Numero V Giuseppe Baretti Moralische Wochenschriften Klaus-Dieter Ertler Herausgeber Alexandra Fuchs Herausgeber Sarah Lang Gerlinde Schneider Martina Scholger Johannes Stigler Gunter Vasold Datenmodellierung Applikationsentwicklung Institut für Romanistik, Universität Graz Zentrum für Informationsmodellierung, Universität Graz Graz 16.04.2019

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Baretti, Giuseppe: La Frusta Letteraria di Aristarco Scannabue. Herausgegeben von Appiano Buonafede. Milano: Lorenzo Sonzogno, 1829 [1763]Venezia: 180-223 La Frusta letteraria di Aristarco Scannabue 1 05 1763 Italien
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N.° V

Roveredo 1 decembre 1763. Delle produzioni naturali del territorio di Pistoja, Relazione istorica e filosofica di Antonio Matani. In Pistoja 1762, in 4.o

Ha molta ragione questo savio scrittore di dire nella sua prefazione che « l’uomo occupato è di rado un inutile o cattivo cittadino », essendo cosa certissima che se troppi individui in ogni patria non riescono buoni ad altro che a consumar il pane, questo procede appunto perchè le signorie loro non s’occupano in cosa alcuna. Gli è vero però che molti di tali individui frequentemente si trovano, e spezialmente nella classe degli opulenti, che non s’occupano mai in alcuna cosa, perchè non sanno proprio in che occuparsi. Dite a uno di costoro, a cui lo possiate dire senza pericolo: « Perchè, signor tale, non fate voi qualche cosa per occuparvi? » Ed egli vi risponderà: « Ma in che volete ch’io m’occupi? cosa volete voi ch’io faccia? » Oh stolti, stolti! mancan eglino i modi di passar via il tempo; se non esercitando le virtù cristiane e morali, almeno facendo cose che non putano di vizio? Quanti re, e principi, e signori potentissimi non hanno, malgrado le molte loro indispensabili quotidiane occupazioni, trovate alcune ore, o almeno alcuni quarti d’ora ogni dì, per operare cose che gli hanno resi l’amore de’ soggetti, e l’ammirazione degli stranieri? Ma senza far qui pompa d’una vana istorica erudizione citando i nomi di molti antichi sovrani che si sono perfezionati insensibilmente in qualche arte o scienza, malgrado i necessarj doveri annessi alle loro sovranità, non è forse il maggior sovrano dell’Europa nostra un grandissimo botanico e medaglista? e un altro un geografo istruttissimo? e un altro un eccellente intenditore di poesia e di musica? e un altro un torniajo valentissimo in avorio? Que’re trovano pure la via di coltivare chi una scienza, chi l’altra, e chi una o un’altr’arte, malgrado le gravi faccende de’ loro gabinetti? e se personaggi tali trovano il modo di addimesticarsi, dirò così, con quell’umanità che hanno in comune co’ più piccini mortali, e se trovano la via di passare con piacere questa vita, che in tutte le condizioni è naturalmente spiacevole e grave, checchè se ne pensi il volgo: perchè gli opulenti privati non si danno a imitare questi esempj, quando coll’imitarli, potrebbono facilmente procacciar diletto e utilità a sè stessi e ad altrui?

Ma io non vo’ qui ingolfarmi a far la predica alle signorie loro, e voglio soltanto suggerire agli opulenti privati della nostra penisola, che fra le infinite cose utili e dilettevoli che ancora non si sono fatte e che da essi si potrebbono agevolmente fare, una è la storia fisica delle patrie loro. Circa una ventina de’ nostri paesani ha già fatta qualche parte di tale storia, ma a metter insieme tutto quello che dagl’Italiani s’è fatto dopo il fortunato ravvivamento delle lettere, molto poco s’è fatto in paragone di quello che si potrebbe fare. L’Italia nostra, forse più d’alcuna altra conosciuta terra, abbonda di singolarissime produzioni naturali, e il cercarle e il descriverle è cosa che gli opulenti privati potrebbono facilmente fare con poca fatica e con molto piacer loro. Eccone una delle tante vie per occuparsi; eccone uno de’ più dolci modi da passar via quel tempo che pesa tanto addosso a tanti de’ nostri ricchi.

Fra que’ pochi individui che fra di noi si studiano di rendersi benemeriti alla società sia con lode annoverato il sig. Matani professore di medicina nell’università di Pisa, il di cui libro mi ha date molte cognizioni che non avevo e che non avrei mai potute avere senza di lui, del che io nel ringrazio, e lo prego, se le sue incombenze gliel permetteranno, a non si scordare la gentil promessa che ne fa, di scrivere più ampiamente delle naturali produzioni del territorio di Pistoja; poichè, secondo il suo dire, e più secondo il dire della ragione, quel territorio non sarà sì tosto esausto.

Venendo ora a questo suo libro, dirò che, se il suo stile è un pochino snervato, è però assai chiaro e senza affettazione; ed è molto giudizioso il metodo da esso seguito nello stendere le cose da esso notate in quel suo territorio. Sentiamo le sue parole. « Ho pensato parlare sul bel principio della generale costituzione della città e territorio di Pistoja col proporre una fisica descrizione, riducibile tanto alla pianura ed alle colline, quanto alle più alte montagne, per trattare indi non solamente delle terre, de’ metalli e delle pietre più considerabili, come altresì dell’acque de’ fiumi, dei pozzi, e dei laghi, ed in ispecie del lago Scaffajolo mentovato dagli scrittori delle più rimote nazioni, ed inoltre delle principali meteore; dopo di che mi è paruto espediente di favellare dei vegetabili più particolari, come altri hanno fatto in varj paesi della nostra Europa a noi più vicini, terminando finalmente col proporre alcune osservazioni sugli animali più pregevoli che ivi si trovano. »

Questa divisione delle materie è comodissima, ed io raccomando lo stesso facile e giudizioso metodo a chiunque, seguendo l’orme onorate del sig. Matani, volesse regalare alla sua patria qualche ragguaglio della natura di questo.

L’accorto leggitore vedrà senza che io gl’impresti i miei occhiali, che non è possibile in un estratto critico compendiare tutte le cose visibili e palpabili che un libro di storia naturale contiene, perchè tali libri si possono quasi senza improprietà chiamare essi stessi Compendj di cose visibili e palpabili. Pure non voglio lasciare i fautori di questi miei fogli senza un saggio di questa bella relazione del sig. Matani, e a questo effetto copierò qui un suo intiero capitolo, che ne dà notizia d’una molto vaga produzione naturale.

Capitolo V. De’ cristalli di monte.

« I cristalli delle montagne pistojesi che volgarmente si addimandano diamanti di Pistoja, si osservano di varie grandezze, e più o meno lucidi secondo i luoghi ov’ essi si generano. Sono per lo più di colore bianco, perchè ritrovansi comunemente lontani da quelle miniere dalle quali sogliono ricevere diversi colori. Questi si vedono tanto nelle più alte, quanto nelle più basse montagne, e particolarmente nelle vicinanze del lago Scaffajolo, nelle montagne di s. Marcello, di Lizzano, di Spignano e di Cavinana. Ne sono ancora nel monte del Crocicchio, alla Sambuca, alla Badia a Taona, a Pracchia, a Uzzo, a Casale, a Lamporecchio e in varj altri luoghi del territorio pistojese. Ho osservato che trovansi regolarmente in quei monti che sono posti a levante e a mezzogiorno, e che conservano costantemente la loro figura esagona. La stessa figura regolare, che suole comparir esagona, si può riscontrare altresì nelle confinanti montagne di Modana, ove ne furono raccolti una volta molti assai belli per trasportarsi in Prussia, e conservarsi in Berlino nel museo di Cristiano Massimiliano Spenero.

Ho conosciuto che la matrice di tali cristalli, che possono addimandarsi iridi cristalline, o gemme lucide, vedesi in alcuni luoghi bizzarramente distribuita nelle tortuose vene impiantate nei filoni della pietra principalmente arenaria. Comparisce non di rado distribuita in certe lamine, dalle quali è incrostata la pietra stessa, o altre pietre di qualità non molto diversa, conforme ho osservato attentamente in diverse parti del territorio pistojese, ed in ispecie nelle montagne ove è posto il lago Scaffajolo. In quella matrice o tarso cristallizzabile, che apparisce distribuito nelle vene tortuose della pietra, e che non può nascere dalla sola congelazione dell’acque, come altri ha preteso, senza supporre che in ogni acqua purissima si contengano particelle pietrose, saline, e pingui, acquistate nello scorrere per varj strati terrestri, di rado si formano i perfetti cristalli, avvegnachè le cristallizzazioni che dovrebbero formarsi dalla regolare propagazione del quarzo, abbiano i confini troppo angusti per potere del tutto formare le intere guglie di tali corpi. Quella matrice poi distribuita in lamine, che incrostano internamente le pietre, sebbene ancora esternamente si osservino tali incrostature, produce perfettamente le varie specie dei cristalli esagoni, ed alcuna volta di altre figure poco diverse, che corrispondono alla situazione differente dei molti luoghi, ove possono ricevere la loro periodica e non interrotta vegetazione.

« Oltre all’uso comune che si potrebbe fare dei cristalli delle montagne di Pistoja, cioè di frammischiarli col vetro che si lavora pe’ comodi degli uomini nelle fornaci, potrebbero formarsene molti altri lavori, e si brillanterebbero in guisa, che si confondessero con que’ brillanti che portano al collo e nell’orecchie e nelle dita le donne per accrescimento della bellezza di cui quel sesso debole fa molta pompa. Che possano questi incassarsi nelle anella è più che certo, avendone io veduti alcuni bene lavorati per un tale uso appresso il signore Francesco Mosi, medico pistojese, i quali compariscono all’occhio assai dilettevoli. Per la qual cosa io sono d’avviso, che molto risparmierebbero di danaro i Pistojesi e gli abitatori dei luoghi circonvicini, se in vece di provvedere le gioje false di Francia, di Venezia, di Genova pensassero soltanto a fare uso di que’ diamanti, che si producono abbondevolmente nelle loro montagne; nè finalmente riuscirebbe molto malagevole il separarne i migliori, giacchè le varie specie e qualità di essi sono descritte dai più accreditati scrittori di cristallografia.

Il quarzo da cui si formano i cristalli nelle montagne di Pistoja ha molto di so-miglianza coi cristalli metallici, il che non recherà maraviglia se si rifletta avere dedotto alcuni filosofi la loro composizione da una terra minerale purissima frammischiata con sostanze glutinose e saline. Il mentovato quarzo forma certamente una delle principali sostanze dei monti primitivi in guisa, che sembra non doversi sempre credere una pietra parassitica e secondaria, come fra gli altri hanno creduto il Kahlero e il Linneo. Che perciò i cristalli di monte credo che debbano nascere da una determinata quantità del quarzo che circonda le pareti di quelle caverne ove i cristalli si formano, o sieno salini, o pietrosi, o sulfurei, o semplicemente metallici. Ed invero essendo egli nella sua primiera origine, non già l’acqua gelata, secondo l’errore popolare, ma bensì una semplice sostanza fluida, ed in varj luoghi dei monti raccolta, dee credersi che abbia acquistata a poco a poco alcuni gradi di consolidazione, racchiudendo dentro di sè diversi corpi stranieri, come osservò il Bagli, e come si può osservare principalmente nella copiosa raccolta dei cristalli fossili del museo della università di Pisa, e nella serie del signore Cino Cini di San Marcello, e finalmente in quella da me fatta nelle montagne del territorio pistojese. Quindi è che secondo lo accrescimento delle mentovate sostanze pos-sono formarsi di piccola mole i cristalli, ed al contrario cotanto grandi da sorprendere i più dotti naturalisti, conforme fu certamente quello di libbre secento novantacinque osservato negli Svizzeri da Haller. È da notarsi per altro che nelle alte montagne di Pistoja verso il fiume Lima si osservano alcune iridi o basaltiti simili al gagate di pasta quasi trasparente, ma offuscate da un colore nericcio, ed altro non sono che ingemmamenti cristallini, colorati probabilmente da qualche sconosciuta metallica esalazione. »

Due cose voglio ora suggerire al signor Matani; e se il signor Matani le troverà ragionevoli, gli do licenza di farne uso nell’accennato libro che ne promette. La prima è di non caricar tanto i piedi alle sue pagine di postille e di rimandi, come ha fatto in questo. Alla scienza delle cose fisiche, e forse a tutte le scienze, fa d’uopo dare un’aria di piacevolezza e di facilità, se vogliamo che tutti que’ che sanno leggere s’invoglino di acquistarne qualche porzione: e quelle tante autorità delle quali si aggrava ogni pagina d’un libro, danno a quel libro un aspetto soverchiamente austero, e faticosamente dotto, e lo rendono soltanto proprio per quelli che non hanno altro mestiero in mano, eccetto quello di studiar libri; il che è quasi come dire, soltanto proprio pe’ cacasodi e pe’ pedanti. Quando il Bartoli scrive un grosso tomo sopra un dittico d’avorio, verbigrazia, riempia pure a sua posta due terzi d’ogni sua pagina di sottovia del testo con i nomi pronunciabili e non pronunciabili d’innumerevoli scrittori tedeschi, moscoviti, cosacchi, tartari, madagascarani, cinesi, giapponesi e moncalierini o marchigiani, che non farà mal nessuno, perchè la storia d’un dittico d’avorio non importa un fico secco alla società, e quello che non importa un fico secco alla società, non importa neppure che sia scritto bene o che sia scritto male. Ma una relazione delle produzioni naturali d’un paese interessa almeno tutto quel tal paese, e può avere, quando sia scritta come si deve, molta influenza sul bene e sul meglio degli abitanti di quel tal paese, onde bisogna aver cura di scriverla in modo che non solamente gli studianti di professione la leggano, ma che la possano anche leggere con gusto quelle tante persone civili, che, oltre allo studiare qualche volta, vogliono altresì badare o a’ loro negozj o a’ loro divertimenti; e l’impiombare una tal relazione co’nomi messi in postille de’ più sonori letterati d’ogni secolo e d’ogni regione, non serve che a far pompa di quella erudizione di cui ogni debole letterato fa molta pompa, e disgusta, e secca, e ributta dal leggerla tutti que’ che non sono letteratissimi letterati. Non so s’io mi sia spiegato bene e abbastanza su questo articolo.

