Référence bibliographique: Giuseppe Baretti (Éd.): "Numero XV", dans: La Frusta letteraria di Aristarco Scannabue, Vol.3\15 (1764), pp. 617-658, édité dans: Ertler, Klaus-Dieter / Fuchs, Alexandra (Éd.): Les "Spectators" dans le contexte international. Édition numérique, Graz 2011- . hdl.handle.net/11471/513.20.951 [consulté le: ].


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N.o XV

Roveredo I maggio 1764.

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I pregi della poesia, opera di don Felice Amadeo Franchi A. fior. In Firenze 1758. Appresso Andrea Bonducci in 4.o

Metatextualité► A misura che i miei fogli si vanno pubblicando, un mio importuno corrispondente si piglia l’incomodo di mandarmi una notarella di tutte le parole e di tutte le frasi, che in essi mi scappano ripetu-[618]tamente dalla penna, e attribuisce in modo un po’troppo cinico a mia scarsezza di lingua, e a mia povertà d’ingegno il mio dire per esempio d’un autore, che mi secca, e d’un altro ch’egli è una seccaggine, e d’un altro ch’egli è un seccatore, e cose simili.

Questa sorte di critica minuta, o critica di ritaglio come la vogliam chiamare, a me non dispiacque mai, perchè riesce di fatto una cosa assai fastidiosa il ritrovare ad ogni tratto in un libro le stesse parole, e le stesse frasi, che tanto vale quanto dire le stesse idee. Chi si accinge alla importante impresa di scrivere un libro, bisogna fra l’altre innumerabili avvertenze, ch’egli badi bene a non ripetere qua e là i proprj pensieri; e se talvolta la necessità lo costringe a ripeterne alcuno, bisogna ch’egli s’abbia in capo tanta provvisione della lingua che adopera, da poter ripetere quel suo pensiero in modo, che non ristucchi colla medesimezza della espressione.

Non so però se questa regola generale s’abbia a rigidamente estendere fino a questi miei fogli, e se sia cosa possibile in natura, che io non ripeta mai le stesse parole e le stesse frasi, quando di fatto io ho troppo sovente le stesse idee da ripetere. La più gran parte degli autori nostri moderni sono seccatori, e per con-[619]seguenza mi seccano, o mi riescono seccaggini. Come diavolo, signor corrispondente mio, vuoi tu ch’io faccia ad esprimere con frasi sempre diverse l’idea di seccagginosità, che tutti costoro mi destano chi in un modo, e chi in un altro? Ho io a inventare nuove parole e frasi nuove per compiacerti? Io mi sono più volte e più volte ajutato quanto ho potuto contro la medesimezza delle espressioni, e ho detto d’uno che mi annoja, d’un altro che mi stanca, d’un altro che m’addormenta, e cose simili, ma e’m’è pur forza intoppare nello stesso sasso quando lo stesso sasso mi si torna a parar davanti, cioè quando un autore mi rispinge nella necessità di dire quello che un altro autore m’aveva già spinto a dire commettendo lo stesso fallo che un altro autore aveva già commesso.

Se la lingua nostra, invece d’esser composta di soli quarantaquattromila vocaboli radicali, fosse composta di dodici milioni e qualche migliajo, come il Chardin assicura ne’suoi viaggi essere l’araba, e per conseguenza se un’idea potesse essere espressa in infinite maniere, le mie ripetizioni non sarebbero punto scusabili; ma non essendo questo il caso della nostra lingua, sarà pur d’uopo, importunissimo mio signor corrispondente, che tu t’acqueti al dovere, e che tu lasci [620] ch’io m’esprima con quella poca varietà di parole e di frasi ch’io meglio posso, senza più attribuire, come troppo barbaramente fai, a mia scarsezza di lingua e a mia povertà d’ingegno un difetto, che non è punto mio, ma che è tutto della lingua nostra. ◀Metatextualité

Niveau 3► Hétéroportrait► Lasciami dunque dire, cinico barbassoro, con la mia solita somiglianza d’espressione, che questo libro de’Pregi della Poesia è non soltanto una seccaggine, ma una quintessenza di seccaggine; e scusami se anche di tal libro t’assicuro, come già t’assicurai di più altri, che fa mestiero avere una pazienza perfettamente asinina per poterlo leggere da un capo all’altro.

Se questo autore avesse voluto conformare il suo libro al suo frontispizio, non m’avrebbe per certo seccato così mortalmente come ha fatto, perchè tutto il suo grosso tomo in quarto si sarebbe ridotto in questa sola sentenza, che i pregi della poesia sono due, cioè l’istruire e il dilettare. A lui mo piacque al contrario di dare quel bel titolo a una tiritera d’una lunghezza enorme, essendosi risoluto, a imitazione di molti altri scrittoracci de’dì nostri, di formare un grosso volume con accozzare insieme un innumerabil numero di passi copiati nel suo domestico zibaldone, di mano in mano che è andato leggendo questo e quell’altro libro; ed [621] acciocchè la sua prolississima tiritera riuscisse vieppiù prolississima, ci ha favoriti della traduzione in versi italiani di tutti i versi latini che ha qui citati in copia magna e arcimagna. Guardate, corrispondenti miei, se io ho mille ragioni, non che una, di chiamarlo un sommissimo seccatore, che non v’è quasi pagina in questo suo grosso volume, che non contenga una, due e tre, e talvolta anche sei e sette citazioni. E a che proposito tutte queste citazioni? A null’altro proposito in coscienza mia, che per provare questa gran cosa, cioè che i poeti pagani, voglio dire i poeti latini, hanno assai moralità nelle loro poesie. E chi è quell’ignorantaccio che non la sappia questa gran cosa, e che abbia bisogno gli sia provata e dimostrata con centinaja e centinaja di citazioni. Vi pare, uditori umanissimi, che questa sia una seccaggine o non seccaggine?

