Citation: Giuseppe Baretti (Ed.): "Numero XXI", in: La Frusta letteraria di Aristarco Scannabue, Vol.4\21 (1764), pp. 871-917, edited in: Ertler, Klaus-Dieter / Fuchs, Alexandra (Ed.): The "Spectators" in the international context. Digital Edition, Graz 2011- . hdl.handle.net/11471/513.20.954 [last accessed: ].


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N.o XXI.

Roveredo I agosto 1764.

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L’uomo, Lettere filosofiche in versi martelliam, dell’abate Pietro Chiari, sull’idea di quelle di M. Pope, intitolate The proper study of Mankind is Man. Seconda edizione accresciuta d’altre rime diverse dell’autore medesimo. In Venezia 1758. Per Giuseppe Bettinelli, in 8.o

Metatextuality► Tra i principali motivi che m’indussero ad abbrancare la penna, e vergare questi miei fogli con implacabile severità, uno fu certamente lo sdegno che mi bollì tante volte nel cuore, veggendo tutta la nostra penisola infetta ogni dì più da libri ora sguajati, ed ora ribaldi. Corpo del demonio! non v’era più modo d’entrare in una bottega, in un’osteria, anzi pure (al dir degli esperti) in un postribolo, che subito o sur un tavolino, o sur una seggiola, o sur un armadio, o sur una panca, o sur un letto, e sino sur una cassetta di pitale, ti feriva l’occhio ora una qualche raccolta di rime d’un qualche arcade, ora [872] un qualche poemaccio in versi sciolti d’un qualche subarcade, ora una qualche proserella affettatamente sparsa di riboboli fiorentini da un lombardo, ora un qualche eterno commento ad una iscrizione o ad un pataffio antico, ora un qualche volume di goffissime letteracce; ora un qualche trattatuzzo bastardamente filosofico; e quello che è pur peggio di tutto questo, ora un qualche tomo delle commedie del dottor Goldoni, ed ora un qualche romanzo o altra caccabaldola dell’abate Chiari. Ma (diss’io così fra me più volte stizzosamente), ma questa nostra nobilissima patria è ella forse una pubblica cloaca, che ogni razza d’uominacci s’abbia il diritto di deporre in essa gli escrementi del suo cervello? Possibile che non s’abbia a trovar modo, se non di renderla netta da tanta sporchizia di letteratura, almeno di guarire della diarrea una buona parte di questi tanti sbracati mascalzoni? Possibile che non abbia mai a venire un Ercole a scopare questa stalla d’Augeo? O corpo del demonio, che vergogna è questa? che vituperio e che sventura della nostra bella Italia?

Queste ed altre simili cose io le borbottai tra me e me centinaja e centinaja di volte; ma borbotta quanto vuoi, nessuno compariva, e nessuno s’accingeva a così utile, a così necessaria, a così gloriosa, [873] a così santa opera, e i nostri cattivi scrittori moltiplicavano tuttavia quotidianamente. Risolvetti dunque un tratto di far io o bene o male quello che nessuno voleva fare; ed abbrancata, come dissi, la penna, cominciai a scrivere questa mia critica periodica. Ma perchè ero certo che l’ignoranza aveva per fino soffocata ne’miei dolci compatriotti la curiosità, senza di cui non è possibile che si dia sapere, e che per conseguenza nessuno avrebbe badato alle mie lucubrazioni s’io dava loro un qualche titolo comunale, mi pensai di darne loro uno che avesse alquanto del bisbetico, e di supporre al finto autore di esse un carattere che pizzicasse anche un tantino del bestiale. Scelsi dunque loro il romoroso titolo di Frusta Letteraria, e l’autore lo chiamai Aristarco Scannabue. Questo innocente stratagemma mi riuscì a pennello, e fece badare infinita gente a’miei fogli; cosicchè dopo la pubblicazione de’primi, questa Frusta, che pure è metaforica, cominciò ad essere considerata dalla sciocca turba de’nostri autori come una frusta vera e reale, e proprio di quelle con cui i postiglioni e i vetturali sollecitano i ronzini loro, quando li scorgono rallentare il passo; e in somma colla Frusta Letteraria e con quel nomaccio di Scannabue, e con quel turbante alla turchesca, e con quella sciabolata sul [874] labbro di sotto, e con quella gamba di legno, e con que’cani, e gatti, e scimiotti, e pappagalli, e altre baje stravaganti e bizzarre, m’andò pur fatto di far rivolgere a me gli occhi della gente, e l’attenzione loro; nè ero giunto al settimo foglio, che mi trovai diventato assoluto signore, dirò così, di molte e molte paja d’orecchi che si dirizzarono ad ascoltare quello ch’io voleva che ascoltassero. ◀Metatextuality

Level 4► Satire► Quale voglia essere il frutto che le genti ricaveranno da questo loro ascoltarmi, il tempo ce lo farà manifesto. Quello intanto ch’io so, egli è che molti e molti vanno già dicendo, come un gran bene ha fatto questo Aristarco a mostrare que’suoi mustacchi così rabbuffati. Anzi l’abate Guarinoni, l’abate Vallarsi, il nobile Cerretesi, il signor Giannantonio Sergio, Sabinto Fenicio, il signor Domenico Maria Manni, don Giovanni Cadonici, il padre Bissi, il dottor Giuseppe Bianchini, il signor Zaccaria Betti, don Felice Amedeo Franchi, Antisiccio Prisco, Giambattista Bonomo, l’autore del Collegio delle Marionette, e Adelasto Anascalio, insieme con diciotto mila, settecento e sessantasei pastori arcadi, si sono la settimana passata ristretti a consiglio, e dopo un lunghissimo e caldissimo disputare intorno alla Frusta, m’hanno finalmente tutti d’accordo [875] scritta una molto rispettosa lettera, che si stamperà presto in uno de’susseguenti fogli, e m’hanno in essa data solenne parola di non seccar più quindinnanzi i popoli con alcun libro, pentendosi tutti veracemente d’avere scritti quelli che hanno scritti, e domandandone con la debita umiltà perdono ad Aristarco ed al pubblico. Non ho io dunque qualche ragione, a vista di questa lettera, di sperar bene della mia intrapresa? Ma ohimè, che da un altro canto s’è ridotta insieme una masnada di uomini caparbj, dopo d’avere molto altieramente rifiutato il cortese invito fatto ad essi da quegli altri a porre i loro rispettabilissimi nomi alla suddetta lettera. Questi uomini caparbj, invece di conformarsi alla santa risoluzione fatta da suddetti cristianacci di non iscrivere mai più libri in eterno, si sono anzi ordinati a modo d’un esercito diviso in cinque falangi. A quell’esercito eglino hanno concordemente scelto un generale, con patto che li conduca immediate a guerreggiare contro Aristarco e contro don Petronio. Il nome di quel generale è Sofifilo Nonacrio, poeticamente sopranomato il tamburo. Sofifilo Nonacrio, ritenendo per se il comando della prima falange, ha creati quattro altri generali, che sono l’abate Vicini, l’abate Frugoni, il dottor Goldoni e l’abate Chiari, anch’essi sopran-[876]omati, secondo l’uso della poetica soldatesca, Avino, Avolio, Ottone e Berlinghieri. Non vi stancate, leggitori, di leggere tutta questa novella. Sofifilo Nonacrio alla testa di un esercito tanto formidabile, mena un vampo de’più disperati, e minaccia me e tutta la repubblica letteraria con certe sue Dieci giornate in Villa, che la più stolta cosa non si sarà mai veduta. Il Vicini mi fa quasi tremare brandendo con la man destra un tomo spropositato di sonetti e di canzoni, che la peggior poesia non si sarà sicuramente letta dacchè il biondo Apollo e le pierie dive cavalcano a vicenda l’alato destriero sulla pendice Ascrea, o lungo il margo d’Elicona. Il Frugoni vuole fulminarmi con insulsi poemetti in versi sciolti, e con tisiche canzonette parte in versi tronchi, e parte in versi sdruccioli, tutte cantate sotto un’arbore frondosa, con una soave cetra al collo, in lode di certi uomini cari ai numi, e di certe donne che il Reno inchina, e Trebbia e Taro adora, assicurando gli scrittori della sua numerosa falange, che quando Euterpe, e Clio, e Melpomene s’accozzano con la volubil dea, si sente proprio l’aurea favella che in ciel parlan gli dei. Ma i due generali subalterni, che mi riescono più formidabili, perchè più testerecci nemici della ragione, sono assolutamente Ottone e Berlin-[877]ghieri, cioè il dottor Goldoni, e l’abate Chiari. Oh Dio quanti volumi di commedie, di tragedie, di drammi, di lettere, di romanzi e di filosofia questi due feroci campioni s’apparecchiano a scagliare contro di me, contro il povero don Petronio, e contro i miei cani, i miei gatti, i miei scimiotti e i miei pappagalli! Queste meschine bestiuole non so come faranno a ripararsi da tanta tempesta, riflettendo massime che due de’miei più grossi cagnacci, Misotolma e Agarimanto, sono due bestioni buoni a nulla, fuorchè ad abbajare allo scuro, come parmi d’aver già detto altrove. Checchè però costoro si dispongano di fare, io mi fido a quegli altri che si sono sottoscritti a quella lettera, e principalmente a’que’diciotto mila settecento sessantasei pastori arcadi, che spero verranno in mio soccorso tosto che io significherò loro l’estremo pericolo in cui mi trovo. ◀Satire ◀Level 4 Metatextuality► Per ora, senza sbigottirmi fuor di proposito, piglierò in mano L’Uomo del Chiari, e ne dirò il mio parere ad alta voce, in questi termini. ◀Metatextuality

