Sugestão de citação: Giuseppe Baretti (Ed.): "Numero VI", em: La Frusta letteraria di Aristarco Scannabue, Vol.1\06 (1763), S. 223-268, etidado em: Ertler, Klaus-Dieter / Fuchs, Alexandra (Ed.): Os "Spectators" no contexto internacional. Edição Digital, Graz 2011- . hdl.handle.net/11471/513.20.956 [consultado em: ].


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N.° VI

Roveredo 15 decembre 1763.

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Il Cicerone, poema di Giancarlo Passeroni. Tomi 2 in 8.o In Venezia 1756, nella stamperia Remondini.

Egli pare che la natura faccia uno sforzo de’ più grandi e de’ più violenti quando produce al mondo un poeta epico, se consideriamo quanto il numero de’ poeti epici sia inferiore al picciol numero de’ secoli di cui la cronologia ne dà contezza. Quasi tutti que’ secoli sono stati luminosamente adornati di molti savj legislatori, di molti capitani valenti, di molti illuminatissimi letterati e di molti artefici maravigliosissimi: e i popoli più colti, anzi pure non pochi popoli barbari, si possono a ragione vantare d’aver avuti molti individui che riuscirono singolari in effettuare assai cose, all’effettuazione delle quali si richieggono forze di mente quasi soprumane. Eppure fra cento nazioni o barbare o non barbare appena se ne addita una che possa vantarsi d’aver avuto fra’ suoi individui un individuo solo, a cui sia gloriosamente riuscito di comporre un poema epico. Non è egli strano, esempli-[224]grazia, che l’antica Grecia siasi resa l’universal maestra in ogni facoltà, producendo filosofi e guerrieri, e uomini ingegnosissimi di ogni fatta a centinaja ed a migliaja, in tempo che tutto il resto della terra stava quasi in perfetto ozio guardandola fare? E non è egli strano che l’antica Roma, ricettacolo originalmente di pochi feroci ed ignoranti fuorusciti, abbia in quattrocento anni annichilate per forza di spada tante bellicose e savie e possenti nazioni, e immedesimato in sè stessa tanta parte d’Europa e d’Asia e d’Affrica? E non è egli più strano ancora che la moderna Inghilterra, la quale appare così piccola cosa nel globo terracqueo, abbia oggi il potere di mandare cento mila uomini, in cento navi, ognuna di cento cannoni, a far il giro di questo stesso terracqueo globo attraverso un oceano immenso e senza sentiero; e che tuttavia l’antica Grecia, e l’antica Roma e la moderna Inghilterra non abbiano avuto più che un poeta epico ciascuna?

Ma se gli è strano che la sapiente Grecia, che la battaglieresca Roma, e che la navigatrice Inghilterra non abbiano potuto avere ciascuna più d’un poeta epico, chi non dirà essere ancora più strano a mille doppj il vedere la patria nostra per questo conto tre volte almeno più ricca d’ognuna di quelle tre patrie? Sì; l’Italia [225] nostra, che nè alla Grecia per vasta sapienza, nè a Roma per militar valore, nè per naval possanza all’Inghilterra può senza offesa del vero agguagliarsi, l’Italia nostra non soltanto si può a ciascuna di esse per questo conto agguagliare, ma si può dire senza offesa del vero, che vince d’assai le due seconde; e se ella abbassa rispettosa l’epica bandiera alla prima, gli è perchè saviamente riflette coi Romani e cogl’Inglesi che, se da ciascun poema epico si avesse a cancellare tutto ciò che derivò in esso dal gran vate de’ Greci, cioè tutto ciò che in ciascun poema epico non si leggerebbe se Omero non avesse dettate l’Iliade e l’Odissea, una troppo gran parte cancellata rimarrebbe d’ogni epico poema all’Iliade e all’Odissea posteriore.

Ma se l’Italia nostra si può a ragion dar vanto d’essere epicamente superiore all’antica Roma, alla moderna Inghilterra, e a tutto il resto del mondo, grazie al suo Dante, al suo Ariosto, e al suo Tasso; l’Italia nostra si può con vie maggior ragione gloriare ancora d’aver prodotti degli altri poemi che non si possono registrare in altra classe che in quella degli epici, e che sono privativamente suoi, senza che alcuna nazione o antica o moderna possa in questo gareggiar punto con essa intorno al primato. E qual è quella [226] nazione antica o moderna, signori miei, che abbia esempligrazia due poemi epici da porsi a paraggio coll’Orlando innamorato e col Morgante, nell’uno e nell’altro de’ quali la natura è dipinta, son quasi per dire, con maggiore verità che non è in qualunque altro de’ poemi epici della nostra e dell’altre nazioni? E dicano pure gli austeri critici quello che vogliono de’ massimi difetti di quelle due stupende opere d’ingegno, che non sono veramente scarse di difetti; ma ad onta di tutto quello che la ragione potrebbe correggere nell’Orlando innamorato e nel Morgante, tanto il Morgante quanto l’Orlando innamorato sono due poemi epici che non fanno meno onore alla nostra poetica terra di quello che gliene facciano i poemi epici di Dante, dell’Ariosto e del Tasso; e tanto più le fanno onore, quanto che nessun poeta d’altra nazione o antica o moderna ha saputo scrivere cose così maravigliose, sia per singolare e vasta invenzione, o sia per varia e vera pittura di costumi e di cose.

Nè qui finiscono ancora l’epiche glorie della nostra contrada; e il Quadriregio del Frezzi, e la Secchia rapita del Tassoni, e il Malmantile del Lippi, e il Ricciardetto del Forteguerri, e un numero grande di altri epici poemi o serj o burleschi scritti dalle italiche penne nello spazio di [227] questi tre secoli, accrescono tutti per questo conto la nostra superiorità sulle altre nazioni, alla barba di cento ignoranti non meno che temerarj bacalari della Senna e del Tamigi, i quali della nostr’epica poesia hanno parlato a un dipresso come ne parlerebbono i pappagalli, se a’ pappagalli venisse nel becco il prurito di parlare di poesia epica.

Ma perchè il Quadriregio è soverchiamente allegorico, perchè la Secchia è troppo povera d’invenzione, perchè il Malmantile è di troppo poca sostanza, e perchè il Ricciardetto è troppo buffonesco e plebeo, e perchè tant’altri epici poemi nostri sono misere somiglianze e copie di poco valore di questa e di quell’altra bella cosa nostra, io mi contenterò per ora di non cavar gli uni dal disprezzo e dalla oscurità in cui sono immersi, e mi serberò a favellare degli altri quando il caso me li porterà dinanzi, ristringendomi oggi a solamente fare qualche parola d’un poema epico intitolato Cicerone scritto da un Giancarlo Passeroni, che per quanto mi vien detto da don Petronio Zamberlucco suo grande amico, è un dabbenissimo prete, nato in qualche parte della contea di Nizza, e che vive ora in Milano allegro e grasso, che Dio lo benedica e lo mantenga tale per molti e molt’anni ancora.

[228] Nível 4► Retrato alheio► Il poema dunque di questo Passeroni è di trentatrè canti, e, come dissi, è intitolato Cicerone. Ma chi s’aspettasse in virtù di quel titolo di leggere la vita e le avventure, o le imprese del gran Marco Tullio, si disinganni e muti pensiero, chè pochissimo di Marco Tullio si parla in que’ trentatrè canti, anzi in alcuni non si nomina neppure, o si va qua e là promettendo di nominarlo tosto, e di parlarne a dilungo, comechè ora sotto un pretesto buono, ed ora sotto un altro migliore non si mantenga poi la promessa; e così tutta l’opera, che si finge tradotta da un caldeo manoscritto d’un certo Giambartolomeo, non è altro che un bizzarro tessuto di digressioni che non hanno che fare col titolo, e che per la maggior parte satireggiano, o criticano, o corbellano ogni sorte di gente dappoca, ridicola e viziosa.