Ed oltre a questa seccagginosissima seccaggine di quelle tante citazioni appiccate collo sputo insieme, e liberalmente dateci a tredeci per ogni dozzina, non è neppur da passarsi sotto silenzio l’aggiunto d’un’altra non mediocre seccaggine, cioè, di quella che ne viene dal suo perpetuo epitetare. Guai ch’egli nominasse mai un autore, massimamente moderno, senza un addiettivo o due di lode, e talora tre o [622] quattro, o senza una qualche encomiastica perifrasi! Egli fa propio uno scialacquo degli epiteti, Citation/Devise► « d’insigne, di dotto, d’erudito, di famoso, di celebre, di facondo, di rinomato, e simili; e poi di dottissimo, d’eruditissimo, di famosissimo, di celeberrimo, di celebratissimo, di facondissimo, di rinomatissimo, e simili; e poi ancora di benemerito delle lettere, di singolar ornamento dell’Italia, di grande splendore delle matematiche » ◀Citation/Devise eccetera, eccetera, eccetera, che venga il fistolo a tutti gli epiteti, a tutti gli addiettivi, e a tutte le perifrasi di lode, quando abbiano a esser cagione a un povero leggitore di tanta seccaggine quanto lo sono a me in quasi ogni facciata di questi seccantissimi Pregi della poesia.

Del suo stile poi e che mai ne dirò? Giove altitonante! Che altra seccaggine è questa del suo stile! Sentite come dà cominciamento alla sua prefazione, che è lunga quanto la quarta parte di tutta l’opera.

Niveau 4► Exemplum► Citation/Devise► « Non vi è cosa per cruda che sembri a prima fronte ad ascoltarsi » (notate quell’affettatissima prima fronte) « la quale il discorso non rammorbidisca, » (non so bene se discorso qui sia nominativo o accusativo) « particolarmente se questo su forti ragioni si sostenga, e da pulitezza di dire, come da nobile ornamento e grande at-[623]trattiva venga accompagnato ». Vi voleva mo tanta studiatezza e rigiro di fiorentineria, per dirci una cosa nota sino alle lavandaje; cioè che l’eleganza del dire fa parere piacevoli anche le cose poco piacevoli, e le stesse cose dispiacevoli? Come c’entrava « l’accompagnamento della grande attrattiva? » Tiriamo innanzi ancora un poco per vedere come comincia l’orribile diluvio dell’erudizione greca e latina. « Di tal verità copiosi esempli troviamo nell’istoria; » (faceva veramente bisogno di ricorrere all’istoria per persuadercene) « ed a tutti è noto » (tanto noto che non occorreva dircelo) «per fino a dove sia giunto colla forza di soave ragionare il famoso orator romano Cicerone, » (famoso, oratore e romano sono tre vocaboli adoperati qui per allungare il periodo) « e molto prima di lui Pericle, Isocrate, Demostene e qualchedun altro. Somigliante eloquenza richiederebbono le mie presenti circostanze » (non so cosa voglia dire con quel circostanze; ma o buone o cattive che le sieno, mi contenterei di trovare in lui eloquenza inferiore a quella di Cicerone e degli altri, purchè mi seccasse meno) « per poter prevenire in mio favore l’animo di quegli che si compiaceranno di leggere i Pregi della Poesia da me descritti » (che bella descrizione!) « e per quindi tener lontana [624] dalle mie tenui fatiche ogni censura ». (Chi non ama d’essere censurato non iscriva mai di quelle cose delle quali sa in coscienza di non intendere un’acca). « Ma giacchè di elegante e forbito favellare mi trovo io scarso, » (lo sappiamo anche noi, ma chi se ne trova scarso non s’attenti a stampar libri) « laddove i sovrallodati oratori » (oh qui mi perdoni sua signoria, che di sovra non aveva lodati quegli oratori: li aveva solo nominati) « spesse fiate non tanto sull’assistenza della ragione in favore di ciò che patrocinavano hanno confidato, quanto nella loro maestrevole lusinghiera favella; io in mia difesa mi servirò piuttosto di alcune ragioni, quanto in numero poche, altrettanto in sè stesse sode e convincenti ». ◀Citation/Devise ◀Exemplum ◀Niveau 4 Ecco come sempre finisce tutta questa finta umiltà degli autori, che in sostanza non è mai altro che vera superbia. Essi cominciano sempre dal confessarsi buoni a nulla, non atti a portare il peso che s’addossano, bisognosi di compatimento, ed altre tali fanfaluche; e poi si armano ferocemente a difesa prima che alcuno si sogni d’attaccarli; e per mancanza d’eloquenza e di forbito favellare si vogliono servire di sode e convincenti ragioni, come se l’eloquenza e il forbito favellare potesse essere tale senza il corredo di sode e convincenti ragioni: che [625] venga il fistolo anche a tutto questo galimathias de’nostri moderni seccatori! E che credete poi che sieno quelle sode e convincenti ragioni di cui il nostro seccatore si vuol servire? Non son altro che alcune autorità di alcuni che non fanno autorità. A proposito verbigrazia de’Pregi della Poesia, egli cita un passaggio del Salvini, in cui il Salvini, che in poesia è di tanta autorità quanto un poeta arcade, non dice finalmente altro che una cosa nota a tutti, cioè che la poesia, quando è bella, è una bella cosa. E questo dire del Salvini il nostro autore lo chiama una ragione soda e convincente; nè bastandogli quella citazione, cioè quella ragione soda e convincente, cita ancora non so quante decine d’autori morti e d’autori vivi, che tutti hanno detto e ridetto, che la poesia bella è una bella cosa; e con queste ed altre somiglianti ciance e citazioni, e poi con altre, ed altre citazioni e ciance va sino al fine della lunga prefazione e del lunghissimo libro, col buon pro che gli facciano e l’una e l’altra in sæcula scæculorum. Servidor umilissimo di vossignoria illustrissima, che non ho più flemma di parlare di questa seccaggine intitolata i Pregi della Poesia. ◀Hétéroportrait ◀Niveau 3