L’altra cosa poi che vorrei altresì suggerire al signor Matani, è d’astenersi sempre negli scritti suoi dal mostrare la minim’ombra di dispregio pel sesso donnesco, e di ommettere per conseguenza tutti que’ frizzi che lo possono offendere, come sarebbe quel frizzetto che ho distinto con carattere diverso in questo suo capitolo quinto. Se il signor Matani non ha in molta stima le donne, le lasci a que’ che le stimano e che non sono del suo umore. Le lasci a noi che siamo ammiratori di quella bellezza di cui quel sesso debole fa molta pompa. E perchè non n’hanno queste belle creature a far pompa? Il Creatore ha data peculiarmente ad esse la bellezza e la grazia perchè ne mansuefacciano e ne rendano amanti; e a noi ha data la forza e il coraggio perchè le difendiamo: e noi abusiamo del dono fattoci dal Creatore, se lo volgiamo a loro offesa anzi che a loro difesa, come abusano esse del dono loro, se non lo adoperano misuratamente. Osserverò etiam, ch’ella è una soverchieria vituperosa il servirsi contr’esse d’un’arme che noi maneggiamo più frequentemente che non esse, cioè della penna. Guai a noi se per la legge del taglione esse si unissero a far uso tutte d’accordo contro di noi dell’arme che più frequentemente di noi maneggiano, cioè dell’ago! In somma, a dispetto de’ miei settantacinque anni, a me piaccion più le belle giovanette che si sanno metter bene i néi sotto l’occhio sinistro, o sul labbro superiore, che non que’ gravi letterati che sanno mettere le dieci e le venti postille in fondo d’ogni lor pagina. Conchiudo con queste belle parole del poeta Dryden: None bui the brave deserve the fair.

Due memorie sull’innesto del vajuolo del signor De La Condamine, tradotte dal francese con l’aggiunta delle relazioni d’innesti di vajuolo fatti in Firenze nel 1756, dal signor dottore Giovanni Targioni Tozzetti. In Venezia 1761, presso Domenico Deregni, in 8.o

L’uomo è definito animai ragionevole; ma e’ basta che tu lo veda operare e che tu noti con quanta fiacchezza, con quanta pusillanimità e con quanta inerzia egli esercita quelle facoltà che lo distinguono da’ lombrichi e da’ bacherozzoli, perché ti venga voglia di stizzosamente negare la verità di questa definizione e perché tu sia tentato di definirlo animale a fatica suscettibile di buon discorso.

Innumerabili cose vuole la ragione che facciamo o che non facciamo per ottener bene, e per iscansar male. Ma quanti disubbidienti e quanti ribelli non ha essa? E quanti non sono i ritrosi e gli accidiosi, o gli ostinati e i perversi, che sempre le menano de’ pugni in faccia, e che se le sottomettono a mal in corpo, o per marcia forza? Quanti che a suo dispetto vogliono avere un qualche certo male, anzi che avere secondo sua voglia un qualche infallibil bene? V’è egli un solo de’ miei leggitori (leggitori miei, mettetevi tutti la mano sulla coscienza) che ardisca assicurarmi d’avere in tutto il corso della sua passata vita scrupolosamente e volentieri seguiti i precetti della ragione per lo spazio intiero d’un solo giorno? E bisognerà egli tuttavia chiamar ragionevole un animale che non sa neppure stare ventiquattr’ore, anzi dodici o quattordici, senza calcitrare contro la ragione, e senza violarne i precetti? Eh fa tu, uomo, questa ed altre somiglievoli riflessioni, e adoperando quel buon discorso di cui sei a fatica suscettibile, vergognati di te stesso e della pomposa e lusinghiera definizione che da te stesso ti sei fatta, e avvilisciti nella tua propria opinione.

Che l’uomo operi non soltanto da fiacco, da pusillanime e da inerte quando si tratta di seguire la ragione, ma che covi anzi nel più interno del suo cuore una forte ed incessante brama di sempre porre ostacolo all’esecuzione di qualunque cosa gli venga da lei chiesta, io non addurrò oggi altra prova, se non quella del poco buon incontro che l’innesto del vajuolo ha fra di noi.

Si sa da’ nostri più sapienti filosofi egualmente che dalle nostre donne più insipienti, che il vajuolo è un male fra di noi inevitabile; si sa altresì con innegabilissima certezza, che d’ogni dozzina di creature umane, tre almeno sono ammazzate da questo inevitabil male, oltre a due almeno che vengono da esso bruttamente guaste. Ma se il vajuolo è un male inevitabile, e che ammazza e guasta tanti de’ tuoi, perchè (dice la ragione) perchè tu, uomo, non procacci un rimedio contr’esso? Il rimedio io l’ho trovato (risponde l’uomo), e so indubitatamente che innestandomi il vajuolo, cioè facendomelo venire a forza quand’io lo giudico a proposito, e’ non ha più la funesta possanza di ammazzare nè di guastare me o alcun de’miei. Buono (dice la ragione), ma come se’ tu certo di questo? Me l’ha detto (ripiglia l’uomo) quella tua savia parente, l’esperienza; e tu sai se le parole dell’esperienza hanno mai ingannato anima viva. Sì signora, l’esperienza ha fatto toccar con mano agl’ignoranti Circassi, e ai dotti Inglesi, che il vajuolo non ammazza e non guasta più alcuno quando sia innestato da un pratico e circospetto e giudicioso medico. Vuoi tu di più, signora mia? Va e leggi quel libretto del dottor Berzi di Padova; anzi to’, e leggi questo che è tradotto dal francese di monsù De la Condamine, e bada bene a quelle giunte del dottor Centenari, del dottor Targioni, e vedrai se l’esperienza parla al suo solito con palpabile verità. Si, si, vedrai da questo libro, che in Inghilterra, in Francia, in Italia e in Istria, anzi pure in tutto il nostro mondo, il vajuolo diventa un mal da biacca, una vera ciancia, quando venga innestato da un medico savio. Confessa dunque, signora ragione, che io non ho il torto quando ti assicuro d’essere convinto arciconvinto, che il vajuolo non può più ammazzare nè guastare alcuno che gli faccia fronte col rimedio ch’ io ho trovato contro la sua tanto funesta possanza. Ergo (dice la ragione) fatti innestare il vajuolo da un pratico, circospetto e giudizioso medico, chè così non sarai più nè ammazzato nè guasto da questo inevitabil male. Oh questo no, signora ragione: questo è quello ch’io non voglio fare, risponde l’animal ragionevole.

La Barcaccia di Bologna, poema giocoso di Sabinto Fenicio 1760, in 8.o

Io non voglio parlare delle ragioni che hanno indotto questo pastor arcade a scrivere questi due canti, non essendo necessario che io dichiari in questi fogli da qual parte io penda nella famosa disputa di cui si tratta nelle due lettere che precedono questa Barcaccia. Dico però che l’argomento di tal disputa è cosa affatto seria, e che non si dovrebbe trattare burlescamente come si fa in queste ottave. Considerando adunque questo poemetto come una fattura poetica, dico che Sabinto Fenicio scrive in ottava rima con una facilità da improvvisatore, e che procura d’imitare piuttosto la snervatezza del Fagiuoli, che la vivacità del Berni. Mi permetta però sua signoria coll’addiettivo terminante in issima, che io disapprovi due cose in questa sua fattura poetica. Una è la scorretta a bassa lingua ch’ egli adopera in questo suo supposto stile berniesco, la quale puzza troppo del bolognese anzi che del toscano; non mica che a me dispiaccia il dialetto di Bologna, che anzi mi piace assai; e molte composizioni ho io lette e sentite a’ miei dì in quel dialetto, che mi sono riuscite ingegnose, vaghe e lepide davvero. Ma chi scrive in italiano deve assolutamente scrivere netto e purgato toscano, e non lasciarsi fuggir della penna un gnanca per nè anche, un barille per barile, e regallo per regalo, che questi sono spropositi d’uomo che non sa in che consista il bello scrivere; nè vale il dire la rima mi ha sforzato a dir così, perchè chi non ha una intiera padronanza sulle rime, non ne deve fare. I Latini e i Greci hanno scritte correttamente le loro lingue; i Francesi hanno fatto e fanno tuttodì lo stesso, e disprezzano e vilipendono chi scrive sconciatamente; e noi Italiani, se non vogliamo essere considerati barbari ignoranti da’forestieri e da’posteri, abbiamo pure a far lo stesso, e non abbiamo a scrivere nella nostra come le zambracche e i facchini di varie delle nostre provincie parlano quando vogliono toscaneggiare. Nè serve punto il dire come la Barcaccia,

Avanti di parlar vi voglio in prima Pregarvi a compatir il canto umile,Mentre s’io parlo in prosa oppure in rima, Questo è l’antico mio usato stile;

perché ogn’uomo di senno e di buon gusto vi risponderà che tanto peggio per voi, se non abbandonate il vostro antico usato stile per conformarvi alla decenza, all’eleganza, all’esempio e alla ragione di tutti i valenti scrittori d’ogni tempo e d’ogni nazione; nè alcuna persona di buon gusto e di senno potrà mai far plauso a espressioni vili e plebee di cose plebee e vili, anzi pure sozze e stomachevoli, o chiamare vivace lepidezza quello che non è altro che mera sporcizia: come sarebbe a dire i seguenti versi della Barcaccia ch’ io qui trascrivo non senza nausea, e soltanto per avvertire i miei compatriotti a non imitare queste porcherie, che dovevano almanco essere adombrate co’ puntini da Sabinto Fenicio.

Canto Primo, stanza 19.

Non distingue (un medico) la febbre dal dolore, Nè dalla convulsione la renella:Un sciloppo ordinava a tutte l’ore,Fatto di malva, sena e mercurella;Onde dovea l’infermo con rumoreCacar talvolta sino le budella,Dicendo che ogni male era sanatoQuando l’infermo avea ben ben cacato.

St. 24.

Quest’è‘l pidocchio, il qual per naturale A chi lo prova fa venir l’insania:Gira e rigira dove non saprei:Va in culo a molti, ed io son un di quei.

St. 31.

Una vecchia si sveglia e si scolora, E per la gran paura sta balorda;Di pisciar pensa dentro all’orinale,E piscia d’un dottor dentro un stivale.

St. 37.

Lasciam che chi ha la rogna se la gratta.

St. 54.

Chi batte i pie, chi corre in un cantone Per salutar col culiseo l’aurora. Canto Secondo, st. 54. Una bocca chiudendo sopra il mento, Che par un vaso da cacarvi drento.

St. 43.

Col naso, e più col cul, tal mormorio Facevan questi pazzi malandrini,Che in verità parevan due cornetteDi quelle che usar soglion le staffette.

Se dunque al signor pastor arcade venisse mai più la sozza voglia di scrivere di quelle cose ch’egli chiama poemi giocosi, stia avvertito a non m’ammorbare d’avvantaggio con queste sue poco giocose immondezze; altramente sarò costretto a far il predicatore a lui, e a trattarlo con maggiore austerità che non faccio ora. Lo avverto pure che non è cosa da valoroso paladino l’assaltare le povere vecchie, e il proverbiarle, e il metterle in ridicolo ne’ suoi fetenti versi; e l’arcadica sua pastorellería dovrebbe sapere senza altrui suggerimento essere stata inalterabile disposizione del sommo Fattor del tutto, che le donne invecchiando diventassero poco piacevoli alla vista; nè si può senza estrema perversissima viltà beffare alcuno di que’ difetti che uno ha senza sua colpa, come d’essere vecchio, brutto, zoppo, gobbo, orbo, o guercio, e simili cose, che anzi non si possono neppure, rigidamente parlando, chiamar difetti. Ed io considererei come uno sciocco molto solenne chiunque volesse ridersi di me perchè sono vecchio, perchè la vista corta mi sforza a portar gli occhiali, perchè ho una gamba di legno, e perchè mi manca un po’ di carne nel labbro inferiore ch’ è stato portato via mezzo dalla già riferita sciabolata che buscai in Erzerum.

A questa insulsa tiritera della Barcaccia ne vien dietro un’altra pure in ottava rima, intitolata il Burchiello di Padova, che è stata scritta dal nostro gran riformatore del teatro. Ma quantunque sia scritta, come la Barcaccia, senza alcuna bellezza di lingua, e senza alcun gusto di stile berniesco, pure non ha alcuna di quelle tante sporche e abbominevoli espressioni che imbrattano e disonorano la Barcaccia.

Notizia che non ha che farecon la Frusta letteraria

In vece di diminuire il numero degli scrittori, come pare che molti temano, la mia Frusta lo vuol anzi accrescere. Questo lo dico perchè ricevo ogni settimana de’ grossi fasci di lettere, che tutti m’annunziano qualche manoscritto bello e preparato pe’ torchj. Gli è vero che gli autori di que’ manoscritti, onorandomi forse soverchio, vengono tutti per lettera a chiedermi consiglio intorno a quelle loro opere, dicendomi tutti in varie frasi, che l’approvazione preventiva d’Aristarco Scannabue assicurerebbe a quelle lor opere l’approvazione successiva dell’universale. Checchè le signorie loro si pensino, sino il mio don Petronio Zamberlucco va meditando d’essere scrittore anch’esso. Don Petronio non ha mai pensato a scrivere una riga per le stampe in cinquantanove anni che ha già vissuti; ed ora che sta sul saltare a cavallo al sessantesimo, gli è venuta questa matta voglia, nè credo che avrò persuasiva bastante per distoglierlo da questo strano pensiero. Egli ha messo in iscritto un po’ di dialogo che facemmo insieme una di queste sere, e vuole in ogni modo ch’ io lo stampi nella mia Frusta; e se questo è ben accolto da’ vostri leggitori, soggiunge don Petronio, io voglio, cospetto di Bacco, provarmi a far un libro, che sarà intitolato chiacchiere domestiche fatte da don Petronio Zamberlucco con Aristarco Scannabue. Io non posso far a meno di non compiacere questo buon curato; onde dopo d’avere corretti alcuni pochi errori d’ortografia da lui commessi in questo suo dialogo, gli do luogo in questo foglio; ma di grazia, corrispondenti miei, trovatelo cattivo, e scrive temente un mondo di male per ajutarmi a stornare questo dabben religioso dalla matta impresa che sta metidando. Ecco intanto il

Dialogo tra don Petronio Zamberluccoe Aristarco Scannabue.