Questa invenzione, come vedete, è molto semplice, poichè nessuna parte del poema è necessariamente connessa con l’altre parti, ma ne è quasi sempre indipendentissima, potendo tutte stare assai bene sulle loro proprie gambe senza bisogno di sostenersi l’una l’altra mutuamente, e così quasi ogni canto poteva benissimo essere il canto ch’egli è, o essere il canto successivo, o il precedente, o il decimo, o il ventesimo, o il secondo, o il penultimo, o in somma qualunque canto senza molto pregiudizio [229] del totale; e canchero venga a chi vorrà guardare il Cicerone con gli occhiali d’Aristotile sul naso. Ma se l’invenzione del suo poema non costò al Passeroni che il primo fortunato pensiero, e se le parti d’esso poema non sono state con replicati sforzi d’ingegno e con difficil arte complicate ed intralciate insieme, si vede però da ciascuna d’esse, che il Passeroni ha dell’ingegno da vendere, che la sua mente è delle più ampie e delle più pensative, e ch’egli se l’ha arricchita con un innumerabil numero d’idee e di notizie leggendo de’ libri parecchi, e più notando con non meno attenzione che sagacità i costumi del nostro secolo. Metatextualidade► Diamo un abbozzo di questa sua opera. ◀Metatextualidade

Dopo d’aver detto nella prima ottava che vuol Nível 5► Citação/Divisa► cantare l’Orator romano, e nello stesso tempo rivedere il pelo alla brigata, ◀Citação/Divisa ◀Nível 5 il Passeroni aggiunge che narrerà la sua storia Nível 5► Citação/Divisa► come sta scritta sopr’un libro vecchio, ◀Citação/Divisa ◀Nível 5 del qual libro questa è l’informazione da lui data a’ leggitori, o per dir meglio agli uditori, poichè mostra sul fine d’ogni canto ch’egli li recitasse in qualche assemblea uno per sera a misura che li componeva.

Nível 5► Citação/Divisa► « Ma questo libro pochi l’hanno visto

Perchè gli è libro raro; ed io lo serbo
Non già fra gli altri miei confuso e misto,
Ma sotto chiave con assai riserbo.
[230] Mio bisavo ne fece il grande acquisto
Da un certo Annio famoso da Viterbo,
Il qual vi scrisse fuori sul cartone:
Vita di Marco Tullio Cicerone.

Queste parole sono in buon toscano;

Ma quel di dentro è in un certo idioma,
Che ad un che nollo intenda sembra strano,
E vi manca ogni punto ed ogni coma.
Benchè fiorisse sotto il buon Trajano
Il dotto autor di questo libro in Roma,
Dal nome appar però ch’ ei fu caldeo,
Perchè chiamossi Giambartolommeo. » ◀Citação/Divisa ◀Nível 5

Soggiungendo poco dopo a proposito di questo Giambartolomeo,

Nível 5► Citação/Divisa► « E chi volesse intendere di lui

Qualche cosa di più particolare,
Aspetti che con quella d’altri autori
La di lui vita venga anch’essa fuori. » ◀Citação/Divisa ◀Nível 5

E qui per non perder tempo il Passeroni comincia a fare la sua prima digressioncella, dando un po’ di baja agli scrittori moderni di Francia e d’altri paesi, una gran parte de’ quali non sapendo produrre cose di sustanza da sè stessi, Nível 5► Citação/Divisa► danno l’incenso ai morti scrivendo le vite

« de’ letterati
Che fioriron ne’ secoli passati. » ◀Citação/Divisa ◀Nível 5

Poi favella alquanto del suo manuscritto caldeo, e del come, e del dove, e del quando fu trovato, e quanto sia al proposito per somministrare argomento ad un poema epico; e poi parla de’ poemi epici [231] di questo e di quell’altro, e delle regole che si sogliono osservare nel comporre poemi epici, stendendosi con alquante considerazioni sui varj modi di verseggiare usati da vari de’ nostri poeti. Poi entra a far l’apologia di quella tanta critica che sarà farina di Giambartolomeo, e non sua. E a proposito del suo tradurre Giambartolomeo, dà quattro buone picchiate a’ plagiarj, e a quelli che nelle loro prefazioni fanno tante false e ridicole proteste, e a quelli che trovano questo e quel modo di far lodare l’opere loro da Tizio e da Sempronio, onde abbiano più credito che non meritano; e a quelli che sotto supposti nomi fanno il panegirico a sè stessi e alle lor opere. Poi s’allarga nello enumerare le varie furberie usate dagli autori per trovare spaccio a’ loro libri. Poi passa a discorrere dell’amicizia e de’ varj doveri d’essa. Poi ne viene a dire come bella sarà la seconda edizione del suo Cicerone, caso che la prima incontri bene, e si fa beffe di tutti i pomposi e vani ornamenti con cui alcuni libri vengono stampati. Poi azzanna soavemente i commentatori, e mette anche una zampa addosso a’ giornalisti e a’ gazzettieri letterarj venali, e sciocchi o maligni. Poi parla d’altri artifizj illeciti usati dagli scrittori. Poi dà un pizzicotto agli stampatori, aggiungendo però alcuna cosa in loro favore e scusa. [232] Poi cuculia certe magre invenzioni trovate per ingrossare i libri più assai del bisogno. Poi parla della Crusca, e dice la sua opinione della lingua nostra, e della maniera di tradurre del Salvini. Poi dà la berta a que’ che si danno vanto d’aver composto alcun libro con prestezza. Poi dice quello che ha in animo di fare co’ revisori quando anderà ad essi per la licenza della stampa. Poi motteggia le solite proteste che si fanno da alcuni sulle parole di Fato, Diva, Numi ed altre di tal conio, facendo una siffatta protesta egli stesso, che mutando solo il dice in sente nell’ultimo verso, potrebbe servire anche a tutti poeti secolari quindinnanzi; Metatextualidade► ed eccola qui quella sua protesta chè voglio trascriverla. ◀Metatextualidade

Nível 5► Citação/Divisa► « Le parole Destino, o biondo Nume,

Fato, Fortuna, oppur celesti Dive,
Ed altre che saran nel mio volume,
Son vocaboli usati da chi scrive
In versi per antico e rio costume,
E non già sentimenti di chi vive
Nel grembo della Chiesa e che professa
D’essere buon cristiano e dice messa. » ◀Citação/Divisa ◀Nível 5

Poi fa alcune parole sulla prolissità, e dice molto facetamente che non vuole, massime qui sul bel principio del suo poema, palesare a’ suoi uditori d’avere egli stesso questo difetto, e che vuol anzi fare come le donne, che sul cominciare del [233] matrimonio nascondono anch’ esse i difetti loro al novello marito; e menando in questo modo alle povere donne la prima di quelle tante e tante staffilate che dà poi loro in quasi tutti i canti del suo poema, pone fine al canto primo.

A questo primo canto tutti gli altri si assomigliano nell’essere come questo pieno di passaggi d’una cosa in un’altra, parlandosi in tutti tanto poco dell’eroe d’Arpino, che si giunge al fine del primo tomo, cioè del canto diciassettesimo, senza che Cicerone sia ancora fuori della sua cuna; non servendo qui Cicerone, come già dissi, che d’un pretesto per dire mal del male, e per isfogare alcuni milioni di que’ capricci che, al dire del Berni, vogliono venire a’ poeti anche a lor dispetto. Con licenza però del mio don Petronio, che non è della mia opinione, m’ è forza disapprovare in questo non men dotto e dabbene, che vario e lepido poeta, la troppa sua condiscendenza a certi leggitori troppo plebei, in grazia dei quali scambia talvolta la buffoneria per facezia, come quando dice che la madre di Cicerone avea abbondanza di latte nelle poppe più d’una vacca; che Cicerone studiando ingrassava come un porco nel truogo, ed altre simili; delle quali sconce facezie, anzi goffe buffonerie, abbondano troppo il Lalli nella Eneide Travestita, e il Caporali e il Fa-[234]giuoli nelle loro rime. E così dirò che non mi garba nè tampoco quel suo tanto toccare una sola corda; cioè quel suo tanto parlare, e massime nel primo tomo, de’ vizj, de’ difetti e delle debolezze delle donne volgari e comunali, la qual cosa oltre al rendere il suo poema poco gradito all’elegante e colta parte del bel sesso, fa anche un male intrinseco al poema, rendendo troppi de’ suoi canti uniformi nella materia, e per conseguenza talora stucchevoli, essendo specialmente quasi tutti que’canti già alquanto incresciosi, perchè quasi tutti sono un po’ più lunghi di quello che dovrebbon essere, secondo l’orecchio mio, e secondo l’orecchio del mio don Petronio stesso, che è pur tanto innamorato e del poema e di chi lo scrisse. Metatextualidade► Ma terminiamo queste osservazioni sul Cicerone con ricopiare qui, per saggio della passeronesca poesia, le prime ottave del canto diciottesimo. ◀Metatextualidade

Nível 5► Citação/Divisa► « Mi nasce un dubbio in mezzo a questi canti

Che, verbigrazia, qualchedun non dica,
Essendo pieno il mondo d’ignoranti,
Che irregolare è questa mia fatica;
E ch’io dovea fra tanti libri e tanti
Sceglier per tema qualch’altr’opra antica,
Che contenesse d’un eroe le lodi,
E non avesse in sè tanti episodi.

