Citazione bibliografica: Giuseppe Baretti (Ed.): "Numero XVII", in: La Frusta letteraria di Aristarco Scannabue, Vol.3\17 (1764), pp. 700-742, edito in: Ertler, Klaus-Dieter / Fuchs, Alexandra (Ed.): Gli "Spectators" nel contesto internazionale. Edizione digitale, Graz 2011- . hdl.handle.net/11471/513.20.952 [consultato il: ].


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N.° XVII

Roveredo I giugno 1764.

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Pamela fanciulla, commedia di Carlo Goldoni. In Venezia presso il Pasquali, 1761. È la terza del tomo primo.

Quantunque l’Italia non sia tanto sprovvista di colte donne quanto alcuni troppo spietati misogami ne vorrebbono far credere, bisogna nulladimeno confessare ad onta nostra, che il sesso muliebre non è da noi generalmente educato con tutta quella cura che si dovrebbe, e con cui si educa in altre parti d’Europa. In Francia, in Germania, in Inghilterra, e sino in Danimarca e in Isvezia, è tanto facil cosa il trovare di molte donne perfettamente educate, e per conseguenza savie ed amabilissime, quanto è facile il trovarne delle pazze e delle mal avvezze nella nostra penisola. Tuttavia la colpa di questa vergognosa differenza tra l’universale delle nostre donne e l’universale delle donne di que’paesi non deve tutta essere addossata ai nostri padri ed alle madri nostre, comechè molto vituperosamente trascurino questo loro principal dovere; ma va addossata in gran parte ai nostri scrittori, che non seppero sinora somministrare alla patria loro de’libri atti a perfezionare l’educazione femminile.

[701] Livello 4► Saranno due anni che una giovane bella e ben inclinata dama di Milano mi richiese di darle una nota di libri italiani degni d’esser letti da lei. « Ah, donna Marianna (fui costretto con mio rammarico a risponderle), che mai mi chiedi? Io ti darò la nota de’libri che tu non hai a leggere; e sarà pur troppo una lunghissima nota, perchè li comprenderà poco meno che tutti! I libri che dovrebbono esser letti dalle dame per rendersi vieppiù degne della stima e dell’amore d’ognuno sono in primis i libri spirituali o ascetici, come li vogliam chiamare. Ma ohimè, che di questi noi non n’abbiamo troppi ch’io ardisca di raccomandarti; perchè oltre all’essere tutti, o quasi tutti, scritti con bruttissima barbarie di lingua e di stile, spirano pur tutti, o quasi tutti soverchio fanatismo!

« A questa classe succedono immediate i libri scritti dagli scrittori morali ed etologici; vale a dire dagli scrutatori degli affetti, e dai dipintori de’costumi. Ma ohimè un’altra volta, Marianna mia! Se tu vuoi coll’ajuto di buoni libri indagare le sorgenti, il corso e gli effetti delle passioni umane, e se vuoi contemplare delle pitture vere di umani costumi, impara il francese, impara l’inglese, figliuola mia, perchè l’Italia nostra ha tanta carestia di siffatti scrittori, quanta ne ha d’elefanti e di giraffe.

[702] « Di storici, a dirti il vero, Marianna, noi non siamo punto sprovvisti. Ne abbiamo anzi tanti da riempierne tutti i paesi circonvicini; ma le nostre storie sono state scritte in modo piuttosto dotto che piacevole; onde sarà miracolo se tu avrai la pazienza di leggere Livello 5► Exemplum► i nostri Tarcagnoti, i nostri Guicciardini, i nostri Davila, i nostri Machiavelli, e tant’altri che hanno trattata o la storia universale del mondo, o la storia privata di questo e di quell’altro paese. ◀Exemplum ◀Livello 5

Livello 5► Exemplum► « La mitologia, cioè la storia delle antiche deità pagane, non è neppure maneggiata bene da’nostri scrittori, e il Boccaccio, padre de’nostri mitologi, ti cagionerà molta noja e molta stanchezza, se tu t’accingerai a leggere la sua genealogia degli dei. ◀Exemplum ◀Livello 5

« Dietro a’mitologi, le giovani dame d’altri paesi leggono i novellisti, i romanzieri ed i poeti spezialmente. Vuoi tu, donna Marianna, ch’io ti dica schietto quello ch’io penso di queste tre generazioni di scrittori italiani? De’novellisti, o novellatori, come altri fiorentinamente li chiamano, non ne leggere alcuno mai, vita mia, perchè nessuno d’essi è degno d’essere scorso da’tuoi begli occhi. Molti d’essi, a dirti il vero, sono vezzosissimi rispetto alla lingua ed allo stile; ma e’ riboccano tutti senza eccettuazione di tante [703] ribalderie, che la più sfacciata femminaccia, non che una illibatissima fanciulla qual tu sei, arrossirebbe a suo dispetto di tanta infame lettura. De’romanzieri non n’abbiamo un solo, da cui tu possa imparare cosa buona, sì riguardo al parlare, che riguardo al pensare. I primi tempi della nostra lingua non hanno quasi prodotto romanzo alcuno, se ne trai il Guerino Meschino, i Reali di Francia, e qualch’altra tale scempiatissima filastrocca. Il secolo passato abbondò di romanzi la più parte eroici; ma tutti scritti con tanta ineleganza di lingua, con tanta gonfiezza di stile, con tanta pazzia d’affetti, e con tanta falsità di costume, che gli è impossibile trovare una più matta spezie di libri nel mondo. Livello 5► Exemplum► Il nostro secolo poi non ha prodotto alcun romanziere ch’io sappia, trattone l’abate Chiari; ma avverti bene, vita mia, a non legger mai alcuno de’romanzi dell’abate Chiari; perchè cose più bislacche, più abbiette, più fuor di natura non è possibile trovarne in tutta Europa, non che in Italia. ◀Exemplum ◀Livello 5 Lascia che i nostri servidori di livrea, e che le più plebee nostre donnicciuole si godano i romanzi dell’abate Chiari, che pel volgo più spregievole li ha scritti; ma tu che sei una fanciulla nobile di mente come di schiatta, non hai a leggerne alcuno mai, come neppure alcun’altra cosa scritta dall’abate [704] Chiari. A’romanzieri succedono i poeti, e quelli te li divido in tre classi, cioè in epici, in lirici e in teatrali, per non infastidirti con una erudita o pedantesca divisione. De’poeti epici ne abbiamo circa settanta in lingua nostra; ma pochissimi in tanto numero sono dal mondo conosciuti. I principali e conosciutissimi sono Livello 5► Exemplum► Dante, Pulci, Bojardo, Ariosto e Tasso. Di Dante so che non avrai flemma di leggere quattro canti. T’annojerà per molte ragioni che non m’occorre ora dirti. Messer Luigi Pulci è pieno d’empietà. Mediocremente laido è il poema del Bojardo, se lo leggessi anche nel rifacimento fatone dal Berni. L’Ariosto, che, secondo me, fu il più grande di tutti i nostri poeti, si è con alcuni suoi fetidissimi episodj reso indegno d’esser letto dalla più amabil parte del genere umano, voglio dire da voi altre donne. Sicchè tra i poeti epici ti rimane il solo Torquato Tasso da leggere; al quale aggiungerei due altri epici di genere faceto, cioè il Tassoni e il Lippi, se non fossero entrambi troppo più plebei del bisogno, tanto nella scelta de’loro argomenti, quanto nella maniera d’esprimersi. ◀Exemplum ◀Livello 5