Niveau 3►

Trattato della lingua ebraica e sue affini, del p. Bonifazio Finetti dell’Ordine de’Predicatori. Offerto agli eruditi per saggio dell’opera da lui intrapresa sopra i linguaggi di tutto il mondo. Aggiungesi nel fine: Una breve difesa del capo II di San Matteo contro un incredulo inglese. In Venezia 1756, appresso Antonio Zatta, in 8.o

Niveau 4► Hétéroportrait► Fra i molti libri da me letti in questi ultimi mesi per uso di questo mio foglio, non n’ho trovato alcuno che m’abbia fatto a un gran pezzo piacevolmente maravigliare quanto questo Trattato della lingua ebraica, e sue affini. E sì che a dir vero quando mi capitò dapprima in mano, io lo giudicai tosto una qualche ciarlataneria, vedendo dal suo titolo, che l’autor suo ne lo dava per « Saggio d’un’opera sopra i linguaggi di tutto il mondo ». Di tutto il mondo? E chi è questo ciarlatano, diss’io, che vuole parlare di tutti i linguaggi del mondo? E non sa mo questo padre, che nessuno crede oggi a quegli antichi, i quali n’han detto che il re Mitridate intendeva ventidue lingue; sapendo tutti i moderni per esperienza, che non è troppo possibile acquistarne la metà di tal numero per istudiare che l’uomo studi?