« D. Pe. Gamba di legno, gamba di legno, tu mi vuoi tôrre il piacere di leggere molti numeri della tua Frusta, malgrado le confortevoli lettere di mio cugino Marcantonio.

Ari. Perchè, curato?

D. Pe. Perché tu la meni con troppa furia.

Ari. Come l’avresti dunque menata tu?

D. Pe. Senti, gamba di legno; ma non venir poi con quella tua maladetta logica a mettermi nel sacco.

Ari. Di’ su, di’ su, che non adopererò logica stasera.

D. Pe. Tanto meglio. Tu dovevi dunque così sulle prime andar bel bello. Dovevi ne’ primi fogli parlare solamente di que’ libri che meritano d’essere lodati: poi venire a poco a poco ai libri mediocri, e li cominciar a dare qualche frustatina leggiera leggiera; e cascando finalmente addosso ai libri cattivi menar giù botte da critico turco.

Ari. Caviamo il turacciolo a quest’altro fiasco.

D. Pe. Che fiasco? Che turacciolo? Non voglio bere una goccia di più, se tu non rispondi prima a quanto ho detto, e se non confessi un tratto in vita tua d’aver avuto il torto marcio nell’imprudentemente attaccare molti de’moderni scrittori nostri ne’ primi fogli della tua Frusta, e nel far temere ad essi tutti delle frustate sempre più forti, quanto più saresti andato innanzi con questa tua opera.

Ari. A che proposito mi di’ tu questo, curato?

D. Pe. A che proposito? Bisognava venir meco jeri nella metropoli, che sapresti a che proposito. Tutti quivi disapprovano la Frusta.

Ari. Quante ore sei tu stato nella metropoli?

D. Pe. Tutto martedì passato.

Ari. E in un solo martedì tu hai parlato con tutti i cento cinquanta mila abitanti che contiene?

D. Pe. Che matto! Sono stato tre ore la mattina nella bottega d’un librajo, e due ore il dopo pranzo in un’altra; e que’ due libraj, e molti poeti, e altri scrittori che trovai e in una bottega e nell’altra, tutti ad una voce han detto e ridetto che tutta la città disapprova, e biasima, e detesta la Frusta; e tu sai che vox populi vox Dei.

Ari. Caviamo dunque il turacciolo al fiasco.

D. Pe. Che ostinato gamba di legno! Ma che rispondi tu a questo?

Ari. Dico che tu, e que’ due libraj, e que’ poeti, e quegli autori siete tutti fuor de’ gangheri. Non mi far dire, che verrò via con la logica, veh!

D. Pe. Lo so, lo so che chi non dice a tuo modo è sempre fuor de’ gangheri. Già ti conosco, egli è peccato che tu abbia questo difetto, arrogantaccio.

Ari. Or via, senti. Concedi tu che le mie critiche passate sono sempre state vere?

D. Pe. Concedo; che perciò?

Ari. Concedi tu che le mie passate critiche sono state rigidamente imparziali?

D. Pe. Concedo.

Ari. Concedi tu che le mie critiche sono atte a far ridere qualche volta quelli che non sono da quelle tocchi, e che non hanno paura d’esse, non avendo stampato mai libri?

D. Pe. Concedo anche questo, perchè qualche volta hanno fatto ridere anche me, che non soglio ridere frequentemente.

Ari. Concedi tu che le mie critiche tendono unicamente a migliorare gli studj e i costumi de’ nostri compatrioti?

D. Pe. Concedo anche questo; ma non mi seccar altro con queste interrogazioni.

Ari. Come vuoi tu dunque, che tutta una città metropoli pensi come que’ pochi che tu incontrasti in quelle due botteghe? Come vuoi tu che una nazione intiera disapprovi, e biasimi, e danni una critica vera ed imparziale? Una critica che fa talvolta ridere? Una critica che tende evidentemente a migliorare gli studj, e a migliorare i costumi? Tu mi vorresti far credere che io scrivo in Barberia, e non in Italia.

D. Pe. Eppure . . .

Ari. Eppure tu sarai sempre un buonuomo, che non può resistere alle prime impressioni.

D. Pe. O cospetto di Bacco, che vuoi tu dire, gamba di legno?

Ari. Voglio dire che se tu andassi a stare un mese nella metropoli, e che t’aggirassi dappertutto, vedresti che nella metropoli non tutti sono dell’opinione di que’ due libraj, e di quell’altra gente che dicesti. Come puoi tu essere persuaso, curato, che la più parte degli uomini e delle donne d’Italia, o d’altra parte d’Europa non ami di sentir il vero, quando quel vero non offende quella più parte? come vuoi tu che tutti si riuniscano a biasimare colui che parla senza altra passione che quella di giovare a chi l’ascolta, e di contribuire il suo miccino al miglioramento della sua specie? e come vuoi tu che l’uomo, definito da qualche antico filosofo animai risibile, non ami più di ridere? e di ridere spezialmente alle spese degli sciocchi e degli sciagurati? Beviamo quest’altro fiasco, don Petronio, e poi andiamo a dormire più tranquillamente che non dormono ora gli scrittori cattivi. »

Il poco resto di questo dialogo Aristarco l’ha soppresso per una ragione che i sagaci leggitori indovineranno facilmente quando vogliano ricordarsi che Aristarco vuole molto bene a colui che ad ogni terza parola lo chiama gamba di legno, e qualche volta testa di legno.

Lettere familiari di Giuseppe Baretti a’ suoi tre fratelli Filippo, Giovanni, ed Amedeo. Tomo primo, in 8.o Milano presso il Richini Malatesta 1762.

L’autore di queste lettere non è certamente un novizio nell’arte dello scrivere. La precisione e la rapidità del suo stile, e il facil modo con cui esprime certe cose straniere e non di frequente espresse da altri nella nostra lingua, ne lo mostrano uomo che s’è avvezzato a maneggiare la penna di buonora. Di fatti è un pezzo che l’Italia lo annovera tra’ suoi moderni scrittori per la sua traduzione in versi delle tragedie di Pier Cornelio, per un tometto di rime berniesche, per un suo cicalamento in lode di un certo antiquario, (delle di cui opere mi verrà forse occa-sione di favellare in queste mie lucubrazioni), e per cert’altre sue coserelle scritte tutte con qualche brio e con qualche naturalezza ne’ suoi primi anni. Non avendogli però il suo scrivere giovanile procurato alcun notabile vantaggio nella sua contrada, e’ si pensò d’andare a cercar fortuna altrove; e nell’anno 1750 se la fece in Inghilterra, dove, imparata quella lingua, e stampate in essa molte cose, ed anche qualche bagattella in francese, si risolvette finalmente di ripatriare dopo d’avere colà soggiornato quasi dieci anni compiuti.

Nell’andare da Torino a Londra egli aveva fatta la più breve via, cioè quella di Francia, ma dovendo nel suo ritorno a casa attraversare una buona parte dell’Inghilterra e del mare Atlantico, e quindi il Portogallo, e la Spagna, e la Francia meridionale, che sono regioni o poco o mal descritte nella nostra lingua; egli si propose nell’atto di partir da Londra di dar conto a’ suoi compatriotti di quelle poco note regioni; ed ha eseguita la sua idea scrivendo quasi ogni sera del suo viaggio una lunga lettera a’suoi fratelli. Quelle lettere egli se le portò seco, e giunto a casa, e ripulitele alquanto, si accinse a stamparle in Milano. La ragione che lo indusse a pubblicarne colà un tomo solamente, e perchè gli altri tre tomi s’abbiano a stampare fuori di Milano, io non la so bene. Forse egli ce la dirà quando darà in luce que’ restanti tre tomi, il che è da sperare che avverrà tosto. Se da questo primo tomo si può far congettura degli altri, i leggitori possono anticipatamente assicurarsi che queste Lettere Familiari, quantunque scritte a precipizio ed alla giornata, non riusciranno loro un insipido itinerario e un freddo registro di nomi di città e d’osterie. L’autore non è stato invano per tant’ anni in Inghilterra, ed ha imparato colà il modo di riempiere un libro di cose, e non di ciance, come s’usa troppo frequentemente di qua dall’Alpi. Ma sentiamo dalla Prefazione dello stampator Malatesta a chi vuol leggere, un compendio di quanto in queste lettere familiari si contiene. Quello stampatore dice così:

«Il signor Giuseppe Baretti si è pur risoluto di lasciarmi stampare quella parte delle sue lettere familiari, che contiene il ragguaglio d’un viaggio da Londra a Torino fatto da lui nel 1760 attraverso l’occidental parte d’Inghilterra, attraverso l’Oceano Atlantico, il Portogallo, l’Estremadura, il regno di Toledo, la Castiglia Nuova, l’Aragona e la Catalogna sino ai Monti Pirenei: quindi pel Rossiglione, per la Linguadoca, e per la Provenza sino in Antibo: poi sull’acque del Tirreno, lunga la Costa della Contea di Niz-za, del Principato di Monaco e della Liguria sino a Genova, e finalmente per l’Alessandrina, il Monferrato, e parte del Piemonte sino alla prefata città di Torino sua patria.

Questo suo mediocremente lungo viaggio il signor Baretti l’ha voluto scrivere, come s’è detto, in lettere familiari a tre suoi fratelli. E siccome egli lo fece nella abbastanza matura età di quarant’anni, e dopo d’avere da giovanetto visitate altre regioni d’Europa, e dopo d’avere studiato con qualche diligenza tanto i libri, quanto il mondo, e dopo d’avere soggiornato dieci anni in Inghilterra, e dopo d’essersi impadronito delle lingue toscana, francese, inglese, portoghese e spagnuola, è da sperare che non sarà tacciato di soverchia presunzione, se egli ha tanto buon concetto di queste sue lettere da avventurarle alla stampa, e se si assicura che abbiano a riuscire dilettevoli non meno che istruttive ad ogni genere di persone.

In queste lettere voi troverete, leggitori, un caos di roba, voi troverete descrizioni di città, di porti di mare, d’arsenali, di palazzi, di giardini, d’osterie, di chiese, d’eremi, d’acquedotti, di boschi, di deserti e di millanta altre cose, che a registrarle per filo tutte sarebbe proprio una pirlonéa. Voi vi troverete de’ be’ragguagli di cacce di tori, di pompe reali, di patriarcali funzioni, e d’altre tali gaudiose e magne cose, che sogliono far fare tanto d’occhi alla gente. Voi vi troverete una pittura del terremoto di Lisbona tanto viva e tanto patetica, che probabilmente la riputerete un capo d’opera. E perchè quella Lisbona è stata in questi pochi anni passati feconda molto d’avvenimenti grandi e solenni, voi sentirete come dall’autore di queste lettere sia stata accuratamente esaminata. Voi sentirete come si mangia, si bee, si veste, si canta, si suona, si balla, si giuoca, si viaggia, si traffica, si studia, e si passa questa grama vita in molte parti di quest’orbe sublunare. Nè solamente leggendo questo viaggio voi accompagnerete il signor Baretti passo passo con la fantasia da Londra sino a Torino; ma sbalzerete con esso episodicamente ora sotto il freddo polo ed ora sotto l’ardente linea, perchè egli ha non soltanto viaggiato molto di qua e di là con la persona, ma è ancora ito lanciandosi col cervello, per un modo di dire, da un globo all’altro del nostro planetario sistema. Chi piglia diletto nello informarsi de’ costumi de’ popoli e nel filosofare sulle loro varie virtù e sui loro varj vizj, e gode sottilmente indagarne le sorgenti, il progresso e gli effetti, troverà qui pascolo abbondante alla sua curiosità. Chi smania di spacciar-la da politico, e cerca regolare un qualche Stato o monarchico o repubblicano, tanto speculativamente, come è il caso di molti, quanto in pratica, come è il caso di pochi, troverà qui un ampio fondaco d’osservazioni e di notizie sull’agricoltura, sulle manifatture, sul commercio per mare e per terra, sulle dogane, sul modo di fare e di mantenere le strade pubbliche, sulle miniere ed altre produzioni interne ed esterne di molti paesi, sulle maggiori o minori popolazioni e sull’entrate ed uscite di molti principi e Stati, sulla pace e sulla guerra, e su infinite altre cose di tal conio. Il teologo, il moralista, e il metafisico non avranno da lagnarsi di non aver avuta in queste lettere la parte loro. Il geografo, il botanico, il filologo, il linguista, l’antiquario, il critico, il poeta, l’improvvisatore, e sino il musico, tutti troveranno in queste lettere di che mettersi talora la mente in moto. Non vi dico nulla della bella Catalina di Badajos, e delle fanciulle di Meaxaras, che le più inzuccherate novellette non le avrete forse mai sentite. In somma ogni coltivatore delle scienze, ogni amatore dell’arti si faccia a leggere questo viaggio, e qualche cosa che quadri coll’umor suo ve la troverà senza fallo. Sino il zerbino e l’innamorato non ha voluto l’autore scordarseli nella penna, e non ha lasciata scappar l’occasione ogni volta che se gli è presentata, di parlare di belle ed amorose donne, e degli scherzi che i loro sfolgorati occhi san fare su i cuori degli uomini. Nessuno però sia tanto pazzo da credersi di trovar qui la minima sdrucciolevol cosa d’amore, chè il signor Baretti ha fatta scorrere una libera vena di piacevolezza e di giocondità per tutto questo suo libro, ma non s’è perciò scordato mai un momento d’essere cristiano; onde i padri e le madri lo lascino pur leggere da’ loro anche teneri figliuoli, e le badesse e le priore dalle loro monache, senza paura che l’innocenza loro ne venga minimamente contaminata. Gli uomini poi di natura grave e sopraccigliuta non isdegnino neppur essi queste lettere, le quali, se hanno in sè molte cose dette in assai festevol modo, molto eziam ne hanno delle tanto austere e seriosissime, che al fin del conto avranno forse ragione di rimanerne soddisfatti. »

Da questa sinopsi, o vista generale di quest’opera, e più dal primo tomo che già ne abbiamo, si deve desiderare che l’autore non trovi ulteriori inciampi a regalarne gli altri tre. Quando gli altri verranno fuori farò le mie osservazioni sul tutto: e li loderò se corrisponderanno a questo, o adopererò la Frusta, se mi frauderanno della speranza che questo m’ha fatta concepire. Intanto dirò che di questo sono contentissimo, e mi assicuro che ne sarà pur contento chiunque lo leggerà, e che fra l’altre cose gli anderanno molto a verso il fantastico e nobil commiato che l’autore piglia dalla sua cara Inghilterra, il ragguaglio di quell’antichissimo inglese monumento chiamato Stone-henge; la descrizione dell’arsenale di Plimouth, le notizie intorno alla lingua cambra, le due dissertazioncelle sulla poesia, la funzione patriarcale di Lisbona, la caccia de’ tori, la lepida descrizione della magra osteria di Cabeza, e più di tutto le morali riflessioni buttate qua e là pel libro senza affettazione e senza santocchieria. Per dare intanto un buon saggio della franca e viva maniera dello iscrivere di questo autore, ricopierò qui la pittura delle rovine di Lisbona, la qual pittura non senza ragione è sospettata dallo stampatore Malatesta per un capo d’opera. Eccovela nella lettera diciannovesima, datata da Lisbona li 2 settembre 1760.