Level 4► Heteroportrait► Il nostro stimatissimo signor abate Chiari avverte Chi legge, che queste sue lettere filosofiche « non si prendano per una semplice traduzione di quelle di M. Pope sullo stesso argomento, perocchè a lui non piacque di fare una traduzione ». [878] Questo vuol dire, signor abate mio, che voi intendete la lingua inglese e che sareste capace di tradurre da quella in italiano. Bravo abate Chiari; me ne rallegro con voi. Ma se io vi assicurassi che voi dite qui una grossa bugia, che mi rispondereste? Mi rispondereste che bisogna provarvi il contrario, cioè provarvi col vostro libro in mano, che voi non intendete un’acca d’inglese, e che per conseguenza siete un impostore. Ma credete voi, signor abate Chiari, che mi voglia molto a provarvi che qui siete un impostore, e che avete detta una bugia tanto fatta? Mi vuol pochissimo. Leggiamo solamente il frontispizio di questo vostro libro stampato due volte, mercè la tanta ignoranza che fregia tanti nostri paesani. In entrambe le edizioni voi avete posto in frontispizio così; « L’Uomo, Lettere filosofiche sull’idea di quelle di M. Pope, intitolate: The proper study of Mankind is Man: » le quali parole inglesi significano il proprio studio degli uomini è l’uomo. Ma dove avete voi trovato, signor abate Chiari, che Pope abbia scritte delle lettere filosofiche intitolate con quel titolo? Gli è vero, che Pope ha scritte quattro lettere filosofiche in versi sull’uomo; ma egli non le ha intitolate con un verso. Le ha intitolate con un titolo, che dice An Essay on Man, che vuol dire [879] Saggio sull’uomo. Vi pare ora, signor abate Chiari, ch’io v’abbia provato che la vostra impostura va di pari con l’ignoranza vostra della lingua inglese? Lasciatemi anche aggiungere, che quelle parole inglesi da voi pazzamente ficcate nel vostro frontispizio, invece d’essere, come voi dite, un titolo d’un libro di Pope, sono un verso d’una di quelle stesse lettere di Pope, che voi falsamente dite d’aver imitate, cioè sono il secondo verso della sua seconda lettera sull’uomo. Quel verso ve lo tornerò a spiegare più sotto quando verrò a darvi la seconda prova, che voi non avete imitato Pope, ma guastatolo affatto in queste vostre quattro lettere filosofiche.

Oh vedete, signor dottore di lingua inglese, dove mena la falsità, e vedete come è vero il proverbio, « Più facile è scoprire il bugiardo che non lo zoppo ». Ma come non vi siete voi vergognato d’un’impostura così agevole a scoprirsi? Bisogna essere un uomo di faccia molto bronzina per aver l’impudenza di avanzarsi a tanto, e bisogna esser molto fallito a modestia per dare ad intendere delle bugie così spiattellate a que’nostri compatriotti, che non intendono la lingua inglese!

Manco male però, signor abate Chiari, che voi riuscite poi molto meno impudente, anzi pure modestissimo in molti di que’ [880] versi martelliani da voi stampati in questo volume vostro. Voglio solo copiare alcune poche espressioni della vostra dedicatoria, che nessuno mi negherà non sieno modestissime, considerando massime che voi siete un filosofo intendentissimo di lingua inglese. Eh perchè mi servirò io dell’ironia, figura presa quasi sempre in iscambio dai leggitori ignoranti? Signor abate Chiari, la prima metà della vostra dedicatoria ribocca di frasi soverchio petulanti ed oltraggiose a tutti coloro che non sono per loro buona sorte filosofi come voi. Metatextuality► Eccone qui alquante di quelle vostre frasi petulanti ed oltraggiose. ◀Metatextuality

Level 5► Citation/Motto► « Lunge lunge, profani; che al cielo or drizzo i lumi,

E meglio d’un filosofo nessun favella ai numi . . . 

Giacchè di dir sei vago (parla col volgo, cioè co’suoi critici e disapprovatori)

Giacchè di dir sei vago, vedrai per l’avvenire

Ch’io suderò scrivendo per dar a te da dire. . . 

Dirai tu che ti piace: farò che voglio anch’io:

Per quanto altri le dica, volgersi ognor pur suole

La calamita al polo e l’elitropio al sole. . . 

Filosofo mi vanto, e la mia stella è questa.

Senza risponder nulla a chicchessia rispondo,

E delle mie risposte voglio giudice il mondo, . . . 

. . Per confonder gli uomini

[881]  . . . . prendo a trattar dell’uomo.

Lunge adunque, o profani. . . 

L’altissimo argomento troppo è maggior di voi.

Mal noti a voi medesimi. . . 

Uomini vi vantate ma sol ne avete il nome. . . 

Restate in sulle soglie: a voi non s’apre il tempio.

Sacro alle filosofiche scienze più felici:

A que’soltanto io l’apro, che son del vero amici.

E lui (cioè il tempio) di voi riempite, come sono pieno io stesso. . . 

Scrivendo dal filosofo divido il letterato. . . 

Se di sublimi scienze scriver ardisco. . . 

