostante che io avessi da lui conosciuta l’esaltazion mia: senza sentire od attendere l’atrocità dell’atto ingratissimo ch’io commetteva, feci ogni opera ed ogni arte ad abbatterlo e spogliarnelo. E conciofossechè i comuni maneggi di Corte non potessero a’miei disegni rispondere, io ordinai una congiura per ribellargli lo Stato, e seminare scandali ed esca ad una civil divisione. Fu talora che la coscienza mi rimorse di questi rei proponimenti, e mi garrì che quello non fosse viaggio da tenere a divenir utile alla patria; anzi mi condurrebbe ad essere un traditore ed un parricida. Sciocchi rimorsi son questi, rispondeva l’ambizione, e convenienti ai vulgari, non a chi intende a fama gloriosa, non a’miei seguaci i quali trascendono le leggi della grossa gente, calcando l’opinion degl’ingannati, che tra i deboli ha nome sentimento di natura.

In questa guisa sopprimendo io i richiami della coscienza, e disposto di voler del tutto tener dietro all’ambizione, avvenne che non antiveduto accidente ruppe nel mezzo le cose. L’uno de’capi della congiura, per acquistar con la tradigione merito e grazia, manifestò le mie male pratiche; e di subito io fui dalla mia dignità scosso e traboccato. Già mi sentia tutto agghiacciar dalla paura, non rigidamente fusse contro me proceduto: ma colui al quale io invidiava ed insidiava, con magnanimità maggior della mia sconoscenza, m’impetrò perdono appo il Re, nè mi fe’ provare altro gastigo che quello di dovermene andare in bando nelle mie possessioni.

Ora se mi fu a sopportar gravosa e dolente la mia disavventura, non è da dimandare. Vennemi cento volte bestemmiata quella fortuna, la qual m’avea eretto in su, per farmi ruinar più da alto. Oh bile! oh rabbia! oh furie! Pentimenti del passato, rimordimenti del presente, disperazione del futuro! Mi si facevano innanzi alla mente il riso e la letizia che io aveva destata ne’miei rivali, i quali avranno fatto festa della mia ruina, e fieno stati peravventura assunti al mio grado. Mettevami spavento la solitudine che m’era posta per pena: non mi vidi più attorno i lusinghevoli e cupidi miei cortigiani: ed essendo io costumato solamente con fallaci ed avare amicizie, mi trovai quivi a solo a solo con meco, senz’altro compagnia, e non rinveniva pace nè conforto.

Io non credetti, in questo vedovo esiglio, che più miseri di me ci vivessero, nè che mi potesse consolazione sopravvenir mai, o ristoro elle perdite avute nelle faccende della mia ambizione. Nondimeno poco più stette, che il dolor de’miei mali mi rimise gli occhi dello ‘ntelletto e disperse gl’incantamenti dell’amor proprio. Vidi allora che io era de’mortali, e mi ritrovava per mezzo ai par miei, i quali non godevano, come io godea, de’favori della fortuna, e stentavano nella miseria e nell’afflizione. Quindi sentii il più dolce affetto nascermi nel cuore, e provai la gioia di avere altrui compassione e di porgere refrigerio agli infelici. — Oh! benedetta la fortuna, diss’io, che m’ha fatto sentire de’suoi crudi colpi, a’quali son io tenuto di questa pietà, e di questa pace e dolcezza dell’anima! Che se io non fossi mai stato sventurato, non sarei stato mai noto a me stesso. E chi sa tra quali sogni e fantasmi avrei errato mai sempre? chi sa quanto avrei dì e notte noiato me, per dar noia altrui? Or sono io franco e sicuro, e fuor di sospetto, lungi dall’invidia e salvo dalle frodi: ora pratico la beneficenza, e non temo di nuocere altrui, o di crear co’beneficii gl’ingrati. Qui trovo amici sinceri che m’amano a fede e mi benedicono, e col solo aspetto mi ricreano e mi contentano. E quante volte avviene che io ripensi che potea sempre di questa felicità godere tante mi meraviglio che io abbia potuto per elezione abbandonarla, per seguire ombre e fumi di gloria e d’onore. Conoscomi tuttavia obbligato all’ambizione, a cui da schiavo già servii, perch’ella m’ha del suo male guarito.