Inducendomi tuttavia, e quasi mio malgrado, a scorrere neglettamente coll’oc-[627]chio la prefazione del padre Finetti, cominciai pian piano a raccogliere l’attenzione, e a badare a quel che leggevo. Altro che ciarlatano, e che ciarlataneria! Il padre Finetti è un uomo de’più rari che abbia mai ornata l’Italia, e il suo libro è uno de’libri più istruttivi e de’più dilettevoli che si possano leggere! Che peccato che l’Italia non n’abbia qualche dozzina di questi uomini coraggiosi, come questo padre, che non sono neppure sgomentati dalla spaventosa idea di porsi al fatto di tutte le favelle usate dagli uomini! Sentite leggitori, che opera debb’essere questa sua Niveau 5► Citation/Devise► « Il primo suo capo, », dic’egli nella prefazione, « sarà questo medesimo trattato, alquanto però migliorato, della lingua ebraica, e sue affini. Quindi daremo principio al nostro viaggio linguatico » (se così m’è lecito coniare questo vocabolo) « dall’Oriente, ov’essa lingua di lancio ne trasporta, e lo proseguiremo a quel verso, se non che per visitare due delle sue figlie, l’Etiopica, e l’Ambarica, ci converrà tragittare per breve tempo dall’Arabia nell’Africa: d’onde ritorneremo in Asia, anzi che in Europa, per trattare dell’altre lingue orientali, che non hanno certa speziale affinità coll’Ebraica. Il secondo capo dunque sarà del rimanente delle lingue orientali sino al fiume Indo; cioè della Greca, dell’Armena, [628] della Turchesca e della Persiana. Indi senza torcere il nostro cammino scorreremo le Indie. Sicchè il terzo capo sarà delle lingue indiane, cioè dell’Indostaniche, o dell’impero del gran Mogol, della Malaica, della Malabarica, o Malejamica, della Tamulica, della Telugica, della Singalese, ec. Proseguendo il nostro cammino verso Levante formeremo il capo quarto delle lingue dell’ultimo Oriente, cioè dell’Anamitica, che comprende la Turchinese e Cocincinese, della Chinese, della Giapponese, della Formosana, ec. Poi torceremo i nostri passi verso Settentrione, ed entrati nella Tartaria più orientale, faremo un viaggio retrogrado al primo, cioè verso Occidente, per ritornare, scorse in fretta quelle vastissime contrade, in Europa. Sarà dunque il quinto capo delle lingue Tartariche: e si dirà quello che si potrà della lingua Manjurica, o de’tartari chinesi, della Nongulese, della Tibettana, o Tanguttana, della Calmucica, della Crimese, e di alcune altre, per quanto sarà permesso dalla scarsezza de’libri in tal materia. Dalla gran Tartaria proseguendo il viaggio verso Ponente, si entra nella Moscovia, e dalla piccola Tartaria s’entra nella Polonia: ed in amendue cotesti gran paesi c’incontriamo nella lingua Schiavona, o come piuttosto dovrebbe dirsi Slavonica, e Slava, cui altri [629] vogliono chiamar Illirica. Quindi il capo sesto sarà della lingua Slava antica letterale e delle varie sue figlie, quali sono la Moscovita, la Polacca, la Boema, la Vandalica, l’Illirica, o Dalmatina, la Cragnolina, ec. A ponente de’paesi di lingua Slava sta la Germania, ed altri paesi di lingue non totalmente diverse, e per conseguenza figlie dell’istessa Linguamadre cui ad alcuni piace nomare antica Gotica, ad altri Teutonica, ed a molti con un nome indeterminato Norrena, cioè Settentrionale. Laonde seguirà il capo settimo della lingua Alemanna, e lingue affini, sì moderne che antiche. Le moderne sono, cominciando dal più alto settentrione l’Islandese (cui uniremo la Groelandese, per non trovarvisi nicchio per essa più acconcio), la Svedese, la Norvegese, la Danese, l’Inglese, l’Olandese e la Tedesca, di cui si parlerà in primo luogo. Fra le antiche sono la Runnica, l’Anglosassonica, la Mesogotica, la Teotisca, ec. Dalla Germania movendo i passi sempre a Ponente, si passa nella Francia, ove regna la lingua Francese, una delle belle e gentili figlie della lingua latina, essendo le altre l’Italiana, la Spagnuola e la Portoghese, con alcune altre di grado inferiore. Uopo è dunque nel capo ottavo trattenersi alquanto con esse, dopo però aver fatto i nostri [630] doveri colla Latina, madre loro nobilissima. Ed eccoci con ciò giunti al confine dell’Europa. Prima però di veleggiare verso l’Africa, bisogna parlar d’alcune lingue, che per star ristrette dentro a’proprj confini, nè essere madri d’altre lingue, vengono chiamate dagli autori lingue piccole. Esse però ancora meritano la nostr’attenzione. Formeremo dunque il nono capo delle piccole lingue d’Europa, in cui entreranno l’Ungara, la Lituana, la Livonese, la Finlandese, l’Irlandese, la Cornovagliese, la Gallese, la Biscaglina, che si crede l’antica Spagnuola, l’Albanese, ed alcune altre. Ciò fatto passeremo nell’Africa; ma in quella parte, quantunque più grande dell’Europa, poco viaggio potremo fare, attesi gli orridi deserti, o la barbarie delle nazioni. Tanto più che già avremo visitata la Barbaria coll’occasione della lingua Arabica, che ivi più comunemente si parla, l’Abissinia per cagione della lingua Etiopica e dell’Ambarica. L’Egitto però ci tratterrà lunga pezza colla lingua Coptica, o antica Egiziana, che formerà il principal ornamento dell’unico capo che sarà delle lingue africane, e decimo dell’opera intiera. In esso si parlerà brevemente di alcune altre lingue, spezialmente dell’antica Africana, ora detta Tamagzet, della Congese, dell’Angolana, della Melindana, del-[631]la Ottentotica, della Madagascarica, ec. Dall’Africa veleggieremo in America, e la scorreremo tutta, internandoci ad udire « gl’idiomi di que’selvaggi a misura che avremo scorte sicure, che ci accompagnino, cioè libri che ce ne istruiscono. Di tutte le lingue americane faremo due capi. Il primo, undecimo dell’opera, sarà delle lingue dell’America Settentrionale, e il secondo, duodecimo in ordine, di quelle dell’America Meridionale. In quello si parlerà poco o assai della Messicana, della Pocomanica, della Virginiana, dell’Algonchina, dell’Huronica, della Caribaica, ec. Nell’altro si dirà della Brasiliana, della Chilese, della Peruana, ec.; sicchè l’opera tutta comprenderà dodici capi. » ◀Citation/Devise ◀Niveau 5

Metatextualité► Ecco, leggitori, un disegno d’un libro il più bello e il più ampio che sia stato mai formato. Bisognerà star a vedere se il padre Finetti sarà in caso d’eseguirlo. A giudicare però dal Saggio, ch’egli ne ha dato in questo suo Trattato della lingua Ebraica e sue affini, mi pare capacissimo di soddisfare alla stupenda promessa che ne fa. Diciamo qualche cosa di questo Saggio. ◀Metatextualité