Sebben filosofando l’uomo dall’uom divido.

. . . barbara invidia, china la testa e taci:. . . ◀Citation/Motto ◀Level 5

A che serve più ricopiare di queste sciocche impertinenze? Ma vi pare, signor abate, che un uomo come voi abbia a parlare con quest’enfasi di sè stesso? Voi filosofo da parlar ai numi meglio d’ogn’altro? Voi scrivere per dar da dire? Voi fare quel che vorrete? Voi una calamita? Voi un elitropio? Voi filosofo, sicuro d’esser nato sotto la stella della filosofia? Voi rispondere a chicchessia con non risponder nulla? Voi chiamar giudice il mondo delle risposte vostre, cioè de’vostri nulla? Voi prendere a trattar dell’uomo per confonderci tutti? Voi unico portinajo del tempio delle scienze? Voi [882] dividere i filosofi dai letterati, e l’uomo dall’uomo? Voi destare invidia? Eh signor abate Chiari, voi siete . . . Che? Zitto che ce lo dite voi stesso senza farvi pregare nella seconda parte di questa medesima dedicatoria cominciata con una superbia da falcone, e finita con un’umiltà da gufo. Voi ne dite in questa parte seconda, che « notate i vostri errori; che non avete le vivide pupille dell’aquila per poter guardare il sole; » (aveste però le pupille dell’elitropio) « che siete un mendico passeggiero nel cammin delle lettere; che il vostro ingegno è ecclissato; che siete un uomo abbietto, e che ridete di voi stesso; che siete un tenue vapore; che siete un niente; che il vostro libretto è tutto miserie; che è una viltà; che siete un meschino contro cui i grandi non hanno a infierire; che siete una paglia; e che finalmente siete un giglio, e non una quercia, un topo e non un leone ».

Ma signor abate, e filosofo, e calamita, e elitropio, e custode del tempio delle scienze, e paglia, e giglio, e topo, e chi mai in una cosa così facile a farsi quanto lo è una dedicatoria, chi mai v’ha insegnato a fare di cotesti pasticci? È ella stata l’influenza di quella filosofica stella sotto cui siete nato, o l’influenza della luna, o l’influenza della bottiglia? Ditemelo voi, che siete un di quei filosofi [883] che sanno tutto, e che siete insieme per vostra sentenza un di quegli uomini abbietti che non sanno nulla.

Se la dedicatoria, che era la parte del libro più facile a farsi, contiene un numero così grande di spropositi, anzi se è uno sproposito solo dal primo all’ultimo verso, pensate, leggitori, che debb’essere il libro stesso! Misericordia, che filosofo! Ho già fatto toccar con mano, che il signor abate Chiari non intende un solo vocabolo d’inglese, a dispetto di quel verso (da esso sbagliato per un titolo) posto nel frontispizio, e a dispetto della sua prefazione, in cui vuole ingannevolmente darci ad intendere che sa quella lingua tanto da tradurre Pope, o da imitarlo quando gli piaccia. Eppure queste sue quattro lettere filosofiche intitolale L’Uomo, non esisterebbero se Pope non avesse scritto il suo Saggio sull’uomo, da esso Pope divise pure in quattro lettere, o epistole. Ma come può essere questo, dirà qui qualche leggitore, e come senza Pope costui non avria scritto le sue quattro lettere? Questa pare una contraddizione, Aristarco nostro.

A bell’agio, signori miei. Ascoltatemi, ch’io ve la dirò tutta, e non gioverà all’abate Chiari l’averci nascosto, o per dir meglio, il non aver confessato come e a chi abbia furato questo suo disegno [884] ch’egli non ha certamente furato a Pope, poichè non intende un acca d’inglese, come gli ho già provato. Sappiate dunque che l’abate Chiari s’è recata sotto agli occhi qualcuna di quelle traduzioni in verso sciolto che abbiamo nella lingua nostra di quelle quattro epistole di Pope, e con quel suo bislacco cervello è andato martellianando sin che gli venner fatte queste sue lettere; la cosa non può esser stata altramente, e la mia congettura non può essere falsa. Ecco quattro prove di quanto asserisco:

Prova prima tratta dalla prima lettera filosofica del Chiari.

Pope comincia la sua prima epistola diretta a milord Saint John Bolingbroke con questi otto versi.

Level 5► Citation/Motto► « Avvake (sic.), my Saint John! Leave all meaner things

To low ambition, and the pride of Kings

Let us (since Life can little more supply

Than just to look about us and to die)

Expatiate free o’er all this Scene of Man;

A migthy Maze? but not without a plan;

A Wild, where weeds and flouers promiscuous shoot;

Or Garden tempting with forbidden fruit ». ◀Citation/Motto ◀Level 5

Che in prosa io traduco così con un poco di libertà. « Svegliati, mio Saint John: [885] abbandona al volgo ambizioso ed agli orgogliosi monarchi la contemplazione d’oggetti vili. E poichè la vita nostra non ci lascia quasi far altro che dare un’occhiata intorno, e morire, contempliamo un poco liberamente tutta questa scena dell’uomo. Oh che vasto labirinto! Eppure egli ha del regolare. Oh che incolta campagna, in cui nascono promiscuamente fiori e gramigne! Oh che giardino che ne tenta con frutti vietati! »

Questi otto versi di Pope, che sono di dieci sole sillabe ciascuno, il Chiari sulla traduzione da me congetturata li amplifica pazzamente, e ne forma ventotto versi, alcuno di quattordici sillabe, ed alcuno di quindici nel seguente modo.

Level 5► Citation/Motto► « Scuotiti, amico, scuotiti dal sonno tuo profondo.

Ascolta me che voglio farti felice al mondo.

Quel non son io che preso da gelido spavento

Vegli la notte a’scrigni pieni di fino argento.

Non son io quel che veggia fortuna a me divota,

Sempre tenermi in cima della volubil ruota.

Non mancando di nulla, nulla di più m’aggrada:

Tengo tra il poco e il molto la più sicura strada.

Noto per mia sventura più che non bramo adesso,

[886] Tra l’ombre del mio niente studio celar me stesso.

Non temo, non adulo, non spero, non domando,

Perchè da me felice mi fo filosofando.

Ecco la filosofica bilancia onnipotente

Su cui grande io vo farti te riducendo al niente.

Lascia, deh lascia, amico, quel tutto ond’io ti spoglio

Dell’alme insaziabili al vergognoso orgoglio.

Il suo chiaror la fiaccola poco lontano estende:

Ogni istante consumasi, e per morir risplende.

Una provincia, un regno, il mondo circoscrive

Anche dell’uom la vita, ma per morir ei vive.

Ecco il punto di vista, da cui nulla rimane

Se il gran teatro guardi delle vicende umane;

Labirinto fatale, ogni cui via fallace

Anche ingannando i sensi, alla ragion pur piace:

Spaziosa campagna al piè di balze alpine

Dove tra bionde messi spuntano ancor le spine.

