Citation: Giuseppe Baretti (Ed.): "Numero XXV", in: La Frusta letteraria di Aristarco Scannabue, Vol.5\25 (1765), pp. 1044-1085, edited in: Ertler, Klaus-Dieter / Fuchs, Alexandra (Ed.): The "Spectators" in the international context. Digital Edition, Graz 2011- . hdl.handle.net/11471/513.20.959 [last accessed: ].


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N. XXV.

Roveredo 15 gennajo 1765.

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Diceria di Aristarco Scannabue da recitarsi nell’Accademia della Crusca, il di che sarà ricevuto accademico.

Fra le innumerabili opinioni false che nella nostra sapiente Italia sono universalmente adottate per vere, non è la meno falsa quella che tutti abbiamo intorno alla lingua nostra, che da noi tutti è senza il minimo scrupolo giudicata superiore in bellezza a tutte le lingue viventi, e pareggiata eziandio con molto audace franchezza alla lingua latina e alla lingua greca.

Metatextuality► Come questa falsa opinione sia nata e cresciuta, e come si sia finalmente fatta universale nella nostra Italia, io l’anderò toccando in questo ed in qualch’altra mia futura diceria, e mi sforzerò al mio solito di rettificare il cervello de’miei dolci paesani, mostrandone loro con tutta evidenza la falsità, e provando loro che la lingua nostra non è, e non può essere neppur uguale non che superiore alle due famose viventi, la francese e l’inglese. ◀Metatextuality

La bellezza d’una lingua nessuno mi [1045] vorrà negare che non consista prima di tutto nell’abbondanza de’suoi vocaboli. Dunque (mi risponderà con troppa fretta qualche dabben uomo), dunque la disputa è finita, perchè basta gittar l’occhio sui vocabolarj delle tre lingue per tosto decidere che la lingua nostra è più bella che non alcuna di quelle due, apparendo da que’tre vocabolarj ch’ella è più copiosa di vocaboli che non alcuna di quelle due. Non concedi tu, Aristarco, che il Vocabolario della Crusca contiene quarantaquattro mila vocaboli, vale a dire quattro mila vocaboli più che non ne contengono e il Dizionario di Samuello Johnson, e quello dell’Accademia francese?

Questo è verissimo, signori miei. Il Vocabolario della Crusca contiene quattro mila vocaboli più che non contengono que’due. Nulladimeno piacciavi osservare che de’vocaboli registrati nella Crusca noi non facciamo uso, e nel nostro discorso e nel nostro scrivere, che di due terzi al più, e che gl’Inglesi e i Francesi, vuoi ne’loro scritti o vuoi ne’loro parlari, adoprano quasi ogni parola registrata in que’Vocabolarj loro.

Che i Francesi facciano così com’io dico, non occorre provarlo, essendo cosa notissima a chiunque è a mala pena iniziato in quelle lingue. E che gl’Italiani non adoprino un buon terzo de’vocaboli [1046] che sono registrati nella Crusca, è cosa facilissima a provarsi; poichè basta scorrere soltanto sulle quattro prime pagine di quella Crusca, e tosto la proposizione sarà trovata innegabilmente vera. Chi è di noi che ardisca dire o scrivere « a babboccio, abbacare, abbachiera, abbachiere, abbadiuola, abbaglianza, abbagliore, abbajatorello, abbandonante, abbarcare, abbarrare, abbassagione, » e tant’altri o troppo antichi, o troppo bassi, o troppo sconci, o troppo fiorentini vocaboli? Mettiamoci un poco a purgare quel nostro stupendo Vocabolario, anzi pure la sua sola prima lettera, spogliandola di tutti i vocaboli che non occorreva sott’essa registrare. Togliamo un poco a quella prima lettera tutti i suoi nomi superlativi, come « abbagliatissimo da abbagliato, abbandonatissimo da abbandonato, abbiettissimo da abbietto », ed altre simili parole che tutti sappiamo formare da’nomi positivi senza il magro ajuto de’signori cruscanti: togliamole un poco tutti i vocaboli invecchiati, come « abbiendo, abbiente, abbientare, abbo, abblasmare, » e simili: togliamole un poco tutti i vocaboli che hanno bisogno d’un commento lungo un miglio tosto che sono pronunciati fuori delle porte di Firenze, come « abbondanziere, abburattatore, affettatore, aggiustatore, » e simili: togliamole [1047] un poco tutti i vocaboli formati a capriccio da pedanteschi scrittori per contrapporli traducendo a de’buoni vocaboli d’altre lingue, come « accoltellatore, accoltellante, » e simili: togliamole un poco tutti i vocaboli duplicati, e talora triplicati in favore forse delle diverse pronuncie di Toscana, come abbadessa, che ha per equivalente « abadessa e badessa; abbastanza, che ha per equivalente a bastanza, » e simili: togliamole un poco tutti i vocaboli de’battilani di Camaldoli e de’trecconi di Mercato Vecchio, come « a bambera, abbiosciare, abbominoso, abbondoso, » e simili: togliamole un poco tutti i vocaboli de’contadini, come « a bacìo, abbatacchiare, abbatuffolare, » e tant’altri posti quivi in grazia solo d’alcune poche composizioncelle scritte in lingua rustica fiorentina, o pratese, o montelupiana, o poggiocajana: e finalmente togliamole un poco tanti vocaboli sporchi, e canaglieschi, e infamissimi, che furono con troppo biasimevole disprezzo del buon costume ficcati e in quella e in tutte l’altre lettere dell’alfabeto (scusatemi se non dico abbiccì) da’costumatissimi signori accademici. Vogliamo noi dire, padroni miei, che tolte tutte queste perle e tutti questi rubini da quel Vocabolario, si rimarrà tuttavia più ricco di quello di Johnson e di quello dell’Accademia fran-[1048]cese? Misera lingua toscana o tosca, io ho gran paura che togliendoti tutte queste belle ricchezze rimarresti molto pitocca al paragone di quelle due rivali! Or comincia a vedere se hai ragione di metterti anche più su della latina e della greca, come hai sfacciatamente fatto tante e tante volte mercè le penne de’tuoi Buonmattei, de’tuoi Dati, de’tuoi Salviati, de’tuoi Salvini, de’tuoi Crescimbeni, de’tuoi Orsi, de’tuoi Maffei e de’tant’altri tuoi ciancioni, che basta ti chiamino lingua più bella d’ogn’altra lingua perchè tosto sieno da te decorati con mille onorificentissimi appellativi.

Ma giacchè sono a dire di quel registro di vocaboli toschi tanto venerato dalla sapiente Italia, come non si vergognarono i suoi compilatori di cavar il titolo d’un libro sommamente importante di sua natura e necessario ad ogni paese, da un puerile concettuzzo sopra uno stromento che serve a separare la farina dalla crusca? Potevano le signorie loro mostrarsi più ragazzesche di quello che hanno fatto, rendendo solenne e serio uno scherzo miserabilissimo sopra un buratto? Oh possanza di menti quasi divine, che dopo un lungo e profondissimo speculare trovarono finalmente che un’accademia s’assomiglia a un buratto, e che i buoni vocaboli d’una lingua s’assomigliano tanto alla farina [1049] quanto i cattivi alla crusca! Gridiamo evviva a quegl’intelletti acuti, che rendendo seria e solenne questa arlecchinesca freddura, furono cagione che altri intelletti acuti non meno de’loro cavarono poi tant’altre sottilissime sottigliezze dallo staccio, dalla tramoggia, dal frullone, e da altre parti di quel glorioso strumento!