Egli divide il suo Trattato in dieci sezioni. Nella prima sezione parla della Lingua Ebraica, in cui prova con bastevole evidenza, che la lingua così comunemente chiamata non è esattamente la lingua primiera parlata da Adamo. Crede che [632] alcune delle sue radici si sieno smarrite; altre introdotte di nuovo, più d’una mutata in parte, e di altre cambiato il valore. E gli argomenti da esso addotti in sostegno di queste sue opinioni m’hanno pienamente soddisfatto, e penso che soddisferanno qualsisia attento leggitore. Niveau 5► Citation/Devise► « Crederei anche (dice il padre Finetti) che questa lingua fosse stata nel suo principio più semplice nelle sue inflessioni, e verisimilmente tutte le radici sue saranno state monosillabe e indeclinabili, distinguendosi ne’verbi le persone e i numeri co’soli pronomi aggiunti, o i tempi con qualche particella separata, come anche al giorno d’oggi s’usa in alcuna lingue, spezialmente delle più orientali ». ◀Citation/Devise ◀Niveau 5 Esaminato con molta cura quale potesse essere la lingua primiera, l’autore passa a congetturare quando tal lingua si sia corrotta e cangiata in molta parte; quindi scende a ragionare della sua natura e dell’indole sua, dandoci il Paternostro come un Saggio d’essa tradotto ad literam in italiano. Bellissimo e pieno di dilettevole e soda critica è poi il suo discorrere sulla scrittura ebraica e sull’invenzione de’punti che le servono di vocali: ed è molto robustamente confutato lo strano e capriccioso sistema, o metodo proposto agli studiosi di questa lingua dal Masclef, di leggere senza punti, pronunziando ciasche-[633]duna consonante con quella vocale che immediate la siegue nel nome da essa tenuto alfabeticamente. Il padre Finetti chiude finalmente questa sezione con esaminare la Massora, vale a dire la « Traduzione sulla maniera d’aggiungere le vocali »; e in tal proposito ne dà molte belle notizie sì nel testo, che in una lunga postilla, in cui egli non pare del sentimento di monsieur Fourmont, che sull’autorità d’un bellissimo manoscritto del re di Francia fissa assolutamente l’invenzione de’punti ebraici in Caldea, nella città di Nehardea, dal Rabbino Hammenunah, e Rabbino Ada, circa la metà del terzo secolo, cioè fra gli anni del Signore 240 e 260.

La seconda Sezione è della lingua Rabbinica, cioè Ebraica, secondo che è usata da’dottori Ebrei, detti Rabbini. Dopo d’averci tornato in mente quello che già n’aveva detto nella sezione precedente, cioè, che noi non abbiamo altro di puro ebraico, se non quel poco che contiensi ne’sacri libri del Vecchio Testamento, il padre Finetti s’esprime così. Niveau 5► Citation/Devise► « Ognuno ben vede che esso (cioè il Vecchio Testamento) non può somministrare tante voci quante sono necessarie per iscrivere di tutte le materie che occorrono, essendo il soggetto de’sacri libri assai ristretto e limitato. È anzi credibile che la lingua [634] Ebraica non sia mai stata provveduta di una copia di voci sufficiente per iscrivere d’ogni cosa, essendo state dagli Ebrei sì poco coltivate le scienze e le arti, come abbiamo accennato. Quindi è, che i dottori ebrei, avendo il prurito di scriver di tutto nella propria lingua, come lo han fatto in effetto, sono stati costretti, per supplire ad una tale mancanza, a prender in prestito da varie altre più copiose lingue de’vocaboli, e a formarne de’nuovi dalle ebraiche radici, e anche sovente a dare alle medesime un nuovo significato. Hanno anche o per necessità, o per genio, introdotta qualche diversità nelle regole grammaticali. Una tal maniera di parlare misto di puro ebraico, e di parole innovate, alterate, o usate non con tutto il rigore della grammatica ebraica o affatto straniere, è propriamente ciò che oggigiorno da’dotti chiamasi lingua Rabbinica ». ◀Citation/Devise ◀Niveau 5 Dettoci cosa sia questa lingua Ebraica de’Rabbini, il padre Finetti ne apprende, che della lingua Caldaica o Siriaca, e poi dell’Arabica si sono coloro approfittati per arricchire la loro, come più all’Ebraica vicine; anzi che molti di essi hanno in essa introdotte delle voci greche, latine, con alcuna voce altresì d’altre lingue meno antiche di queste due, secondo che ogni Rabbino scriveva in questo o in quel paese. Questi miscu-[635]gli non rendono tuttavia strano e dispregievole lo scrivere d’alcuni celebri Rabbini, pretendendo anzi più d’un erudito, e nominatamente il p. Riccardo Simon, che il rabbino Isacco Abravanel non abbia meno di nettezza e d’eloquenza nell’ebreo rabbinico, che Cicerone nel latino; e che lo stile del rabbino Mosè Maimonide sia non men puro, nè men netto nel suo genere, che quello di Quinto Curzio; e che la frase del rabbino Aben Ezra s’accosti assai a quella di Sallustio. Ma forse v’è un po’di trasporto in questo critico, osserva saggiamente il padre Finetti; e dataci una poca d’idea del modo, con cui i Rabbini hanno formata la loro lingua, passa a dirci quali sieno le maggiori difficoltà che s’incontrano per intendere i rabbinici lirici, e quale sia l’utilità che se ne può trarre.