Giardino in cui tra fiori insidian la salute

Sonniferi papaveri, e gelide cicute ». ◀Citation/Motto ◀Level 5

Bisognerebb’essere uno scioperato affatto per buttar via il tempo a criticare questi [887] stolti ed insignificanti martelliani del Chiari, che vuole co’suoi documenti fare l’amico suo felice al mondo, perchè non ha scrigni pieni d’argento, e perchè fortuna nol tiene in cima della sua ruota. Lasciamo ch’egli non manchi di nulla; lasciamo ch’egli studi di celar sè stesso fra l’ombre del suo niente; che si faccia felice da sè filosofando; che faccia grande quello stesso amico sopra una bilancia, riducendolo al niente; che prima lo spogli di tutto e poi lo esorti a lasciare il tutto. Lasciamolo cianciare di fiaccole, di provincie, di regni che circoscrivono la vita dell’uomo. Questo è un mucchio informe di bislacche idee senza sostanza; questo è un caos di corbellerie, questa è pazzia di quella che chiede funi come gomene, perchè il popolo s’assicuri d’andar in volta. Ogni attento leggitore s’avvedrà però leggendo la mia traduzione degli otto versi di Pope, che il Chiari ha pescato in qualche traduzione italiana del Saggio dell’Uomo qualcuna di quelle tante corbellerie che sono in questo suo caos, poichè vi si trova il teatro (come nell’originale inglese si trova la scena), e poi la campagna, e il labirinto, e qualch’altra piccola traccia dell’originale da esso Chiari sì guasta e corrotta tosto che l’ebbe nel cervello, perchè quel suo cervello corrompe e guasta ogni cosa per buona che [888] sia, come un barattolo da assafetida guasta e corrompe ogni delicata essenza che vi si mette dentro.

Prova seconda tratta dalla seconda lettera filosofica del Chiari.

Pope comincia la sua seconda epistola con questi quattro versi.

Level 5► Citation/Motto► « Know then thyself: Presume not God to scan:

The proper Study of Mankind is Man.

Plac’d on this Istmus of a middle state,

A Being darkly wise, and rudely great ». ◀Citation/Motto ◀Level 5

Io traduco questi quattro versi così: « Conosci dunque te stesso, nè presumere di misurare Iddio, che il propio studio degli uomini è l’uomo. L’uomo, collocato su quest’istmo d’uno stato medio, è un ente bujamente saggio, e informemente grande. Leggiamo gli spropositi del Chiari, e troveremo che uso ha fatto di quell’istmo, principiando la sua seconda lettera così.

Level 5► Citation/Motto► « Dalla gran scena immensa dell’universo intero,

Ora raccogli, amico, dentro di te il pensiero.

Tra mille scienze e mille che qui neppur ti nomo

Per l’uom che studiar brama il miglior studio è l’uomo.

Quando a me penso, io fingomi nell’esser mio presente

[889] Un istmo che divide dall’infinito il niente.

Un misto io son, che unisce le opposte parti estreme,

Cieco insieme e veggente: piccolo e grande insieme: » ◀Citation/Motto ◀Level 5

Ma come diavolo questo bislacco filosofo vuol egli insegnarmi ad esser felice come m’ha promesso nella prima sua lettera, se qui mattamente si confessa un ente pazzamente contraddittorio? Una cosaccia indefinita e indefinibile che non si sa che diavolo sia? Oh filosofo, che quando pensi a te stesso ti fingi un istmo! Un’altra volta ti fingerai una penisola.

Prova terza tratta dalla terza lettera filosofica del Chiari.

Pope, parlando nella sua terza epistola della materia che non perisce mai, ma va cangiandosi d’una in un’altra forma, dice

Level 5► Citation/Motto► « Like Bubbles on the Sea of Matter born

They rise, they break, and to that Sea return ». ◀Citation/Motto ◀Level 5

Questi due versi significano che « Le forme delle cose sono come bolle che gorgogliano sull’Oceano della materia, si rompono, e tornano in quell’Oceano ». Il Chiari amplifica questa comparazioncella di Pope, e la guasta con questi dieci matti versacci nella sua terza lettera. [890] Level 5► Citation/Motto► « Nulla perisce al mondo; ma sol cangia di sorte,

La morte colla vita, la vita colla morte.

Se l’acqua la più limpida sia scossa avanti e indietro,

S’alza una gonfia bolla che rassomiglia al vetro.

L’aria che lei gonfiava, la rompe e la disperde;

Ma la più tenue gocciola l’acqua perciò non perde.

Anche le cose umane cangian figura e tempre,

Ma tornan d’onde vennero, e il mondo è quel mai sempre;

Empie natura il tutto; tutto per lei si serba,

E stretta union mantiene fin tra le stelle e l’erba ». ◀Citation/Motto ◀Level 5

Che pasticci! Che pazze antitesi di morte e vita, di vita e morte, di stelle e d’erba! Oh povera filosofia!

Prova quarta tratta dalla quarta lettera filosofica del Chiari.

Pope comincia la sua quarta epistola con questi versi sublimissimi.

Level 5► Citation/Motto► « Oh Happiness’! our being’s end and aim!

Good, Pleasure, Ease; Contont! whate’er thy name:

That something still which prompts th’eternal sigh,

[891] For which we bear to live, and dare to die;

Which still so near us, yet beyond us lies.

O’er-look’d, seen double by the fool and wise,

Plant of celestial seed! if dropt below,

Say, in what mortai soil thou deign’st to grow? » ◀Citation/Motto ◀Level 5

Questi versi significano: « Oh felicità, tu che sei la brama e lo scopo dell’esser nostro, tu bene, o piacere, o comodo, o contentezza che tu ti chiami! Tu, incomprensibile non so che, che ne fai sospirar sempre dietro a te; che ne fai soffrire con pazienza la vita, e affrontare con baldanza la morte; che sempre ci sembri così vicina, e ne sei tuttavia sempre così lontana; che deludi e gabbi la vista sì del pazzo che del savio! Oh tu pianta prodotta da celeste seme, se tu esisti in questo basso mondo, deh in qual suolo ti stai tu crescendo! »

Sentiamo come il nostro abate Chiari impasta i pensieri di Pope, cominciando anch’egli la sua quarta lettera:

Level 5► Citation/Motto► « Felicità terrena, per cui meschino io vivo,

Di te di te per ultimo ad un amico io scrivo,

Piacer, bene, riposo, sole de’giorni miei,

Qual che ti chiami ognuno, l’oggetto mio tu sei.

Tu ci fai della vita soffrir la dubbia sorte:

Tu ci fai coraggiosi a disprezzar la morte.

Ospite in casa nostra, e insieme pellegrina:

[892] Sempre da noi lontana, e sempre a noi vicina.

L’uom, che di te voglioso seco medesmo alterca,

Ove sei non ti trova, dove non sei ti cerca.

Te vagheggia del pari, e ti vorrebbe amante

Il filosofo e il pazzo, il saggio e l’ignorante.

Felicissima pianta d’un seme sovrumano.