Qual maraviglia è dunque, signori miei, se gente capace di render serio e solenne un così povero concettuzzo, non ebbe poi tanto discernimento da vedere che i nomi superlativi era cosa inutile il registrarli nel vocabolario loro? Se non seppero scorgere che i vocaboli invecchiati non occorreva alfabetarli quivi, poichè il farne uso non ci è, e non ci dev’essere concesso? qual maraviglia se non s’avvidero che i vocaboli puramente fiorentini, e quelli del contadiname di Fiesole e di Mugello non s’avevano a considerare come pezzi della nostra lingua universale? E se non si fecero coscienza di ricogliere pe’viottoli o pe’postriboli della città loro tanti vocaboli sporchi, e canaglieschi, e infami infamissimi? Questa, padroni miei, questa era la crusca che doveva essere separata dalla farina da que’barbuti patrassi, che senza legittimo diritto si crearono sovrani d’una lingua parlata da una nazione così numerosa qual è quella che abita dall’orlo sino alla punta di quel bellissimo stivale chiamato Italia!

[1050] Non è però ch’io voglia con questo mio dire far intendere ad alcuno, che le più belle ricchezze della lingua d’Italia non s’abbiano a cercare nella Toscana, e specialmente in Firenze, e più specialmente ancora nel vocabolario della Crusca. Io concedo che nelle città di Toscana, e massime in quella di Firenze, si parlano de’dialetti più corretti, più eleganti e più scrivibili, che non nelle città del Piemonte, della Lombardia, dello Stato Veneto, della Romagna, del Regno di Napoli, e d’altre parti d’Italia. Io concedo altresì, e senza la minima difficoltà, che il Vocabolario della Crusca è il più ampio registro alfabetico da noi posseduto delle parole che devono entrare nella composizione della lingua universale d’Italia, vale a dire in quella de’nostri libri: ma con pace d’ogni Toscano e d’ogni Fiorentino, e di ciascun’ombra (ora che sono tutti morti) di questi accademici che hanno compilato quel registro, io dico che quegli accademici, e i Toscani tutti, senza eccettuare nè Fiorentini, nè Sanesi, dissero e dicono molto male quando dissero e dicono che nel loro paese sta unicamente di casa quella lingua che dev’essere adoperata ne’libri nostri, perchè le lingue non si devono adoperare nello scrivere i libri delle nazioni, non devono essere dialetti particolari di questa e di [1051] quella città, ma devono veramente essere lingue universali a tutto quell’ampio tratto di paese, i di cui abitanti s’intendono dal più al meno senza che uno si sconci a studiare il dialetto dell’altro.

Che questa sia l’idea che noi dobbiamo avere della lingua d’adoperarsi ne’libri, basta osservare che nè in Parigi nè in altra terra di Francia si parla la lingua pretta e schietta de’libri francesi, e che nè in Londra, nè in altra terra della Gran Bretagna si parla la lingua pretta e schietta de’libri inglesi: nè credo che alcuno vorrà mai dire che in Atene o in altra terra greca si parlasse la lingua che scrissero gli Omeri, i Platoni, i Demosteni, gli Aristoteli, i Plutarchi, e finalmente tanti santi padri greci: nè credo che alcuno si vorrà persuadere che in Roma antica, o in altra parte dell’antica Italia, la gente favellasse con quell’abbondanza, con quella pulizia, con quella forza e con quell’ordine che troviamo negli scritti de’Cesari, de’Ciceroni, degli Orazj e de’Virgilj.

La lingua dunque de’libri d’una nazione è stata sempre alquanto diversa da quella che si parla da questo e da quell’altro parlicolar corpo di quella nazione: è stata sempre una lingua più copiosa che non il parlar comune d’alcuno di que’corpi considerato separatamente: è sem-[1052]pre stata una lingua più artificiosa: è stata sempre una lingua formata con tutto quell’ordine grammaticale di cui è possibilmente suscettibile: è sempre stata una lingua atta ad esprimere egualmente cose piane, e cose astruse; cose sublimi, e cose basse; cose serie, e cose burlesche; cose grandi, e cose piccole; cose di tutte l’arti, cose di tutte le scienze, cose di tutti i paesi, e cose in sostanza di tutte le cose. E questo è stato l’errore, e lo è tuttavia, de’nostri principali cruscanti, che essendo stati ed essendo attualmente Fiorentini per la più parte, pretesero e pretendono costringerci a scrivere null’altro che quella lingua che è propia delle genti della loro città, volendo farci adottare non solo ogni paroluzza che esce attualmente dalle bocche di quelle genti, ma sino ogni minimo ette trovato da essi in que’tanti loro antichi meschinissimi scrittorelli, che scrissero appunto come si parlava comunemente nella loro città, e da essi stessi, vale a dire non solo senza criterio e senza dottrina alcuna, ma anche in modo assolutamente goffo e plebeo.