Che sempre sul proposito primiero

Stesse, come Aristotile prescrisse,
[235] Che al nobile poetico mestiero
Regole inalterabili prefisse;
E come fe’ Virgilio e fece Omero,
Che l’un d’Enea, l’altro d’Achille scrisse;
Ond’io l’impresa mia quasi abbandono,
Sapendo quanti critici vi sono.

E s’uno di costor comincia a dire

Che da Virgilio e Omero io mi discosto,
Io posso andare a farmi seppellire,
O per lo meno posso star nascosto;
Però che gli altri non vorran capire
Ch’io non mi sono in verità proposto
Di copiar fedelmente ed a puntino
Nè il cantor greco, nè il cantor latino.

Io tuttavia dirò che chi volesse

Sindacare i due celebri poeti,
Vedria che non è ver che l’uno stesse
Saldo in parlar sol del figliuol di Teti,
L’altro d’Enea, giusta le lor promesse,
Come han notato i critici indiscreti;
Vedria che in più di mille versi e mille
L’un non parlò d’Enea, l’altro d’Achille.

Dunque lo stesso potrò fare anch’io

Tenendo dietro a così fida scorta,
Il cui nome non teme eterno obblio:
Questa risposta è tal che mi conforta.
Se parlo poco in questo libro mio
Di Cicerone, ciò alla fin che importa?
Che importa ch’io favelli in questo foglio
Di questo e quello, e faccia quel ch’io voglio?

Oh non sarà, dirammi un cicalone,

Questa leggenda non sarà un poema,
[236] Nè la vita sarà di Cicerone
La qual prendesti, o galantuom, per tema.
In non gli do nè torto nè ragione,
Nè decider vogl’io questo problema:
Qualche cosa sarà; saran parole,
Sarà un libro, sarà quel che Dio vuole.

Sarà un poema scritto alla carlona,

Di cui non ebber forse idea nemmeno
Aristotile, Orazio, o altra persona,
Perch’era ancor d’eternità nel seno;
Basta a me che sia cosa bella e buona;
Anzi sono contento anche di meno:
A me basta che quando sia stampato
Venga letto il mio libro, o almen comprato.

E questo è quel che s’era messo in testa

Virgilio, il quale volea far danari:
Ma perchè morte venne troppo presta,
Siccome suol far sempre co’ suoi pari,
Vedendo che finita era la festa,
E che non potea vender gli esemplari,
Volea che il libro suo si desse al foco,
Curando della gloria o nulla o poco.

Ma nol sofferse Augusto: e qui notate

Che allor si dilettavano di versi
I grandi, il che non fanno in questa etate:
Anzi alle muse son contrarj e avversi;
E consegnollo al bravo Mecenate
Che riveder lo fece da diversi;
Poi lo fece stampare in tanta fretta
Che rimase quell’opera imperfetta.

E vi restaron molti versile molti

Incominciati e non finiti mai,
[237] Su cui van disputando ancor gli stolti.
E da questo difetto io mi guardai;
Chè se i miei versi son volgari, incolti
E rozzi e vili, almen li terminai;
Chè o bene o mal, per dritto o per traverso,
Lo vo’ finir, quando incomincio un verso.

Onde provar potrei con sillogismo

Che in questo ho fatto più che’l Mantovano;
Ma mi ricordo di quell’aforismo
Che dice che il vantarsi è d’uomo vano:
E se Virgilio ha qualche anacronismo,
Onde lo loda al ciel più d’un cristiano,
Di questi, grazie a Dio, tra nuovi e vecchi,
Nel mio poema ve ne son parecchi.

E sono tutti naturali e andanti

Come veder potete all’occasione,
E servono a far rider gl’ignoranti,
E non tolgon l’onore alle persone,
Siccome fece il già citato avanti
Virgilio colla povera Didone:
E s’egli non avesse altro peccato,
Per questo sol dovrebb’esser dannato.

Credo inoltre d’avere un gran vantaggio

Sopra Virgilio, perchè quel cantore
Dipinse Enea per uom valente e saggio,
Quando voglion che fosse un traditore.
Guardimi il Ciel ch’io faccia al vero oltraggio!
E nel lodare il mio chiaro oratore
Rischio non v’è ch’ecceda nelle sue
Glorie, e dirò piuttosto men che piue.

Se tutto ciò non basta in mia difesa,

Non so che farci; ma ciò non ostante
[238] Io voglio seguitar la grande impresa
Allegramente e voglio andar avante:
Ed oggi parlerovvi alla distesa
Di Tullio, e sarò forse un po’ seccante:
Dunque Tullio si svegli, e tosto balzi
Giù dal letto, e lo vesta Elvia, e lo calzi. » ◀Citação/Divisa ◀Nível 5 ◀Retrato alheio ◀Nível 4 ◀Nível 3

Metatextualidade► La seguente lettera m’è stata mandata per saggio. Chi me la manda ha intenzione di pubblicarne presto alcuni tomi colle stampe. Se que’ tomi ne conterranno dell’altre eguali a questa, è probabile che Aristarco non ne dirà male nella Frusta Letteraria. Questa è diretta a una dama inglese intendentissima della lingua nostra. ◀Metatextualidade

Nível 3► « My Lady, scusatemi. Non posso essere dell’opinione di quel vostro famoso Lord Shaftesbury. Replichiamo quel suo passo in quella sua lettera sull’entusiasmo, dove favellando della bontà morale dice: Nível 4► Citação/Divisa► « Non è lo stesso della bontà che d’altre qualità, le quali si possono da noi mol-[239]to bene intendere, e tuttavia non le avere. Si può avere orecchio buono musicale senza poter fare nulla in musica, si può giudicar bene in poesia senza esser poeti, anzi senza aver punto d’estro poetico: ma non possiamo avere neppure una mediocre idea della bontà senz’essere mediocremente buoni ». ◀Citação/Divisa ◀Nível 4 Scusatemi, bella Lady, e’ m’è forza dirvelo un’altra volta, che quel vostro rinomato filosofo mi riesce frequentemente strano, e che questi suoi pochi periodi sono almeno espressi con poca esattezza. Se dicessi che contengono degli spropositi massicci voi andereste forse in collera; chè voi altre belle dame, quando siete, o credete d’essere, o volete essere innamorate di qualcuno, appena v’ è modo di toccarvene leggermente i difetti.