« Passiamo ora ai poeti lirici, Marianna. Livello 5► Exemplum► Di questi il Petrarca, se non fu il primo, fu almeno il più perfetto modello. Ma che può una giovane dama imparare dal Petrarca? Il Petrarca non credo ti riu-[705]scirà sulle prime troppo dilettevole. Bisogna troppo studiarlo per capirlo bene; e quando l’avrai studiato, che imparerai tu da’suoi sonetti e dalle sue canzoni, o da’suoi madrigali e dalle sue sestine? Imparerai a formarti delle gentili ed anche nobili idee d’amore; ma saranno idee false, perchè fondate sopra un sistema che dicono di Platone, e che non ha troppo che fare con la natura. Tuttavia il Petrarca è un poeta così casto, e frequentemente così leggiadro, che se troverai diletto a leggerlo, ti concedo che tu lo legga anche due volte. ◀Exemplum ◀Livello 5 Non ti dò però licenza di leggere alcuno de’suoi numerosi imitatori del secolo decimosesto, o del presente, perchè tutti sono cicaloni, che non hanno fatt’altro che rifriggere i pensieri e i sentimenti del Petrarca. Leggendo tutta quella immensa turba di petrarchisti tu imparerai, volendolo, a fabbricar sonetti e canzoni amorose a tuo piacere; ma tu sai, Marianna, che io non sono grande ammiratore delle dame che scrivono sonetti e canzoni quasi per mestiere; e già te l’ho detto più volte, che fra le non poche giovani da me amate quando ero anch’io un giovanotto pieno d’amore e di poesia sino all’ugne, non volli mai avvicinarmi a coteste poetesse, o pastorelle d’Arcadia.

« Io voglio poi, donna Marianna, e que-[706]sto lo voglio assolutamente, che tu badi bene a non legger mai alcuno di que’poeti, o piuttosto rimatori, che noi comprendiamo sotto il nome di bernieschi antichi, perchè la più sciagurata canaglia non fu mai vista dal sole, a cominciare da’primi autori de’canti carnascialeschi giù sino al fine del cinquecento. E non mi curo troppo che tu ne legga neppure de’più moderni, perchè se questi non sono così scostumati quanto lo erano gli antichi, sono però tanto insulsi e freddi per la maggior parte, che pochi pochi te ne posso raccomandare.

« Mi rimane ancora a dirti de’poeti teatrali. Livello 5► Exemplum► Fra questi hanno occupati due de’primi posti il Tasso coll’Aminta, e il suo pedestre imitatore, anzi copista, il Guarini col Pastor Fido. Ma tanto l’uno quanto l’altro, oltre allo spirare in ogni scena una tenerezza capace di troppo snervare ogni anima donzellesca, hanno anche dipinto un costume immaginario, e tutto falso; e non m’aggrada che le persone giovani si formino delle idee immaginarie e false di qualsissia cosa; onde farai il meglio a non leggere nè l’Aminta, nè il Pastor Fido. Non occorre ch’io ti dica del Metastasio, che anch’esso indebolisce l’animo della gioventù troppo più del bisogno; ma la musica l’ha reso oggidì tanto famigliare a tutti, che tutti lo sanno a [707] memoria, e tu, furbacchiuola, me ne sai recitare degli atti intieri; così non me ne sapessi recitar tanti! ◀Exemplum ◀Livello 5 Dirotti dunque delle tragedie e delle commedie nostre.

« Le tragedie antiche sono tutte tutte poco dilettevoli, onde non si usa più recitarle su i nostri teatri, quantunque i nostri pedanti si sbrachino sempre a lodarle. Tu lascia che i pedanti le lodino quanto vogliono, ma ricordati sempre che le Sofonisbe, gli Oresti, i Torrismondi, e due o tre centinaja circa d’altre simili fatture nostre, sono pochissima cosa quando sono poste a paraggio coi Ciddi, coi Cinni e colle Rodogune di Cornelio, con le Andromache, con le Ifigenie e con le Fedre di Racine; o con gli Otelli, i King Lear e gli Hamlet dell’inglese Shakespeare. Le nostre antiche commedie poi sono propio bazzecole rimpetto a quelle di Moliere e dello stesso Shakespeare; onde t’infastidiranno se ne leggerai, oltre alla nausea che ti cagioneranno con le tante stomachevoli sporcizie di cui sono piene zeppe la più gran parte; lasciando anche andare che quel po’ di costume in esse contenuto, è piuttosto latino che italiano, perchè gli autori loro le modellarono troppo servilmente su quelle di Plauto e di Terenzio ». ◀Livello 4

Queste e molt’altre cose a un dipresso come queste io mi ricordo che le dissi [708] due anni sono a quella mia non meno ingegnosa che bella e nobile discepola sul fatto de’libri italiani meritevoli, o non meritevoli di formare la biblioteca delle nostre dame. Metatestualità► Pensate voi adesso, leggitori della Frusta, quello che in più e più volte io le posso aver detto delle commedie goldoniane! Voi già sapete quello ch’io penso in generale d’esse tutte, e del Teatro comico, e della Bottega del Caffè in particolare. Oggi mo vi voglio dire quello ch’io penso della sua prima Pamela, da esso intitolata Pamela Fanciulla per distinguerla da un’altra sua Pamela chiamata la Maritata. ◀Metatestualità

Livello 4► Eteroritratto► Questa sua fanciulla da marito il Goldoni se l’è recata (dic’egli) fra le braccia, e alzandola non so quanto da terra, come si farebbe d’una bambina, l’ha presentata con umiltà e con fiducia in una dedicatoria ad un suo protettore. Che bel frontispizio per ornare uno de’suoi tomi, fregiati tutti di bizzarri frontispizj! Un dottor poeta che ha in braccio una zitella di vent’anni compiuti, formerebbe pure il bel quadro! Non posso ritener le risa pensando ad un’idea così pittoresca; e se quel suo protettore non rise leggendo quella dedicatoria, bisogna pur dire ch’egli è della stirpe d’Eraclito, e non di quella di Democrito.

Metatestualità► Prima però di pormi ad esaminare la [709] Pamela Fanciulla, v’avverto, leggitori miei, che se volete imparare da Aristarco a giudicar dritto delle commedie goldoniane, e trovar piacere nel leggere le sue schiette critiche d’esse, fa duopo assolutamente che leggiate ogni commedia prima di leggerne la critica; altrimente non capirete mai bene dove i suoi varj strali vadano a ferire. Comprate dunque tutti i tomi del Goldoni, e confrontando di mano in mano quello che ha scritto colui con quello che Aristarco va scrivendo, vi prometto che presto diventerete tutti aristarchi se siete maschi, o tutte aristarchesse se siete femmine. ◀Metatestualità

L’intenzione principale del Goldoni nello scrivere questa commedia è stata laudevolissima, essendo stata, com’egli stesso s’esprime, di mostrare che Citazione/Motto► « la virtù combatte e s’affanna, ma finalmente abbatte, e vince, e gloriosamente trionfa ». ◀Citazione/Motto E tale intenzione appunto dovrebbe sempr’essere, se non l’unica, almeno la dominante in ogni dramma. Perchè tuttavia questa non riesca vana e senza il suo debito effetto, bisogna che il poeta nella persona del suo protagonista ne sappia dipingere una virtù che sia veramente virtù, e che la sappia in oltre adornare di tante attrattive da farla apparire in tutto atta a condurre gli uomini al loro maggior bene, e meritevole per conseguenza d’essere de-[710]siderata e amata e seguita. Esaminiamo dunque se il Goldoni abbia dipinta nel protagonista di questa sua commedia la virtù co’suoi veri colori, e senza un tal miscuglio di difetto e di vizio atto a distruggere e a render vano il suo scopo principale.