E di fatto che diavolo sono stati mai, considerandoli come scrittori, que’loro frati Giordani, o frati Jacoponi, verbi grazia, che « prediconno quale in santa Liparata il dì di Berlingaccio, quale in nostra donna dell’Impruneta, o della ‘m-[1053]pruneta la mattina del Ferragosto, e quale al ponte Santatrìnita la sera di Befania? » Che hanno che fare colla lingua universale d’Italia queste cacherie fiorentine? E che diavolo furono mai que’loro Arrighetti e que’loro Amaretti, non so « se notai del comune, o araldi della signoria, che nelle loro informi cronache ne dissono come lo re Lisandro Macedonio giva per Babillona a cavallo un cavallo appellato Bucifalasso; o che fu in Creta una Fata dagli occhi d’oro, chiamata Drianna, che cavò uno re chiamato Tisero dell’Arbintro periglioso? » Questo linguaggio è linguaggio da mettersi in bocca a un cruscante in commedia, ma non è linguaggio da considerarsi come parto di quella rispettabile lingua italiana che deve formare i nostri libri. E che diavolo furono mai que’tanti messeri Ricardacci, e que’tanti Seri Semintendi, e que’tanti maestri Aldobrandini, e que’tant’altri antichissimi non meno che ignorantissimi scrittori, che sono stati dati all’Italia per modelli di bello e corretto scrivere da que’signori accademici Requiescant? Si fossero almeno contentate le lor signorie illustrissime di amichevolmente consigliarci a leggere quelle insulse leggende per curiosità, oppure anche per imparare da esse come si ha a scrivere quando si vuole scrivere con volgarissima semplicità ogni volta [1054] che ne occorra, come talvolta avviene, di scrivere cose volgarissime. Ma darceli per modelli e per esemplari della pura e vera lingua nostra? Ci burliamo noi? I modelli della lingua latina sono i Cesari, i Ciceroni, i Sallustj, i Livj, gli Orazj e i Virgilj. I modelli della greca sono gli Omeri, i Pindari, gli Anacreonti, i Sofocli, gli Euripidi, i Platoni, i Demosteni e gli Aristoteli. I modelli della Francese sono i Cornelj, i Racini, i Molieri, i Boileau, i Bordaloue, i Bossuet, i Pascal e le Sevignè. I modelli della Inglese sono i Clarendon, i Temple, gli Addison, i Swift, i Pope, i Tillotson e i Locke; nomi tutti chiari chiarissimi in molte parti del mondo, e venerandi, e venerati da tutti gli uomini che partecipano poco del pappagallo e della scimia; e i modelli della lingua italiana saranno que’Seri cionni di que’Seri Amaretti e di que’Seri Arrighetti che narravano le folle della fata Drianna e del cavallo Bucifalasso? E noi annovereremo tra i nostri autori di lingua una caterva di notaj, di barbieri, di bottai, di falegnami e d’altra cotal gentaglia? E il « Pecorone, e il Rosajo della vita, e il Volgarizzamento degli ammaestramenti e sanità, e i Capitoli della Compagnia de’Disciplinanti, e il Trattato delle trenta Stoltizie, » e mill’altre spregevolissime favate di tal sorta, faranno da noi [1055] dare ad un secolo il titolo di buono per antonomasia? Questi, cospetto di Bacco, saranno i veri testi della lingua, che s’ha a scrivere dagli scrittori della nostra nazione? E l’accademico Smunto, o il Rimenato; e l’accademico Guernito, o lo Stritolato; e l’accademico Inferigno, o il Rifiorito; e l’accademico infiammato, o l’Infarinato ne verranno ad infinocchiare con elogj e panegirici al purgatissimo, incomparabilissimo inarrivabilissimo scrivere di quegli antichi ignoranti barbogi? E la lingua scritta in tempi affatto barbari, e privi totalmente di scienza e di critica sarà lingua da competere non solo colle lingue scritte dai Bossuet e dai Tillotson, ma ancora da pareggiarsi con quell’altre scritte dai Ciceroni, e dai Demosteni? Oh signori Infarinati, e Smunti, e Guerniti, e Stritolati, e voi tutti che vi siete cacciati addosso que’fanciulleschi e matti nomi, che capriccio è stato questo? Anzi pure che ignoranza o pazzia è stata mai quella, che v’indusse a volerci far bere così spietatamente grosso? Oh gli amplissimi vocabolari che avrebbero altresì i Francesi e gl’Inglesi, se in quello di Francia si fossero anche registrate tutte le parole usate da Amiot, da Rabelais, da Comines e da Montaigne; e se quello d’Inghilterra fosse stato impinguato da tutte quelle usate da Jeoffroy di Mon-[1056]mouth, da Gower, da Chaucer, da Caxton e da tant’altri loro antichi scrittori!

Ma piano un poco, Aristarco mio, con questi nostri autori del secolo buono per antonomasia, che fra di essi v’è pure un tal Giovanni Boccaccio, al quale per Santa Nafissa non si vergognerebbero far di berretta non solo i tuoi Bossuet, e i Racini, ma eziandio i Ciceroni, e i Demosteni medesimi! Lo sai tu, arcigno criticastro, chente Cotestui valesse? Lo sai tu che questo Messere fu il più copioso, il più corretto, il più elegante, il più dotto, il più maraviglioso scrittore che mai calcasse terra da qui sino agli antipodi? Accoccala anche al Boccaccio se ti basta la vista.

Poh, signori miei! Ora sì, che l’avete trovato il vitello d’oro, a cui mi butto ginocchioni immediate! Sì, signori; io chino il capo umilmente a questo immortale Certaldese, e confesso che ammiro con la più profonda venerazione la sua Marchesana di Monferrato con le sue Galline; i suoi Giudici divoti del Barbadoro; i suoi Martellini infinti femmine; i suoi Re del Garbo che si prendono per pulzelle le figlie de’Soldani; i suoi Ortolani da Lamporecchio con le lor Monache; i suoi Agilulfi che tondono que’che dormono; i suoi Calandrini con le loro Elitropie, e tant’altre sue stupende fila-[1057]strocche tutte giovevolissime a purgar il mondo de’suoi vizj, e rendere gli uomini onesti e garbati, a rischiarar l’ingegno, e a perfezionar l’intelletto. Ma, signori miei, riguardo al suo modo d’esprimere le cose, bisogna ch’io vi dica schiettamente, e senza ironia, ch’io mi vergognai sempre un poco di star a detta altrui, e massime de’nostri cruscanti; e che non posso considerare ogni punto ed ogni virgola del Boccaccio come tanti pezzi d’oro del Perù, o come tanti diamanti di Golconda. E come si può mai fare a credere che un uomo nato in un secolo affatto barbaro, o poco meno che barbaro, abbia potuto recare alla perfezione più perfetta la lingua della nostra nazione? Che un pedestre imitatore delle trasposte frasi d’una lingua morta abbia a esser riputato come l’unico e il principal originale della sua? Il Boccaccio, e lo dico senza baja, aveva forse più sapere in capo che non alcuno de’suoi contemporanei: il Boccaccio aveva un ingegno bastevolmente acuto, ed era dotato d’una immaginazione assai viva: il Boccaccio ebbe dell’eloquenza molta e dell’altre doti necessarie a formare un buono scrittore. Con tutto ciò il Boccaccio, senza sua colpa però, è stato la rovina della lingua d’Italia, anzi è stato la cagione primaria che l’Italia non ha ancora [1058] una lingua buona ed universale perchè alcuni scrittori, che gli succedettero da vicino, e poi gli Accademici della Crusca, invaghiti del suo scrivere, che a ragione trovarono il migliore di quanti se n’erano visti sino a’dì loro, e rapiti fors’anco più del bisogno delle sue tante scostumatezze, che un tempo furono il pascolo d’ogni bello spirito italiano, l’andarono d’anno in anno, e di età in età celebrando tanto, che finalmente si stabilì l’opinione universale, o per dir meglio l’universal errore, che il Boccaccio in fatto di lingua e di stile sia impeccabile impeccabilissimo, e per conseguenza che chi vuole scriver bene in italiano deve scrivere come il Boccaccio.