Delle altre otto sezioni io non farò oggi altre parole, perchè troppo di questo foglio mi prenderebbono dicendone anche pochissimo, e sproporzionatamente al merito. Dirò che la terza tratta della lingua Caldaica; la quarta della lingua Siriaca; la quinta della lingua Samaritana; la sesta della lingua Fenicia e Punica; la settima della lingua Arabica; l’ottava della lingua Etiopica; la nona della lingua Ambarica; e che la decima finalmente contiene un armonia delle lingue Ebraica, [636] Caldaica, Siriaca, Arabica letterale, Arabica volgare, Etiopica ed Ambarica. Questa armonia il padre Finetti la mostra principalmente con una tavola, in cui molte voci di ciascuna d’esse lingue si pongono al confronto; e con tale confronto ne fa scorgere assai palpabilmente la loro somma affinità e strettissima parentela. Torno adesso alquanto indietro, cioè torno alla prefazione di questo libro, di cui giudico a proposito trascrivere un altro squarcio assai curioso. Vorrei pure in qualche modo incoraggire i miei studiosi leggitori a provvederselo e a leggerlo. Ma che diavolo d’inutile desiderio è questo! Eh che il gusto moderno fra di noi non è quello de’libri scientifici; ma è quello di leggere corbellerie, dalle quali nessuno non è istrutto, e di scrivere corbellerie, dalle quali nessuno è dilettato! Voi, Francesi ed Inglesi, che siete infinitamente più amanti delle cose belle ed utili, che non la pluralità de’miei vigliacchi compatrioti, affrettatevi a tradurre questo bel trattato del padre Finetti nelle vostre rispettive lingue, e siate pur certi che così facendo non farete una spregievole aggiunta a quel tanto sapere che fra di voi va così fortunatamente ogni dì più acquistando splendore e robustezza! Intanto ecco lo squarcio della prefazione di cui dissi pur ora, che siegue immediatamente quello che ho [637] di sopra trascritto. Niveau 5► Citation/Devise► « Siccome non credo che non mi dilungherò nè poco nè assai dall’ordine sin qui riferito, così non dubito ch’io non sia per trattare di molte altre lingue, oltre quelle che ho nominate. Non è stata mia intenzione di tesserne qui un esatto catalogo; e molto meno di conciliare all’opera divisata maggiore stima con un’ampia e grandiosa enumerazione. Mi sono appostatamente ristretto a quelle, di cui ho presentemente qualche libro, o spero d’aver in breve, onde fondatamente parlarne. Lontano dal voler lusingare il pubblico con promesse troppo grandiose, amo anzi contenermi in istato di poter adempiere più di quello che prometto, e di superare col fatto l’aspettazione. A me basta che il pubblico, sì dal Saggio che gli presento, come dall’esposizione che ho fatta, possa formare una qualche idea dell’opera da me intrapresa, la quale son pronto ad eseguire, quando piaccia al Signore di conservarmi la vita e la salute, se però il poco gradimento che per ventura io ne scorgessi nel pubblico, non mi levasse insiememente col coraggio le forze. » (Pur troppo questo sarà il tuo caso, Padre Finetti! Tu se’ venuto al mondo italiano in un troppo goffo secolo!) « Nè qui termina ciò ch’io vado a pubblico vantaggio ideando in materia di lingue; ma non credo [638] conveniente cosa l’esporre in vista altre idee prima d’aver condotta questa al suo compimento. Or altro non mi resta, se non umilmente pregare gli eruditi tutti, a’quali è offerto questo Saggio, di voler favorire e promuovere co’loro lumi ed avvisi, e in qualunque altra maniera, seppur credono di dover approvarne il disegno. » ◀Citation/Devise ◀Niveau 5

Non mi rimane altro da dire oggi intorno a questo libro, se non che l’autore ha voluto stampare in fine d’esso una « breve difesa del capo II di s. Matteo contro un anonimo inglese. » Ma siccome quell’anonimo inglese è Antonio Collins generalmente dispregiato dagli stessi increduli della sua contrada, non giudico proprio adesso di dar conto a’miei leggitori di questo scritto del Padre Finetti; tanto più che mi sono proposto sin da principio di non voler ficcare ne’miei fogli troppe cose di controversia in fatto di religione. ◀Hétéroportrait ◀Niveau 4 ◀Niveau 3

Poscritto. Mi viene alle mani una copia di lettera di monsignor Assemanni, prefetto della biblioteca Vaticana, scritta al cardinale Orsi allora maestro del Sacro Palazzo, che ha per argomento il libro del padre Finetti. Alcuni de’miei leggitori non l’avranno, onde eccola tale e quale, come è stata mandata non so di donde al mio don Petronio.

[639] Niveau 3► Lettre/Lettre au directeur► Reverendissimo Padre. Con sommo piacere ho letto il Trattato delle Lingue composto dal Padre Bonifazio Finetti, come pure la difesa del Capo secondo di san Matteo contro un incredulo inglese, favoritomi da V. P. reverendissima, a cui perciò rendo infinite grazie del favore che m’ha fatto mandandomi una sì bella opera. Niveau 4► Hétéroportrait► In tutte le parti l’autore dimostra dottrina non volgare, perizia di lingue, sodo raziocinio. E per dirne qualche cosa in particolare, quanto alla lingua ebraica, egli prova con argomenti non leggieri più verisimile l’opinione di coloro, che sostengono ritrovarsi bensì nell’ebraica assai più della lingua primiera, che non in alcun’altra, ma non potersi poi sostenere ch’ella sia la medesima senza varietà e senza alterazioni; le quali sogliono introdursi dalla lunghezza de’tempi, dalla varietà de’climi, dalla mutazione de’costumi, e dal raffinamento degli studj e dell’arti.