« Che non si possa nè tampoco avere un’ idea mediocre della bontà senza esser buoni, è falso, se crediamo a noi medesimi. Noi veggiamo tuttodì gente che vorrebbe esser buona: cioè che ha idee chiare del giusto e del retto, vale a dire del buono; che ama quelle idee; che desidera seguirle: e che tuttavia, trasportata da qualche passione, da qualche speranza di bene, o da qualche timore di male, opera a rovescio di quelle idee, cioè opera contro quel certo lume che la natura ha acceso in tutte l’anime nostre. E dove [240] troverete voi un sol uomo cattivo, che non sappia d’esser tale? E se un uomo cattivo sa d’esser tale, non è egli chiaro chiarissimo ch’egli ha un’idea mediocre, e più che mediocre, della bontà? Se quell’uomo cattivo non paragonasse tacitamente sè stesso agli uomini buoni, o se non misurasse mai mentalmente le sue cattive azioni con le sue buone idee, come potrebb’egli sapere d’essere un cattivo? Non siete voi, My Lady, d’opinione che gli uomini cattivi sanno d’esser cattivi? Sì, lo sanno, come i buoni sanno d’esser buoni, perchè tacitamente anch’essi si paragonano agli uomini cattivi, e mentalmente misurano anch’essi le loro buone idee con le altrui cattive idee, o cattive azioni. Ma io voleva toccarvi il punto della poesia, e oppormi alla storta sentenza poetica di Shaftesbury; ed ecco che invece mi sono buttato in un fiume di metafisica. Usciamone tosto; e se vi ci siamo anche un po’ bagnati, non importa. Lo Shaftesbury dice una cosa che tutti sanno senza esser troppo filosofi, chè v’ ha di molta gente, la quale ha buon orecchio per la musica, e che tuttavia non è capace nè di toccare le corde d’uno stromento, nè di far correre la voce regolatamente; ma questo procede per mancanza di studio e d’esercizio di mano. E certamente il vostro fa-[241]vorito Geminiani sarebbe stato in facoltà un molto buon musico, ancorchè il Geminiani non avesse studiata l’arte che ha sviluppati in lui e fatti germogliare que’ maravigliosi semi di musica che la natura aveva gettati nell’anima sua. A gente di perfetto orecchio, come sarebbe stato il Geminiani se non avesse studiata l’arte della musica, si può permettere che giudichino di musica, e che dannino ed approvino quello che loro dispiace o piace; ma non debbe già esser così con coloro i quali non solamente non son poeti, ma che non hanno neppure un po’ d’estro poetico. A questi non debb’ esser permesso di giudicar di poesia; chè sicuramente ne giudicheranno male, checchè lo Shaftesbury affermi in contrario. Chi ha buon orecchio, è musico naturale; ma chi non ha punto d’estro poetico, non è poeta naturale. Il musico naturale sarà d’improvviso tocco da una bellezza musicale di cui non potrà render ragione; ma chi non è poeta naturale non solamente non saprà render ragione d’una bellezza poetica, ma non ne sarà neppur tocco, e gliene passeranno anzi mille davanti una dietro l’altra, e tutte inosservate. Torno a dire che nessuno può giudicare di poesia se non ha un’anima poetica, come nessuno può giudicare di mu-[242]sica se non ha l’anima musicale. E quest’anima poetica si trova in molti, che per non aver fatti i debiti studj, non son chiamati poeti dalla gente, quantunque la natura gli abbia fatti tali. Dirovvi anzi, My Lady, che noi in Italia abbiamo de’ popoli intieri, che tutti, o poco men che tutti sono egualmente musici che poeti, come a dire i Fiorentini, i Romani e i Napoletani. I Fiorentini, anzi pure i nativi di terra toscana, novanta in cento sentiranno, e saran tocchi da certe bellezze del Berni che fuggiranno dall’osservazione de’ più acuti critici d’altra nazione, e talvolta anco della nazione loro. I Romani non si lasceranno facilmente fuggire dalla vista una bellezza del Tasso; ed i Napoletani faranno i dolenti visi, e piangeranno anche dell’angustie di Carlo, del dolore d’Orlando leggente l’epigramma di Medoro alla fontana, della morte di Zerbino; o anderanno in collera, e bestemmieranno anche a un bisogno contra Rodomonte crudele che strugge Parigi, e accompagneranno con una orribile maladizione Durlindana quando menata da Gradasso cala furiosa a spaccar il capo al povero Brandimarte. In somma tutti questi popoli senz’ essere capaci di render alcuna ragion critica delle bellezze de’ loro autori favoriti, te le segneranno a una a una con una esclamazione, [243] o con un chiuder d’occhi, o con uno stringer di mani, o con una strana smorfia, o con un cangiar di colore, o con un pestar di piede, o con una bestemmia, ed altri simili effetti di violento moto d’animo. Il Berni in molte parti di Toscana, e più l’Ariosto e il Tasso in molte Provincie d’Italia mostrano d’aver avuta parentela con Omero con le loro bellezze poetiche naturali e vive, tanto quelle loro bellezze si fanno sentire dalla più rozza plebe egualmente che dalle più colte persone, come era il caso nell’antica Grecia, che tutti i plebei egualmente che tutti i non plebei godevano nel sentir cantare e nel leggere i due poemi d’Omero.

Ma voi, bella Lady, mi direte: « E perchè non avvenne e non avviene lo stesso di Virgilio, d’Orazio, di Dante, del Petrarca, di Milton, di Pope e di molt’ altri antichi e moderni? Sono forse costoro tanto da meno del Berni, dell’Ariosto e del Tasso? » Troppo lunga risposta questa breve interrogazione richiederebbe. Pure per non lasciarvene affatto senza, vi dirò ch’io non ho difficoltà nessuna a credere che Virgilio, Orazio, Milton, Pope, Dante, Petrarca e molt’ altri s’abbiano bellezze poetiche quante n’ hanno que’ tre parenti d’Omero; ma forse che le bellezze di Virgilio, d’O-[244]razio e di quegli altri sono pescate, dirò così, ne’ profondi fiumi della riflessione, e del discernimento e della critica, anzi che nelle limpide fonti della immaginazione e della natura, onde piacciono a’ dotti solamente, e non al rozzo volgo che li sente leggere senza sentirsi se non che molto di rado muover l’animo dalle loro bellezze. Non so, My Lady, s’io mi spieghi bene; non so se m’intendiate chiaramente, chè a dirvi il vero non m’intendo neppur bene io stesso. Pure tiriamo innanzi, e facciamo almeno le viste d’intenderci; anzi procuriamo di spiegarci con un qualche esempio che renda questo nostro pensiero un po’ più visibile. Il Muratori, verbigrazia, quantunque uomo dottissimo, in quel suo libro della perfetta poesia la sbagliò in molti giudizj che diede de’ nostri poeti; lodò molte cose fredde, puerili, piccole, biasimò alcune bellissime bellezze poetiche; e se ne lasciò passare dinanzi agli occhi alcune di quelle che rapiscono, che incantano, che infiammano un poeta naturale, e non ne fece conto nessuno. Due ottave l’Ariosto ardì porre in bocca ad Orlando un momento prima che il cervello gli desse la volta, le quali veramente dipingono il paladino tal quale dovev’essere in quel tristo punto, cioè agitato da amore, da furore, da gelosia, da pietà di sè stesso e da altre contrarie [245] passioni che lo dovevano condurre a mattezza un momento dopo. Il giudizio dell’Ariosto non credo avesse molta parte in quelle due maravigliose ottave. Fu la sua immaginazione, fu il suo trasportarsi con tutta l’anima nella stessa situazione d’Orlando, fu il suo poetico fuoco, fu un repentino entusiasmo che gli dettò quelle due ottave, anzi che gli dettò tutta quella descrizione d’Orlando che impazza gradatamente. Io per me confesso il vero, che nessun passo d’antico o di moderno poeta mi par degno d’essere comparato con quello. Ammiro le smanie di Filottete che in Sofocle si dispera ogni momento più; ammiro il re Lear che va diventando rabbioso nel vostro Shakespeare; ma il nostro Orlando in quel passo dell’Ariosto mi muove l’animo assai più fortemente che non il greco Filottete, che non il britannico King Lear: e non posso non maravigliarmi dell’anima sassea del Muratori, che non solo non fu scosso come io lo sono dal gradato impazzamento d’Orlando, ma che lo condannò anzi di poco naturale. E se l’eruditissimo Salvini lasciò passare senza una nota critica le critiche osservazioni di quel buon Modanese su quelle due ottave dell’Ariosto, non me ne stupirò io già; ma leggendo le poesie del Salvini, e spezialmente la sua traduzione d’Omero, troverò la ra-[246]gione di tale suo silenzio nella freddezza della sua immaginazione, e nell’assenza totale da lui di poetico entusiasmo. Il Salvini non ha poesia in quelle sue poesie; e in quella sua traduzione ha agghiacciata l’ardentissima vena del greco vate: gli ha tolta l’elasticità de’ pensieri; gli ha cambiato Achille in una delle più insulse pettegole di Camaldoli. Qual maraviglia, My Lady, se voi lo trovate più scoglio dello stesso Muratori contra l’onde e i cavalloni di poesia, che l’Ariosto, come un Nettuno adirato, fa sovente rotolare addosso a’ suoi leggitori? Se l’Ariosto avesse avuta una serva della natura di quella Parigina che Moliere ebbe, un più retto giudizio sarebbe da quella stato pronunziato su quelle due ottave, che non fu il giudizio del critico da Modana; nè altri che un ser Cionno si stupirà del dritto giudicare della serva di Moliere: que’ suoi dritti giudizj delle commedie del suo padrone altro non significano se non che la serva, egualmente che il padrone, aveva l’anima poetica, o estro poetico, per dire come lo Shaftesbury; e fu per sola mancanza di mezzi ch’ella non venne in istato di mostrare quella sua naturale poetica facoltà e di apparire in faccia al mondo tanto poetessa quanto il suo padrone apparve poeta. Ma Lord Shaftesbury, che non aveva faccenda in Parnaso, come è [247] per lo più il caso de’ dotti critici, e de’ filosofi speculativissimi, ha dunque detto male quando ha detto che Nível 4► Citação/Divisa► senz’essere poeta, anzi che senza aver estro poetico si può rettamente giudicare di poesia. ◀Citação/Divisa ◀Nível 4