Vomitato questo enorme sproposito da un’immensa turba di famosi latinisti, che appunto ammirarono il Boccaccio perchè lo scorsero un servile imitatore de’Latini nel suo scrivere toscano, non è da stupirsi se gli Accademici della Crusca succeduti tanto d’appresso a que’famosi latinisti, si conformarono al sentimento di quelli, e se ne lo diedero pel più perfetto esemplare di scrivere che s’abbia o che mai possa aversi in Italia. Ed è meno ancora da stupirsi, se il più degli uomini, che sono per natura pigri di mente come di corpo, e sempre più disposti a credere che non a far la fatica d’esaminare; non [1059] è da stupirsi, dico, se il più degli uomini, sedotti da tante autorità, si sottoscrissero buonamente e ciecamente alla riunita sentenza di que’tanti famosi latinisti congiunta con quella di que’tanti Accademici della Crusca, e se cominciarono tutti insieme, e se tuttavia continuano a gridare che o bisogna scrivere come scriveva il Boccaccio, o rimanersi un bel barbagianni. Ecco in qual guisa la nostra lingua fu ridotta a non produrre che pochi più vocaboli di que’che si trovò avere a’tempi del Boccaccio, poichè nessuno scrittore per lo spazio di due secoli dopo di lui ardì quasi d’adoprarne uno che non fosse nel Decamerone, o nel Corbaccio, o nella Fiammetta. Ecco come il numero sproporzionatamente maggiore degli scrittori successivi fu costretto a non iscriver quasi altro che cose filologiche. Ecco in qual guisa divenne quasi universale la rabbia di non porre mai la minima parte dell’orazione dove l’ordine naturale delle idee richiederebbe che si ponesse. Ecco in qual guisa avvenne che quasi ogni periodo scritto si trovò diverso da ogni periodo parlato, e vide il suo povero verbo trasportato a suo dispetto sull’estrema sua punta. Ecco in qual guisa alla lingua nostra si è fatto ritenere a forza un artificiale carattere latino, quantunque come tutte l’altre moderne europee [1060] abbia un natural carattere di semplicità settentrionale, avendo dal settentrione ricevuta la sua indole, come ha ricevuti in gran parte i suoi articoli, le sue preposizioni, e molt’altri suoi minuti segni egualmente che molti de’suoi vocaboli. Ed ecco finalmente per qual ragione noi ci troviamo ora aver una lingua ne’libri del nostro Boccaccio, e in quelli de’nostri antichi latinisti, e de’nostri cruscanti, e de’loro troppo numerosi seguaci, che non v’è stato, e non vi sarà modo mai di farla leggere universalmente e con piacere al nostro popolo, al contrario appunto di quello ch’è avvenuto in Francia e in Inghilterra, dove non essendo mai per buona ventura fioriti nè Boccacci, nè Boccacciani, si sono formate due lingue scritte, che sono riuscite chiare, intelligibili, e dilettevolissime agli abitanti di quelle regioni, cominciando da’più scienziati ed eleganti loro individui, giù sino alla più ignorante e rozza ciurmaglia.

Ma io m’avveggo, Padri Coscritti, che il mio dire va diventando soverchio prolisso, onde lo tronco, e faccio fine per oggi, assicurandovi però che, vogliate o non vogliate, io intendo tornare qualch’altro giorno a sedermi su questo vostro buratto, ed esaminare e discutere ben bene in un’altra diceria come questa, o in due altre; o in dieci altre, un argo-[1061]mento di tanta importanza alla nostra nazione qual è quello della nostra lingua: argomento senza dubbio meritevole d’essere un po’ più filosoficamente discusso ed esaminato, che non lo fu da que’tanti Inferigni, Guerniti, Rifioriti, Infarinati, Stritolati e Smunti accademici vostri gloriosissimi predecessori.

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Rime di M. Pietro Bembo. In Berg. 1753, appresso Pietro Lancillotti, in 8.o

Il dottore Cocchi in un suo discorso sopra Asclepiade s’è mostrato persuaso che il secolo scorso sia stato più dotto di qualunque altro secolo; e chi volesse combattere l’opinion sua non avrebbe di sicuro mediocre faccenda, perchè di qualche greco secolo che solo potrebbe per dottrina contrapporsi al secolo scorso, noi non abbiamo che poche, incerte e confuse notizie, non rimanendoci che frammenti soverchio piccoli dell’opere di quegli uomini, i quali dalle rimote età furono considerati come i non plus ultra del sapere umano; senza contare che di molti ci rimane poco più altro che i nudi nomi, e che di molt’altri è assai probabile non ci rimanga neppur tanto. Noi sappiamo a mala pena chi fossero e che si facessero i Taleti, gli Anassagori, gli Epicuri, i Zenoni, gli Archimedi, i Pitagori, [1062] i Socrati, e tanti discepoli del persiano Zoroastro, e tant’altri idoli letterarj dell’antichità dotta. All’incontro l’opere degli scrittori del passato secolo ci folgoreggiano intorno con tanta viva luce, che non mi maraviglio punto se ad un uomo speculativo come il Cocchi quella lor luce parve la maggiore che mai si vedesse, e se si persuadette facilmente che il più dotto di tutti i secoli fosse quello dal quale furono prodotti i Cartesj, i Neutoni, i Grozj, i Pufendorfj, i Volfj, i Lebnizj, i Loche, i Torricelli, i Malpighi, i Redi, i Boerhave, i Sidenham, e cent’altri eroi di simile o di poco minor calibro.

Checchè nientedimeno paresse al Cocchi di que’suoi quasi contemporanei, e checchè de’Greci ne potesse parere a lui e a noi, se il tempo avesse lasciata intatta fino a’dì nostri la biblioteca di Tolomeo, o quella di Seleuco, a me non sembra certamente, come non sembrava neppure al Cocchi, che a fronte degli autori del passato secolo sieno in alcun modo da mettersi quegli altri che illustrarono il secolo decimoquinto. Quegli autori del secolo decimoquinto io non potetti mai averli nel sommo grado di venerazione in cui si hanno tutt’ora da innumerabili nostri paesani: anzi mi sia permesso dire al proposito loro, che nella nostra contrada si vanno tutt’ora facendo delle troppo lun-[1063]ghe prediche in favore de’Rucellai, degli Alamanni, degli Speroni, de’Navageri, de’Casa, de’Varchi, de’Sanazzari, de’Castiglioni, de’Davanzati e di molt’altri Cinquecentisti, che furono quasi unicamente intenti a porre i piedi sull’orme latine di Tullio, o sulle toscane di messer Francesco. Gli è vero che l’Italia, e forse tutta l’Europa, deve moltissimo ai Cinquecentisti, poichè da essi furono principalmente rotte le sbarre a quelle vie che condussero poi i loro successori alle scienze. Gli è vero che le lingue dotte, la grammatica e l’arte del dire, e tutte le parti della filologia, principali fondamenti di tutte le scienze, furono da’Cinquecentisti coltivate molto, e rese piane e di facile acquisto al mondo. Nulladimeno quando noi ci facciamo a lodarli, non sarebbe molto malfatto il ricordarsi che se i Cinquecentisti videro le spiagge del vero sapere, e se alcuni d’essi vi posero anche su il piede, non ebbero tuttavia, nè potevano forse avere lena abbastanza per intraprendere un lungo viaggio attraverso un continente, che agli Europei riusciva allora tanto nuovo quanto appunto in que’tempi riuscì loro il continente d’America. Sta dunque bene che noi lodiamo i Cinquecentisti per linguisti e per filologi magni, ma sta molto male che noi gridiamo sempre a’nostri studiosi giovanetti di vol-[1064]gere dì e notte i loro volumi come se non si avesse ancora alcuno di quegli altri volumi scritti da quegli altri barbassori che facevano stupire il Cocchi.

Esortiamo dunque, signori, i nostri giovanetti studiosi a leggere un tratto, e anche due, e tre, gli autori del cinquecento, ma inculchiamo loro incessantemente questa verità, che dopo d’aver letti i Cinquecentisti insieme coi Greci, e co’Romani non distrutti dal tempo, fa d’uopo che passino i dì e le notti su quegli autori sì ammirati dal filosofo Mugellano quando vogliano pure rischiararsi prestamente l’intelletto, e quando vogliano veramente far passi da gigante attraverso le vastissime regioni della letteratura e dello scibile.