Con eguale erudizione confuta l’opinione di Stefano Pastore, professore di lingue orientali in Amsterdam, il quale asserisce che la lettera Alef sia la vocale ; la He l’ breve e l’Epsilon de’Greci; Het l’ lungo, o l’Eta de’medesimi; Jod la ; Nhnim l’ , e il Vau l’ . Similmente fa vedere l’insussistenza del sistema puramente capriccioso ed arbitra-[640]rio di Pietro Masclef, canonico della cattedrale d’Amiens in Francia, che in sostanza consiste in pronunziare ciascuna consonante con quella vocale che immediatamente la siegue nel nome tenuto da essa nell’alfabeto; come il Beth sempre coll’ , il Ghimel sempre coll’ , il Daleth sempre coll’ , il Jod sempre , e il Vau sempre ; He, e Het vagliono sempre .

E per non fare l’analisi di tutta l’opera, dirò brevemente a V. S. rev. per quella notizia che mi par avere delle lingue, di cui tratta il chiarissimo autore in questo erudito libro, di non aver finora veduta o letta un’altr’opera, in cui, come in questa, si spieghino con fondamento e con verità le origini delle lingue, e pongansi tutte insieme, e in uno stesso prospetto a confronto, acciocchè il lettore possa quasi con un’occhiata ravvisarne la scambievole corrispondenza e la discrepanza. Onde non solamente approvo l’edizione di questo Trattato, e ne do le lodi dovute all’autore; ma l’esorto pure quanto so e posso a proseguire colle stampe l’idea da lui intrapresa, e disegnata nella prefazione.

Affinchè però V. S. rev. non creda ch’io abbia letto questo libro superficialmente, e che il godimento e la stima ch’io mostro di sì insigne Trattato provenga dagli encomj fatti dall’autore alle lingue ebraica [641] caldaica, siriaca, samaritana ed arabica da me professate, non voglio mancar di fare quelle osservazioni, che l’istesso autore pieno di modestia desidera dagli eruditi tutti per favore (com’egli scrive), onde questa sua opera si promuova co’loro lumi ed avvisi, e in qualunque altra maniera.

Dirò dunque primieramente che dopo il trattato della lingua Siriaca, potrebbe aggiungersi il dialetto della lingua Siriaca Palestina. Di questo dialetto nessuno finora ha scritto, e tanto differisce dalla lingua Siriaca, quanto la Siriaca differisce dalla Caldaica. Un solo libro se ne trova qui nella Vaticana, contenente le lezioni dell’evangelio per anni circulum, secondo il rito della chiesa orientale siriaca greca, da me riferito per extensum nel secondo tomo del catalogo de’manoscritti siriaci vaticani, cod. XIX a fol. 70 ad fol. 103. Il codice è singolare, ed unico forse in tutto il mondo, e scritto in pergamena l’anno di Cristo 1030, con carattere un poco differente dall’estrangelo. Contiene i quattro evangeli, ma, come si conosce, d’una versione diversa dalla siriaca. Spero di darlo alla luce con l’interpretazione latina. Nel detto tomo secondo del catalogo alla pag. 74 si dà un saggio del primo capitolo di san Giovan-[642]ni in due colonne, l’una della versione, siriaca e l’altra della palestina.

Venendo poi a qualche avvertimento non approvo quello che l’autore pag. 46 nella nota asserisce, Niveau 5► Citation/Devise► « quanto bene il nome ebraico Issa, donna, deducesi da Iss, che significa uomo! Ma in caldaico femmina dicesi Ittha, che non si può dedurre da Ghebar o Banhal, che in tal lingua significa uomo ». ◀Citation/Devise ◀Niveau 5 Avrei desiderato che l’autore avesse tralasciata questa nota, perchè Ittha si scrive in caldaico Inttha; la qual parola deducesi da Inss, che pronunciasi Nass; ove l’ultima lettera Scin nel femminino è mutata in Tau lene, così Inttha per Insstha. Di altri nomi, che trovansi nella scrittura ebraica, si potrebbe rendere ugualmente ragione colla lingua caldaia, che coll’ebrea, se a noi fossero stati tramandati i libri scritti anticamente in detta lingua caldaia: anzi di alcuni nomi, de’quali secondo l’analogia grammaticale non vi corrisponde il significato nella lingua ebrea, puntualmente se ne riconosce nella caldaia, come il nome Noè, o come leggono gli ebrei Noahh, derivasi dal caldeo e siriaco Noh, che vuol dire riposò: e dal di lui transitivo Anihh, dar riposo.

Alla pag. 63 nella nota (a), « Aram Padan, Siria Montuosa, parte della Meso-[643]potamia. » Così scrive l’autore. Io però direi: « Nella scrittura si nominano tre Sirie, cioè Aram Demesset, Siria Damascena; Aram Soba, Siria Cava, la Celesiria; Aram Naharaim. Siria de’due fiumi, e Aram Padan, cioè la Mesopotamia, tra due fiumi, il Tigri e l’Eufrate ». La prima di queste due parole Aram Naharaim abbraccia tutta la Mesopotamia. La seconda Aram Padan parte culta (non montuosa) della Mesopotamia, perchè Aram Padan è l’istesso che Sedè Aram. Osee 12 13, cioè Ager sativus vel consitus Mesopotamiae. In Synopsi Criticorum Genes, 25, v 20 Mesopotamiae duae partes erant, una inculta et aspera, altera fertilis et culta, testibus Strabone lib. 16. Xenophonte in I. A’ναβάσ Polibio, 1. 5. Onde Aram Padan non è Mesopotamia montuosa, ma piuttosto la colta.