« Procurate, My Lady, di ridurvi alla mia opinione, giacchè noi altri uominacci arroganti non possiamo facilmente ridurci a quella d’alcuno, o uomo o donna ch’e’sia, quando abbiamo detta l’opinione nostra con tante parole quante ne ho scritte io in questa mia lunga lettera. Se non vi mutate di pensiero voi, sarà difficile che siamo tutt’ e due dello stesso pensiero su quest’ articolo. Un’altra volta vi dirò pure in iscritto quello che penso su quell’articolo di Locke nella sua Educazione de’ fanciulli, in cui danna il far loro pigliar gusto di poesia nella loro tenera età. Voglio tentare di farvi mutar d’opinione anche costì; ma col preventivo patto che m’avete a continuare la grazia vostra, che vi mutiate, o che non vi mutiate State sana. » ◀Nível 3

Nível 3►

Versi di Alessandro Grazioli, fra gli arcadi della colonia di Trebbia Glorizio Luciano. In Parma 1761, in 8.o , nella stamperia Carmignani.

Nível 4► Retrato alheio► Don Petronio m’ ha fatto vedere alcune amichevoli lettere scrittegli da questo si-[248]gnor Grazioli, che sono a dir vero molto facili ed eleganti, e che stampate farebbono sicuramente molto maggior onore a questo autore che non questi suoi versi, de’ quali lo stesso don Petronio vorrebbe ch’ io dicessi un mondo di bene, perché non solo il Grazioli è nella opinion sua un buon prosatore, e un verseggiatore più che mediocre; ma, quel che più importa, è uno de’ meglio galantuomini e de’ più amabili compagnoni che s’abbia mai prodotti la città di Bologna. Tuttavia, quando si tratta di libri, e’ m’ è duopo agli affetti di don Petronio anteporre la rigida verità e dire che in questi versi del signor Grazioli v’è molto studio di lingua, ma poco pensare, e poco poetico brio. Nella maggior parte de’ suoi versi sciolti egli si mostra soverchiamente seguace della scuola frugoniana, che è scuola sciocca, come farò vedere a suo tempo. Nelle due canzonette qui stampate e’ va pur dietro al Frugoni, e m’offende col loro poco armonioso metro, come fa anche sovente il Frugoni, uno de’ di cui difetti è lo scegliere metri di strofe che fanno veramente fastidio agli orecchi. La prima di queste due canzonette, ch’ è sulla ritornata delle rime, comincia così.

Nível 5► Citação/Divisa► « Qual dall’aonie cime

Esce musico fiato?
Qual ne diparte alato
[249] Di numerosi genj amico stuol?

Largo largo alle rime,

Che da que’ gioghi alteri
Per gli aerei sentieri
Dietro a’ miei voti scendon oggi a vol. » ◀Citação/Divisa ◀Nível 5

Qual è quell’orecchio di ferro che non senta la doppia martellata di que’ due endecasillabi cosi tronchi? Eppure i poveri poeti di Parma, di Piacenza, di Reggio, di Modana, di Bologna, e di qualch’altra città di Lombardia non sentono alcun dolore di tali martellate.

De’ capitoli bernieschi in questo volume il signor Grazioli ne ha stampati diciassette; nè v’è in alcun d’essi cosa alcuna contra il buon costume; il che è da notare, perchè quasi tutti gli autori di capitoli bernieschi hanno la pecca d’imbrattarli con qualche oscenità. Vorrei che alla modestia il signor Grazioli avesse unito un po’ più di vivacità e di vera piacevolezza. Metatextualidade► Eccone qui uno per saggio della sua maniera alquanto stentata e fredda, quantunque assai elegante. ◀Metatextualidade

Nível 5► Citação/Divisa►

Capitolo in biasimo del pan fresco.

Io l’ho contra il pan fresco, e qui la voglio,

Senza metterci sopra olio nè sale,
Qui, dico, io vo’ sfogarla in questo foglio.

A me certo non piace di dir male;

Ma, s’altri mi ci tira pe’ capegli,
Affè, non vo’ parere uno stivale.

[250] Odanmi dunque un tratto e questi e quegli;

Poscia decidan come vuol ragione:
La mente in questa causa ognun risvegli.

Tempo fu già che tra le cose buone

Idest le cose buone da mangiare,
Ebbi il pan fresco anch’io per buon boccone.

Anzi, se tutta io l’ho da confessare,

Non mi sarei, credetelo, mai messo
Senza pan fresco a cena, o a desinare.

Potea marcire la frittura, il lesso,

Lo stufato, l’arrosto e quanto c’era,
Mai tocco nulla io non avrei senz’esso.

In somma ogni mattina, ed ogni sera,

O fosse casalingo o comperato,
Io voleva pan fresco a ogni maniera.

Così quasi finora ho seguitato,

Talchè posso affermar che in vita mia
N’ho proprio qualche poco manucato.

Un’altra io ne dirò, ma qui si stia;

Ed è che tanto amor per esso avea,
Che ad un bisogno non si crederia.

Fatt’è che, appena di lontan vedea

Con esso il buon fornajo comparire,
Che incontro, come pazzo, io gli correa.

Poi caldo caldo ancora vi so dire

Che il baciava e mordea per lo contento,
Nulla sapendo no dell’avvenire.

Hollo testè saputo; e s’ ora io mento

Vel dicano i miei denti assassinati:
Statevi pure con l’orecchio attento.

Veramente meschini e disgraziati,

Che a loro e a mio dispetto manifesto
Ei me gli ha quasi tutti sgangherati.

[251] Giù caccinsi ‘n un cesso bell’e presto

Le flussioni, o simili altri guai,
Che non vagliono un fico appetto a questo.

Altra cosa è il pan fresco se nol sai;

Contra i denti egli sì che ha gran virtute:
Credilo a me che tutta la provai.

Con quelle scabre sue crostacce acute

Uno poc’ anzi me ne ruppe affatto,
Qui dove la faccenda più mi pute.

Puossi egli figurar più ladro tratto?

Ito ne foss’io pur sempre digiuno:
Ma non giova il consiglio dopo il fatto.

Alle mie spese impari mo ciascuno;

E di questo si accerti fermamente,
Che il pan fresco non guata in faccia a niuno.

Oh un canchero gli venga di presente

Che lo divori alfin! Ma che dich’io?
La collera m’accieca propriamente.