O quaggiù non alligni, o vi ci spunti invano;

Perchè cercando il bene io non incontri il peggio

Dimmi in qual suolo almeno di te cercare io deggio? » ◀Citation/Motto ◀Level 5

Ma finiamola con queste matte lettere, ch’io sono proprio stanco d’averle dinanzi agli occhi. Ho provato assai chiaramente, che l’abate Chiari è un impostore quando si vanta d’intender l’inglese, e di tradurre Pope, o d’imitarlo come più gli aggrada: ed ho provato ch’egli ha sgraffignata l’idea di queste quattro lettere (delle quali ei parla nella sua dedicatoria con tanta stolta superbia) da una qualche traduzione, probabilmente cattiva anch’essa, perchè la poesia di Pope è difficile, e forse impossibile a tradursi in italiano. Avendo provate queste due cose, ne viene per conseguenza, che se nelle quattro lettere filosofiche dell’abate Chiari vi fosse anche, come non v’è certo, qualche cosa di buono, egli non potrebbe arrogarsela come cosa propria, e per con-[893]seguenza di conseguenza, che egli merita sempre più la baja per quella tanta albagia manifestata in quella sua dedicatoria, e per quel suo tanto fastoso ripetere ch’egli è il filosofo, che è nato sotto la stella de’filosofi, ch’egli si rende felice filosofando, e che è tutto quanto pregno di filosofia, quando il fatto sta ch’egli non è neppure l’inventore delle cose che non sa dire. Diamogli dunque il premio di questa sua tanta filosofia con una di quelle risate che si danno a Bettina matta, quando avviluppata ne’suoi poveri cenci va dicendo per le botteghe di Venezia, che ha tante barche cariche di monete d’oro, e tanti palazzi pieni di monete d’argento; e questo facciamolo senza scordarci del signor abate Vicini, che in retribuzione di non so che pazzi encomi fattigli da questo signor abate Chiari, lo chiama onore dell’età nostra, lume della nostra Italia, e poeta maggiore di Virgilio.

[894] Il resto delle poesie aggiunte dal Chiari a queste sue quattro lettere filosofiche sono [895] parti di quella testa che ha prodotte quelle quattro lettere. Pensate, leggitori, che roba [896] debbon essere anch’esse! Ma serbiamole per un’altra volta. ◀Heteroportrait ◀Level 4 ◀Level 3

Sono obbligato a quel gentilissimo poeta milanese, che mi lascia abbellire questo [897] numero con le seguenti capricciose stanze. M’è noto ch’egli ha buona provvisione [898] d’altre poesie sì facete che serie non per anco pubblicate. I fogli d’Aristarco saranno sempre al suo comando, quand’egli voglia servirsi d’essi per andarne regalando qualcuna alla gente di buon gusto.

Level 3► Citation/Motto► « Canti chi vuol piacevoli e faceti

Capricci a così nobil compagnia:

Io no, che i miei pensieri un tempo lieti

Tutti cangiati or son da que’di pria:

Co’suoi fantasmi torbidi inquieti

M’è entrata in corpo la malinconia;

Altri tempi, altre cure: or più non godo

D’arguzie e motti, e vo’parlar sul sodo.

[899] Ho trovata una certa invenzione

Di far de’versi presto presto presto:

Sentite come vanno a processione

Que’ch’ho fatt’io, e que’ch’ho presi impresto:

Purchè i piedi sien giusti, e sieno buone

Le rime, il cielo avrà cura del resto:

Vo’fare qual chi mettesi in istrada,

E va senza saper dov’e’si vada.

Così giammai dalla prefissa meta

Non andranno lontani i versi miei:

M’oda Bacco: sol può farmi poeta

Bacco, inventor del nettar degli dei:

Ma si vuol berne ogni volta discreta-

Mente non più di cinque fiaschi o sei;

Allor di quel possente estro ripieno

Le ottave io fo di dieci versi almeno.

Vo’raccontarvi certa nuova istoria

Che è nota dal Levante all’Oriente:

L’avolo mio la sapea a memoria

E con piacer la ripetea sovente:

Io vo’con essa acquistar fama, e gloria,

Sentitela, che è bella veramente;

O se non l’è vo’dirla tanto e tanto

Tutta per filo; or do principio al canto.

Nel tempo in cui le bestie ragionavano

Senz’affettare il favellar toscano,

E i franchi paladini guerreggiavano

Sotto il governo del re Carlo Mano,

Volto a Porsenna, e a que’ch’intorno stavano,

Nel fuoco ardendo la robusta mano,

Proruppe Muzio in quella gran sentenza:

Chi ha fatto il mal farà la penitenza.

[900] Armida intanto in alto sonno immerso

Rinaldo mira; e da amor vinta e doma

Una catena di fiori a traverso

Gli cinge, gliene adorna e seno e chioma:

Bianco è talun, taluno azzurro, e perso,

Qual da Narciso, e qual da Adon si noma,

Chiacchere, che i poeti soglion dire

Quando hanno qualche ottava da finire.

Deh lascia il mar, dicea il Ciclope, o cara,

Vien meco, o Galatea, per questo calle!

Ma tu mi sei per fin d’un guardo avara,

E dispettosa mi volti le spalle;

Se non m’ami, a temermi ingrata impara,

O il tuo bell’Aci a un tratto pagheralle,

E sarà messo il suo fatale eccidio

Tra l’altre metamorfosi d’Ovidio.

Chi pon freno agli amanti o dà lor legge?

Scrisse il Petrarca, con stil petrarchesco:

Ma da noi questo verso o non si legge,

O sembra che parlato abbia in tedesco,

Che un soggetto d’amor mai non s’elegge

Per le bertucce di messer Francesco,

Nè qui tra noi, come in Arcadia, suole

Batter la lingua dove il dente duole.

Io dunque non potrò liberamente

Far la rara di lei virtù palese,

Di lei che lesse i miei versi sovente

E beato quel po’, ch’ella ne intese?

Di lei, che molti anco ne seppe a mente,

Ma tanti ne storpiò quanti ne apprese?

Di lei, che mostra anco in età matura

Acerbo seno, e cortesia non cura?

[901] La sforzata beltà, che in lei si vede

Ai fiori aridi e secchi il pregio toglie,

E dove il guardo gira, o posa il piede,

Par fin che del suo verde ogn’erba spoglie:

L’alto suo merto ogni mia laude eccede;

E se un sorriso, o un dolce canto scioglie,

S’oscura il ciel, si turba il mar tranquillo,

E le fann’eco e la cicala e il grillo.

Stiamo a veder la gloria di Martano

Più del Boccaccio in armi singolare,

Che in ogni incontro era sì dolce e umano

Che fuggia sempre per non ammazzare:

Quando non s’ammalava egli era sano,

E al fin morì per non poter campare:

Sulla sua tomba poi s’è fatto incidere:

Altri che morte nol poteva uccidere.

Come chi rende pane per focaccia,

Com’uom, che a nuocer luogo e tempo aspetta,

Come lion, che il cacciator minaccia,

Come chi ride, e medita vendetta,

Come amante, che a un tempo arde ed agghiaccia,

Come chi non può correre, ed ha fretta;

Voi ben vedete sono paragoni

Che a un bisogno sarebber begli e buoni.

Or lasciam che nell’isola si dolga

Olimpia, ch’io non vaglio a confortarla,

E l’Ariosto tal briga si tolga,

E trovi il mezzo ancor di liberarla:

Ben più giusto mi par, che il canto io volga

A quel pomo di cui tanto si parla,

Che destò tante risse in tanti regni,

E fu anco in Cielo alta cagion di sdegni.

[902] Poichè nel gran giudizio e paragone

Ottenne l’aureo pomo Citerea,

Chi è costei, disse a Palla Giunone

Ch’esser si crede la più bella dea?

Ah se non era Paride un minchione,

Piuttosto una di noi sceglier dovea:

È in noi beltà più rara ed eccellente;

E l’altra allor rispose; certamente.

Il mio cervello è un cavaliere errante

Che di nuove avventure è sempre vago,

E mi trasporta al re dell’ombre avante

In su la riva dello stigio lago.

Eccolo sopra un nero alto elefante

Nato dalle rovine di Cartago,

E sul manto reale ha ricamato

Un sospir d’un amante addolorato.