Il Disinganno dell’Ambizioso Heureux qui, satisfait de son humble fortune,Libre du joug superbe où je suis attachè,Vit dans l’etat obscur où les Dieux l’ont cachè! Racine~k, trag. d’Iphigenie. Ne’miei giovani anni, contava Piaggiro, tradito da una bella ed infedel donna, e disperato di più trovar conforto in amore, cercai la vita solitaria, disposto a dar opera a’savi studi. Nè lunga fiata io era in questa deliberazion dimorato, quando in sogno mi apparve come una Dea, in cui risplendeva, benchè mista a grave maestà, un’allettatrice bellezza. Ove vuoi tu fuggire? mi disse. Vuoi tu, per la ingratitudine d’una vil femminetta, gittar via quantunque è all’uom conceduto per divenir felice? Andrai tu vergognosamente a sotterrarti in un deserto con quell’altezza d’ingegno di cui è stato a te sì liberale il cielo? Or non sai tu in altro porre del tuo bene la speranza, se non se nella Dea di Pafo, distributrice di que’pochi e volubili diletti, i quali non meno il corpo snervano che ingrossino l’intelletto? Alla gloria, alla gloria: a lei volgiti, ed io sarò tua guida; io che ciò che voglio, posso; che sol d’un cenno edifico ed atterro i sogli a mia posta; che per miei servi tengo i re, e nominata Ambizione, sono di tutto il mondo imperadrice. Scosso io da cosiffatta visione, mi diedi a bilanciar con la mente il testè preso consiglio. È pur l’ambizione, dissi fra me stesso, la passion de’magnanimi e de’valorosi. Bello e piacevole è il meritar la pubblica stima virtuosamente operando, e l’eternare suo nome recando beneficii all’uman genere. In su queste immaginazioni riscaldato, e per fermo avendo la via dell’ambizione guidare così alla virtù come alla gloria, volte le spalle alla campagna, ne venni alla Corte. A volere entrar nel campo d’onore, fu mestieri parimente di essere gradito da coloro che alluogati erano in quelle cariche e dignità alle quali io aspirava. Bisognò adulare i miei fautori, e il loro umor sostenere coi lor dispregi, e le lor turpitudini idolatrare e secondare le loro scelleratezze. Ahimè, a che mortificazioni fui io sottomesso ed umiliato per un buon viso, od un ghigno che m’era alcuna volta fatto! A prima giunta m’eran sì amare e gravose a comportare, che io parecchie fiate fui in su lo abbandonare la Corte; se non che mi facea ogni veleno ingozzare la viltà nella quale io veniva a cadere, se mi fossi arrenduto a simiglianti malagevolezze, contra il costume de’sinceri amanti della gloria, i quali seppero superarle. Queste furon l’arti e gl’inganni onde il mio amor proprio mi fece nel mio proponimento ostinare; alla quale ostinazione porse alimento la vergogna di lasciar la palma agli emuli miei, ovvero di udirmi accusare d’insufficienza e di pusillanimità nell’altera impresa. Deliberato di tener dietro alla cagion della mia ambizione, feci il callo agli scherni ed agli insulti, e posi in disparte schiettezza ed innocenza, le due amorose sorelle, nel cui luogo accolsi la lusinga e l’astuzia. Non andò guari che seppi assai ben parere ammirator di quelli che io fra me condannava; ed a meglio acquistare la loro grazia, non mi vergognai di avere con essi comuni i più infami piaceri. Vinte alla fine tutte le contraddizioni atte a sgomentare qualunque saldissima pazienza, ma che altro non fecero se non che assodar la signoria della mia cupidigia, montai in grande stato alla Corte. Ma non furono per questo compiuti i miei desiderii; onde drizzai l’animo a più alto grado, e di quel che io teneva m’increbbe. Che luogo è questo in ch’io seggo, dissi con meco, dove nè gran potenza è, nè arbitrio? Che se ne può trarre di bene? qual nome averne? — In tal guisa, sotto spezie di laudevoli avvisi, l’amor proprio mi veniva di una sfrenata ambizione infiammando. E volendo ottenere il mio intento, dandomi un’altra volta attorno, mi trovai aperte più brevi ed agevoli strade di prima, per la grande esperienza che le mi avea mostrate: nè macchinamenti, nè sollecitudini, nè cure, nè accorgimenti lasciai indietro, fin che ebbe vittoria l’importunità mia, e fui sollevato ad un officio potentissimo, e della sovrana rappresentanza fornito. Qui doveva io aver tocco il segno della mia ambizione, veggendomi posare in sul desiderato seggio, e starmivi e goderne tranquillamente. Ma quando mai si sentì sazia l’ambizione? In prima quello che m’avea messo brama delle sublimi dignità, cioè la volontà di far pro altrui, cominciommisi ad ammorzare, non altrimenti che se l’aver conseguita la potenza di farlo, me ne