« Sono stato a visitare le rovine cagionate dal sempre memorando terremoto, che scosse i due regni di Portogallo e d’Algarve, con molta parte di Spagna, e che si fece terribilmente sentire per terra e per mare in molt’altre regioni, nell’anno mille settecento cinquantacinque il dì d’Ognissanti. Misericordia! È impossibile dire l’orrenda vista che quelle rovine fanno, e che faranno ancora per forse più d’un secolo, che un secolo almeno vi vorrà per rimuoverle. Per una strada che è lunga più di tre miglia, e che era la principale della città, non vedi altro che masse immense di calce, di sassi e di mattoni accumulate dal caso, dalle quali spuntan fuora colonne rotte in molti pezzi, frammenti di statue e squarci di mura in milioni di guise. E quelle case che son rimaste in piedi e in pendio, novantanove in cento sono affatto prive de’ tetti e de’ soffitti, che o furono sprofondati dalle ripetute scosse, o miseramente consumati dal fuoco. E in quelle lor mura vi sono tanto fessi, tanti buchi, tante smattonature, e tante scrostature, che non è più possibile pensare a rattopparle, e a renderle di qualche uso. Case, palazzi, conventi, monasteri, spedali, chiese, campanili, teatri, torri, porticati, ogni ogni cosa è andata in indicibile precipizio. Se vedeste solamente il palazzo reale, che strano spettacolo, fratelli! immaginatevi un edifizio d’assai bella architettura, tutto fatto di marmi e di macigni smisurati, tozzo anzi che tropp’alto, con le mura maestre larghe più di tre piedi liprandi, e tanto esteso da tutte parti, che avrebbe bastato a contenere la corte d’uno imperador d’Oriente, non che quella d’un re di Portogallo: eppure que-sto edifizio che l’ampiezza delle sue mura e la loro modica altezza dovevano rendere saldo come un monte di bronzo, fu così ferocemente sconquassato, che non ammette più racconciamento. E non soltanto que’ suoi macigni e que’suoi marmi sono stati scommessi e sciolti dalle spaventevoli scosse, ma molti anche spaccati chi in due, chi in più pezzi. Le grossissime ferrate furon tratte de’ loro luoghi, e altre piegate e sconcie, ed altre rotte in due dalla più tremenda e dalla più irresistibile di tutte le naturali violenze. Il molo della dogana in riva al Tago, che era tutto di sassi quadri e grossissimi, largo da dodici a quindici piedi, e alto altrettanto, e che per molti e molt’anni aveva massicciamente sostenuto e represso il pesantissimo furore delle quotidiane maree, sprofondò, e sparì di repente in siffatta guisa, che non ve ne rimase vestigio, e molte genti che erano corse sopr’ esso per salvarsi nelle barche attaccate alle sue grosse anella di ferro, furono con le barche e ogni cosa tratte con tant’impeto sott’acqua, anzi in una qualche voragine spalancatasi d’improvviso sotto terra, che non solo nessun cadavero non tornò più a galla, ma neppure alcuna parte dei loro abbigliamenti. Gira l’occhio di qua, volgilo di là, non vedi altro che ferri, legni e puntelli d’ogni guisa posti da tutte parti, non tanto per tenere in piedi qualche stanza terrena che ancora rimane abitabile, quanto per impedire che le fracassate mura non caschino a schiacciare e a sotterrare chi per di là passa. E tanto flagello essendo venuto in un giorno di solennissima festa, mentre parte del popolo stava apparecchiando il pranzo e parte era concorso alle chiese, il male che toccò a questa sventurata città fu per tali due cagioni molto sproporzionatamente maggiore, che non sarebbe stato se in un altro giorno e in un’altr’ora fosse stato dalla divina provvidenza mandato tanto sterminio, perchè oltre alle numerose genti che a parte a parte nelle case e nelle strade perirono, quelle che erano nelle chiese affollate rimasero tutte insieme crudelmente infrante e seppellite sotto i tetti e sotto le cupole di quelle, chè troppo gran porte avrebbono dovuto avere per porgere a tutti via di scampare; sicchè molta più gente andò a morte ne’ sacri che ne’ profani luoghi. Oh vista piena d’infinito spavento, vedere le povere madri e i padri meschini, o stringendosi in braccio o strascinando per mano i tramortiti figli, correre come forsennati verso i luoghi più aperti; i mariti briachi di rabbioso dolore spingere o tirare con iscompigliata fretta, le consorti, e le consorti con pazze ma innamorate mani abbrancarsi ai disperati mariti, o ai figli, o alle figliuole; e gli affettuosi servi correre ansanti co’ malati padroni indosso; e le gravide spose svenire e sconciarsi, e tombolare sui pavimenti, o abbracciare fuor d’ogni senso qualunque cosa si parava loro dinanzi; e molt’uomini mezzo spogliati, e moltissime donne quasi nude, e sin le povere monache con crocefissi in mano, fuggire non solamente delle case e de’ monisteri per gli usci e per le porte, ma buttarsi giù delle finestre e de’ balconi per involarsi, e la più parte in vano, alla terribile morte che lor s’affacciava d’ogni banda! Chi potrebbe dire, chi solo potrebbe immaginarsi le confuse orrende grida di quelli che fuggivano o con le membra già guaste, o nel pericolo imminente d’averle guaste; e i frementi gemiti di quelli, che senza essere privi di vita subitanamente, rimanevano crudelmente imprigionati sotto le proprie, o le altrui diroccate magioni! E quantunque paja strano e quasi impossibil caso, pure è avvenuto a molte infelici persone di morire sotto a quelle rovine senza aver ricevuta la menoma ferita o percossa da quelle; e ancora è viva una povera vecchierella, che fu cavata fuora d’una cantina, dopo d’essere stata in quella rinchiusa e come sotterrata dal terremoto per nove giorni, e dove conservò la vita nutrendosi di grappoli d’uva che fortunatamente aveva pochi dì prima appesi al solajo di quella per conservarli, come qui si usa comunemente. Le miserande storpiature e le strane morti cagionate da tanto calamitoso accidente furono innumerabili; e innumerabili furono i genitori che perdettero chi tutta, chi parte della loro prole, e innumerabili i figli che perdettero i genitori, e pochissime le famiglie che non furono prive quale del padre, quale della madre, quale d’uno, e quali di più figli, o d’altro prossimo parente e consanguineo; e in somma tutti senza eccettuazione ebbero o danno nella vita, o almeno nella roba; chè essendo, come già dissi, accesi tutti i fuochi, perchè era appunto l’ora che in ogni casa si stavano allestendo i desinari, e rilucendo per le chiese infiniti lumi per la solennità del giorno, il rotolare di que’ tanti fuochi sui numerosi pavimenti di legno, e il cadere de’ sacri candelabri sugli altari, e lo spaccarsi de’focolari e de’solaj, e l’incontrarsi di tanti carboni e di tante fiamme in tante e tante combustibili materie, fece in guisa che presto il vorace elemento si sparse e s’appiccò in tante parti della città, e fu tanto presto ajutato da un’ incessante tramontana, che non essendovi chi potesse accorrere ad estinguere l’incendio divenuto a un tratto universale, e venendo pur guasti gli acquidotti che somministravano a Lisbona l’acque, in poche ore quel deplorabilissimo fuoco finì di colmare d’estrema irremediabile miseria l’angosciato rimanente popolo, che, stupefatto da tanti replicati mali, invece di adoperarsi in qualche modo, gli lasciò ogni cosa in libera preda, e corse urlando e piangendo mattamente pe’ prati e pe’ campi, dove chi potette s’era, per involarsi al primo danno, rifugiato. Colà il comune infortunio aveva agguagliato ogni grado di persone: e i signori e le dame più grandi del paese, non eccettuati i principi e le principesse del real sangue, si trovarono a una medesima sorte con la plebe più abbietta; e colà molti che per malattia o pel digiuno dell’antecedente vigilia, si trovarono estenuati soverchio dalla fame, cadettero la seguente notte miseramente svenuti, e non pochi morti d’inedia sugli occhi al loro addoloratissimo sovrano, che per tutto quel troppo disastroso giorno altro non ebbe che amare lagrime da dar loro. E oh quanti doviziosi grandi, quante nobili matrone, quante modeste donzelle furono colà costrette ad implorare pietà e soccorso, o a soffrir vicina la stomachevole compagnia di putenti mascalzoni e di sozze femminacce, e ad invidiare talora un pezzo di pane accattato, che un qualche men-dico si traeva di tasca per mangiarselo. Tutti i tanto vantati tesori del Brasile e di Goa, mal sarebbono in quel punto stati equivalenti, non dirò a un boccone di ammuffato marinaresco biscotto, ma neppure alla fradicia scorza del frutto più comunale, tanto in poche ore divenne rabbiosa la fame e universale. È una cosa, fratelli, che funesta indicibilmente l’animo il visitare quelle rovine con alcune di quelle persone che di tanta calamità furono testimonie, e sentirle ad ogni passo dire: Qui rimase morto mio padre; là mia madre fu sepolta; costà una tal famiglia perì senza che ve ne scampasse uno; colà perdetti il meglio amico che avessi al mondo! Ecco le reliquie del palazzo d’un tale gran personaggio che fu a un tratto estinto con tutti i suoi, ed ecco le vestigie di quel bel tempio, in cui più di cinquecento Cristiani furono d’improvviso seppelliti! Cento frati qui finirono a un tempo i loro giorni mentre si stavano cantando le laudi del Signore nel coro, e questo monistero perdette cencinquanta monache in meno che non si pronunzia il nome di Dio! Giù di quelle scabre rupi si precipitarono molti atterriti cavalli e muli, altri co’cavalieri e co’cavalcanti sul dorso, e altri coi cocchi e coi calessi pieni della gente che tiravano! Ecco i frammenti del muro che cadde addosso all’ambasciadore di Spagna, ed ecco dove le guardie, che seguivano il fuggiasco monarca nostro, furono dalla morte repentinamente involate al suo sguardo reale! Migliaja di tali afflittive cose uno straniero che va errando per quelle compassionevoli rovine sente replicare da quelli che l’accompagnano; e uno interrompe l’altro per raccontargliene un’altra più crudele della prima; e chi passa, e s’accorge della curiosità altrui, si ferma tosto; e con de’ gesti pieni di paura, e con un viso effigiato di cordoglio, e con delle parole ancora tremanti; quantunque cinqu’anni sieno scorsi dal giorno fatale, ti narra la dolente storia delle sue disgrazie, e t’informa delle irreparabili perdite che ha fatte, e poi se ne va sospiroso e colmo di tristezza. E ti fanno poi tutto raccapricciare di nuovo quando si ricordano il freddo, il vento, e la dirotta pioggia che per alquanti giorni dopo il terremoto fece morire assaissimi di quelli che scamparono da quel fracasso, perchè troppo mal provvisti di panni nell’ora sventurata della fuga, nè è maraviglia se ancora prorompono in pianti e in gemiti e in singhiozzi, e sino in urli fremebondi, quando si ricordano il tormentoso intirizzimento delle lor membra, sendo stati costretti di stare per più giorni e per più notti senza il minimo riparo contro l’imperversata ed insopportabilissima intemperie della ghiacciata stagione: e a tanti, a tantissimi danni e mali, aggiungi la perfetta carestia d’ogni vettovaglia, che li sforzò a mangiare non solo le crude carni de’ pollami e de’ mangiabili quadrupedi che si pararono loro dinanzi, ma sino quelle de’ cani, de’ gatti e de’ sorci, e sino l’erba, le radici, e le foglie, e le cortecce degli alberi, per acquetare l’irata fame anzi che per prolongarsi la vita. Varie sono state le relazioni che allora andarono pel mondo di questo infinito disastro; e i Portoghesi, quando il tempo cominciò ad apportare qualche rimedio a’ loro troppo acerbi e troppo intensi mali, calcolarono che di più di novanta mila persone fu scemato il lor popolo in questa sola città; ma se anco avessero, come i miseri soglion fare, esagerato della metà, sarebbe nulladimeno sempre miserandissima cosa e da compiangersi in sempiterno. In un’altra, fratelli, vi dirò alcuna cosa dello stato presente di questa metropoli, che cinque anni sono era per numero d’abitatori considerata la terza città d’Europa. Addio. »

Poscritta. Da un suo sollecito corrispondente don Petronio ha ricevuto il secondo tomo di queste Lettere Familiari del Baretti, e insieme la notizia che gli altri due saranno anch’essi presto stampa-ti. Questo secondo tomo io non ho ancora avuto tempo di leggerlo, ma il buon curato giura e protesta che gli è ancora più vario e dilettevole del tomo primo.