Siccome però le voci de’panegiristi del cinquecento sono tante in Italia che l’assordano tutta, e perchè vedo necessario per farli alquanto tacere il dare qualche cosa di più che de’consigli e delle massime generali a’nostri giovanetti studiosi, onde pongano di buonora i piedi dove van posti senza badar soverchio a quelle molte voci, ho giudicato a proposito di accingermi in questo e ne’futuri fogli alla forse poco popolare intrapresa di rendere un po’ meno venerandi negli occhi loro alcuni de’più celebrati Cinquecentisti, ed esaminando questo e quell’altro lor libro [1065] famoso più del dovere, mi sono risoluto di mostrare a que’giovanetti che per perfezionarsi le menti non occorre pensino a valersi troppo dell’ajuto di quelle genti che per l’immaturità de’tempi non seguirono e non potettero seguire la ragione colle seste, col piombino, e coll’archipenzolo fra le mani.

Level 4► Exemplum► Metatextuality► Io darò dunque principio a questa mia nuova serie di lucubrazioni colle Rime di M. Pietro Bembo, additando alcune cose in esse che non sono al certo stupende tanto, quanto molti moderni infuriatissimi panegiristi di quell’autore ne vorrebbono far credere.

E fra quegli infuriatissimi panegiristi qual è quello che possa ragionevolmente sgridarmi, s’io disapprovo affatto lo stesso sonetto proemiale del Bembo alle sue rime che probabilmente gli ha costato più lavoro che non alcuno de’susseguenti? Or via, leggiamone il

Level 5► Citation/Motto► Primo Quadernario.

« Piansi e cantai lo strazio e l’aspra guerra,

Ch’io ebbi a sostener molti e molt’anni,

E la cagion di così lunghi affanni;

Cose rado o non mai vedute in terra ». ◀Citation/Motto ◀Level 5

Chi si sarebbe aspettato mai di sentire da un uomo qual era il Bembo, anzi pure da alcun uomo, che non s’è mai più veduta in terra (si sarà forse veduta in [1066] mare) una guerra sì aspra qual fu quella sostenuta molt’anni da lui contro la ritrosia, m’immagino, della sua ninfa? Nel secolo in cui viviamo queste esagerazioni idropiche non si adoperano più nè in voce nè in iscritto da chi parla sul serio; e non è permesso ad altri che a Truffaldino sul teatro l’esprimersi per baja così ampollosamente.

Level 5► Citation/Motto► Secondo Quadernario.

« Dive, per cui s’apre Elicona e serra,

Use far a la morte illustri inganni,

Date a lo stil, che nacque de’miei danni,

Viver, quand’io sarò spento e sotterra. » ◀Citation/Motto ◀Level 5

Questo nostro secolo non permetterebbe neppure che in un così breve discorso qual è quello che si fa in un sonetto, si pigliasse un salto così smisurato qual è quello preso qui dal Bembo, che abbandonando senza che nessuno se l’aspetti le idee di strazio e di guerra, si precipita ai piedi delle Muse, e le scongiura a rendere le sue rime immortali.

Level 5► Citation/Motto► Primo Terzetto.

« Che potranno talor gli amanti accorti,

Queste rime leggendo, al van desìo

Ritoglier l’alme col mio duro esempio; » ◀Citation/Motto ◀Level 5

Un poeta del nostro secolo sarebbe biasimato e deriso se dicesse, come fa qui il Bembo, una cosa di cui non è, e non può essere persuaso. Il Bembo non poteva certamente persuadersi che il leggere [1067] un suo libro di versi amorosi, avesse a toglier gli uomini dall’innamorarsi, o avesse da frenare i già innamorati nel corso d’una loro impetuosa passione. Quando si vuole ottenere un tal fine, direbbe anche il più smilzo filosofuccio del nostro secolo, e quando si vuole sinceramente fare qualche sforzo per ajutare i poveri innamorati ad uscire dell’amorosa pania, non si dà loro in mano un libro di versi amorosi, la di cui lettura deve riempiere un cuore innamorato di nuove tenerissime immagini d’amore.

Level 5► Citation/Motto► Secondo Terzetto.

« E quella strada, ch’a buon fine porti,

Scorger da l’altre; e quanto adorar Dio

Si debba solo al mondo, ch’è suo tempio. » ◀Citation/Motto ◀Level 5

Il Bembo ha qui spiccato un altro salto che non m’aspettavo. E come avrei potuto aspettare che dopo quella sua guerra mai più veduta, e dopo quella sua preghiera alle dive d’Elicona, e dopo quelle sue scempiate speranze di togliere in quel suo strano modo gli uomini dall’amare le donne crudeli, come avrei io potuto aspettare ch’egli dovesse tombolar giù così di repente nella morale cristiana e conchiudere che, dopo d’aver letto come la sua tenerezza e la sua fedeltà fu mal premiata da madonna, il leggitore innamorato avrebbe non solo potuto disinnamorarsi, ma imparar dalle sue rime ad [1068] adorare solo Dio nel mondo? I poeti fanno bene senza dubbio a ricordarsi sovente che sono cristiani: non bisognerebbe però che profanassero poi il nome del vero Dio mettendolo nella chiusa d’un sonetto in cui s’è parlato sul serio delle deità favolose, come lo sono quelle dive d’Elicona. Questi indecenti pasticci di paganesimo e di cristianesimo sono biasimatissimi nel nostro secolo, e molto a ragione. Lascio poi anche andare che questi ultimi versi sono assai deboli e poco armoniosi, perchè voglio soltanto dire di qualche pensiero del Bembo, e del suo modo di legare le sue idee insieme, senza troppo badare al buono o al cattivo meccanismo de’suoi versi. Passiamo ad altri suoi componimenti.

Nel sonetto settimo egli esprime un molto strano desiderio, e che non farebbe mal effetto sulla scena, se fosse espresso da qualcuno de’nostri comici.

Level 5► Citation/Motto► « Avess’io almen d’un bel cristallo il core,

Che quel ch’io taccio, e Madonna non vede

De l’interno mio mal, senz’altra fede

A’suoi begli occhi tralucesse fore. » ◀Citation/Motto ◀Level 5

Il Bembo non fece qui riflessione che s’egli avesse avuto il cuore di cristallo non avrebbe potuto amar madonna; che la densità naturale del suo petto e di tutte le parti che stanno tra il cuore d’un uomo e gli occhi d’una donna avrebbero [1069] pure impedito a quel cuore di cristallo di trasparire di rilucere fuora, e che per conseguenza madonna senz’essere indovina non avrebbe mai potuto indovinare che nel di lui corpo si chiudeva un cuore di cristallo pieno zeppo d’affanni amorosi.

Nel sonetto nono, dopo d’aver detto che madonna aveva un giorno i capegli di dolce oro sparpagliati sul collo, soggiunge con subitano entusiasmo.

Level 5► Citation/Motto► « Quand’ecco due man belle oltra misura

Raccogliendo le trecce al collo sparse

Strinservi dentro lui (cioè il core), che v’era involto. » ◀Citation/Motto ◀Level 5

Oltre che molto bisbetica è l’immagine d’un cuore involto e stretto ne’capegli d’una donna, come può essere che una cosa sia attualmente involta in una cosa attualmente sparsa.