Ecco Dante mi mena in quella parte

Ove sono le bolge, ch’ei descrisse,

E veggio chiaramente a parte a parte

Come son le sue sorti a ciascun fisse:

Ma quel buonuomo il ver scoperse in parte,

E in parte l’adombrò mentr’egli visse:

Fra l’altre bolge, o sia caso o artifizio,

Di due più vaste non ci diede indizio.

Nell’una son que’tanti babbuassi

Che vestiti di toga dottorale

Van tronfj e pettoruti a lenti passi,

E sputan tondo, e in zucca non han sale;

Color, cui notte innanzi sera fassi,

E scrivon peggio assai, se parlan male,

Rozzi, odiosi, al vil guadagno intenti:

Dio ve ne scampi, o poveri clienti!

[903] Nell’altra poi que’medici si stanno

Che pronta ad ogni male a discrezione

Han la ricetta, e lo perchè non sanno:

Se credi a loro, han ferma opinione

Di dar la vita a chi morte non danno,

E acquistan fama, e gran riputazione

Se ne ammazzan di molti in capo a un mese,

E sul malanno altrui si fan le spese.

Qui dipinger le pene io vi potrei

Di quell’afflitta schiera dolorosa

Che di lamenti e replicati omei

Empie l’interna chiostra tenebrosa.

Ma per tornar a bomba io dir vorrei

Intorno al riso qualche bella cosa:

Meglio sarà, che funestar la gente,

Or ch’è tempo di star allegramente.

Margutte ha fatto male a rider tanto;

Non intese da Seneca morale

Che l’estremo del riso occupa il pianto:

Margutte a rider tanto ha fatto male:

Con le tragedie sue Seneca ha il vanto

Di far pianger la gente al carnovale:

Gran cervel, che quel Seneca aveva in testa!

La ventesima stanza appunto è questa.

E se v’è qui talun, che non lo crede

Può l’ottave a sua posta numerare;

Chi è, che or dia credenza a quel che vede

Senza volerlo con le man toccare?

Dov’è dov’è la dolce antica fede?

Dove le genti per bontà si rare?

S’ora dicessi che un asino vola,

Direbbon: te ne menti per la gola.

[904] Ma queste cose tutti non le sanno,

Nè vider l’ippogrifo o’1 pegaseo?

Vadano a scuola, e allora impareranno

Come i sassi correan dietro ad Orfeo:

Che Argo avea cento braccia allor sapranno,

Sapran, ch’avea cent’occhi Briareo;

Che un giovin fu Narciso, ed ora è un fiore;

Or negate i miracoli d’amore.

Allor che Bradamante e il buon Ruggiero

Punti il sen d’amoroso ed egual dardo

Volsero a liete nozze il lor pensiero,

Si fe’da vari autor senza ritardo

Di sonetti e canzoni un tomo intiero,

E il Cieco d’Adria a lor volgendo il guardo

Recitò all’improvviso un’orazione

Da far invidia a Tullio, e a Cicerone.

Così ancor s’usa, e s’usa a tutto pasto

Di beccarsi il cervel per questa o quella

Che brutta al chiostro va senza contrasto,

E pur si chiama valorosa, e bella,

Col dir, che amor depon l’usato fasto,

Che spezza il foco, e ammorza le quadrella,

Che i venti se ne portan l’auree chiome,

E si scherza sull’arme, e sopra il nome.

Ah no, più non si leghi un sacro ingegno

E l’alma poesia, che ad altro è nata!

Si canti il parto del caval di legno

Per cui Troja fu tutta illuminata;

Si canti Enea, che visto il brutto impegno

Andò a trovar Didone innamorata,

E il re Dardanio uccise con fierezza

Sul più bel fiore della sua vecchiezza.

[905] In te rinovellar, Roma dolente,

Volle Neron della arsa Troja il danno:

Sopra una torre ei canta allegramente

Mentre le fiamme in cenere ti fanno!

Tra il foco e il fumo odo gridar la gente,

O boja, o turco, o diavolo, o tiranno!

Pasquin corre a Marforio a quel fracasso,

E tutti due rimangono di sasso.

Quel Nerone era proprio un nom bestiale,

Io mo se foss’io pure imperatore

Sarei dolce di sangue, e liberale,

Discreto, umano, e sempre d’un umore:

Farei fare un magnifico spedale

Per tenervi a grand’agio, e a grand’onore

Gli alchimisti, i pittori, ed i poeti,

E color, che contemplano i pianeti.

Torniamo or dove limpida qual vetro

L’acqua d’un fiumicel trascorre, e quella

Che già passò più non ritorna indietro;

Così per varïar natura è bella;

E mentre un’onda all’altr’onda tien dietro

Par proprio, ch’ella dica in sua favella,

Buon giorno, buona notte, io vado al mare;

Ed io signori miei la lascio andare.

Su quel fiume v’è un ponte maestoso

Il qual fa tetto a’pesci quando piove:

Di qua v’è un bosco per gran piante ombroso.

Di là un palazzo non più visto altrove:

V’è una fiorita valle, un prato erboso,

Un colle, un monte; e poi si giunge dove

È un Castel fabbricato per incanto,

Come già vi narrai nell’altro canto.

[906] Ed ecco la mia storia è terminata,

Che un orbo la diria per un quattrino.

Se la vi pare un po’disordinata

La colpa non è mia, ma di Turpino:

Come per giunta sopra la derrata

Vo’ dirvi ancora un poco di latino:

Quod scripsi scripsi, vobis me commendo;

Intendami chi può, ch’io non m’intendo. ◀Citation/Motto ◀Level 3

Level 3►

Bilancio del commercio dello Stato di Milano. (Senza nome di stampatore). In 4.o

Io comincio ad avere un qualche barlume di speranza che la nostra universal moda di fare de’sonetti e delle canzoni, delle stanze amorose e dell’egloghe, de’versi sciolti e de’versi sdruccioli, voglia durar più poco, vedendo che i nostri autori si vanno già a gara rivolgendo ad argomenti di qualche sostanza. E sia detto a gloria del vero, sono due o tre anni che l’Italia nostra non è più tanto infettata da quella sorte di libri intitolati Rime o Poesie, quanto lo fu in ciascuno de’cinquant’anni precedenti; laonde quando il signor abate Vicini, già nominato in questo foglio, s’avrà col mezzo de’clisteri tipografici evacuata ben bene l’epa di quelle poche arcadiche superfluità, che gli rimangono tuttavia nel corpaccio, mi lusingo che tutti potremo far festa e baldoria, e [907] tutti congratularci a vicenda della totale cessazione di quella poetica pestilenza, che per più d’un mezzo secolo ha fatto nella contrada nostra una strage tanto crudelissima della logica, del buon gusto e del senso comune.