N.° V Roveredo 1 decembre 1763. Delle produzioni naturali del territorio di Pistoja, Relazione istorica e filosofica di Antonio Matani. In Pistoja 1762, in 4.o Ha molta ragione questo savio scrittore di dire nella sua prefazione che « l’uomo occupato è di rado un inutile o cattivo cittadino », essendo cosa certissima che se troppi individui in ogni patria non riescono buoni ad altro che a consumar il pane, questo procede appunto perchè le signorie loro non s’occupano in cosa alcuna. Gli è vero però che molti di tali individui frequentemente si trovano, e spezialmente nella classe degli opulenti, che non s’occupano mai in alcuna cosa, perchè non sanno proprio in che occuparsi. Dite a uno di costoro, a cui lo possiate dire senza pericolo: « Perchè, signor tale, non fate voi qualche cosa per occuparvi? » Ed egli vi risponderà: « Ma in che volete ch’io m’occupi? cosa volete voi ch’io faccia? » Oh stolti, stolti! mancan eglino i modi di passar via il tempo; se non esercitando le virtù cristiane e morali, almeno facendo cose che non putano di vizio? Quanti re, e principi, e signori potentissimi non hanno, malgrado le molte loro indispensabili quotidiane occupazioni, trovate alcune ore, o almeno alcuni quarti d’ora ogni dì, per operare cose che gli hanno resi l’amore de’ soggetti, e l’ammirazione degli stranieri? Ma senza far qui pompa d’una vana istorica erudizione citando i nomi di molti antichi sovrani che si sono perfezionati insensibilmente in qualche arte o scienza, malgrado i necessarj doveri annessi alle loro sovranità, non è forse il maggior sovrano dell’Europa nostra un grandissimo botanico e medaglista? e un altro un geografo istruttissimo? e un altro un eccellente intenditore di poesia e di musica? e un altro un torniajo valentissimo in avorio? Que’re trovano pure la via di coltivare chi una scienza, chi l’altra, e chi una o un’altr’arte, malgrado le gravi faccende de’ loro gabinetti? e se personaggi tali trovano il modo di addimesticarsi, dirò così, con quell’umanità che hanno in comune co’ più piccini mortali, e se trovano la via di passare con piacere questa vita, che in tutte le condizioni è naturalmente spiacevole e grave, checchè se ne pensi il volgo: perchè gli opulenti privati non si danno a imitare questi esempj, quando coll’imitarli, potrebbono facilmente procacciar diletto e utilità a sè stessi e ad altrui? Ma io non vo’ qui ingolfarmi a far la predica alle signorie loro, e voglio soltanto suggerire agli opulenti privati della nostra penisola, che fra le infinite cose utili e dilettevoli che ancora non si sono fatte e che da essi si potrebbono agevolmente fare, una è la storia fisica delle patrie loro. Circa una ventina de’ nostri paesani ha già fatta qualche parte di tale storia, ma a metter insieme tutto quello che dagl’Italiani s’è fatto dopo il fortunato ravvivamento delle lettere, molto poco s’è fatto in paragone di quello che si potrebbe fare. L’Italia nostra, forse più d’alcuna altra conosciuta terra, abbonda di singolarissime produzioni naturali, e il cercarle e il descriverle è cosa che gli opulenti privati potrebbono facilmente fare con poca fatica e con molto piacer loro. Eccone una delle tante vie per occuparsi; eccone uno de’ più dolci modi da passar via quel tempo che pesa tanto addosso a tanti de’ nostri ricchi. Fra que’ pochi individui che fra di noi si studiano di rendersi benemeriti alla società sia con lode annoverato il sig. Matani professore di medicina nell’università di Pisa, il di cui libro mi ha date molte cognizioni che non avevo e che non avrei mai potute avere senza di lui, del che io nel ringrazio, e lo prego, se le sue incombenze gliel permetteranno, a non si scordare la gentil promessa che ne fa, di scrivere più ampiamente delle naturali produzioni del territorio di Pistoja; poichè, secondo il suo dire, e più secondo il dire della ragione, quel territorio non sarà sì tosto esausto. Venendo ora a questo suo libro, dirò che, se il suo stile è un pochino snervato, è però assai chiaro e senza affettazione; ed è molto giudizioso il metodo da esso seguito nello stendere le cose da esso notate in quel suo territorio. Sentiamo le sue parole. « Ho pensato parlare sul bel principio della generale costituzione della città e territorio di Pistoja col proporre una fisica descrizione, riducibile tanto alla pianura ed alle colline, quanto alle più alte montagne, per trattare indi non solamente delle terre, de’ metalli e delle pietre più considerabili, come altresì dell’acque de’ fiumi, dei pozzi, e dei laghi, ed in ispecie del lago Scaffajolo mentovato dagli scrittori delle più rimote nazioni, ed inoltre delle principali meteore; dopo di che mi è paruto espediente di favellare dei vegetabili più particolari, come altri hanno fatto in varj paesi della nostra Europa a noi più vicini, terminando finalmente col proporre alcune osservazioni sugli animali più pregevoli che ivi si trovano. » Questa divisione delle materie è comodissima, ed io raccomando lo stesso facile e giudizioso metodo a chiunque, seguendo l’orme onorate del sig. Matani, volesse regalare alla sua patria qualche ragguaglio della natura di questo. L’accorto leggitore vedrà senza che io gl’impresti i miei occhiali, che non è possibile in un estratto critico compendiare tutte le cose visibili e palpabili che un libro di storia naturale contiene, perchè tali libri si possono quasi senza improprietà chiamare essi stessi Compendj di cose visibili e palpabili. Pure non voglio lasciare i fautori di questi miei fogli senza un saggio di questa bella relazione del sig. Matani, e a questo effetto copierò qui un suo intiero capitolo, che ne dà notizia d’una molto vaga produzione naturale. Capitolo V. De’ cristalli di monte. « I cristalli delle montagne pistojesi che volgarmente si addimandano diamanti di Pistoja, si osservano di varie grandezze, e più o meno lucidi secondo i luoghi ov’ essi si generano. Sono per lo più di colore bianco, perchè ritrovansi comunemente lontani da quelle miniere dalle quali sogliono ricevere diversi colori. Questi si vedono tanto nelle più alte, quanto nelle più basse montagne, e particolarmente nelle vicinanze del lago Scaffajolo, nelle montagne di s. Marcello, di Lizzano, di Spignano e di Cavinana. Ne sono ancora nel monte del Crocicchio, alla Sambuca, alla Badia a Taona, a Pracchia, a Uzzo, a Casale, a Lamporecchio e in varj altri luoghi del territorio pistojese. Ho osservato che trovansi regolarmente in quei monti che sono posti a levante e a mezzogiorno, e che conservano costantemente la loro figura esagona. La stessa figura regolare, che suole comparir esagona, si può riscontrare altresì nelle confinanti montagne di Modana, ove ne furono raccolti una volta molti assai belli per trasportarsi in Prussia, e conservarsi in Berlino nel museo di Cristiano Massimiliano Spenero. Ho conosciuto che la matrice di tali cristalli, che possono addimandarsi iridi cristalline, o gemme lucide, vedesi in alcuni luoghi bizzarramente distribuita nelle tortuose vene impiantate nei filoni della pietra principalmente arenaria. Comparisce non di rado distribuita in certe lamine, dalle quali è incrostata la pietra stessa, o altre pietre di qualità non molto diversa, conforme ho osservato attentamente in diverse parti del territorio pistojese, ed in ispecie nelle montagne ove è posto il lago Scaffajolo. In quella matrice o tarso cristallizzabile, che apparisce distribuito nelle vene tortuose della pietra, e che non può nascere dalla sola congelazione dell’acque, come altri ha preteso, senza supporre che in ogni acqua purissima si contengano particelle pietrose, saline, e pingui, acquistate nello scorrere per varj strati terrestri, di rado si formano i perfetti cristalli, avvegnachè le cristallizzazioni che dovrebbero formarsi dalla regolare propagazione del quarzo, abbiano i confini troppo angusti per potere del tutto formare le intere guglie di tali corpi. Quella matrice poi distribuita in lamine, che incrostano internamente le pietre, sebbene ancora esternamente si osservino tali incrostature, produce perfettamente le varie specie dei cristalli esagoni, ed alcuna volta di altre figure poco diverse, che corrispondono alla situazione differente dei molti luoghi, ove possono ricevere la loro periodica e non interrotta vegetazione. « Oltre all’uso comune che si potrebbe fare dei cristalli delle montagne di Pistoja, cioè di frammischiarli col vetro che si lavora pe’ comodi degli uomini nelle fornaci, potrebbero formarsene molti altri lavori, e si brillanterebbero in guisa, che si confondessero con que’ brillanti che portano al collo e nell’orecchie e nelle dita le donne per accrescimento della bellezza di cui quel sesso debole fa molta pompa. Che possano questi incassarsi nelle anella è più che certo, avendone io veduti alcuni bene lavorati per un tale uso appresso il signore Francesco Mosi, medico pistojese, i quali compariscono all’occhio assai dilettevoli. Per la qual cosa io sono d’avviso, che molto risparmierebbero di danaro i Pistojesi e gli abitatori dei luoghi circonvicini, se in vece di provvedere le gioje false di Francia, di Venezia, di Genova pensassero soltanto a fare uso di que’ diamanti, che si producono abbondevolmente nelle loro montagne; nè finalmente riuscirebbe molto malagevole il separarne i migliori, giacchè le varie specie e qualità di essi sono descritte dai più accreditati scrittori di cristallografia. Il quarzo da cui si formano i cristalli nelle montagne di Pistoja ha molto di so-miglianza coi cristalli metallici, il che non recherà maraviglia se si rifletta avere dedotto alcuni filosofi la loro composizione da una terra minerale purissima frammischiata con sostanze glutinose e saline. Il mentovato quarzo forma certamente una delle principali sostanze dei monti primitivi in guisa, che sembra non doversi sempre credere una pietra parassitica e secondaria, come fra gli altri hanno creduto il Kahlero e il Linneo. Che perciò i cristalli di monte credo che debbano nascere da una determinata quantità del quarzo che circonda le pareti di quelle caverne ove i cristalli si formano, o sieno salini, o pietrosi, o sulfurei, o semplicemente metallici. Ed invero essendo egli nella sua primiera origine, non già l’acqua gelata, secondo l’errore popolare, ma bensì una semplice sostanza fluida, ed in varj luoghi dei monti raccolta, dee credersi che abbia acquistata a poco a poco alcuni gradi di consolidazione, racchiudendo dentro di sè diversi corpi stranieri, come osservò il Bagli, e come si può osservare principalmente nella copiosa raccolta dei cristalli fossili del museo della università di Pisa, e nella serie del signore Cino Cini di San Marcello, e finalmente in quella da me fatta nelle montagne del territorio pistojese. Quindi è che secondo lo accrescimento delle mentovate sostanze pos-sono formarsi di piccola mole i cristalli, ed al contrario cotanto grandi da sorprendere i più dotti naturalisti, conforme fu certamente quello di libbre secento novantacinque osservato negli Svizzeri da Haller. È da notarsi per altro che nelle alte montagne di Pistoja verso il fiume Lima si osservano alcune iridi o basaltiti simili al gagate di pasta quasi trasparente, ma offuscate da un colore nericcio, ed altro non sono che ingemmamenti cristallini, colorati probabilmente da qualche sconosciuta metallica esalazione. » Due cose voglio ora suggerire al signor Matani; e se il signor Matani le troverà ragionevoli, gli do licenza di farne uso nell’accennato libro che ne promette. La prima è di non caricar tanto i piedi alle sue pagine di postille e di rimandi, come ha fatto in questo. Alla scienza delle cose fisiche, e forse a tutte le scienze, fa d’uopo dare un’aria di piacevolezza e di facilità, se vogliamo che tutti que’ che sanno leggere s’invoglino di acquistarne qualche porzione: e quelle tante autorità delle quali si aggrava ogni pagina d’un libro, danno a quel libro un aspetto soverchiamente austero, e faticosamente dotto, e lo rendono soltanto proprio per quelli che non hanno altro mestiero in mano, eccetto quello di studiar libri; il che è quasi come dire, soltanto proprio pe’ cacasodi e pe’ pedanti. Quando il Bartoli scrive un grosso tomo sopra un dittico d’avorio, verbigrazia, riempia pure a sua posta due terzi d’ogni sua pagina di sottovia del testo con i nomi pronunciabili e non pronunciabili d’innumerevoli scrittori tedeschi, moscoviti, cosacchi, tartari, madagascarani, cinesi, giapponesi e moncalierini o marchigiani, che non farà mal nessuno, perchè la storia d’un dittico d’avorio non importa un fico secco alla società, e quello che non importa un fico secco alla società, non importa neppure che sia scritto bene o che sia scritto male. Ma una relazione delle produzioni naturali d’un paese interessa almeno tutto quel tal paese, e può avere, quando sia scritta come si deve, molta influenza sul bene e sul meglio degli abitanti di quel tal paese, onde bisogna aver cura di scriverla in modo che non solamente gli studianti di professione la leggano, ma che la possano anche leggere con gusto quelle tante persone civili, che, oltre allo studiare qualche volta, vogliono altresì badare o a’ loro negozj o a’ loro divertimenti; e l’impiombare una tal relazione co’nomi messi in postille de’ più sonori letterati d’ogni secolo e d’ogni regione, non serve che a far pompa di quella erudizione di cui ogni debole letterato fa molta