Nella canzone xxix dice:

Level 5► Citation/Motto► « Avea per sua vaghezza teso Amore

Un’alta rete a mezzo del mio corso

D’oro e di perle e di rubin contesta,

Che veduta al più fero e rigid’orso

Umiliava e ‘nteneriva il core,

E quetava ogni nembo, ogni tempesta. » ◀Citation/Motto ◀Level 5

Con questa allegoria il Bembo ne vuol dire, cred’io, che giunto alla metà della sua vita, o alla virilità, Amore gli aveva presentata una donna che secondo i soliti ghiribizzi de’poeti aveva i capegli somi-[1070]glianti all’oro, i denti somiglianti alle perle, e le guance, o le labbra somiglianti ai rubini; ed io meno buono ad un povero innamorato il fantasticare che si possa far perdere la ferità e la ridigezza agli orsi mostrando loro delle donne con que’capegli, con que’denti, con quelle guance, o con quelle labbra. Ma stando sull’esattezza allegorica, non gli posso menar buono che le reti plachino gli orsi, e che sieno atte ad acquetare i nembi e le tempeste. In una rete un orso può essere acchiappato come ogni altro animale; ma sia una rete contesta di quanti giojelli si vuole, non acqueterà mai nè tempeste nè nembi. I rubini poi e le perle e l’oro non parmi che sieno materiali molto acconci ad essere formati in reti, e il canape e il lino ed anche la seta sarebbero cose molto più al proposito per questo effetto: ma come dissi, i poeti hanno sempre avuti degli strani ghiribizzi, e i petrarcheschi specialmente che ne riboccano da tutti i lati.

Nelle stanze del Vero Amore, che sono lubriche troppo più del dovere, alla stanza xli, narrando come tutte le creature sentono la forza di quella passione che ne fa cercare di riprodurci, il Bembo dice, fra l’altre belle cose, che

Level 5► Citation/Motto► « Per tutto, ove terren d’ombra si stampi »

Credo voglia dire per tutto dove è ombra.

[1071] « Sostien due rondinelle un faggio un pino ». ◀Citation/Motto ◀Level 5

Ma le rondinelle si cinguettavano forse a’tempi del Bembo i loro mutui amori su quella sorte d’alberi, come fanno tant’altre sorte d’uccelli a’dì nostri? Diciam piuttosto che il Bembo era tanto poco cacciatore, o tanto poco naturalista, che non distingueva le rondini da’fringuelli e dagli altri piccoli pennuti vaghi di stare su pe’faggi e su pe’pini, cosa che le rondini non sogliono fare massimamente quando si fanno l’amore.

Il Bembo comincia il sonetto cviii con questi versi.

Level 5► Citation/Motto► « Quel dolce suon, per cui chiaro s’intende

Quanto raggio del ciel in voi riluce,

Nel laccio in ch’io già fui mi riconduce

Dopo tant’anni, e preso a voi mi rende ». ◀Citation/Motto ◀Level 5

Capisco benissimo che le dolci parole (chiamate qui dolce suono forse impropriamente) possano ricondurre un amante in un laccio, come col suono d’un corno da caccia si può ricondurre una fera in un dato luogo, e come col suono di molte padelle e di molte pignatte si può far entrare uno sciame di pecchie in un’arnia, ma non capisco come per mezzo d’un suono s’intenda chiaro che un buon pezzo di raggio riluca in una donna. ◀Exemplum ◀Level 4 ◀Level 3

Metatextuality► Orsù, giovanetti studiosi, io non vi voglio tenere davvantaggio a bada con più lunghe annotazioni sulle Rime di [1072] questo celebratissimo Cinquecentista. Voi vedete che le sono come quelle di tutti i suoi confratelli, anzi pare come quelle del suo e del loro maestro, sparse troppo di ricercati, di frivoli e di falsi pensieri, che la filosofia del presente secolo, derivata da quella del secolo passato, non può troppo pazientemente soffrire. Voi dunque leggendo più i filosofi del seicento che non i poeti del cinquecento, imparate ad astenervi da questa sorte di pensieri, ed a metterli anzi in ridicolo, alla barba di que’tanti nostri magri pedanti che non sanno far altro che lodare il cinquecento. State poi avvertiti, giovanetti a non v’innamorare se potete; e se non potete, fatemi almeno la grazia di non imitare il Petrarca e i Petrarchisti nel comporre que’tanti maladetti sonetti e quelle tante canzoni maladettissime che pur troppo vi verrà voglia di comporre in lode delle vostre Laure e delle vostre Beatrici. ◀Metatextuality

Level 3►

Lettere di My Lady Worthley Montaigue. In Londra e in Dublino 1763, in 8.o

Se ogni autore che s’accinge ad accrescere il numero de’libri stampati volesse prima di por mano alla penna darsi l’incomodo d’esaminare quanti ne siano già stati regalati al mondo da altri autori su [1073] quell’argomento stesso ch’egli ha nel capo di trattare, e se nel medesimo tempo egli volesse con qualche poco di scrupolo e d’imparzialità misurare le poche o le molte forze del suo ingegno, e la maggiore o minor estensione del suo sapere, mi sembra assai probabile che i torchj tipografici non sarebbero dannati a fare quello enorme sciupo di carta che tuttodì fanno, perchè ogni autore vedrebbe allora molto presto quanto sia arduo il fare delle nuove aggiunte a quel gran capitale di scienza che già è contenuto in tanti e tanti libri, e s’asterrebbe per conseguenza dal fare una cosa inutilissima agli altri, e faticosissima a se stesso.

Ma perchè il fare un esame che generalmente mortifica un po’ troppo l’amor proprio non è cosa di sua natura piacevole, pochissimi sono quelli che vogliano mettersi da buon senno a farlo; e se qualcuno vi si mette, non lo fa mai con soverchio scrupolo, e con la debita imparzialità. Quindi avviene che que’poveri torchj sono tuttodì costretti a gemere disperatamente, e che i libri si vanno perennemente multiplicando senza che a quel gran capitale di scienza già contenuto in tanti vecchi libri, si faccia mai la minima aggiunta co’libri nuovi: quindi avviene che non si fa altro da’nostri odierni autori se non dire e ripetere quello [1074] che già è stato da’loro predecessori detto e ripetuto mille volte: quindi è, che i limiti del regno di Minerva, invece d’essere allargati, si vanno tutt’ora più ristringendo, e che la più parte de’leggitori, non trovando ne’libri de’loro contemporanei quella dovizia di cognizioni che s’aspettavano, prima s’annojano, e si stancano di leggere, e poi s’avvezzano a considerare i libri come cagioni di noja e di stanchezza; e quindi è finalmente che nella nostra Italia i leggitori sono ormai meno numerosi che non gli autori, con molto detrimento intellettuale d’innumerabili suoi abitanti, con nostra non mediocre universal vergogna e con grave universal discapito di que’tanti meschini che per loro mala ventura si sono posti a fare i benemeriti mestieri di librai e di stampatori.