Ben lo conosco, e di cuor prego a Dio,

Che mi guardi dal dir anche di peggio,
Come pur merta un traditor sì rio. ◀Citação/Divisa ◀Nível 5

« Quel di cuor prego a Dio è modo di esprimersi molto riprensibile, chè Dio non s’ ha a nominar invano, e massimamente in coteste inezie alla berniesca. »

Nível 5► Citação/Divisa► Quando mi pongo a tavola, e m’avveggio

D’esser affatto altr’uom da quel di prima,
Pensate il bel piacer con cui vi seggio.

Nè in prosa dir potrebbesi, nè in rima

Quant’ io valeva, e come lesto il sacco
Dello stomaco empia fino alla cima.

[252] Or sul bel cominciar m’affanno e stracco;

E se i cibi non son teneri bene,
Io ve li pianto e quasi al ciel l’attacco.

Certo contra il pan fresco allor mi viene

La più gran stizza, il più bestial rovello,
Che mai bulichi altrui dentro le vene.

Poco manco intervien quand’io favello,

E della lingua mi trovo impedito,
E fo rider intanto or questo or quello.

Chiunque m’abbia in altro tempo udito

Anche per ciò ben può toccar con mano
Se il pan fresco m’ha messo a mal partito.

Or dopo un trattamento sì inumano,

Andate a dir che serbar possa ancora
Sua pazienza un povero cristiano.

E forse che non perdesi talora

Per meno assai? ma entrare in ciò che occorre?
Lasciamola pur ire in sua malora.

Questo soltanto vi ho voluto esporre

Contra il pan fresco; e spero non v’abbiate
Nulla da replicar, nulla da opporre.

Tutte intendano dunque le brigate,

Che il pan fresco de i denti è una rovina
Delle più, verbigrazia, sciagurate,
E se ne guardi ognun sera e mattina. ◀Citação/Divisa ◀Nível 5 ◀Retrato alheio ◀Nível 4 ◀Nível 3

Nível 3►

Dell’arte ostetricia. Trattato di Giuseppe Vespa, professore di chirurgia, diviso in tre parti, precedute da varj ragionamenti. In Firenze 1761, appresso Andrea Bonducci, in 4.o

Nível 4► Retrato alheio► Questo titolo dice quello che l’opera del signor Vespa sarà quando sarà stampata. Di que’varj ragionamenti che precederanno il suo intiero Trattato dell’arte ostetricia, noi non abbiamo in questo libretto che il primo; e questo ne informa del disegno che l’autore ha in testa, e del metodo che intende di tener nell’insegnare quest’arte a’suoi scolari. Il suo disegno è grande, e il suo metodo sarà eccellente, a giudicarne da questo bel saggio; ed io non dubito punto che il signor Vespa non faccia de’buonissimi allievi, poichè al suo molto sapere congiunge un modo di dire assai piano e chiaro.

Siccome però l’esercizio dell’arte ostetricia non richiede robustezza di braccia e di schiene superiore alla corporea forza femminile, e che l’ingegno e il giudizio sono i due principali requisiti a ben esercitarla, sarebbe da desiderarsi, che tanto in Toscana quanto fuori di Toscana si trovasse modo di farla perfettamente imparare, ed unicamente esercitare dalle donne, educandone un competente numero in [254] essa, e svegliando il loro ingegno e il loro giudizio con premj e ricompense a quelle che più si rendessero atte ad insegnarla in progresso di tempo ad altre donne. Nível 5► Exemplum► Elisabetta Carter, che vive oggi in Londra, è forse il più dotto individuo che sia in quell’isola attualmente, ed è universalmente sopranomata a Monster of Learning, cioè un Mostro di Letteratura: l’Agnesi in Milano, tutti sanno quanto pochi paragoni ha oggi in Italia nelle scienze matematiche: e Bologna annovera tra’suoi professori un professore colle gambe coperte da una gonna muliebre. ◀Exemplum ◀Nível 5 Questi tre esempj bastano per mostrare quanto le donne sieno atte alle scienze, e bastano conseguentemente per rispondere alla solita brutale obbiezione, che « le facoltà mentali delle donne non sono proporzionate a certi studj astrusi ». Se dunque l’arte ostetricia, che non è più ardua dell’altre, fosse insegnata e fatta esercitare dalle donne, non si oltraggerebbe più quella verecondia di cui tutti i magni professori di chirurgia si lagnano di continuo, e si torrebbe loro l’incomodo di combattere contro una spezie d’istinto, che sarà sempre invincibile, quando non si voglia pazzamente distruggere con introdurre nelle menti femminili uno sfacciatissimo universal disprezzo della modestia, e ravvivare fra di noi alcune infami [255] leggi degli antichi Spartani. La verecondia è tanto incorporata, dirò così, coll’anima donnesca, che sino in quelle nazioni d’Affrica e d’America, che vanno salvaticamente nude, le donne non ne rompono le leggi senza un ribrezzo grande. Alla forza di quel ribrezzo che viene da natura s’aggiunge poi in tutta Europa la sussidiaria forza dell’educazione, che sempre inculca nelle donne la natural verecondia, e che l’inculca per motivi giustissimi, e conducentissimi al buon ordine dell’umana società. Queste due riunite forze di natura e di educazione operano, e non di rado, con tanto impeto, che le donne preferiscono talvolta un evidente pericolo di morte alla probabilità di salvarsi la vita, quando veggono che per salvarsi la vita bisogna s’abbandonino agli occhi e alle mani degli uomini, e che sagrifichino a que’lor occhi e a quelle lor mani la verecondia; onde non è poco da stupirsi che in nessun luogo d’Europa si pensi ad ovviare ad un inconveniente sì grave col ripiego di far esercitare dalle sole donne un’arte, che non è in alcun modo sproporzionata, come dissi, alle loro corporee o mentali facoltà. Checchè si possa dire pro e contro questo mio pensiero, io raccomando a’nostri chirurghi di leggere intanto tutto quello che il dotto e benevolo signor Vespa andrà scrivendo su questo proposito. ◀Retrato alheio ◀Nível 4 ◀Nível 3

[256] Mi pare che un capitolo venutomi da Roma contenga qualche buon suggerimento, se non altro, a coloro che vogliono tuttavia scrivere de’libri senza soverchia provvisione d’ingegno; onde lo stampo, quantunque v’abbiano in esso due o tre terzetti che non mi piacciono.

Nível 3► Citação/Divisa►

Capitolo d’un pastor arcade ad Aristarco.

Sento dir che più d’uno si scateni,

Fero Aristarco, contro quella Frusta

Che tu severamente intorno meni;

E che una turba d’autorelli ingiusta

La disapprova invece d’approvarla,

E in vece di gustarla non la gusta;

E che più d’uno di costoro parla

D’essa come di cosa che dovria

Detestarla ciascuno, abbominarla;

E che d’indole sei maligna e ria,

Anzi d’indole barbara e bestiale.

Se questo è verità, verità sia.

Ma che sia molto contra la morale

Il dar delle frustate in verso e in prosa

Ad un autor che pensa e scrive male,

Questa da digerire è dura cosa;

È cosa che ripugna alla ragione,

E nelle conseguenze assai dannosa;

È cosa che per diametro si oppone

Al bene universal, che scopo e meta

Esser debbe di chi libri compone.

[257] E quando un uomo, a cui natura vieta

L’entrata di Parnaso, vuole pure

Farla da prosatore o da poeta,

Ognuno, pare a me, possa de jure

Del suo pensar vituperoso o basso

Dir male, e scardassar le sue scritture.

Se per istrada intoppo in legno, in sasso,

Chi vorrà dir ch’io faccio un atto ingiusto

A rimuoverlo, a toglierlo dal passo?

E perchè fia d’ingiurie vili onusto

Un critico che batte e che maltratta

Chi nè profitto non ti dà, nè gusto?

La fantesca che stummia la pignatta,

Balli pure col guattero in cucina

A suo piacer quando la cena è fatta:

Ma non perciò si creda ballerina,

E il teatro lo lasci a chi lo intende,

Lo lasci all’Aloardo, alla Santina.