pompa, e disgusta, e secca, e ributta dal leggerla tutti que’ che non sono letteratissimi letterati. Non so s’io mi sia spiegato bene e abbastanza su questo articolo. L’altra cosa poi che vorrei altresì suggerire al signor Matani, è d’astenersi sempre negli scritti suoi dal mostrare la minim’ombra di dispregio pel sesso donnesco, e di ommettere per conseguenza tutti que’ frizzi che lo possono offendere, come sarebbe quel frizzetto che ho distinto con carattere diverso in questo suo capitolo quinto. Se il signor Matani non ha in molta stima le donne, le lasci a que’ che le stimano e che non sono del suo umore. Le lasci a noi che siamo ammiratori di quella bellezza di cui quel sesso debole fa molta pompa. E perchè non n’hanno queste belle creature a far pompa? Il Creatore ha data peculiarmente ad esse la bellezza e la grazia perchè ne mansuefacciano e ne rendano amanti; e a noi ha data la forza e il coraggio perchè le difendiamo: e noi abusiamo del dono fattoci dal Creatore, se lo volgiamo a loro offesa anzi che a loro difesa, come abusano esse del dono loro, se non lo adoperano misuratamente. Osserverò etiam, ch’ella è una soverchieria vituperosa il servirsi contr’esse d’un’arme che noi maneggiamo più frequentemente che non esse, cioè della penna. Guai a noi se per la legge del taglione esse si unissero a far uso tutte d’accordo contro di noi dell’arme che più frequentemente di noi maneggiano, cioè dell’ago! In somma, a dispetto de’ miei settantacinque anni, a me piaccion più le belle giovanette che si sanno metter bene i néi sotto l’occhio sinistro, o sul labbro superiore, che non que’ gravi letterati che sanno mettere le dieci e le venti postille in fondo d’ogni lor pagina. Conchiudo con queste belle parole del poeta Dryden: None bui the brave deserve the fair. Due memorie sull’innesto del vajuolo del signor De La Condamine, tradotte dal francese con l’aggiunta delle relazioni d’innesti di vajuolo fatti in Firenze nel 1756, dal signor dottore Giovanni Targioni Tozzetti. In Venezia 1761, presso Domenico Deregni, in 8.o L’uomo è definito animai ragionevole; ma e’ basta che tu lo veda operare e che tu noti con quanta fiacchezza, con quanta pusillanimità e con quanta inerzia egli esercita quelle facoltà che lo distinguono da’ lombrichi e da’ bacherozzoli, perché ti venga voglia di stizzosamente negare la verità di questa definizione e perché tu sia tentato di definirlo animale a fatica suscettibile di buon discorso. Innumerabili cose vuole la ragione che facciamo o che non facciamo per ottener bene, e per iscansar male. Ma quanti disubbidienti e quanti ribelli non ha essa? E quanti non sono i ritrosi e gli accidiosi, o gli ostinati e i perversi, che sempre le menano de’ pugni in faccia, e che se le sottomettono a mal in corpo, o per marcia forza? Quanti che a suo dispetto vogliono avere un qualche certo male, anzi che avere secondo sua voglia un qualche infallibil bene? V’è egli un solo de’ miei leggitori (leggitori miei, mettetevi tutti la mano sulla coscienza) che ardisca assicurarmi d’avere in tutto il corso della sua passata vita scrupolosamente e volentieri seguiti i precetti della ragione per lo spazio intiero d’un solo giorno? E bisognerà egli tuttavia chiamar ragionevole un animale che non sa neppure stare ventiquattr’ore, anzi dodici o quattordici, senza calcitrare contro la ragione, e senza violarne i precetti? Eh fa tu, uomo, questa ed altre somiglievoli riflessioni, e adoperando quel buon discorso di cui sei a fatica suscettibile, vergognati di te stesso e della pomposa e lusinghiera definizione che da te stesso ti sei fatta, e avvilisciti nella tua propria opinione. Che l’uomo operi non soltanto da fiacco, da pusillanime e da inerte quando si tratta di seguire la ragione, ma che covi anzi nel più interno del suo cuore una forte ed incessante brama di sempre porre ostacolo all’esecuzione di qualunque cosa gli venga da lei chiesta, io non addurrò oggi altra prova, se non quella del poco buon incontro che l’innesto del vajuolo ha fra di noi. Si sa da’ nostri più sapienti filosofi egualmente che dalle nostre donne più insipienti, che il vajuolo è un male fra di noi inevitabile; si sa altresì con innegabilissima certezza, che d’ogni dozzina di creature umane, tre almeno sono ammazzate da questo inevitabil male, oltre a due almeno che vengono da esso bruttamente guaste. Ma se il vajuolo è un male inevitabile, e che ammazza e guasta tanti de’ tuoi, perchè (dice la ragione) perchè tu, uomo, non procacci un rimedio contr’esso? Il rimedio io l’ho trovato (risponde l’uomo), e so indubitatamente che innestandomi il vajuolo, cioè facendomelo venire a forza quand’io lo giudico a proposito, e’ non ha più la funesta possanza di ammazzare nè di guastare me o alcun de’miei. Buono (dice la ragione), ma come se’ tu certo di questo? Me l’ha detto (ripiglia l’uomo) quella tua savia parente, l’esperienza; e tu sai se le parole dell’esperienza hanno mai ingannato anima viva. Sì signora, l’esperienza ha fatto toccar con mano agl’ignoranti Circassi, e ai dotti Inglesi, che il vajuolo non ammazza e non guasta più alcuno quando sia innestato da un pratico e circospetto e giudicioso medico. Vuoi tu di più, signora mia? Va e leggi quel libretto del dottor Berzi di Padova; anzi to’, e leggi questo che è tradotto dal francese di monsù De la Condamine, e bada bene a quelle giunte del dottor Centenari, del dottor Targioni, e vedrai se l’esperienza parla al suo solito con palpabile verità. Si, si, vedrai da questo libro, che in Inghilterra, in Francia, in Italia e in Istria, anzi pure in tutto il nostro mondo, il vajuolo diventa un mal da biacca, una vera ciancia, quando venga innestato da un medico savio. Confessa dunque, signora ragione, che io non ho il torto quando ti assicuro d’essere convinto arciconvinto, che il vajuolo non può più ammazzare nè guastare alcuno che gli faccia fronte col rimedio ch’ io ho trovato contro la sua tanto funesta possanza. Ergo (dice la ragione) fatti innestare il vajuolo da un pratico, circospetto e giudizioso medico, chè così non sarai più nè ammazzato nè guasto da questo inevitabil male. Oh questo no, signora ragione: questo è quello ch’io non voglio fare, risponde l’animal ragionevole. La Barcaccia di Bologna, poema giocoso di Sabinto Fenicio 1760, in 8.o Io non voglio parlare delle ragioni che hanno indotto questo pastor arcade a scrivere questi due canti, non essendo necessario che io dichiari in questi fogli da qual parte io penda nella famosa disputa di cui si tratta nelle due lettere che precedono questa Barcaccia. Dico però che l’argomento di tal disputa è cosa affatto seria, e che non si dovrebbe trattare burlescamente come si fa in queste ottave. Considerando adunque questo poemetto come una fattura poetica, dico che Sabinto Fenicio scrive in ottava rima con una facilità da improvvisatore, e che procura d’imitare piuttosto la snervatezza del Fagiuoli, che la vivacità del Berni. Mi permetta però sua signoria coll’addiettivo terminante in issima, che io disapprovi due cose in questa sua fattura poetica. Una è la scorretta a bassa lingua ch’ egli adopera in questo suo supposto stile berniesco, la quale puzza troppo del bolognese anzi che del toscano; non mica che a me dispiaccia il dialetto di Bologna, che anzi mi piace assai; e molte composizioni ho io lette e sentite a’ miei dì in quel dialetto, che mi sono riuscite ingegnose, vaghe e lepide davvero. Ma chi scrive in italiano deve assolutamente scrivere netto e purgato toscano, e non lasciarsi fuggir della penna un gnanca per nè anche, un barille per barile, e regallo per regalo, che questi sono spropositi d’uomo che non sa in che consista il bello scrivere; nè vale il dire la rima mi ha sforzato a dir così, perchè chi non ha una intiera padronanza sulle rime, non ne deve fare. I Latini e i Greci hanno scritte correttamente le loro lingue; i Francesi hanno fatto e fanno tuttodì lo stesso, e disprezzano e vilipendono chi scrive sconciatamente; e noi Italiani, se non vogliamo essere considerati barbari ignoranti da’forestieri e da’posteri, abbiamo pure a far lo stesso, e non abbiamo a scrivere nella nostra come le zambracche e i facchini di varie delle nostre provincie parlano quando vogliono toscaneggiare. Nè serve punto il dire come la Barcaccia, Avanti di parlar vi voglio in prima Pregarvi a compatir il canto umile,Mentre s’io parlo in prosa oppure in rima, Questo è l’antico mio usato stile; perché ogn’uomo di senno e di buon gusto vi risponderà che tanto peggio per voi, se non abbandonate il vostro antico usato stile per conformarvi alla decenza, all’eleganza, all’esempio e alla ragione di tutti i valenti scrittori d’ogni tempo e d’ogni nazione; nè alcuna persona di buon gusto e di senno potrà mai far plauso a espressioni vili e plebee di cose plebee e vili, anzi pure sozze e stomachevoli, o chiamare vivace lepidezza quello che non è altro che mera sporcizia: come sarebbe a dire i seguenti versi della Barcaccia ch’ io qui trascrivo non senza nausea, e soltanto per avvertire i miei compatriotti a non imitare queste porcherie, che dovevano almanco essere adombrate co’ puntini da Sabinto Fenicio. Canto Primo, stanza 19. Non distingue (un medico) la febbre dal dolore, Nè dalla convulsione la renella:Un sciloppo ordinava a tutte l’ore,Fatto di malva, sena e mercurella;Onde dovea l’infermo con rumoreCacar talvolta sino le budella,Dicendo che ogni male era sanatoQuando l’infermo avea ben ben cacato. St. 24. Quest’è‘l pidocchio, il qual per naturale A chi lo prova fa venir l’insania:Gira e rigira dove non saprei:Va in culo a molti, ed io son un di quei. St. 31. Una vecchia si sveglia e si scolora, E per la gran paura sta balorda;Di pisciar pensa dentro all’orinale,E piscia d’un dottor dentro un stivale. St. 37. Lasciam che chi ha la rogna se la gratta. St. 54. Chi batte i pie, chi corre in un cantone Per salutar col culiseo l’aurora. Canto Secondo, st. 54. Una bocca chiudendo sopra il mento, Che par un vaso da cacarvi drento. St. 43. Col naso, e più col cul, tal mormorio Facevan questi pazzi malandrini,Che in verità parevan due cornetteDi quelle che usar soglion le staffette. Se dunque al signor pastor arcade venisse mai più la sozza voglia di scrivere di quelle cose ch’egli chiama poemi giocosi, stia avvertito a non m’ammorbare d’avvantaggio con queste sue poco giocose immondezze; altramente sarò costretto a far il predicatore a lui, e a trattarlo con maggiore austerità che non faccio ora. Lo avverto pure che non è cosa da valoroso paladino l’assaltare le povere vecchie, e il proverbiarle, e il metterle in ridicolo ne’ suoi fetenti versi; e l’arcadica sua pastorellería dovrebbe sapere senza altrui suggerimento essere stata inalterabile disposizione del sommo Fattor del tutto, che le donne invecchiando diventassero poco piacevoli alla vista; nè si può senza estrema perversissima viltà beffare alcuno di que’ difetti che uno ha senza sua colpa, come d’essere vecchio, brutto, zoppo, gobbo, orbo, o guercio, e simili cose, che anzi non si possono neppure, rigidamente parlando, chiamar difetti. Ed io considererei come uno sciocco molto solenne chiunque volesse ridersi di me perchè sono vecchio, perchè la vista corta mi sforza a portar gli occhiali, perchè ho una gamba di legno, e perchè mi manca un po’ di carne nel labbro inferiore ch’ è stato portato via mezzo dalla già riferita sciabolata che buscai in Erzerum. A questa insulsa tiritera della Barcaccia ne vien dietro un’altra pure in ottava rima, intitolata il Burchiello di Padova, che è stata scritta dal nostro gran riformatore del teatro. Ma quantunque sia scritta, come la Barcaccia, senza alcuna bellezza di lingua, e senza alcun gusto di stile berniesco, pure non ha alcuna di quelle tante sporche e abbominevoli espressioni che imbrattano e disonorano la Barcaccia. Notizia che non ha che farecon la Frusta letteraria In vece di diminuire il numero degli scrittori, come pare che molti temano, la mia Frusta lo vuol anzi accrescere. Questo lo dico perchè ricevo ogni settimana de’ grossi fasci di lettere, che tutti m’annunziano qualche manoscritto bello e preparato pe’ torchj. Gli è vero che gli autori di que’ manoscritti, onorandomi forse soverchio, vengono tutti per lettera a chiedermi consiglio intorno a quelle loro opere, dicendomi tutti in varie frasi, che l’approvazione preventiva d’Aristarco Scannabue assicurerebbe a quelle lor opere l’approvazione successiva dell’universale. Checchè le signorie loro si pensino, sino il mio don Petronio Zamberlucco va meditando d’essere scrittore anch’esso. Don Petronio non ha mai pensato a scrivere una riga per le stampe in cinquantanove anni che ha già vissuti; ed ora che sta sul saltare a cavallo al sessantesimo, gli è venuta questa matta voglia, nè credo che avrò persuasiva bastante per distoglierlo da questo strano pensiero. Egli ha messo in iscritto un po’ di dialogo che facemmo insieme una di queste sere, e vuole in ogni modo ch’ io lo stampi nella mia Frusta; e se questo è ben accolto da’ vostri leggitori, soggiunge don Petronio, io voglio, cospetto di Bacco, provarmi a far un libro, che sarà intitolato chiacchiere domestiche fatte da don Petronio Zamberlucco con Aristarco Scannabue. Io non posso far a meno di non compiacere questo buon curato; onde dopo d’avere corretti alcuni pochi errori d’ortografia da lui commessi in questo suo dialogo, gli do luogo in questo