Il protagonista nella Pamela Fanciulla è la stessa Pamela. Questa si mostra nella prima Scena dolorosamente afflitta per la morte della sua padrona e benefattrice, che all’età di dieci anni l’aveva tratta da una somma povertà ed abbiettezza, e l’aveva per lo spazio di dieci altri anni amata ed educata piuttosto come figliuola che come cameriera. Le continue lagrime di Pamela sono dunque un virtuoso debito pagato dalla sua gratitudine; ed ella stessa è tanto persuasa di tale suo debito, che si sforza far vedere ad un’amica di non aver altro motivo del suo pianto. Se il Goldoni si fosse fermato lì, non vi sarebbe che apporre alla virtù della sua eroina, e la sua eroina sarebbe in tal caso un degno modello di virtù: ma non ha l’incauto uomo ancor cominciato ad abbozzare il suo bel quadro, che subito l’imbratta. Voglio dire che nella seconda Scena ne mostra Pamela, non una fanciulla piangente per gratitudine la defunta benefattrice, ma piangente per un pazzo amore verso il figliuolo di quella, che è adesso [711] il padrone, e che è un padrone d’una qualità, mondanamente parlando, sproporzionatissima alla sua, poichè essa non è che una povera cameriera di vil nascita, ed egli è un nobile ricco pari d’Inghilterra. Ecco dunque che Pamela si scuopre da se stessa piena d’artifizio e d’ipocrisia, bugiardamente asserendo a madama Jevre che piange per gratitudine, quando in effetto piange per amore.

Nella Scena terza viene il Milordo, che non ha peranco dato altro segno a Pamela che di semplice benevolenza, quantunque ne sia, come vedremo, bestialmente innamorato. Il Milordo e la sua bella fanno insieme un dialoguzzo assai puerile, che termina con un regalo fatto da lui a lei d’un anello, cosa che fa fuggir via la signora cameriera tutta sparsa di pianto coll’anello in dito.

Scena quarta. Soliloquio pazzamente spiritoso di Pamela coll’anello in mano. « Oh caro anello, dice Pamela, oh quanto mi saresti più caro, se dato non mi t’avesse il padrone! » Brava Pamela! Questo è un sentimento di fanciulla virtuosa; e tu, Goldoni, fermati, e non andar più innanzi se non vuoi al solito correr pericolo d’uscire de’limiti della virtù. Ma il Goldoni non m’ascolta, e vuol fare al solito, cioè guastar il buono tosto che l’ha fatto; onde qui guasta immediatamente quel vir-[712]tuoso sentimento di Pamela con quest’altro che le fa soggiungere. « Ma se a me non l’avesse dato il padrone, non mi sarebbe sì caro ». Perchè, Goldoni mio, perchè questa disonesta e antitetica contraddizione? « Egli acquista prezzo più dalla mano che me lo porse, che dal valor della gioja ». Questo è un concetto soverchio aguzzato, onde non fa troppo bel sentire in bocca ad una cameriera. Sarebbe più caratteristico se uscisse della bocca d’una qualch’arcade pastorella. « Oh foss’egli servo, come io sono, o foss’io una dama com’egli è cavaliere! » Se questo desiderio di Pamela non è virtuoso, è però naturale in questo caso, onde lo approvo; ma non approvo le puntute riflessioni ch’ella fa sul suo desiderio. « Che (dic’ella) mai mi converrebbe meglio desiderare? in lui la viltà, o in me la grandezza? Se lui desidero vile, commetto un’ingiustizia al suo merito; se bramo in me la grandezza, cado nel peccato dell’ambizione ». Queste sottigliezze in Pamela sono troppo ricercate, non mostrano caldezza di passione, e caratterizzano tuttavia l’eroina poco ricca di quella virtù, che deve in lei torreggiare sopr’ogn’altro affetto per meritarle la bella sorte che deve poi ottenere nello sviluppo della commedia.

Nella sesta Scena poi, la signora Pamela mi riesce la più spiacevole pedan-[713]tessa che sia. Bisogna sentirla qui come scatena sentimenti; e come vomita sentenze addosso al povero Milordo, che le accennò di volerle far forza, e violentarla ad accettare cinquanta ghinee! Trascrivo qui il discorso che ella fa con molta calma, quantunque non uscita ancora dal terrore di perdere ipso facto la corporale pudicizia. Livello 5► Citazione/Motto► « Signore, io sono una povera serva, voi siete il mio padrone. Voi cavaliere, io nata sono una misera donna. Ma due cose eguali abbiam noi, e sono queste; la ragione e l’onore. Voi non mi darete ad intendere d’avere alcuna autorità sopra l’onor mio; poichè la ragione m’insegna esser questo un tesoro indipendente da chi che sia. Il sangue nobile è un accidente della fortuna; le azioni nobili caratterizzano il grande. Che volete, signore, che dica il mondo di voi, se vi abbassate cotanto con una serva? Sostenete voi in tal guisa il decoro della nobiltà? Meritate voi quel rispetto che esige la vostra nascita? Parlereste voi forse col linguaggio degli uomini scapestrati? Direste coi discoli: l’uomo non disonora sè stesso disonorando una povera donna? Tutte le male azioni disonorano un cavaliere, e non può darsi azion più nera, più indegna, oltre quella d’insidiare l’onore di una fanciulla. Che cosa le potete voi dare in com-[714]penso del suo decoro? Denaro? Ah vilissimo prezzo per un inestimabil tesoro! Che massime indegne di voi; che minacce indegne di me! Tenete il vostro denaro, denaro infame, denaro indegno, che vi lusingava esser da me anteposto all’onore. Signore, il mio discorso eccede la brevità, ma non eccede la mia ragione. Tutto è poco quel ch’io dico, e quel che dir posso, in confronto della delicatezza dell’onor mio; che però preparatevi a vedermi morire prima che io ceda ad una minima ombra di disonore. Ma, oh Dio! parmi che le mie parole facciano qualche impressione sul vostro bellissimo cuore. Finalmente siete un cavaliere ben nato, gentile ed onesto; e malgrado l’accecamento della vostra passione, avete poi a comprendere, che io penso più giustamente di voi; e forse forse vi arrossirete d’aver sì malamente pensato di me; e godrete ch’io abbia favellato sì francamente con voi. Milord, ho detto. Vi ringrazio, che mi abbiate mantenuta la vostra parola. Ciò mi fa sperare che abbiate, in virtù forse delle mie ragioni, cambiato di sentimento. Lo voglia il cielo, ed io lo prego di cuore. Queste massime, delle quali ho parlato; questi sentimenti coi quali mi reggo e vivo, sono frutti principalmente della dolcissima disciplina della vostra genitrice defunta; ed è forse opera della bel-[715]l’anima che mi ascolta, il rimorso del vostro cuore, il riscuotimento della vostra virtù, la difesa della mia preziosa onestà ». ◀Citazione/Motto ◀Livello 5