Commette un’insolenza chi pretende

Far cosa che di far non è capace,

E ognun naturalmente se n’offende:

Nè occorre dir: Il libro non ti piace,

Ergo lascialo star. Questo argomento

È troppo in buona logica fallace.

O pallon, rispond’io, pieno di vento,

Perchè quello vuoi far, per cui non hai

Proporzionato ingegno e sentimento?

Perchè dunque, se scrivere non sai,

Pretendi tu di scrivere e stampare?

Forse de’libri non n’abbiamo assai?

Perchè ‘l prossimo mio vieni a gabbare,

Che credendo comprare un libro buono

[258] Una castroneria viene a comprare?

È forse tanto il tuo cervello, e sono

Sì grandi le ricchezze di tua mente

Che prodigo le sciacqui e ne fai dono?

E perchè farà mal se si risente

Un Aristarco, e se ti corre addosso

Sputando fiamme fuor come un serpente?

Io per me gli so grado quanto posso,

E l’ho per un amico che procaccia

Di vendicarmi di chi m’ha percosso:

Lo paragono al sole che discaccia

Nottole, gufi, allocchi e barbagianni

Col divino splendor della sua faccia.

Chi non vuol che la critica l’azzanni,

Prenda altre strade, che ve n’hanno tante

Da guadagnarsi al mondo e vitto e panni.

Facciasi verbigrazia mercatante,

Ed ogni cosa compri a buon mercato,

E venda a prezzo poi disorbitante:

O faccia verbigrazia l’avvocato

Che assassinando i miseri clienti

Vedrassi presto ricco sfondolato:

O medico si faccia, ed alle genti

Che stanno, o credon di star male, dia

Ora veleni, ed or medicamenti:

O se non trova una più facil via,

Faccia il soldato, o il fabbro, o il pentolajo,

O ‘l vetturale, o tenga un’osteria:

O lungo un campo lentamente un pajo

Di buoi punzecchi come buon villano,

O facciasi sartore, o calzolajo:

O in sua malora faccia anche il ruffiano:

[259] Eserciti in sostanza ogni mestiere

Purchè non prenda mai la penna in mano.

O se ha pur la saetta di volere

A’posteri passar per un autore

Ampio di mente e pregno di sapere,

A far s’appigli da commentatore,

E le virgole metta a luogo e i punti

Di qualche antico classico scrittore;

E i sensi dall’età quasi consunti

Rattoppi, e ricucisca le sdrucite

Sentenze ed i paragrafi disgiunti;

O da gran pedagogo in qualche lite

Entri con gli Olandesi e co’Tedeschi,

E frammischi le lodi alle mentite.

So che molti dottori facchineschi

In Lipsia, in Maddeburgo, in Rotterdame

Per greco e per latin sono maneschi;

So che d’erudizione entro il marame

Sanno ben ben rivoltolarsi, come

Si rivoltola il ciacco sul letame;

So che sanno portare e sacca e some

Di passaggi, e sentenze, e conjetture

Sopra un solo scordato antico nome.

Per decider se chiome aurate o scure

Mona Lucrezia avea, sanno que’dotti

Scriver importantissime scritture;

E il gran punto discutono, se cotti

O crudi i cardi Andromaca mangiava

Prima che i muri d’Ilio fosser rotti;

Se la testa il Macedone portava

China dal destro o dal sinistro lato

Quando Bucifalasso cavalcava.

[260] Entrate in questo campo sterminato,

Voi cervelli di piombo, che volete

Il nome vostro vagheggiar stampato;

O di scriver cavatevi la sete

Dissertando alla lunga sulle antiche

Statue, lucerne, lapidi e monete;

O al microscopio le vostre fatiche

Sien limitate; a esaminar pidocchi,

Pulci, farfalle, lucciole e formiche,

Contate le lor gambe, e i peli e gli occhi

A centinaja ed a migliaja, e fate

Di maraviglia strabiliar gli sciocchi;

O de’gamberi l’uova numerate

Ad uno ad uno diligentemente,

E il vostro ingegno acuto in ciò mostrate:

O rischiarate a i nobili la mente

Rintracciando le lor genalogie

Suso sino al centesimo parente;

E con mille araldesche fantasie

Provate al mondo che le stirpi loro

Sceser dalle celesti gerarchie:

Che nel campo d’argento il cervo d’oro

Col lione rampante in sul cimiero,

Che nella branca ha un albero d’alloro,

Significa che al tempo d’Assuero

Un figlio naturale di Nerone

Fu della stirpe il fondator primiero;

Che di quel figlio nacque un gran barone

Il quale, avendo vinta una battaglia,

Ottenne di Pistoja il gonfalone:

Che questi ebbe un cugino di gran vaglia

Il quale si partì di Manfredonia

[261] Per conquistar il regno di Biscaglia.

Intralciando in tal guisa una fandonia

Con un’altra fandonia in giù venite

Sino al figliuol della contessa Antonia;

E di lui mille maraviglie dite,

E dite ch’egli ha un sangue che vien fuora

Verde, e non rosso, in caso di ferite.

Quando poi primavera intorno infiora

Ogni prato, ogni campo, ogni giardino,

E che l’asino e l’uomo s’innamora,

Ogni piantuccia ed ogni fiorellino,

E spezialmente que’ di nessun uso,

Andate raccogliendo a capo chino:

Scrivetemi un trattato ampio e diffuso

Sull’ortica, la malva e la borrana

Da rendere Linneo matto e confuso;

O la descrizione esatta e piana

Accompagnata dall’intaglio in rame

Di qualche mercorella americana.

Con queste cose, se v’avete fame

Di rinomanza, con sì dolci studi

Potete contentar le vostre brame.

Oh Italia, dove son l’alte virtudi

Che un dì ti fero venerar da tanti

Popoli vasti, dispettosi e crudi!

Lascia, Italia, per poco i suoni e i canti,

Leva la fronte luminosa e bella,

E volgi intorno gli occhi gravi e santi !

Il Franco ed il Britanno una favella

Ti chieggono, e costumi, e leggi, e panni!

Povera Italia mia, non se’più quella!

[262] Oimè, passati sono que’begli anni

Che tutto quel che si volea si dava

Dal Campidoglio a i Galli ed a’Britanni!

Cessata è la tua boria e la tua fava:

Lacero e rappezzato il manto porti,

Fatta de’tuoi antichi schiavi schiava!

È vano ch’io ti sgridi, e ch’io t’esorti

A scuoter l’alto sonno onde se’oppressa!

Dormon gli spirti tuoi, se non son morti.

Dacchè a far le moine ti sei messa

A migliaja d’eunuchi, a corteggiare

Ogni schifosa sgualdrinella fessa,

Chi ti vuol bene ha bel dire, ha bel fare;

Tu più non pregi e non curi un bajocco

La gloria letteraria o militare.

Prodiga sei d’applausi ad ogni sciocco

Che in Arcadia gesticola un sonetto

In lode dello sterco d’un allocco:

O t’ingalluzzì tutta nell’aspetto,

Se un qualche perdigiorno ti regala

D’un marmo da più secoli negletto:

O ti metti sui nastri e sulla gala,

Quando un qualche autoruzzo mosciolino

Riboboleggia in cicalate e sciala;

O piangi perchè morto è quel d’Urbino,

Che non ti può somministrar disegni

Pel libro di Bertoldo e Bertoldino:

E contr’ogni filosofo ti sdegni,

Se avvien che a’trasandati figli tuoi

A far buon uso della mente insegni.

Deh, intrepido Aristarco, addosso a noi

Non men superbe che meschine talpe,

[263] Mena la frusta, e cacciane, se puoi,

Di là dal nostro mar, di là dall’Alpe. ◀Citação/Divisa ◀Nível 3

Metatextualidade► La seguente lettera è venuta per la posta ad Aristarco. Don Petronio dice che tal lettera è stata scritta da buon senno: Aristarco dice che è stata scritta per celia. L’autore di essa, qualunque sia, è pregato di dire chi è de’due che s’inganna. ◀Metatextualidade

Nível 3►

Lettera d’un Marchigiano P.A. che sta in Roma ad un altro Marchigiano P.A. che sta in Jesi.