foglio; ma di grazia, corrispondenti miei, trovatelo cattivo, e scrive temente un mondo di male per ajutarmi a stornare questo dabben religioso dalla matta impresa che sta metidando. Ecco intanto il Dialogo tra don Petronio Zamberluccoe Aristarco Scannabue. « D. Pe. Gamba di legno, gamba di legno, tu mi vuoi tôrre il piacere di leggere molti numeri della tua Frusta, malgrado le confortevoli lettere di mio cugino Marcantonio. Ari. Perchè, curato? D. Pe. Perché tu la meni con troppa furia. Ari. Come l’avresti dunque menata tu? D. Pe. Senti, gamba di legno; ma non venir poi con quella tua maladetta logica a mettermi nel sacco. Ari. Di’ su, di’ su, che non adopererò logica stasera. D. Pe. Tanto meglio. Tu dovevi dunque così sulle prime andar bel bello. Dovevi ne’ primi fogli parlare solamente di que’ libri che meritano d’essere lodati: poi venire a poco a poco ai libri mediocri, e li cominciar a dare qualche frustatina leggiera leggiera; e cascando finalmente addosso ai libri cattivi menar giù botte da critico turco. Ari. Caviamo il turacciolo a quest’altro fiasco. D. Pe. Che fiasco? Che turacciolo? Non voglio bere una goccia di più, se tu non rispondi prima a quanto ho detto, e se non confessi un tratto in vita tua d’aver avuto il torto marcio nell’imprudentemente attaccare molti de’moderni scrittori nostri ne’ primi fogli della tua Frusta, e nel far temere ad essi tutti delle frustate sempre più forti, quanto più saresti andato innanzi con questa tua opera. Ari. A che proposito mi di’ tu questo, curato? D. Pe. A che proposito? Bisognava venir meco jeri nella metropoli, che sapresti a che proposito. Tutti quivi disapprovano la Frusta. Ari. Quante ore sei tu stato nella metropoli? D. Pe. Tutto martedì passato. Ari. E in un solo martedì tu hai parlato con tutti i cento cinquanta mila abitanti che contiene? D. Pe. Che matto! Sono stato tre ore la mattina nella bottega d’un librajo, e due ore il dopo pranzo in un’altra; e que’ due libraj, e molti poeti, e altri scrittori che trovai e in una bottega e nell’altra, tutti ad una voce han detto e ridetto che tutta la città disapprova, e biasima, e detesta la Frusta; e tu sai che vox populi vox Dei. Ari. Caviamo dunque il turacciolo al fiasco. D. Pe. Che ostinato gamba di legno! Ma che rispondi tu a questo? Ari. Dico che tu, e que’ due libraj, e que’ poeti, e quegli autori siete tutti fuor de’ gangheri. Non mi far dire, che verrò via con la logica, veh! D. Pe. Lo so, lo so che chi non dice a tuo modo è sempre fuor de’ gangheri. Già ti conosco, egli è peccato che tu abbia questo difetto, arrogantaccio. Ari. Or via, senti. Concedi tu che le mie critiche passate sono sempre state vere? D. Pe. Concedo; che perciò? Ari. Concedi tu che le mie passate critiche sono state rigidamente imparziali? D. Pe. Concedo. Ari. Concedi tu che le mie critiche sono atte a far ridere qualche volta quelli che non sono da quelle tocchi, e che non hanno paura d’esse, non avendo stampato mai libri? D. Pe. Concedo anche questo, perchè qualche volta hanno fatto ridere anche me, che non soglio ridere frequentemente. Ari. Concedi tu che le mie critiche tendono unicamente a migliorare gli studj e i costumi de’ nostri compatrioti? D. Pe. Concedo anche questo; ma non mi seccar altro con queste interrogazioni. Ari. Come vuoi tu dunque, che tutta una città metropoli pensi come que’ pochi che tu incontrasti in quelle due botteghe? Come vuoi tu che una nazione intiera disapprovi, e biasimi, e danni una critica vera ed imparziale? Una critica che fa talvolta ridere? Una critica che tende evidentemente a migliorare gli studj, e a migliorare i costumi? Tu mi vorresti far credere che io scrivo in Barberia, e non in Italia. D. Pe. Eppure . . . Ari. Eppure tu sarai sempre un buonuomo, che non può resistere alle prime impressioni. D. Pe. O cospetto di Bacco, che vuoi tu dire, gamba di legno? Ari. Voglio dire che se tu andassi a stare un mese nella metropoli, e che t’aggirassi dappertutto, vedresti che nella metropoli non tutti sono dell’opinione di que’ due libraj, e di quell’altra gente che dicesti. Come puoi tu essere persuaso, curato, che la più parte degli uomini e delle donne d’Italia, o d’altra parte d’Europa non ami di sentir il vero, quando quel vero non offende quella più parte? come vuoi tu che tutti si riuniscano a biasimare colui che parla senza altra passione che quella di giovare a chi l’ascolta, e di contribuire il suo miccino al miglioramento della sua specie? e come vuoi tu che l’uomo, definito da qualche antico filosofo animai risibile, non ami più di ridere? e di ridere spezialmente alle spese degli sciocchi e degli sciagurati? Beviamo quest’altro fiasco, don Petronio, e poi andiamo a dormire più tranquillamente che non dormono ora gli scrittori cattivi. » Il poco resto di questo dialogo Aristarco l’ha soppresso per una ragione che i sagaci leggitori indovineranno facilmente quando vogliano ricordarsi che Aristarco vuole molto bene a colui che ad ogni terza parola lo chiama gamba di legno, e qualche volta testa di legno. Lettere familiari di Giuseppe Baretti a’ suoi tre fratelli Filippo, Giovanni, ed Amedeo. Tomo primo, in 8.o Milano presso il Richini Malatesta 1762. L’autore di queste lettere non è certamente un novizio nell’arte dello scrivere. La precisione e la rapidità del suo stile, e il facil modo con cui esprime certe cose straniere e non di frequente espresse da altri nella nostra lingua, ne lo mostrano uomo che s’è avvezzato a maneggiare la penna di buonora. Di fatti è un pezzo che l’Italia lo annovera tra’ suoi moderni scrittori per la sua traduzione in versi delle tragedie di Pier Cornelio, per un tometto di rime berniesche, per un suo cicalamento in lode di un certo antiquario, (delle di cui opere mi verrà forse occa-sione di favellare in queste mie lucubrazioni), e per cert’altre sue coserelle scritte tutte con qualche brio e con qualche naturalezza ne’ suoi primi anni. Non avendogli però il suo scrivere giovanile procurato alcun notabile vantaggio nella sua contrada, e’ si pensò d’andare a cercar fortuna altrove; e nell’anno 1750 se la fece in Inghilterra, dove, imparata quella lingua, e stampate in essa molte cose, ed anche qualche bagattella in francese, si risolvette finalmente di ripatriare dopo d’avere colà soggiornato quasi dieci anni compiuti. Nell’andare da Torino a Londra egli aveva fatta la più breve via, cioè quella di Francia, ma dovendo nel suo ritorno a casa attraversare una buona parte dell’Inghilterra e del mare Atlantico, e quindi il Portogallo, e la Spagna, e la Francia meridionale, che sono regioni o poco o mal descritte nella nostra lingua; egli si propose nell’atto di partir da Londra di dar conto a’ suoi compatriotti di quelle poco note regioni; ed ha eseguita la sua idea scrivendo quasi ogni sera del suo viaggio una lunga lettera a’suoi fratelli. Quelle lettere egli se le portò seco, e giunto a casa, e ripulitele alquanto, si accinse a stamparle in Milano. La ragione che lo indusse a pubblicarne colà un tomo solamente, e perchè gli altri tre tomi s’abbiano a stampare fuori di Milano, io non la so bene. Forse egli ce la dirà quando darà in luce que’ restanti tre tomi, il che è da sperare che avverrà tosto. Se da questo primo tomo si può far congettura degli altri, i leggitori possono anticipatamente assicurarsi che queste Lettere Familiari, quantunque scritte a precipizio ed alla giornata, non riusciranno loro un insipido itinerario e un freddo registro di nomi di città e d’osterie. L’autore non è stato invano per tant’ anni in Inghilterra, ed ha imparato colà il modo di riempiere un libro di cose, e non di ciance, come s’usa troppo frequentemente di qua dall’Alpi. Ma sentiamo dalla Prefazione dello stampator Malatesta a chi vuol leggere, un compendio di quanto in queste lettere familiari si contiene. Quello stampatore dice così: «Il signor Giuseppe Baretti si è pur risoluto di lasciarmi stampare quella parte delle sue lettere familiari, che contiene il ragguaglio d’un viaggio da Londra a Torino fatto da lui nel 1760 attraverso l’occidental parte d’Inghilterra, attraverso l’Oceano Atlantico, il Portogallo, l’Estremadura, il regno di Toledo, la Castiglia Nuova, l’Aragona e la Catalogna sino ai Monti Pirenei: quindi pel Rossiglione, per la Linguadoca, e per la Provenza sino in Antibo: poi sull’acque del Tirreno, lunga la Costa della Contea di Niz-za, del Principato di Monaco e della Liguria sino a Genova, e finalmente per l’Alessandrina, il Monferrato, e parte del Piemonte sino alla prefata città di Torino sua patria. Questo suo mediocremente lungo viaggio il signor Baretti l’ha voluto scrivere, come s’è detto, in lettere familiari a tre suoi fratelli. E siccome egli lo fece nella abbastanza matura età di quarant’anni, e dopo d’avere da giovanetto visitate altre regioni d’Europa, e dopo d’avere studiato con qualche diligenza tanto i libri, quanto il mondo, e dopo d’avere soggiornato dieci anni in Inghilterra, e dopo d’essersi impadronito delle lingue toscana, francese, inglese, portoghese e spagnuola, è da sperare che non sarà tacciato di soverchia presunzione, se egli ha tanto buon concetto di queste sue lettere da avventurarle alla stampa, e se si assicura che abbiano a riuscire dilettevoli non meno che istruttive ad ogni genere di persone. In queste lettere voi troverete, leggitori, un caos di roba, voi troverete descrizioni di città, di porti di mare, d’arsenali, di palazzi, di giardini, d’osterie, di chiese, d’eremi, d’acquedotti, di boschi, di deserti e di millanta altre cose, che a registrarle per filo tutte sarebbe proprio una pirlonéa. Voi vi troverete de’ be’ragguagli di cacce di tori, di pompe reali, di patriarcali funzioni, e d’altre tali gaudiose e magne cose, che sogliono far fare tanto d’occhi alla gente. Voi vi troverete una pittura del terremoto di Lisbona tanto viva e tanto patetica, che probabilmente la riputerete un capo d’opera. E perchè quella Lisbona è stata in questi pochi anni passati feconda molto d’avvenimenti grandi e solenni, voi sentirete come dall’autore di queste lettere sia stata accuratamente esaminata. Voi sentirete come si mangia, si bee, si veste, si canta, si suona, si balla, si giuoca, si viaggia, si traffica, si studia, e si passa questa grama vita in molte parti di quest’orbe sublunare. Nè solamente leggendo questo viaggio voi accompagnerete il signor Baretti passo passo con la fantasia da Londra sino a Torino; ma sbalzerete con esso episodicamente ora sotto il freddo polo ed ora sotto l’ardente linea, perchè egli ha non soltanto viaggiato molto di qua e di là con la persona, ma è ancora ito lanciandosi col cervello, per un modo di dire, da un globo all’altro del nostro planetario sistema. Chi piglia diletto nello informarsi de’ costumi de’ popoli e nel filosofare sulle loro varie virtù e sui loro varj vizj, e gode sottilmente indagarne le sorgenti, il progresso e gli effetti, troverà qui pascolo abbondante alla sua curiosità. Chi smania di spacciar-la da politico, e cerca regolare un qualche Stato o monarchico o repubblicano, tanto speculativamente, come è il caso di molti, quanto in pratica, come è il caso di pochi, troverà qui un ampio fondaco d’osservazioni e di notizie sull’agricoltura, sulle manifatture, sul commercio per mare e per terra, sulle dogane, sul modo di fare e di mantenere le strade pubbliche, sulle miniere ed altre produzioni interne ed esterne di molti paesi, sulle maggiori o minori popolazioni e sull’entrate ed uscite di molti principi e Stati, sulla pace e sulla guerra, e su infinite altre cose di tal conio. Il teologo, il moralista, e il metafisico non avranno da lagnarsi di non aver avuta in queste lettere la parte loro. Il geografo, il botanico, il filologo, il linguista, l’antiquario, il critico, il poeta, l’improvvisatore, e sino il musico, tutti troveranno in queste lettere di che mettersi talora la mente in moto. Non vi dico nulla della bella Catalina di Badajos, e delle fanciulle di Meaxaras, che le più inzuccherate novellette non le avrete forse mai sentite. In somma ogni coltivatore delle scienze, ogni amatore dell’arti si faccia a leggere questo viaggio, e qualche cosa che quadri coll’umor suo ve la troverà senza fallo. Sino il zerbino e l’innamorato non ha voluto l’autore scordarseli nella penna, e non ha lasciata scappar l’occasione ogni volta che se gli è presentata, di parlare di belle ed amorose donne, e degli scherzi che i loro sfolgorati occhi san fare su i cuori degli uomini. Nessuno però sia tanto pazzo da credersi di trovar qui la minima sdrucciolevol cosa d’amore, chè il signor Baretti ha fatta scorrere una libera vena di piacevolezza e di giocondità per tutto questo suo libro, ma non s’è perciò scordato mai un momento d’essere cristiano; onde i padri e le madri lo lascino pur leggere da’ loro anche teneri figliuoli, e le badesse e le priore dalle loro monache, senza paura che l’innocenza loro ne venga minimamente contaminata. Gli uomini poi di natura grave e sopraccigliuta non isdegnino neppur essi queste lettere, le quali, se hanno in sè molte cose dette in assai festevol modo, molto eziam ne hanno delle tanto austere e seriosissime, che al fin del conto avranno forse ragione di rimanerne soddisfatti. » Da questa sinopsi, o vista generale di quest’opera, e più dal primo tomo che già ne abbiamo, si deve desiderare che l’autore non trovi ulteriori inciampi a regalarne gli altri tre. Quando