Di gran parole ha qui posto il Goldoni in bocca di Pamela, perchè poi non producessero il minimo effetto, come si vede nel restante della commedia. È vero che il Milordo ascolta tutta questa prolissa pappolata senza interromperla: è vero che rimane sbalordito da tante ciance, e che parla tosto a madama Jevre come un lunatico; è vero che gli scappano alcune poche parole di dubbio se debba sposar Pamela, o violarla; ma non risolve poi altro in sostanza, che di continuare a tentarla e ad assalirla; nè l’avrebbe mai sposata mosso dalla virtù, se il Goldoni non trovava d’improvviso il bel ripiego di farla diventar nobile quanto lui. Nè è da farsi stupore se quella lunga, ciarlatanesca e volgarissima orazione di Pamela lascia il Milordo tal quale come era prima, perchè così avrebbe lasciato ogn’altr’uomo nello stesso caso; o diciamo piuttosto che ad un uomo meno sciocco di questo suo Milordo, Pamela avrebbe fatto scappar l’amore ne’calcagni con un discorso da pettegola quale è questo. Senza menarla tanto inutilmente per la lunga, il Goldoni poteva far dire alla sua eroina in poche parole: Livello 5► Citazione/Motto► « Signor mio, lasciatemi stare, che non voglio a nessun patto. Pigliatevi in-[716]dietro il vostro anello, pigliatevi i vostri danari, e datemi il mio congedo immediate, ch’io sono vostra serva, e non vostra schiava. Voglio piuttosto morir di fame, che macchiar l’onor mio; nè pensate a farmi violenza, che griderò, e chiamerò ajuto, e mi difenderò con ogni forza ». ◀Citazione/Motto ◀Livello 5 Poche parole su questo andare, dette risolutamente, sarebbero state naturali, avrebbero frenato l’impeto bestiale del padrone, e l’avrebbero mostrata all’udienza più virtuosa che non si mostra con quel suo allungarsi tanto in far fare al Milordo de’riflessi sull’opinione che il mondo avrà di lui, e sul decoro delle cameriere. E quel suo cercare sulla fine del discorso d’intenerirlo, è cosa che puzza molto d’artifizio e di fraude per tirare il baggeo nella trappola, e farsi sposare. E se qualche spiritosa goldonista mi dicesse qui, che le cameriere non sono biasimevoli cercando di farsi sposare da padroni baggei, io gli rispondo che non glielo nego; ma che il dare lezioni pubbliche d’artifizj e di fraude, sarebbe cosa meritevole d’altre frustate che non sono quelle metaforiche distribuite a’goffi autori moderni dal signor Aristarco.

Nella Scena decimasesta Pamela fa un soliloquio, in cui confessa che il suo prolisso discorso non ha fatto frutto; e tuttavia non risolve da buon senno d’andar-[717]sene d’una casa, in cui il suo prezioso onore sta in pericolo; cosa che mal s’accorda con quel suo preteso carattere di fanciulla che « vuol piuttosto morire che cedere ad una minima ombra di disonore »; anzi nell’ultima scena del primo atto ubbidisce volentieri al suo caro padrone, che in presenza di Miledi sua sorella le comanda sultanescamente d’andarsene in camera sua con madama Jevre.

Non credo mi occorra citare alcun’altra delle susseguenti scene per provare che Pamela è una sciocca cianciera, una pettegola volgare, una ciarlatana nojosa, anzi che una fanciulla perfettamente dabbene e meritevole di esser dama. E il Goldoni non ha idea della vera virtù femminile quando la fa dare all’udienza per un eccellente modello facendole dire che Citazione/Motto► « la virtù combatte e s’affanna; ma poi abbatte e vince, e gloriosamente trionfa ». ◀Citazione/Motto

Degli altri caratteri di questa commedia v’è poco da dire. Sono tutti caratteri falsi e ridicoli. Milord è un innamorato mezzo gonzo e mezzo bestiale. Come gonzo, ammira Pamela che, secondo l’uso delle contadine, vuol piuttosto far a’pugni che cedere. Bisogna esser gonzo per credere questa virtù il non plus ultra della perfezione muliebre. Come bestiale poi, maltratta i suoi servitori, vuol ammazzare un povero vecchio suo maggiordomo, scorgen-[718]dolo innamorato della sua dea, e tratta la sua stessa sorella, che è una gran dama, come un facchinaccio tratterebbe un altro facchinaccio. La Miledi è uno di que’caratteri dameschi che non esistono altrove fuorchè nelle commedie goldoniane; voglio dire che è una dama, la quale non solamente vuole dar degli schiaffi a Pamela, ma la vuole brutalmente strozzare con le sue mani, cacciarle uno stiletto nel cuore, ed in sostanza farla morire per insegnare alle dame il modo di vendicarsi quando i loro nobili fratelli pensano a sposare delle cameriere. Che bella dama! La fantesca madama Jevre non si sa che carattere abbia. Vorrebbe vedere una serva sua compagna diventar moglie del suo padrone, non si sa perchè. Predica la virtù, dà de’consigli, fa la faceta, e si lascia scappare qualche sporco equivoco di bocca. Milord Artur non ha altro in capo che il sangue purissimo. Ragiona da uomo volgare su i casi, in cui è lecito all’uomo nobile lo sposare una donna ignobile. Il decoro è la sua passione dominante, e crede che il sangue d’una madre ignobile unita a padre nobile, pregiudichi fisicamente a’figli; in somma Milord Artur ha un carattere di pedante insipidamente savio. Il cavaliere Ernold è uno scioccone di prima classe, che non ha in capo altro che gli Arlecchini d’Italia, e che si [719] dichiara d’aver ritenuti in memoria i loro più spiritosi concetti e vezzi, notando che in vece di dir padrone dicono poltrone; in vece di dir dottore dicono dolore; in vece di dir cappello dicono campanello, e in vece di dir lettera dicono lettiera. Gran fatica deve durare il povero Goldoni a inventare de’caratteri inglesi così rari come è questo! E gran bontà hanno le udienze d’Italia che soffrono di questa sorte di melensaggini! Ma la maggior fatica di mente che il Goldoni s’abbia mai fatta, io credo che sia quella di trasformare improvvisamente il contadino padre di Pamela in un pari scozzese, per poter terminare la sua commedia coll’usato matrimonio. Questa sì che fu una trovata stupendissima, colla quale ha salvato il decoro d’una cameriera, e quello che più gl’importa, l’onore della cara nobiltà, da lui sempre preferta alla virtù più perfetta. Poveruomo! Avrebbe creduto di commettere un sacrilegio se avesse fatto come l’originale autore della Pamela, che diede un nobile e ricco signore per marito a una fanciulla ignobile e povera, in ricompensa d’una virtù perfettissima e conosciuta per tale a mille prove! D’una cosa però vorrei avvertire il Goldoni se mai più gli vien voglia di portare sulla scena caratteri e cose inglesi; ed è d’informarsi almeno mediocremente dell’Inghilterra, e [720] de’suoi costumi. Egli fa per esempio bere il rach nel tè agl’Inglesi; miscuglio di bevanda che piacerebbe al palato d’un Inglese, come al palato d’un Italiano piacerebbe un miscuglio di brodo di manzo col caffè di Levante. Egli mette un canale a Londra dove non vi è ombra d’alcun canale. Egli descrive asprissime montagne e selve lontane venti miglia da Londra, e Londra non ha nè montagne nè selve così vicine, anzi intorno a Londra per lo spazio di sessanta miglia almeno, tutto il paese è amenissimo e piacevolissimo; egli ciancia delle commedie inglesi, e dice che non fanno ridere; e tutte le commedie inglesi riputate buone da quelle udienze, fanno spesso ridere sino gli stranieri che non intendono quella lingua. Egli dipinge poi i milordi inglesi come si dice che erano i cavalieri bresciani nel secolo passato, cioè brutali e feroci co’loro servidori e con tutti, senza sapere che i servidori inglesi pianterebbero subito ogni padrone che li chiamasse con qualche ingiurioso nome, perchè quello è paese di libertà somma, di giustizia rigidissima, e di coltissima universale eleganza. Non dico nulla al Goldoni delle dame inglesi, perchè su questo articolo egli è incorreggibile, nè vuole sul suo teatro che dame bestiali, pronte a strozzare, a stilettare, e ad ammazzare i poveri ignobili, per conservarsi la sua giusta [721] fama di poeta naturale, di ristauratore del teatro, e di riformatore del costume. Viva Goldoni, e i suoi sapientissimi partigiani. ◀Eteroritratto ◀Livello 4 ◀Livello 3