Non vorrei però, carissimi signori miei, che uscendo come a dire d’una profonda bolgia, precipitassimo in un’altra più profonda, cioè non vorrei che alle nostre tante migliaja di poetonzoli arcadici venissero dietro altre migliaja di politicastri infranciosati. Nè questa cosa io la dico qui in aria, e senza il mio bel perchè; ma la dico in conseguenza dell’aver osservato che in questi passati mesi si sono tutt’a un tratto stampate in varie città d’Italia molte dissertazioni, molti trattatelli, molti libriccini in somma, quale in ottavo e quale in quarto, e quasi tutti molto bislacchi e molto stravaganti, e sull’assoluta necessità d’incoraggiare fra di noi ogni sorta d’arti, o sulla navigazione, o sul commercio, o sulle monete, o sull’agricoltura, o per dirla a un fiato, sopra cent’altri simili argomenti. Nè mi sono accorto, leggendo molti di que’libriccini, che coloro da’quali sono stati scritti, sieno filosofi sublimi, sublimissimi, come debbon essere que’che pretendono arrabattarsi con quelle tanto difficili materie, ma mi sono anzi sembrati ragazzacci pieni di [908] brio e di petulanza, che dopo d’aver letti di volo trenta o quaranta autori francesi, parte buoni, e parte cattivi, si sono ficcata questa inatta opinione nel capo d’essere tanto filosofi quanto Locke, Arbuthnot, o D’Alembert, ed atti per conseguenza a maneggiare le scienze più astruse, come si maneggia una scatola da tabacco. Per oppormi dunque di buonora a questo nuovo gravissimo male che sta minacciando l’Italia, ho giudicato ben fatto di cominciar oggi a dare un buon pajo delle mie metaforiche frustate ad uno di questi politicuzzi, cioè di dire qualche cosa di questo suo libriccino intitolato Bilancio del Commercio dello Stato di Milano.

Level 4► Heteroportrait► Se l’amore della verità, e non qualche particolare invidia o antipatia, avesse posta la penna in mano a questo anonimo sacciutello, non ho difficoltà a credere che il suo libriccino fosse potuto riuscire di qualche utile a qualche abitante della Lombardia. Ma perchè egli si lasciò evidentemente indurre a scrivere da tutt’altro motivo, non è da stupirsi se ogni sua pagina contiene molti spropositi massicci, che non occorre qui riferire ad uno ad uno perchè la materia di cui si tratta in questo suo Bilancio non può interessare l’universale de’miei leggitori. Basterà ch’io faccia notare a questo folle fabbricatore di bilanci, che il suo Calcolo non [909] può essere giusto in natura rerum, poichè conchiude che lo Stato di Milano ha avuto un commercio passivo di dieci milioni circa di lire milanesi l’anno « per lo spazio di questi ultimi vent’anni », il che è quanto dire che in detto spazio di vent’anni « lo Stato di Milano ha avuta un’uscita maggiore della sua entrata di dugento milioni circa di lire milanesi ». Ma cospetto del Demonio, signor politico mio caro, e dove volete voi che quello Stato s’abbia presa una così esorbitante somma di danaro per mandarla fuori di se? Come potete voi essere così di buona pasta da persuadervi che quello Stato avesse quella orribil somma vent’anni fa, e che se l’abbia buttata via a dieci milioni ogni anno? Eh voi altri politici di barba molle vi formate delle zecche nella fantasia, e coniate in pochi minuti de’milioni e de’milioni di lire e di zecchini, e per mezzo poi d’un calcolo affatto bestiale buttate tutti que’vostri immaginarj mucchi di danaro fuori d’un paese con quella stessa facilità con cui una fantesca svizzera butta le scopature e le immondezze fuori d’una finestra.

Ecco il risultato, signor politico anonimo, di questo vostro famoso bilancio. Pensate, leggitori lombardi, che giusto dettaglio egli debbe fare in esso delle varie somme che formano questo stupendissimo totale! [910] Egli fa presto, con la sua crassa ignoranza di molte cose anche facili a sapersi, fa presto a ridurre il conto a suo modo. Tutto quello che entra nello Stato lo fa per lo più crescere sì nella quantità, che nel prezzo, e tutto quello che esce dello Stato lo scema e impicciolisce a tutto suo potere; e con questa aritmetica, che è forse più maliziosa che goffa, toglie al suo paese una somma di danaro che mai non ebbe, nè mai poteva avere a un gran pezzo, e che impoverirebbe l’Italia tutta, non che lo Stato di Milano in assai meno spazio di vent’anni, se da tutta Italia si mandassero ne’paesi esteri dieci milioni di lire milanesi in ogni anno, com’egli balordamente pretende si sia mandata da quel solo Stato. ◀Heteroportrait ◀Level 4 ◀Level 3

Affè che dacchè leggo libri italiani per uso della mia Frusta ne ho letti di grossi degli spropositi, ma uno più grosso di questo nè l’ho letto, nè credo che lo leggerò mai più; onde consiglio l’autore, e so che lo consiglio bene (s’egli è giovane, come ho ragione di sospettare), a studiar tuttavia l’Aimable Vainqueur, o qualche altra bella danza francese, e a rinunciar per sempre alla politica e alla filosofia, perchè chi forma di questi bilanci, e stampa di questi spropositi, mostra d’aver avuto dalla natura un buon pajo di calca-[911]gna da ballerino, e non una testa da politico e da filosofo.

Metatextuality► Ho detto nel num. xx che per dare un’idea chiara e distinta di quel bel libro dell’Osservatore Veneto, scritto dal conte Gasparo Gozzi, non sapevo miglior modo che trasportare ne’miei fogli qualcuno de’suoi discorsi, o dialogo, o novella, o favoletta, o allegoria, o ritratto, o altra cosa contenuta in esso. Ecco sotto la data degli 11 aprile 1761 un suo ragionamento ingegnosissimo. ◀Metatextuality

Level 3► Citation/Motto► Level 4► Heteroportrait► « Il più bel pazzo, ch’io conoscessi a’miei dì, è un certo Naldo, che fu già calzolajo di professione, e al presente è uscito del cervello, per aver tralasciato di cucir suole e tomaje, ed essersi dato allo studio. Non credo in vita mia d’avere udite le più solenni bestialità di quelle ch’egli dice. Domandai a’suoi di casa quai libri egli fosse accostumato a leggere, e m’arrecarono innanzi uno squarcio tutto logoro e lacerato, di forse dieci o dodici carte al più, che conteneva un pezzo verso la fine del dialogo decimo della repubblica di Platone: Vedi s’egli avea dato in cosa da impazzare! Tutti i suoi ragionamenti non sono altro che a migliaja di tramutazioni della sua vita. Egli è uno de’maggiori diletti del mondo ad udirlo a dire ch’egli avea già un segreto di non so quai versi, e che [912] quando li dicea, l’anima sua usciva fuori del corpo, e andava aggirandosi invisibile dovunque egli volea. ◀Heteroportrait ◀Level 4 Level 4► Utopia► Che un tempo fu principe nel Mogol, e che avendo conferito ad un cortigiano molto suo amico il segreto suo, e pregatolo che gli custodisse il corpo vuoto, mentre ch’egli andava svolazzando qua e colà in ispirito, il cortigiano gliel’avea accoccata. Perchè un dì standosi alla custodia delle sue membra vacue, gli venne in animo di recitare i versi, incontanente uscì fuori del corpo anch’egli, ed entrò nel principe: e posto mano ad un certo coltellaccio ch’egli avea, tagliò di subito il capo al proprio corpo, che avea lasciato in terra: onde il principe ritornato, non sapendo più dove entrare per allora, s’allogò in un pappagallo d’una signora ch’era morto in quel giorno. Vi so io dire che in casa della signora, dove fu pappagallo, egli spiò di belle cose, e ne dice di quelle ch’io non potrei pubblicare. Ma perchè, essendo anche pappagallo, non avea perduta la malizia dell’uomo, egli facea anche un peggiore ufficio, cioè quello di notare i fatti di lei, e per dispetto di vederla ad ingannare ora questo, ora quello, avvisava gl’innamorati delle sue maccatelle, tanto che quella casa n’andava tutta a romore. Se non che avvedutasi la padrona un giorno della sua mala lingua, la gli si avventò alla gabbia con tanta furia, de-[913]liberata di rompergli il collo, che s’egli non avesse in fretta in fretta detti i suoi versi, sarebbe rimasto morto. Uscito di pappagallo, volò in ispirito fuori d’una finestra, e non trovando meglio, s’allogò nelle membra d’una castalda morta che aveva fatto impazzire il marito, il quale fu per impiccarsi quando la vide risuscitata. E così di tempo in tempo vivificò diversi corpi, e ora afferma, che non sa come gli sieno usciti di mente i versi, e piange amaramente d’aver in fine a morire. ◀Utopia ◀Level 4