gli altri verranno fuori farò le mie osservazioni sul tutto: e li loderò se corrisponderanno a questo, o adopererò la Frusta, se mi frauderanno della speranza che questo m’ha fatta concepire. Intanto dirò che di questo sono contentissimo, e mi assicuro che ne sarà pur contento chiunque lo leggerà, e che fra l’altre cose gli anderanno molto a verso il fantastico e nobil commiato che l’autore piglia dalla sua cara Inghilterra, il ragguaglio di quell’antichissimo inglese monumento chiamato Stone-henge; la descrizione dell’arsenale di Plimouth, le notizie intorno alla lingua cambra, le due dissertazioncelle sulla poesia, la funzione patriarcale di Lisbona, la caccia de’ tori, la lepida descrizione della magra osteria di Cabeza, e più di tutto le morali riflessioni buttate qua e là pel libro senza affettazione e senza santocchieria. Per dare intanto un buon saggio della franca e viva maniera dello iscrivere di questo autore, ricopierò qui la pittura delle rovine di Lisbona, la qual pittura non senza ragione è sospettata dallo stampatore Malatesta per un capo d’opera. Eccovela nella lettera diciannovesima, datata da Lisbona li 2 settembre 1760. « Sono stato a visitare le rovine cagionate dal sempre memorando terremoto, che scosse i due regni di Portogallo e d’Algarve, con molta parte di Spagna, e che si fece terribilmente sentire per terra e per mare in molt’altre regioni, nell’anno mille settecento cinquantacinque il dì d’Ognissanti. Misericordia! È impossibile dire l’orrenda vista che quelle rovine fanno, e che faranno ancora per forse più d’un secolo, che un secolo almeno vi vorrà per rimuoverle. Per una strada che è lunga più di tre miglia, e che era la principale della città, non vedi altro che masse immense di calce, di sassi e di mattoni accumulate dal caso, dalle quali spuntan fuora colonne rotte in molti pezzi, frammenti di statue e squarci di mura in milioni di guise. E quelle case che son rimaste in piedi e in pendio, novantanove in cento sono affatto prive de’ tetti e de’ soffitti, che o furono sprofondati dalle ripetute scosse, o miseramente consumati dal fuoco. E in quelle lor mura vi sono tanto fessi, tanti buchi, tante smattonature, e tante scrostature, che non è più possibile pensare a rattopparle, e a renderle di qualche uso. Case, palazzi, conventi, monasteri, spedali, chiese, campanili, teatri, torri, porticati, ogni ogni cosa è andata in indicibile precipizio. Se vedeste solamente il palazzo reale, che strano spettacolo, fratelli! immaginatevi un edifizio d’assai bella architettura, tutto fatto di marmi e di macigni smisurati, tozzo anzi che tropp’alto, con le mura maestre larghe più di tre piedi liprandi, e tanto esteso da tutte parti, che avrebbe bastato a contenere la corte d’uno imperador d’Oriente, non che quella d’un re di Portogallo: eppure que-sto edifizio che l’ampiezza delle sue mura e la loro modica altezza dovevano rendere saldo come un monte di bronzo, fu così ferocemente sconquassato, che non ammette più racconciamento. E non soltanto que’ suoi macigni e que’suoi marmi sono stati scommessi e sciolti dalle spaventevoli scosse, ma molti anche spaccati chi in due, chi in più pezzi. Le grossissime ferrate furon tratte de’ loro luoghi, e altre piegate e sconcie, ed altre rotte in due dalla più tremenda e dalla più irresistibile di tutte le naturali violenze. Il molo della dogana in riva al Tago, che era tutto di sassi quadri e grossissimi, largo da dodici a quindici piedi, e alto altrettanto, e che per molti e molt’anni aveva massicciamente sostenuto e represso il pesantissimo furore delle quotidiane maree, sprofondò, e sparì di repente in siffatta guisa, che non ve ne rimase vestigio, e molte genti che erano corse sopr’ esso per salvarsi nelle barche attaccate alle sue grosse anella di ferro, furono con le barche e ogni cosa tratte con tant’impeto sott’acqua, anzi in una qualche voragine spalancatasi d’improvviso sotto terra, che non solo nessun cadavero non tornò più a galla, ma neppure alcuna parte dei loro abbigliamenti. Gira l’occhio di qua, volgilo di là, non vedi altro che ferri, legni e puntelli d’ogni guisa posti da tutte parti, non tanto per tenere in piedi qualche stanza terrena che ancora rimane abitabile, quanto per impedire che le fracassate mura non caschino a schiacciare e a sotterrare chi per di là passa. E tanto flagello essendo venuto in un giorno di solennissima festa, mentre parte del popolo stava apparecchiando il pranzo e parte era concorso alle chiese, il male che toccò a questa sventurata città fu per tali due cagioni molto sproporzionatamente maggiore, che non sarebbe stato se in un altro giorno e in un’altr’ora fosse stato dalla divina provvidenza mandato tanto sterminio, perchè oltre alle numerose genti che a parte a parte nelle case e nelle strade perirono, quelle che erano nelle chiese affollate rimasero tutte insieme crudelmente infrante e seppellite sotto i tetti e sotto le cupole di quelle, chè troppo gran porte avrebbono dovuto avere per porgere a tutti via di scampare; sicchè molta più gente andò a morte ne’ sacri che ne’ profani luoghi. Oh vista piena d’infinito spavento, vedere le povere madri e i padri meschini, o stringendosi in braccio o strascinando per mano i tramortiti figli, correre come forsennati verso i luoghi più aperti; i mariti briachi di rabbioso dolore spingere o tirare con iscompigliata fretta, le consorti, e le consorti con pazze ma innamorate mani abbrancarsi ai disperati mariti, o ai figli, o alle figliuole; e gli affettuosi servi correre ansanti co’ malati padroni indosso; e le gravide spose svenire e sconciarsi, e tombolare sui pavimenti, o abbracciare fuor d’ogni senso qualunque cosa si parava loro dinanzi; e molt’uomini mezzo spogliati, e moltissime donne quasi nude, e sin le povere monache con crocefissi in mano, fuggire non solamente delle case e de’ monisteri per gli usci e per le porte, ma buttarsi giù delle finestre e de’ balconi per involarsi, e la più parte in vano, alla terribile morte che lor s’affacciava d’ogni banda! Chi potrebbe dire, chi solo potrebbe immaginarsi le confuse orrende grida di quelli che fuggivano o con le membra già guaste, o nel pericolo imminente d’averle guaste; e i frementi gemiti di quelli, che senza essere privi di vita subitanamente, rimanevano crudelmente imprigionati sotto le proprie, o le altrui diroccate magioni! E quantunque paja strano e quasi impossibil caso, pure è avvenuto a molte infelici persone di morire sotto a quelle rovine senza aver ricevuta la menoma ferita o percossa da quelle; e ancora è viva una povera vecchierella, che fu cavata fuora d’una cantina, dopo d’essere stata in quella rinchiusa e come sotterrata dal terremoto per nove giorni, e dove conservò la vita nutrendosi di grappoli d’uva che fortunatamente aveva pochi dì prima appesi al solajo di quella per conservarli, come qui si usa comunemente. Le miserande storpiature e le strane morti cagionate da tanto calamitoso accidente furono innumerabili; e innumerabili furono i genitori che perdettero chi tutta, chi parte della loro prole, e innumerabili i figli che perdettero i genitori, e pochissime le famiglie che non furono prive quale del padre, quale della madre, quale d’uno, e quali di più figli, o d’altro prossimo parente e consanguineo; e in somma tutti senza eccettuazione ebbero o danno nella vita, o almeno nella roba; chè essendo, come già dissi, accesi tutti i fuochi, perchè era appunto l’ora che in ogni casa si stavano allestendo i desinari, e rilucendo per le chiese infiniti lumi per la solennità del giorno, il rotolare di que’ tanti fuochi sui numerosi pavimenti di legno, e il cadere de’ sacri candelabri sugli altari, e lo spaccarsi de’focolari e de’solaj, e l’incontrarsi di tanti carboni e di tante fiamme in tante e tante combustibili materie, fece in guisa che presto il vorace elemento si sparse e s’appiccò in tante parti della città, e fu tanto presto ajutato da un’ incessante tramontana, che non essendovi chi potesse accorrere ad estinguere l’incendio divenuto a un tratto universale, e venendo pur guasti gli acquidotti che somministravano a Lisbona l’acque, in poche ore quel deplorabilissimo fuoco finì di colmare d’estrema irremediabile miseria l’angosciato rimanente popolo, che, stupefatto da tanti replicati mali, invece di adoperarsi in qualche modo, gli lasciò ogni cosa in libera preda, e corse urlando e piangendo mattamente pe’ prati e pe’ campi, dove chi potette s’era, per involarsi al primo danno, rifugiato. Colà il comune infortunio aveva agguagliato ogni grado di persone: e i signori e le dame più grandi del paese, non eccettuati i principi e le principesse del real sangue, si trovarono a una medesima sorte con la plebe più abbietta; e colà molti che per malattia o pel digiuno dell’antecedente vigilia, si trovarono estenuati soverchio dalla fame, cadettero la seguente notte miseramente svenuti, e non pochi morti d’inedia sugli occhi al loro addoloratissimo sovrano, che per tutto quel troppo disastroso giorno altro non ebbe che amare lagrime da dar loro. E oh quanti doviziosi grandi, quante nobili matrone, quante modeste donzelle furono colà costrette ad implorare pietà e soccorso, o a soffrir vicina la stomachevole compagnia di putenti mascalzoni e di sozze femminacce, e ad invidiare talora un pezzo di pane accattato, che un qualche men-dico si traeva di tasca per mangiarselo. Tutti i tanto vantati tesori del Brasile e di Goa, mal sarebbono in quel punto stati equivalenti, non dirò a un boccone di ammuffato marinaresco biscotto, ma neppure alla fradicia scorza del frutto più comunale, tanto in poche ore divenne rabbiosa la fame e universale. È una cosa, fratelli, che funesta indicibilmente l’animo il visitare quelle rovine con alcune di quelle persone che di tanta calamità furono testimonie, e sentirle ad ogni passo dire: Qui rimase morto mio padre; là mia madre fu sepolta; costà una tal famiglia perì senza che ve ne scampasse uno; colà perdetti il meglio amico che avessi al mondo! Ecco le reliquie del palazzo d’un tale gran personaggio che fu a un tratto estinto con tutti i suoi, ed ecco le vestigie di quel bel tempio, in cui più di cinquecento Cristiani furono d’improvviso seppelliti! Cento frati qui finirono a un tempo i loro giorni mentre si stavano cantando le laudi del Signore nel coro, e questo monistero perdette cencinquanta monache in meno che non si pronunzia il nome di Dio! Giù di quelle scabre rupi si precipitarono molti atterriti cavalli e muli, altri co’cavalieri e co’cavalcanti sul dorso, e altri coi cocchi e coi calessi pieni della gente che tiravano! Ecco i frammenti del muro che cadde addosso all’ambasciadore di Spagna, ed ecco dove le guardie, che seguivano il fuggiasco monarca nostro, furono dalla morte repentinamente involate al suo sguardo reale! Migliaja di tali afflittive cose uno straniero che va errando per quelle compassionevoli rovine sente replicare da quelli che l’accompagnano; e uno interrompe l’altro per raccontargliene un’altra più crudele della prima; e chi passa, e s’accorge della curiosità altrui, si ferma tosto; e con de’ gesti pieni di paura, e con un viso effigiato di cordoglio, e con delle parole ancora tremanti; quantunque cinqu’anni sieno scorsi dal giorno fatale, ti narra la dolente storia delle sue disgrazie, e t’informa delle irreparabili perdite che ha fatte, e poi se ne va sospiroso e colmo di tristezza. E ti fanno poi tutto raccapricciare di nuovo quando si ricordano il freddo, il vento, e la dirotta pioggia che per alquanti giorni dopo il terremoto fece morire assaissimi di quelli che scamparono da quel fracasso, perchè troppo mal provvisti di panni nell’ora sventurata della fuga, nè è maraviglia se ancora prorompono in pianti e in gemiti e in singhiozzi, e sino in urli fremebondi, quando si ricordano il tormentoso intirizzimento delle lor membra, sendo stati costretti di stare per più giorni e per più notti senza il minimo riparo contro l’imperversata ed insopportabilissima intemperie della ghiacciata stagione: e a tanti, a tantissimi danni e mali, aggiungi la perfetta carestia d’ogni vettovaglia, che li sforzò a mangiare non solo le crude carni de’ pollami e de’ mangiabili quadrupedi che si pararono loro dinanzi, ma sino quelle de’ cani, de’ gatti e de’ sorci, e sino l’erba, le radici, e le foglie, e le cortecce degli alberi, per acquetare l’irata fame anzi che per prolongarsi la vita. Varie sono state le relazioni che allora andarono pel mondo di questo infinito disastro; e i Portoghesi, quando il tempo cominciò ad apportare qualche rimedio a’ loro troppo acerbi e troppo intensi mali, calcolarono che di più di novanta mila persone fu scemato il lor popolo in questa sola città; ma se anco avessero, come i miseri soglion fare, esagerato della metà, sarebbe nulladimeno sempre miserandissima cosa e da compiangersi in sempiterno. In un’altra, fratelli, vi dirò alcuna cosa dello stato presente di questa metropoli, che cinque anni sono era per numero d’abitatori considerata la terza città d’Europa. Addio. » Poscritta. Da un suo sollecito corrispondente don Petronio ha ricevuto il secondo tomo di queste Lettere Familiari del Baretti, e insieme la notizia che gli altri due saranno anch’essi presto stampa-ti. Questo secondo tomo io non ho ancora avuto tempo di leggerlo, ma il buon curato giura e protesta che gli è ancora più vario e dilettevole del tomo primo.