Livello 3►

Lettere scritte da donna di senno e di spirito per ammaestramento del suo amante, edizione terza. In Fir. 1758. Appresso Andrea Bonducci, in 8.o

Livello 4► Eteroritratto► L’incognito autore di queste lettere finte, scritte da una donna, o da donna, come dic’egli, è uno di que’mali uomini, che vorrebbero pure contribuire il loro miccino a corrompere sempre più il mondo, se il potessero fare. Per buona sorte però questo mal uomo accoppia ad una mente depravata un ingegno tanto ottuso, che male gli riuscirà l’iniquo disegno.

La donna che da questo sciocco è finta autrice di queste lettere, per quanto si può raccogliere da qualche passaggio d’esse, è una moglie infedele al marito, e innamorata d’un balordo che non ha la minima conoscenza di caratteri donneschi. Per fargli acquistare questa conoscenza, ella gli scrive queste lettere, non mica in uno stile rapido e vivo, come sogliono generalmente scrivere le donne innamorate che sanno maneggiar la penna, e che s’intendono di passioni umane e di poesia, come si suppone che faccia questa, ma in uno stile freddo, confuso e bastar-[722]dissimamente boccaccesco, vale a dire coll’ordine delle idee per lo più stravolto e co’verbi generalmente in punta de’periodi. Ma quantunque lo stile di queste lettere sia di quel peggiore che sanno scrivere oggidì i Fiorentini, i sentimenti di questa odiosa autrice sono ancora più abbominevoli del suo stile nel loro genere. Per essere donna di senno e di spirito, secondo lei, non occorre altra qualità che quella di sapersi scegliere un drudo di modi eleganti, segreto, fedele, e che possa spendere. Bisogna sentirla la sguajata come sa dividere tutto il sesso muliebre in quattro classi! Livello 5► Citazione/Motto► « Si veggono in primo luogo, dic’ella, certe giovani vivaci, ma poco ben educate. Ve ne sono in secondo delle spiritose, e queste saviamente istruite, e perciò nulla ignoranti del mondo civile. Per terzo si trovano certe altre sanguigne con un grado di malinconia, ma che scarseggiano d’arte. Poche finalmente, avendo sortita una serietà e saviezza naturale, non mancano della più fina educazione. » ◀Citazione/Motto ◀Livello 5 Pare impossibile che vi possano essere al mondo degli uomini così buoi da porre in carta delle buaggini come queste; eppure in Italia ve ne sono; anzi de’libri così buescamente filosofici, come è questo, trovano tanti leggitori, che fa d’uopo ristamparli sino tre volte per soddisfare al bel genio di tanti sapientissimi leggitori, nes-[723]suno de’quali sospetta pure che questa quadripartita divisione de’caratteri muliebri sia sì pazza e ridicola da non meritare nemmeno una confutazione. O dotta Italia mia, goditi le seguenti maravigliose sentenze ch’io traggo di questo libro, come cose molto degne della tua presente universale coltura . . . Una donna (s’intende sempre ammogliata e infedele al marito), una donna civile ed accorta, la quale ami sinceramente e segretamente, è un occulto tesoro per un uomo che voglia fare nelle popolate città sua gran fortuna. » Perchè mo questa madama Tintiminia non ci ha spiegato, come gli uomini nelle popolose città facciano fortuna amando donne sincere e segrete? Livello 5► Citazione/Motto► « Una donna che pubblicamente non riami, è capitalissima nemica degli uomini. » ◀Citazione/Motto ◀Livello 5 Ti ringrazio, madonna Pocofila, di questa bella scoperta. Livello 5► Citazione/Motto► « Una bella femmina che non corrisponde al suo amante, è la più brutta bestia del mondo. » ◀Citazione/Motto ◀Livello 5 Che donna di senno e di spirito! Questo sì che è senno e spirito davvero! « Gli uomini in casa delle donne debbono sempre viver dubbj ed increduli, nè fidarsi giammai, se non quando assista loro il fedel testimonio de’sensi. » Che valente precettrice, che insegna a giudicare co’sensi anzi che col giudizio! Ma bisogna sentirla l’infame precettrice a dettare precetti di condotta ad [724] una sua sorella minore, che parte da lei, e va a marito! Gli è vero che il ribaldo scrittore di queste lettere si studia di parlare per lo più in gergo, e che non ha il coraggio eguale alla ribalderia; e pure si capisce molto bene dove pone la mira quando fa dire dalla sorella maggiore alla minore, Livello 5► Citazione/Motto► « ricordatevi che costa troppo poco a noi il far finezze per dover provare un’interna pena nel privarne un buon amico, e molto più quando, per non farle, lo volessimo perdere. » ◀Citazione/Motto ◀Livello 5 Checchè però questo vituperoso scrittore si cianci, costa moltissimo, e non troppo poco, alle donne il fare a un buon amico certa sorte di finezze, perchè costa per lo più dispiaceri, ed affanni, e finzioni, e furberie, e inganni perpetui; e diffidenze, e scrupoli, e rimorsi non mai acquetati, e non di rado pericoli di pubblico disonore, e della stessa vita; senza contare l’interno sicuro dispregio di quello stesso uomo, o buon amico, a cui quelle finezze si fanno, se è uomo eli discernimento. Oh tacete una volta, maladetti corruttori del genere umano, e annichilatevi in tanta malora vostra dinanzi a que’pochi galantuomini che cercano di depurare la ragione delle donne, mostrando loro che non hanno altra strada per procurarsi bene in questo mondo e nell’altro, se non quella della virtù e della religione.

Disperata, copiata dal manoscritto accennato nei numeri XI e XV.

Livello 5► Citazione/Motto► Madonna mia, voi mi volete morto:

Lo so che non volete più ch’io viva:
È molto tempo me ne sono accorto.

Meco siete sì dura e sì cattiva

Perchè volete al tutto ch’io mi vada
A passeggiar sulla tartarea riva.

Ma se tener non mi volete a bada,

Se aver volete, e tosto, un tal piacere,
Poffar il ciel, prendete; ecco una spada;

Ed eccovi, madama, anche un bicchiere:

Or cavatemi il sangue dalle vene,
E al vostro cagnolin fatelo bere.

Non so davver, crudele, chi mi tiene,

Ch’io non m’impicco a questa tua finestra
Per contentarti, e per uscir di pene?

Oh anima ferigna, o mente alpestra!

Possibil che in mercè di tanto amore
Tu mi dia sempre il pan colla balestra?

E tu, Cupido, nume traditore,

Perchè non le saetti una saetta,
Che le faccia un gran buco dentro il cuore?

Sia la disgrazia mia pur maladetta,

Che, se nel mondo trovasi una cruda,
Di quella m’innamoro: oh che disdetta!

Oh povero poeta, va, e suda

I dì e le notti a celebrar in rima
Una che di pietà fu sempre nuda!