Ma (mi dirà qualcuno de’nostri autori) ma che hanno appunto a fare cotesti nostri librai e cotesti nostri stampatori se noi non abbiamo più a scrivere de’libri? Metatextuality► Eh autori miei (rispondo io mezzo in collera), voi siete quasi tutti sottili di cervello come i bufoli, e mai non sapete intender bene quello ch’io vi dico! Vana cosa è ch’io mi affatichi a scrivere con una chiarezza tre volte arcimirabilissima! L’oscurità invincibile delle vostre menti v’abbuja ogni mia minima paroluzza! Io non ho mai detto, e non dico che non s’ab-[1075]biano più a scrivere de’libri: ma dico che fa d’uopo scrivere de’buoni libri. Mi replicherete che non v’è uno in cento delle signorie vostre capace di produrre un solo pensiero non prodotto mai prima, e mi assicurerete che nessuno di voi è atto a decorare delle cose già dette con nuove bellezze di stile o di metodo, e meno ancora atto ad illuminarle con qualche sua riflessione alquanto viva e peregrina: in somma, padroni miei colendissimi, voi mi giurerete che non v’è uno in cento di voi buono a nulla. Sia con Dio: ve lo credo senza che me lo giuriate. Ma se non siete in istato di comporre mettetevi almeno in istato di tradurre quello che già è stato composto da altri! Studiate almeno in tanta vostra malora qualche lingua antica o moderna, e poi dateci qualche autore di quella lingua nella lingua nostra! Fra l’altre lingue che voi potreste a questo fine studiare, ecco là verbigrazia la lingua inglese, in cui sono stati scritti moltissimi libri buoni, e de’quali non si ha ancora in Italia che delle notizie imperfettissime. Studiatela, e mettetevi a tradurre alcuno di que’libri, che così farete del bene a qualche stampatore e a qualche librajo del vostro paese, allargherete alquanto i limiti del nostro sapere, e vi procaccerete fors’anche qualche picciol utile pecuniario, cosa che sarà meglio [1076] fatta assai, che non istar tuttodì sull’adulare questo e quell’altro signor magno, colla speranza di buscargli qualche pranzo o qualche ducato; ed ecco qui appunto un libro inglese, che piacerebbe molto a tutti in Italia se fosse tradotto nella nostra lingua con qualche poco di garbo; voglio dire le Lettere di My Lady Worthley Montaigue. ◀Metatextuality

Level 4► Heteroportrait► Il marito di questa dama, Sir Worthley Montaigue, essendo stato nominato nel 1716 ambasciadore britannico presso la Porta, condusse con seco la moglie, che era allora sposa fresca, molto bella, molto spiritosa, e tanto ricca di cognizioni che annoverava fra’suoi più familiari amici i più famosi letterati che avesse allora la sua patria, molti de’quali (e questo sia detto come per parentesi) divennero dopo suoi acerrimi nemici per motivi che non è al nostro proposito il dirli ora. Checchè avvenisse poi, Bolingbrooke, Swift, e Addison, e Pope, e Gray, e Parnel, e molt’altri rari spiriti d’Inghilterra si facevano allora un pregio d’essere amici e familiari di My Lady Montaigue; e in queste sue stesse lettere ve ne sono alcune dirette ad uno d’essi, cioè al Pope. Messisi in viaggio i due conjugi, la dama cominciò a scrivere or a questa ed or a quella persona da lei lasciata nella patria, descrivendo ora uno ed ora un altro de’luoghi [1077] pe’quali andava scorrendo, e sempre ritenendo copia delle lettere che scriveva. Giunta in Turchia, continuò il multiplice carteggio, e al fin del conto si trovò avere scritta tanta roba in poco più d’un anno da farne un bel volumetto. Ne fece dunque un volumetto; ma non volle, non so perchè, concederlo alle stampe mentre viveva. Finalmente morì, saranno due anni, e quel volumetto si stampò, e si stampò con tanta approvazione del pubblico l’anno passato, che mi vien detto esserne già fatte cinque edizioni, tre in Londra, e due in Dublino, che è la metropoli dell’isola d’Irlanda.

Il volume contiene cinquantadue lettere. Le prime ventidue descrivono cose e costumi di quelle parti d’Olanda e di Germania attraversate da My Lady. In alcune ella deride con molta vivace acrimonia il fanatismo e la superstizione d’alcuni religionisti di que’paesi: in altre dipinge molto tizianescamente questa e quell’altra cosa, ed in particolare la galanteria e la magnificenza d’alcune corti del Norde, estendendosi assai su quella di Vienna. In quelle scritte da Petervaradino e da Belgrado, oltre a qualche ragguaglio de’costumi e delle cose d’Ungheria, si trovano delle notizie di que’tempi che riescono molto dilettevoli a leggersi, e una maestrevole e singolar pittura del carattere [1078] d’un Effendi, cioè d’un dottore musulmano, in casa del quale stette alloggiata qualche giorno in Belgrado. Poi sieguono nove lettere tutte lunghette con la data d’Adrianopoli, nelle quali si dicono molte cose che da nessun viaggiatore maschio si sarebbero mai potute sapere, essendo cose relative alla vita casalinga de’Turchi, come si vedrà or ora da due di queste lettere che voglio dare per saggio a’miei leggitori. Tra queste lettere d’Adrianopoli ve n’è una, alla quale molte e molte migliaja d’Europei, e specialmente d’Inglesi, devono la vita o la bellezza. Voglio dire che fra quelle lettere che hanno la data d’Adrianopoli, v’è n’è una in cui si descrive il modo d’innestar il vajuolo usato dagli abitanti della Turchia per rimediare al grave danno che viene naturalmente cagionato da quel bruttissimo male. Di quel rimedio a quel male non si aveva neppur idea in Europa prima che questa Lady andasse in que’paesi, quantunque colà fosse cosa usata comunemente e universalmente, e forse da molti secoli, tanta è l’inettezza e la vituperosa negligenza de’viaggiatori nostri, che invece di badare a cose di qualche utile, e notarle in carta per poi regalarle al genere umano colle stampe, non sanno far quasi altro che badare a rovine d’edifizj e ad epitaffi: ne è meno biasimevole la [1079] stupidezza de’nostri mercadanti, che vanno a stare in paesi esteri gli anni e gli anni, e quando tornano a casa non sanno mai dirci altro che pure cose di traffico, non avendo mai badato a cosa che potesse ridondare a benefizio de’corpi nostri o de’nostri intelletti, essendo stati unicamente intenti ad un vilissimo lucro, e a’modi di accumulare delle dovizie, di cui per lo più non sanno poi far l’uso che se ne dovrebbe fare.

L’altre lettere che sieguono, e che dicono il soggiorno di My Lady in Costantinopoli e ne’suoi contorni, e quelle che vanno progressivamente narrando la sua tornata in Inghilterra, sono tutte curiosissime, e piene d’osservazioni sempre belle e sempre singolari: e in somma questo è un libretto dal quale s’imparano più cose non sapute prima, che non se n’imparano da qualsivoglia altro libro pubblicato da cent’anni in qua. Metatextuality► Le due seguenti lettere faranno in parte fede di questa mia asserzione. Così avessi potuto tradurle con quel brio e con quella gentilezza di stile che adoperò la Lady. Ma quando una donna scrive bene, qual è l’uomo che possa agguagliare il brio de’suoi pensieri e la gentilezza del suo stile? Eccovi le due lettere. ◀Metatextuality

Level 5►

Lettera xxvi ad una Lady, Adrianopoli 1.o aprile 1717. (Stil vecchio).

Letter/Letter to the editor► Eccomi ora giunta in un altro mondo. Qui ogni oggetto mi riesce come un cambiamento di scena. Da quest’altro mondo, Lady mia, vi scrivo con piacere, lusingandomi che nel mio scrivere voi troverete delle cose gradevoli perchè affatto nuove. Ora non mi farete più il solito rimbrotto ch’io non vi dico mai nulla di strano.