« Non è però questa la sola pazzia ch’egli dice, ma un’altra non minore. Io credo certamente, ch’egli abbia così dato nelle girelle, fantasticando sopra quello squarcio di Platone, dove il filosofo racconta quella favola egiziana delle tramutazioni degli spiriti dall’un corpo all’altro. Pitagora e altri valentuomini antichi, i quali non aveano la guida del lume maggiore, innamorati dell’attrattive della virtù, e volendo confermarla tra gli uomini, l’ajutavano con tale invenzione: e significando che un uomo nella sua seconda vita verrebbe premiato del suo bene operare, o del male gastigato, affermavano che l’anima dell’uomo dabbene sarebbe passata a vivere nel corpo d’un re, d’un principe, o d’altro personaggio qualificato o fortunato, e quella del malvagio sarebbe stata condannata a far tela in un ra-[914]gnatelo, ad andar saltelloni per un orto in un rospo, o in altro peggiore e più schifo animalaccio. Ma per tornare al calzolajo e alla sua pazzia, egli cominciò a dire ch’egli era stato in un luogo dove si tramutano le vite, e che si ricordava benissimo ogni cosa; di che pregandolo io, che mi narrasse tutto quello che se ne ricordava, cominciò a parlare in questa forma.

Level 4► Utopia► « Tu dei sapere, che due mil’anni fa io fui un certo Ero Armeno, e che morii in una battaglia; onde discesi in un bellissimo prato dov’io ritrovai molti ch’io avea già conosciuti al mondo uomini e donne, i quali mi si fecero incontra; ma volendogli io abbracciare mi parea di toccar nebbia e fumo. Mentre che mi correvano tutti intorno a chiedermi novelle di costassù, come a colui che v’è andato di fresco, io udii sonare una tromba, e appresso una voce gridare. O tutti voi che siete qua e colà per lo prato dispersi, raccoglietevi dove udite il suono, imperciocchè fra poco dovete scegliere novello corpo, e andar a popolar il mondo. Ti dirò il vero, che non mi dispiacque punto lo intendere questa novità; perchè, quantunque il luogo fosse bello a vedersi, mi parea che vi regnasse una certa malinconia e taciturnità universale, che non mi dava nell’umore. E tanto più l’ebbi [915] caro, perch’io aveva udito, che ognuno si potea eleggere il corpo a modo suo, ed entrare dov’egli avesse voluto.

« Di là a non molto tempo io vidi apparire una donna con un ordigno che aggirava certe infinite migliaja di fusa, e un’altra che aveva nelle mani un bossolo; e tuttaddue mostravano nelle grinze della faccia d’avere più centinaja, anzi migliaja d’anni. La seconda, poste le mani nel bossolo, ne trasse fuori certe cartucce, dov’erano, come di poi vidi, segnati certi numeri, e le lanciò in aria, che pareano un nuvolo, donde poi cadendo disperse, a chi ne toccò addosso una, a chi un’altra, tanto che ogni spirito ebbe la sua, e conobbe al numero che gli era tocco, s’egli dovea essere il primo, il secondo, o il terzo ad eleggere il novello corpo. Appresso io vidi apparire sopra il terreno, e non so come, delineata ogni qualità di vita, tanto che ognuno potea vedere ed esaminare prima quella ch’egli avesse voluta eleggere, per non dir poi: io non ebbi campo a pensarvi. Il primo numero era tocco ad un poeta, il quale ricordandosi tutti gli stenti della passata vita, e sapendo i lunghi e molesti pensieri ch’egli avea avuti, stabilì di fuggire la carestia; e fissato l’occhio sopra il disegno d’una cicala, disse ad alta voce: da qui in poi m’eleggo d’essere cicala per [916] vivere della rugiada del cielo. Così detto divenne piccino piccino, gli s’appiccarono addosso l’ale, e se n’andò a’fatti suoi, e la donna dalle fusa incominciò a filare la vita d’una cicala. Il secondo fu uno staffiere, il quale avea servito nel mondo ad una civettina lungo tempo, e ricordandosi le commissioni, ch’egli avea avute, le polizze, le ambasciate, il continuo correre su e giù per sarti, calzolaj, per acque, per medici, per cerusici, tanto ch’egli non potea avere il fiato, domandò di essere scambiato in un olmo; e così fu, e s’aggirò un altro fuso per l’olmo. Venne poscia una donna, ch’io avea già conosciuta al mondo per la più bella e aggraziata, ch’io avessi veduta mai, la quale non avrebbe certamente potuto cambiare il corpo suo in altro migliore. Costei, posto l’occhio in su i disegni delle vite, domandò che la sua tramutazione fosse in una donna brutta, e venendone compassione alla femmina del fuso, la gli chiese il perchè; ed essa rispose: nella mia prima vita, io non ho mai potuto avere un bene. Quella mia bellezza invitava a se un nuvolo d’uomini d’ogni qualità, tanto ch’io era assediata continuamente alle calcagna. Non vi potrei dire quanta fu la mia sofferenza nel sopportar goffi, che voleano appresso di me fare sfoggio d’ingegno; uomini tristi, che non potendo colorire il loro [917] disegno, m’attaccavano qua e colà con la maldicenza: io non ebbi in vita mia ad udire altro che sospiri e disperazioni, a veder lagrime; fui attorniata da quistioni; e quel che mi parea peggio d’ogni altra cosa, da sonetti. Sicchè ad ogni modo ho preso il mio partito, e dappoichè debbo ritornare al mondo, intendo di ritornarvi brutta, e di non avere quelle seccaggini intorno. La fu esaudita. Io non ti narrerò tutte le trasformazioni ch’io vidi; d’un avvocato, che volle diventar un pesce, per non aver voce, non che parole; d’un creditore, che per la mala vita fatta nel riscuotere volle entrare in un corpo aggravato da debiti, dicendo che avea giurato, s’egli avea più ad entrare nel mondo, di voler piuttosto aver a dare altrui, che a riscuotere. Finalmente venuta la volta mia, tenendo a mente le fatiche da me sofferte nella guerra, volli entrare nel corpo d’un porcellino, per vivere un anno senza far nulla, e morir fra poco, prendendomi per diletto il cambiare spesso la vita ». ◀Utopia ◀Level 4 ◀Citation/Motto ◀Level 3

Non avrebbe il calzolajo pazzo finito mai, e m’avrebbe narrato tutte le sue trasformazioni sino al presente, se le sue ciance non mi fossero venute a noja, e non l’avessi piantato. ◀Level 2 ◀Level 1