Di’ pur che di bellezza ella è la prima;

Di’ ch’ella è bella sopra quante belle
Furon prodotte mai sotto il tuo clima:

[726] Narra degli occhi suoi mille novella;

Che son pieni di fuoco, e che Cupido
Accende in essi ognor le sue facelle;

Che nel suo sen le Grazie fanno il nido;

Che l’erba le fiorisce sotto i piedi
Quando li move sul deserto lido;

Giura che i venti innamorati vedi

Soffermarsi a guardarla, come han detto
Petrarca, Bembo, Casa, Molza e Redi!

Non giova limbiccarsi l’intelletto;

Madonna non vi bada, e non ti cura,
E non sa mai a mente un tuo sonetto.

S’io sapessi d’incanto e di fattura,

O se sapessi far qualche malìa
Come chi fa col diavolo scrittura,

Io non so bene quello che faria;

Ti dare’ forse bere una bevanda
Che t’inducesse ad esser tutta mia:

O se avessi quel libro che comanda,

Ti vorrei fare qualche strano gioco:
Portarti, come a dire, in qualche banda,

In qualche solitario e fosco loco,

Sopra qualche isoletta abbandonata,
Vicino a qualche montagna di fuoco.

Quivi non vi sarebbe anima nata

Fuorchè madonna tu, e messer io:
La tema ti faria meno ostinata.

Diresti a forza, io dotti l’amor mio;

Tornami a casa, e ti sarò mogliera
Buona e fedel, così m’ajuti Dio.

Ti calerebbe un po’la cresta altera;

Più non m’occorrerebbe tanto dire,
O madonna crudel, tu vuoi ch’io pera!

[727] Quivi non mi faresti più bollire

Facendo l’accoglienze a’miei rivali,
Che son pillole dure da inghiottire.

Ahi, queste sì sono cose infernali!

Se un pover uomo diventa geloso,
Eccotelo dannato a mille mali.

Il suo vivere è tutto tenebroso,

E va morendo continuamente:
A poco a poco diventa rabbioso.

Non cura conversar più colla gente:

Quello che mangia gli sembra veleno,
Veleno quel che beve parimente.

Nessun giorno per lui è più sereno;

Veglia le notti con mille pensieri;
Di mal umore e di sospetto è pieno.

Spesso bestemmierebbe volentieri:

Per la via non saluta più nessuno:
Pensa a’sepolcri, pensa a’cimiteri:

Non cura stare tutto un dì digiuno:

Subitamente gli viene la stizza
Toccato o contraddetto da qualcuno;

E va farneticando, e ghiribizza

In qual modo il suo foco estinguer possa,
E sempre più lo stimola e l’attizza.

Oh che mi venga il tarlo dentro all’ossa

Se qui, madonna, non mi son dipinto,
Tanto la fantasia tu m’hai percossa!

Deh per pietà, deh non volermi estinto!

Essere sì crudel non ti bisogna:
Che l’ammazzare chi si dà per vinto
Al vincitor è troppo gran vergogna. ◀Citazione/Motto ◀Livello 5

Frammento d’una lettera scritta non si sa da chi.

Livello 5► Citazione/Motto► . . . . . . . . . questi scrittori di drammi musicali. Però avverti bene a fare i recitativi brevi e sopra tutto versi sonori, e rotti da virgole e da punti per comodo della musica, anzi per risoluta necessità di quella. Fa poi che le arie sieno facilissime, e piene di pause a più potere, e sienti raccomandate rime nitide, e vicine una all’altra. Queste sono le principali meccaniche avvertenze che fa d’uopo avere in questa sorte di componimenti. Lascia dir chi vuole, e fatti modello del Metastasio, che è il vero e l’unico nostro drammatico musicale. Apostolo Zeno seppe inventare, ma non seppe verseggiare le inventate cose. L’orecchio lo aveva così poco musicale, che oltre a’versi duri come sassi, ebbe anche il bel giudizio di dare o di conservare certi nomacci a’suoi personaggi da guastare la bocca sino a’Tedeschi nel pronunziarli. Gianguir, Ormisda, Eumolpo, Teuzzone, Troncone, Alvilda, Svanvita, Lapidot, Barac, Nabat, Nabot, Azanet, Illel, Jel, Nabucodonosor, Orvendillo, Fengone, Ildegarde e alcuni altri nomi usati da quel signor Apostolo nelle sue poesie pel teatro, saranno tutti nomi begli e buoni in Danimarca, in Isvezia, nel Daghestan, o nel [729] Tibet; e credo anzi che in Siria e in Etiopia alcuni d’essi facessero un tratto assai bel sentire; ma la nostra lingua abborre i suoni che sono forse familiari ai poeti dell’Islanda e della Scandinavia, e non è amica di que’vocaboli che ne mandò l’Arabia, la Palestina ed altre tali regioni, se prima non sono un po’ toscanamente raffazzonati almeno nelle terminazioni. Metastasio, che ha l’anima tutta piena d’armonia, ha avuta sino la laudevole delicatezza di cambiare il nome d’Anna in Selene, riflettendo saviamente che un nome da noi comunemente dato alle nostre figliuole nel santo Battesimo, non avrebbe fatto bell’effetto accanto a quelli di Didone, d’Enea e di Jarba. Gli uomini di perfetto discernimento sanno badare, e badano a cotali cose, che agl’ignoranti pajono minuzie e frivolezze. Dunque ne’drammi che avrai a scrivere porrai mente anche a’nomi de’tuoi cavalieri e delle tue dame, formandoli armoniosi, e secondo l’indole della lingua nostra; nè ti pensare che questa cosa d’inventare nuovi nomi sia cosa tanto facile, ch’ella è anzi difficile assai, e fanne la prova se non mi credi. Tra i nostri fabbricatori di nuovi nomi il più maraviglioso è stato il Bojardo. Oh que’suoi nomi sono davvero tanto belli, ch’io tengo opinione sia impossibile in italiano inventarne altrettanti [730] d’egual bellezza. Ma questo sia detto di passaggio, e un po’ fuori del presente proposito, poichè si sa che un poeta drammatico non ha, come un poeta epicamente romanziero, a limbiccarsi la mente per trovare de’bei nomi, potendo far uso di que’che già sono trovati, senza far torto a se, o ad altri. Sul fatto poi delle sestine alla petrarchesca, o come tu dici alla provenzale, ti dirò schiettamente, che . . . ◀Citazione/Motto ◀Livello 5 ◀Eteroritratto ◀Livello 4 ◀Livello 3

Livello 3►

Il Collegio delle Marionette a benefizio delle Chicchere femmine. Lugano 1764. Per gli Agnelli e Comp., in 12.o

Per compiacere a certa persona, piuttosto che per voglia, dirò in poche parole che questo libercolo è cosa affatto misera e spregievolissima. Chi l’ha scritto è qualcuno di que’faceti insulsi, atti solo a far ridere quattro Lombardi plebei raccolti in un’osteria. Certi sciocchi per metterlo in credito, attribuiscono questa goffa satira all’autore del Mattino; ma l’autore del Mattino è un uomo, e l’autore di questo collegio è una bertuccia. Chi trova piacere a leggere il Zoroastro, il Mal di Milza, ed altre tali sciempiaggini ultimamente pubblicate in Milano, sarà anche dilettato da questo Collegio: ma chi ha il senso comune si rida meco [731] di questi scioperati, che vogliono scrivere ad onta della natura, da cui furono formati perchè consumino pane, e non perchè scrivano. A chi non è Milanese si dà notizia che Chicchere è un vocabolo di quella storpiata lingua toscana che si parla in Milano; e significa Petit Maitre e Fat, come dicono i Francesi, o Milordino e Parigino, come dicono i Fiorentini. ◀Livello 3