« Del nostro nojoso viaggio non occorre farvi lunghe parole. Vi voglio però raccontare una cosa assai rimarchevole da me vista a Sofia, che è una delle belle città dell’impero turchesco, e sì famosa pe’suoi bagni caldi, che moltissime persone vengono a visitarla chi per salute, e chi per divertirsi. Io mi fermai colà un giorno intiero apposta per vedere que’bagni, a’quali volendo andare incognita, andai in una carrozza turca. Queste carrozze non sono, come le nostre, guernite di cristalli, che riuscirebbono qui troppo incomodi a cagione del soverchio ardore del sole. S’assomigliano piuttosto a que’cocchi o quotidiani o ebdomadarj, di cui fanno uso gli Olandesi per condurre genti da luogo a luogo, e che hanno quelle finestrelle a graticci. Sono poi colorite e indorate di fuora, e di dentro [1081] hanno dipinti de’mazzolini e de’canestri di fiori, ornati qui e qua di sentenziucce poetiche. Sono coperte di sopravvia di panno scarlatto foderato di seta, nè di rado adornato di ricami e di frangie. Que’panni pendono giù a mo’ di cortine, e celano le persone in esse quando vogliono star celate, e quando nol vogliono si tira la cortina indietro, e si fa capolino a bucolini de’graticci. Quattro persone stanno in queste carrozze agiatamente sedute sopra de’guanciali assai bassi.

« In una di queste vetture me ne andai dunque al bagno due ore prima del mezzodì, e lo trovai già tutto pieno di donne. Egli è fabbricato di pietra viva colle finestre nel tetto, e non ne’muri. Contiene cinque stanze che tutte sono fatte a cupola. La prima stanza, che è più piccola dell’altre, serve solo d’entrata, e quivi sta la portinaja, alla quale tutte le donne che vengono al bagno donano qualche moneta. La seconda stanza è molto ampia, col pavimento di marmo, e intorno ha due sofà pur di marmo a modo di due grandi scaglioni. Quivi sono quattro spilli che buttano acqua fredda, la quale prima cade in altrettanti gran vasi di marmo, e quindi scorre pel pavimento in canaletti che la conducono nella camera vicina. Questa è alquanto men grande, e ha pure i suoi due sofà di marmo; ma [1082] è tanto calda per ragione delle esalazioni e de’vapori sulfurei della stanza prossima, che non vi si può stare con gli abiti indosso. La stanza prossima, cioè la quarta, ed anche la quinta sono quelle che hanno le sorgenti calde. In una d’esse v’hanno degli altri spilli che versano dell’acqua fredda quando si voglia.

« Io aveva intorno la mia veste da viaggio, foggia d’abito che dovette certamente parere molto strana a quelle donne. Tuttavia nessuna d’esse ne fece le magne maraviglie, e nessuna mi venne a squadrare con impertinente curiosità, ma tutte mi ricevettero con molta serena cortesia. Non conosco alcuna corte in Europa, in cui una donna così straniera com’io doveva riuscir loro, fosse trattata con tanta bella creanza. Quantunque fossero vicino a dugento, neppure una sogghignò sott’occhi, e neppur una bisbigliò con malignità nell’orecchio alla compagna; cosa che avviene costantemente nelle nostre assemblee tosto che alcuna vi appare non vestita secondo la più esatta moda. Esse non fecero che ripetere tutte insieme assai volte uzelle peck uzelle, che significa oh bella oh molto bella! I sofà più bassi erano coperti da guanciali e da ricchi tappeti, e quivi sedevano le padrone. Su i più alti stavano le loro schiave, non distinguibili troppo dalle padrone, perchè tutte quante [1083] vestite a un modo, voglio dire perchè tutte quante vestite del semplice abito che ne fa la madre natura. Eppure nessun sorriso immodesto, nessun attuccio lascivo. Che stessero ferme, o che passeggiassero, in tutte si scorgeva quella stessa vezzosa maestà, che è attribuita da Milton alla nostra universal madre. Molte di esse avevano proporzione di membra tale, che nessuna dea uscì mai più bella dal pennello di Guido o di Tiziano. Non vi posso dire la bianchezza e la morbidezza della carnagione di quasi tutte, col solo e schietto ornamento delle loro folte capigliature divise in più trecce, che lor pendevano giù per le spalle guernite di perle e di fettucce. Affè che tutte s’assomigliavano alle grazie immaginate da’poeti!

« Io mi riconfermai quivi in una mia vecchia opinione, che se la gente andasse ignuda, la faccia delle donne sarebbe la meno guardata, perchè la vista mi fu tutta rapita dalla candidezza maravigliosa e dalla bellissima proporzione de’corpi d’alcune che avevano i visi assai men belli d’alcune altre. A dirvi il vero, My Lady, io fui cattiva a segno in quel luogo, che desiderai d’avere invisibile al mio fianco il nostro pittore Gervasio. Egli avrebbe senza dubbio migliorato d’assai il suo dipingere, contemplando tante belle donne in tante differenti attitudini, quale [1084] lavorando coll’ago, quale bevendo caffè o sorbetto, e quale neglettamente buttata sul suo guanciale. E le loro schiave, che per lo più sono vaghissime fanciulle di diciassette o diciott’anni, stavano intrecciando a più d’una d’esse i capegli in varie belle e fantastiche guise. Quel luogo è in sostanza una specie di muliebre bottega di caffè, dove si va a cianciare delle diurne faccenduole della città, e quelle donne vanno generalmente a pigliarsi quel passatempo un tratto la settimana, e stanno quivi quattro o cinque ore senza mai infreddarsi, quantunque passino senza cautela veruna così nude dalle camere calde nella camera fredda, cosa che mi fece non poco stupire. La signora che parve essere di maggior qualità fra di esse, mi pregò di sedermele accanto, e molto volontieri m’avrebbe spogliata per farmi bagnare; ma me ne scusai, e non fu senza difficoltà, che mi trassi d’impegno, perchè tutte m’erano d’intorno ad esortarmene co’cenni; e fu d’uopo ch’io facessi loro vedere come sotto l’abito avevo allacciato un busto, ordigno non conosciuto da esse, e scambiato per un’invenzione d’un marito geloso che mi aveva chiusa a chiave in quello. Rimasi propio incantata della loro affabilità non meno che della bellezza loro, e molto di buona voglia avrei passato qualche giorno [1085] con esse; ma il cavaliere era risoluto di continuar il suo viaggio la mattina dietro; onde m’affrettai a visitare le rovine d’un tempio chiamato dell’imperador Giustiniano, la di cui vista non mi diede sicuramente tanto diletto, quanto me ne diedero i dolci aspetti di quelle belle Musulmane.

« Addio My Lady. Sono certa d’avervi intrattenuta assai bene col racconto d’uno spettacolo da voi non veduto mai a dì vostri, e che non si può leggere in alcun libro d’alcun mascolino viaggiatore, perchè se alcun uomo trovasse modo d’entrar ne’bagni delle donne turche, sarebbe posto a morte irremissibilmente ». ◀Letter/Letter to the editor ◀Level 5 ◀Heteroportrait ◀Level 4 ◀Level 3

L’altra lettera di My Lady si darà nel seguente numero, non avendo potuto aver luogo in questo. ◀Metatextuality ◀Level 2 ◀Level 1