avesse distrutta l’intenzione. E quindi posi il cuore a più alte cose. Splendido è il poter promovere la fortuna di tutto un popolo, discorsi io meco stesso; per indi si va diritto ad immortalar sua fama e suo onore. O fortunato a cui incontra poter sedere a governo dello Stato, e reggere e comandare per un fortissimo principe! Questa fantasia m’innebriò per modo ch’io ni attentai di avere l’officio del maggior ministro, il quale tenevalo ed esercitava secondo la dignità e l’importanza: ed io, con altri ambiziosi e malcontenti, gli cominciai a far contro, ed a contaminar l’onor suo, non ostante che io avessi da lui conosciuta l’esaltazion mia: senza sentire od attendere l’atrocità dell’atto ingratissimo ch’io commetteva, feci ogni opera ed ogni arte ad abbatterlo e spogliarnelo. E conciofossechè i comuni maneggi di Corte non potessero a’miei disegni rispondere, io ordinai una congiura per ribellargli lo Stato, e seminare scandali ed esca ad una civil divisione. Fu talora che la coscienza mi rimorse di questi rei proponimenti, e mi garrì che quello non fosse viaggio da tenere a divenir utile alla patria; anzi mi condurrebbe ad essere un traditore ed un parricida. Sciocchi rimorsi son questi, rispondeva l’ambizione, e convenienti ai vulgari, non a chi intende a fama gloriosa, non a’miei seguaci i quali trascendono le leggi della grossa gente, calcando l’opinion degl’ingannati, che tra i deboli ha nome sentimento di natura. In questa guisa sopprimendo io i richiami della coscienza, e disposto di voler del tutto tener dietro all’ambizione, avvenne che non antiveduto accidente ruppe nel mezzo le cose. L’uno de’capi della congiura, per acquistar con la tradigione merito e grazia, manifestò le mie male pratiche; e di subito io fui dalla mia dignità scosso e traboccato. Già mi sentia tutto agghiacciar dalla paura, non rigidamente fusse contro me proceduto: ma colui al quale io invidiava ed insidiava, con magnanimità maggior della mia sconoscenza, m’impetrò perdono appo il Re, nè mi fe’ provare altro gastigo che quello di dovermene andare in bando nelle mie possessioni. Ora se mi fu a sopportar gravosa e dolente la mia disavventura, non è da dimandare. Vennemi cento volte bestemmiata quella fortuna, la qual m’avea eretto in su, per farmi ruinar più da alto. Oh bile! oh rabbia! oh furie! Pentimenti del passato, rimordimenti del presente, disperazione del futuro! Mi si facevano innanzi alla mente il riso e la letizia che io aveva destata ne’miei rivali, i quali avranno fatto festa della mia ruina, e fieno stati peravventura assunti al mio grado. Mettevami spavento la solitudine che m’era posta per pena: non mi vidi più attorno i lusinghevoli e cupidi miei cortigiani: ed essendo io costumato solamente con fallaci ed avare amicizie, mi trovai quivi a solo a solo con meco, senz’altro compagnia, e non rinveniva pace nè conforto. Io non credetti, in questo vedovo esiglio, che più miseri di me ci vivessero, nè che mi potesse consolazione sopravvenir mai, o ristoro elle perdite avute nelle faccende della mia ambizione. Nondimeno poco più stette, che il dolor de’miei mali mi rimise gli occhi dello ‘ntelletto e disperse gl’incantamenti dell’amor proprio. Vidi allora che io era de’mortali, e mi ritrovava per mezzo ai par miei, i quali non godevano, come io godea, de’favori della fortuna, e stentavano nella miseria e nell’afflizione. Quindi sentii il più dolce affetto nascermi nel cuore, e provai la gioia di avere altrui compassione e di porgere refrigerio agli infelici. — Oh! benedetta la fortuna, diss’io, che m’ha fatto sentire de’suoi crudi colpi, a’quali son io tenuto di questa pietà, e di questa pace e dolcezza dell’anima! Che se io non fossi mai stato sventurato, non sarei stato mai noto a me stesso. E chi sa tra quali sogni e fantasmi avrei errato mai sempre? chi sa quanto avrei dì e notte noiato me, per dar noia altrui? Or sono io franco e sicuro, e fuor di sospetto, lungi dall’invidia e salvo dalle frodi: ora pratico la beneficenza, e non temo di nuocere altrui, o di crear co’beneficii gl’ingrati. Qui trovo amici sinceri che m’amano a fede e mi benedicono, e col solo aspetto mi ricreano e mi contentano. E quante volte avviene che io ripensi che potea sempre di questa felicità godere tante mi meraviglio che io abbia potuto per elezione abbandonarla, per seguire ombre e fumi di gloria e d’onore. Conoscomi tuttavia obbligato all’ambizione, a cui da schiavo già servii, perch’ella m’ha del suo male guarito.