Livello 3►

Saggi di storia Letteraria fiorentina del secolo XVII scritta in varie Lettere da Giovambattista Clemente Nelli partiazio fiorentino. In Lucca 1759, appresso Vincenzo Giuntini, in 4.o

Fra l’altre auree massime che il mio venerando maestro Diogene Mastigoforo aveva, una era questa, che Citazione/Motto► « non si deve scardassare con soverchia furia un autore quando non attacchi alcuna di quelle verità che importano alla felicità generale di quella società in cui si vive, e quando non abbia commesso altro delitto che di palesare l’ignoranza o la stupidezza sua. Non è egli una crudeltà (diceva quel buon papasso) lo stiacciare per istizza un povero insetto che non t’ha fatto più male che di ronzarti negli orecchi? Non è però (soggiungeva egli) che l’usar carità cogli autori baggei sia cosa assolutamente necessaria, perchè chiunque [732] vuol ire a stampa in qualità d’autore, debb’essere riputato come uno sfidatore generale; e con gli sfidatori generali ognuno ha dritto d’appiccar battaglia, perchè costoro, uscendo dal grosso della folla, o facendosi innanzi a braveggiare nello steccato, offrono, per così dire, il loro merito al giudizio pubblico, e coll’atto loro baldanzoso dicono d’essere meritevoli d’onore; nè alcun uomo può giustamente pretendere d’essere onorato sopra gli altri dal pubblico giudizio, se non a rischio d’incontrar vergogna quando il suo valore non sia proporzionato alla sua baldanza ». ◀Citazione/Motto

Livello 4► Eteroritratto► Considerando questa massima del Mastigoforo in tutte le sue parti, io sono mille miglia lontano dal biasimare il signor Nelli per la battaglia ch’egli ha in questo suo Saggio appiccata col signor Francesco Marchetti, figlio di quell’Alessandro Marchetti, il di cui nome sarebbe oggi poco meno che ignoto, se non fosse stampato in fronte all’anticristiana traduzione del poema di Tito Lucrezio Caro. Oltre al dritto naturale che il sig. Nelli aveva di dire come letterato il suo sentimento di qualunque opera stampata, aveva poi anche il diritto come galantuomo di difendersi dalla taccia di menzognero datagli da quel signor Francesco Marchetti, che lodando troppo più del dovere il suo caro papà, accusò il signor Nelli d’aver [733] detto in un suo opuscolo delle cose non vere. Di questa mal fondata accusa m’immagino che quel signore non sarà, come dice quel detto, andato a Roma a pentirsene, perchè il signor Nelli in queste sue lettere prova e riprova in modo che mi pare innegabile, che le cose da lui dette sono tutte vere dalla prima fino all’ultima. Le cose dette dal signor Nelli, e tacciate di false dal suo avversario, erano che il suddetto Alessandro Marchetti non fu nè gran geometra, nè gran matematico, nè gran fisico, e che in quelle scienze fu come il doveva essere riputato uomo assai mediocre. Ma il signor suo figlio lasciandosi portar via dalla vanità di voler esser figlio d’un uomo non mediocre in quelle scienze, tacciò di falsa l’asserzione del signor Nelli. Suo danno ora se il signor Nelli ha tratta dalle tenebre una multiplicità di prove, che non fanno troppo onore nè ad Alessandro il padre, nè a Francesco il figlio.

Quelle prove addotte dal signor Nelli sono riuscite necessariamente abbondanti di molti aneddoti non solo sicuri, ma curiosissimi; e chiunque si diletta di storia letteraria trarrà molta soddisfazione dalla lettura di questo Saggio. Quegli aneddoti riguardano il gran Galileo, il Borelli, il Malpighi, il Viviani, i fratelli Aggiunti, i fratelli Del Buono, il Torricelli e al-[734]cuni altri grand’uomini di Toscana. Ma se gli amatori degli studj fisici, geometrici e matematici saranno dilettati dalla lettura di queste lettere del signor Nelli, io credo che i moralisti non potranno a meno di non sentire un virtuoso dolore leggendole, perchè non potranno a meno di non riflettere a quella indegna malignità che troppe volte riempie ed avvelena i cuori degli uomini più insigni. In esse si raccontano diversi brutti tratti del mal animo che alcuni di que’celebri uomini ebbero gli uni verso gli altri, e si raccontano varie furfanterie da lor commesse reciprocamente per deprimersi e per danneggiarsi. Gran che, che in teorica molti di questi benedetti dotti sieno creature poco meno che perfette, e che poi in pratica riescano creature non soltanto imperfette, ma vilissime e dispregievolissime! Non si possono leggere senza nausea in queste lettere le gare e le mutue malevolenze di alcuni sapienti uomini, che malgrado la loro sapienza non seppero astenersi dall’odiarsi e dal perseguitarsi; e questo per bazzecole geometriche, come si odiano e si perseguitano le genti più ignoranti ed abbiette. E sarà egli sempre vero, che i signori letterati, quando si tratta di cose meramente letterarie, non si sappiano indurre a criticarsi le loro vicendevoli opere coll’unico fine [735] di palesare sempre più il vero? Eh, giovate alla letteraria repubblica, letterati miei schizzinosi; giovatele con rettificare i vostri confratelli quando errano per ignoranza; e trattate anche severamente que’ribaldi scrittori che si studiano di corrompere vieppiù il mondo con perverse dottrine, ma per quel rispetto almeno che dovete a voi medesimi, non vi lasciate mai indurre a riprendere o l’ignoranza o la ribalderia altrui da quell’invidia e da quel maltalento che guidò le penne d’alcuni di que’prefati famosi uomini a danno e vituperio personale de’loro avversari e rivali!

Metatestualità► Tornando ora per poco al signor Alessandro Marchetti, io dico che ◀Metatestualità il signor Nelli, oltre al mostrarlo ignorante in fisica, in geometria e in matematica, avrebbe anche potuto con molta facilità mostrare ch’egli era non solamente null’affatto poeta, ma verseggiatore molto mediocre, perchè non v’è pagina nella sua traduzione di Lucrezio che non contenga alquanti versi molto flosci e zoppi. Nè quella traduzione avrebbe certamente lo spaccio che ha, se non fosse oggi la moda di gridar miracolo tosto che si vede qualche libro contrario a’dettati del buon costume, o a’comandi della religione. Supponendo tuttavia contro il vero, che il Marchetti sia stato un perfettissimo versisciol-[736]tajo in quella sua traduzione, è egli una cosa da farsene le mille croci? Ed è forse questa nostra contrada così transandata, che abbia a registrare fra gli uomini suoi più rimarchevoli e più illustri anche un perfetto versiscioltajo? Povera Italia, se questo è il tuo caso, e se sei già ridotta a tanto universale depravatezza di gusto e di giudizio!

Tronchiamo queste riflessioni troppo ignominiose a que’miei paesani, che si sbracano a lodare gli sfiancati versi sciolti, e conchiudiamo il nostro discorso con esortare il signor Nelli a procurar di scrivere con un po’ più di rapidità, con un po’ più d’energia, con un po’ più di fuoco quelle opere che ne promette in varj luoghi di queste sue lettere, perchè a dire il vero in questa il suo stile mi riesce un po’ troppo tardo e pesante. Lasci anzi fuori tutti que’suoi complimenti, o sinceri o ironici che si sieno a’suoi avversarj, perchè il complimentare gli uomini nell’atto che severamente si criticano, è cosa che pute alquanto di disingenuità. ◀Eteroritratto ◀Livello 4 ◀Livello 3

Livello 3►

Chiacchiere domestiche tra don Petronio Zamberlucco e Aristarco Scannabue; Dialogo secondo.