Carta/Carta ao editor► Roma 26 ottobre 1763. Cugino carissimo. Se voi disapprovate il primo numero della Frusta, io disapprovo il primo ed il secondo; ed è probabile che noi e tutti i marchigiani disapproveremo anche tutti i numeri successivi, per quelle ragioni che m’avete dette, e sono di fatto buone e prudentissime ragioni. Si può far di peggio che trattare di goffi, di sciagurati, di goti, e di vandali tanti poveri scrittori che non n’hanno mai fatto nè ben nè male? si può far di peggio che chiamare una fanciullaggine la nostra Arcadia, come se noi non avessimo scritti de’milioni di sonetti, di canzoni, d’egloghe, e sino qualche capitolo in terza rima, senza contare le ottave? così si parla delle notizie storiche dateci da’custodi ge-[264]nerali? così si parla d’un Bosco Parrasio, d’un Serbatojo, delle Effemeridi? e perchè il Crescimbeni credeva che il Morgante fosse un poema serio, e l’Inferno di Dante un poema burlesco, s’ha a conchiudere che il Crescimbeni non era atto a giudicare di poesia? e perchè nessuno legge le tragedie del Gravina, e perchè nessuno bada a’precetti dati dal Gravina, s’ha a dire che il Gravina era avvocato? e s’ha a dire che il nome del Taja, del gran Taja, del rinomatissimo Taja, non è punto nome di poeta? e perchè s’ha ad abolire il costume di lodar i grandi in versi, quando ciò non si possa fare con rigidissima verità? che ha che fare la verità con la poesia? la verità co’sonetti arcadici? la verità coll’egloghe pastorali in lode di questo e di quell’altro pastore, che è seguito al pasco erboso da tante centinaja di pecore? Concedo che la traduzione dell’oda di Sathim Mum Gabner non è cattiva, quantunque sia un poco oscura; e un segretario della Propaganda, che l’ha confrontata con l’originale nella Vaticana, dice che Aristarco l’ha tradotta fedelmente; ma al fin del conto le traduzioni non sono poi altro che traduzioni. E che dite voi di quel gattino? forse che gli editori di libri cattivi e perniciosi meritano d’essere trattati con tanto ludibrio e con tanta severità? se poi il libro [265] dell’abate Genovesi è quel libro che si dice, perchè screditarne lo stile? Non bastava l’essersi opposto alla sua opinione intorno al bene e al male; quistione che non interessa punto gli uomini? e chi ha mai veduto uno scrittore parlare d’un’opera scritta da un principe napoletano, con quella stessa libertà con cui si scrive dell’uccellatura d’un prete bergamasco? e che diavolo significa quel Johnny Blokhead? e che diavolo d’allegoria è quella del lione che non si sa se fosse un lione, o se fosse una rupe? e che significano quelle scimmie che si graffiano e si mordono la coda a proposito d’una lapida che è in Foligno? In somma, cugino mio, questo vecchio settuagenario vuole riformare il mondo, e il mondo non sarà mai riformato; e in Foligno egualmente che in Roma, e spero anche nel nostro Jesi, vi son de’musi duri che non si lasceranno riformare così tosto, ma che trafiggeranno anzi questo matto con la punta delle loro penne; e molto male farà quel marchese Pindemonti se accetterà quella patente che Aristarco gli vuol mandare di suo coadjutore, perchè lo assista al bisogno contro quegli antiquarj, che gli volessero scagliar contro de’grossi frammenti di lapidi antiche. Salutate la mamma, e statevi sano. ◀Carta/Carta ao editor ◀Nível 3

[266] Metatextualidade► In grazia della loro brevità si trascrivono ancora qui quattro lettere ricevute a questi dì da Aristarco. ◀Metatextualidade

Nível 3► Carta/Carta ao editor► Lettera I. - « Sig. Aristarco. Vi prego di salutare in mio nome don Petronio Zamberlucco ».

Vostro servidore Sempronio Pelliccia ◀Carta/Carta ao editor ◀Nível 3

Nível 3► Carta/Carta ao editor► Lettera II. - « Sig. Aristarco. Sono una giovane dama fiorentina. Non ho mai stampato nulla. Di grazia stampate questa lettera nella vostra Frusta, ond’io possa vantarmi d’avere qualche cosa alle stampe ».

Vostra parzialissima Cecca R. ◀Carta/Carta ao editor ◀Nível 3

Nível 3► Carta/Carta ao editor► Lettera III. - « Sig. Aristarco. Non ho ancora quindici anni, e mamma mia vuole per forza ch’io legga i vostri fogli in vece del Païsan Parvenu. Mi date voi licenza, quando gli avrò letti, di farmi far su i ricci con essi? »

Vostra serva Ippolita M. ◀Carta/Carta ao editor ◀Nível 3

Metatextualidade► Rispondo ad Ippolita M. ch’io non posso patire quelle giovanette che non curano di conservarsi la chioma bella. Le raccomando la poudre à la Marechale, che non fa danno a’capegli. ◀Metatextualidade

Nível 3► Carta/Carta ao editor► Lettera IV. - « Signor critico. Ho letto nella gazzetta di Ciaffusa e in quella dell’Aja che dal porto di Marocco sono usciti molti brigantini per corseggiare; onde vi prego di fare un secondo viaggio verso lo Stretto di Gibilterra, giacchè delle due gambe ve ne resta ancor una ».

Vostro ammiratore Tirsi P. A. ◀Carta/Carta ao editor ◀Nível 3

[267] Domando al mio ammiratore, se sta per istampare le sue egloghe col suo nome pastorale in fronte?

Nível 3►

Paragrafo d’una lettera scritta a don Petronio da un suo parente.

Carta/Carta ao editor► « Dite al vostro vecchiaccio, che in Bologna è uscito un grosso tomo in foglio sul gioco degli scacchi. Vedete se i nostri Italiani sono impazziti. Pretendere che si abbia a leggere un tomo che vi vuole un facchino a portarlo, per apprendere quel giuoco! Un Franzese voleva rinunziare ad esser galantuomo, se per esserlo era necessario leggere tutto il Dritto Pubblico del Volfio. E non si ha a mandare al diavolo e scacchi e scacchiere, se per imparare questo giuoco ci abbiamo a limbiccare il cervello sur un libro in folio di 632 pagine? eccovene il titolo: Nível 4► Citação/Divisa► « Osservazioni teorico-pratiche sopra il giuoco degli Scacchi, ossia il giuoco degli scacchi esposto nel suo miglior lume da Giambattista Lolli modonese. Opera nuovissima contenente le leggi fondamentali, i precetti più purgati, le migliori aperture, le più essenziali terminazioni del giuoco; una scelta centuria di elegantissimi partiti; in somma tutto il migliore degli antichi e moderni autori e giuocatori, riformato, ricorretto, ed appianato [268] conforme l’esigenza, e arricchito (oltre un indice copioso ed esatto) di moltissimi avvertimenti e dichiarazioni valevoli ad istruir pienamente chiunque desideri d’apprendere con fondamento le regole, gli artifizj, e le finezze di questo nobil giuoco. In Bologna 1762. Nella stamperia di San Tomaso d’Aquino ». ◀Citação/Divisa ◀Nível 4 Che ti pare, don Petronio, di questo eloquentissimo titolo? che ne pare ad Aristarco? ride egli, o va in bestia? ◀Carta/Carta ao editor ◀Nível 3

Metatextualidade► N. B. Aristarco non ha ricevuti in queste due scorse settimane, che cinquantasette sonetti ingiuriosi. Quand’ebbe pubblicato il primo numero ne ricevette in una sola settimana trecento sessantuno. Poetastri miei cari, cominciate voi forse a stancarvi? eh mandate in bando la pigrizia, e scrivetemi de’sonetti contro a migliaja. ◀Metatextualidade ◀Nível 2 ◀Nível 1