Livello 4► Dialogo► D. Pe. Sarebbe una cosa veramente degna di te.

Ari. O degna di me, o non degna di me, io ti dico che se quel gaglioffo di Retindo Misotolma mi vuol far sapere il suo vero nome, io stampo nella Frusta que’versiculi latini che ha scritti in mio vituperio.

D. Pe. In somma tu sei risoluto in questo, che non vuoi far caso se non delle approvazioni e delle lodi che vengono date alla tua Frusta; e delle disapprovazioni e de’biasimi non te ne vuoi dare il menomissimo fastidio.

Ari. Ora l’hai indovinata.

D. Pe. Così vivrai un pezzo.

Ari. Tanto meglio. Ma ti pare ch’io faccia bene o no a far così? Ti pare ch’io m’abbia a mettere in collera se un qualche piede avvezzo a essere ferrato da maniscalchi, mi dà un calcio? Starei fresco se dovessi pigliarmi affanno di quelle tante zucche vote che biasimano la Frusta perchè non è scritta secondo le regole dell’odierna prudenza, cioè secondo le regole dell’odierna vigliaccheria, come diceva quell’altro da Montefiascone. E starei più fresco ancora se volessi curarmi [738] di que’vituperosacci, che senza mai lasciarsi vedere nel viso, e senza mai farmi sapere i loro nomi e cognomi, quantunque sappiano molto bene il nome e il cognome mio, mi scrivono un caos di contumelie! Io voglio lasciare che si sfoghino, che si raccolgano le spazzature goldoniane, che arrabbino in lor malora, e tirar innanzi a dire la verità con la mia solita intrepidezza, e insegnare il modo di pensare e di scrivere a chi nol sa.

D. Pe. Fra questi dalle spazzature a cui alludi, ve n’ha uno veramente, che è troppo dispregievole perchè tu ti avvilisca a rispondergli. Questo te lo concedo; e ti concedo che non si può essere peggior logico di quello ch’egli è stato, confessando, che egli giudica di commedie non mai lette da lui per le sue gravi faccende, nè udite a recitare; che è quanto a dire ch’egli giudica di cosa non saputa da lui per giudizio del suo propio intelletto; ma per quanto le voci popolari gli hanno messo negli orecchi, senz’altro esame. Odi ingegno critico che è questo, e come sono scritte in vano per lui le logiche? Oltre a quell’altra bella norma di provare, ch’egli accorda le commedie del Goldoni « contenere una cattiva morale, insegnare il vizio, e insinuare delle cattive massime, » e poi egli cristiano dà addosso a te, che sei cristiano perchè le [739] critichi, che è quanto a dire perchè scopri questi difetti in esse a’cristiani.

Ari. Anche a me pare che bisogna essere avversario e nemico mortale dell’arte del pensare per far il censore a questa foggia, e per villaneggiare un uomo onesto, che cerca con tanta fatica come io faccio di porre argine al vizio egualmente che al cattivo gusto in letteratura, da cui siamo oggimai inondati.

D. Pe. Ma che di’ tu di quell’altro Mastino che t’ha ringhiato contro a proposito pure del Goldoni?

Ari. Io non ho a dirti in tal proposito, Zamberlucco, se non che mi darebbe l’animo di menargli quattro frustate così sode da fargli passar tosto la voglia d’abbajarmi intorno; ma cotesti cani che hanno certi nomi sul collare che portano al collo, vanno rispettati per amore de’lor padroni. Gli saprei ben io mostrare che ha più bisogno assai di me degli avvisi caritatevoli degli amici di Bologna. Ma . . . 

D. Pe. E a quelli che ti riprendono di qualche vocabolo da te usato quantunque non si trovi nella Crusca, che rispondi?

Ari. Rispondo che se ho inventato qualche vocabolo, l’ho fatto per bisogno, non trovando l’equivalente nella lingua nostra. Rispondo che i miei nuovi vocaboli sono tratti o dal greco, o dal latino, o dal toscano e non da lingue viventi. Rispondo che [740] i miei nuovi vocaboli sono tali che s’intendono immediate, che sono sonori, e che sono espressivi; e che perciò gli Accademici della Crusca mi hanno ad aver obbligo dell’ajuto che ho dato loro perchè arricchiscano la prossima edizione del vocabolario loro.

D. Pe. Ma tu hai ripreso il signor Vandelli, perchè ha adoperato l’avverbio lunghesso in vece dell’avverbio lungo; eppure egli ha dalla sua la Crusca che cita il Boccaccio.

Ari. L’avverbio lunghesso è composto dell’avverbio lungo e del relativo esso; onde lunghesso non s’ha a usare se non in senso relativo, altrimente si pecca contro gli elementi della lingua, stravolgendo senza necessità l’intrinseco significato de’vocaboli: fallo commesso in questo caso dal Boccaccio, che forse adoperò quell’avverbio a imitazione del parlare della plebaglia, la quale troppe volte parla scorrettamente. E gli Accademici della Crusca, invece di darci il Boccaccio per uno scrittore infallibilissimo in fatto di lingua, avrebbono fatto molto meglio a notare quel suo brutto lunghesso, così adoperato, come un errore massiccio di lingua, anzi che proporlo per vocabolo buono anche quando non e adoperato relativamente.

D. Pe. I Fiorentini non l’intenderanno mai che alcuno nato e allevato fuor di Toscana s’arroghi il diritto di sentenziare contr’essi.

Ari. Oh di questo poi io non me ne vo’dar pensiero. A me basta d’aver la ragione dal canto mio. Se dietro la ragione posso avere i Fiorentini, bene; se no, non m’importa un fico secco. ◀Dialogo ◀Livello 4 ◀Livello 3

Avviso al pubblico ed a’signori medici specialmente.

Livello 3► Racconto generale► L’inverno passato in Udine, città capitale del Friuli, un idrofobo guerì avventurosamente del suo male per essergli stato dato a bere dell’aceto in vece d’acqua per isbaglio. Un giovine dell’università di Padova, testimonio oculare di tal guerigione, raccontò il caso a un valente medico di quella città. Poco dopo d’aver udito così strano racconto quel medico ebbe da curare un idrofobo nello spedale. Volle provar l’aceto, e gliene fece bere una libbra la mattina, una a mezzodì, e una la sera. Anche questo idrofobo di Padova guerì tosto. ◀Racconto generale ◀Livello 3

Metatestualità► Queste notizie mi sono state pur ora date per verissime, onde le comunico al pubblico, e a’medici specialmente, sperando che in casi d’idrofobia vogliano sperimentar l’aceto, poichè gli è pur troppo inutile il valersi d’alcuno di que’tanti rimedj proposti e dagli antichi e dai moderni contro questo sopra tutti terribilissimo male. Chi sa che il caso, padre [742] di tante belle ed utilissime scoperte in fisica, non ce n’offra ora una, della di cui estrema importanza non occorre neppur dire? Aristarco poi sarà sommamente obbligato a tutti i medici d’Italia e fuori, se in conseguenza di questa notizia vorranno per mezzo suo informare il pubblico delle qualità che osserveranno nell’aceto ne’casi d’idrofobia, indirizzando le loro lettere franche di posta al sig. Antonio Savioli, librajo in Merceria a Venezia. ◀Metatestualità ◀Livello 2 ◀Livello 1