Tralascio gli errori di stampa, come pag. 51 lin. 19 Hhumthà, e lin. 22 Hhachma, saggia; deve scriversi Hhaehimtha, e Hhachima, pag. 71 lin. 12 Hhnan Ssebakan leggi Ssebakn, lin. 19 Nhemchi leggi Nhamech, pag. 85 lin. 7 Fausto Hairone leggi Nairone, pag.140 nel capo 12 di Esaia leggi nel capo 38, e così qualch’altra parola siriaca o arabica. ◀Hétéroportrait ◀Niveau 4

Metatextualité► Mi scuserà V. S. reverendissima del mio notare queste minuzie. L’ho fatto per [644] ubbidirla, e per mostrarle quanta stima io faccia dell’autore. ◀Metatextualité

Dalla Biblioteca vaticana gli 8 sett. 1757.

Niveau 3►

Della Seccatura, Discorsi cinque di L. Antisiccio Prisco dedicati a Nettuno. In Venezia 1756, in 8.o

Il far ridere gli sciocchi e la canaglia non è cosa molto ardua. Qualche equivocuzzo volgare, qualche parola storpiata, qualche infame oscenità, o qualche empietà bestiale, basta per far dar gli sciocchi e la canaglia nelle più smoderate risa. Pochissimi però sono gli uomini che posseggano la facoltà di far ridere una brigata di gente colta, perchè per far ridere la gente colta bisogna possedere troppi talenti a un tratto. Bisogna in primis essere stato dotato dalla natura d’una somma vivacità di fantasia, e d’una estrema dilicatezza di sensi per poter concepire ogni cosa immediate, e in un modo apparentemente diverso dal comun modo di concepire le cose. Bisogna che lo studio e la riflessione n’abbiano fecondata la mente con un mondo d’idee, e che queste si sappiano applicare a tempissimo, o combinare, o riunire, o disgiungere con velocissima prontezza secondo le instantanee occorrenze. Bisogna conoscere a fondo le cagioni e gli effetti, o vogliam dire [645] le origini e i progressi delle passioni umane per poterle svegliare e accendere a un tratto, o a un tratto sopire ed acquetare quando occorra. Bisogna essere informatissimo d’ogni costume della nostra patria per poter fare delle improvvise allusioni, e non essere punto ignaro de’costumi d’altri paesi per porli a confronto de’nostri sempre che si voglia. In somma per far ridere le genti colte d’un ragionevole riso bisogna avere una padronanza assolutissima di lingua, e saperne ogni parola e ogni frase tanto nobile e seria, quanto burlesca e plebea, per poter vestire in modo nuovo e bizzarro, e tuttavia sempre naturalissimo, tutti i nostri pensieri.

Niveau 4► Hétéroportrait► Questo libro della Seccatura è certamente stato scritto con intenzione di far ridere; ma questo libro non fa, e non farà mai ridere, perchè l’autor suo non ha, e non avrà mai la minima di quelle qualità che si richieggono a tal effetto. La sua mente è una di quelle menti morte, che la natura dà agli antiquarj; di quelle menti pseudofacete,

Niveau 5► Citation/Devise► Che fanno l’allegrezza fuggir via
Per disperata sino in Circassia. ◀Citation/Devise ◀Niveau 5

Il poveruomo fa bene quanti sforzi può per dire delle cose lepide, ma non gli riesce mai una sola volta di dare in brocco.

Alludendo a un certo modaccio assai [646] frequente nella bocca della più vil plebe, egli dedica questa sua insulsa opera a Nettuno, al quale dà il titolo di Umidissima Maestà; cosa da far ridere le galline forse, ma non gli uomini.

Dietro la dedicatoria viene una lettera a chi legge, la quale comincia con queste modestissime parole. Niveau 5► Citation/Devise► « Felice il mondo se l’autore del presente libro, esaminando filosoficamente tutte le seccature che sono nell’umana società introdotte, farà qualche effetto negli animi di chi legge! » ◀Citation/Devise ◀Niveau 5 Come è possibile che un uomo così onninamente sprovveduto di vero ingegno e di vero sapere, quale è l’autore di questa Seccatura, possa aver tanta superbia onde lusingarsi di rendere felice il mondo, quando il mondo voglia badare a lui, e alle sue goffe ciance? Niveau 5► Citation/Devise► « M’avveggo (dic’egli in persona dello stampatore) m’avveggo che proemj, prefazioni, prolegomeni, introduzioni, e simili faccende, che si sogliono metter avanti, sono tutte scritture che servono per disporre al sonno i reggitori ». ◀Citation/Devise ◀Niveau 5 Che vivezza! Che giocondità! Sappia però sua signoria, che queste faccende non servono sempre per disporne al sonno i leggitori, e che sono anzi necessarie ed utilissime, quando uno scrittore non sia un melenso ed uno stupido, come sua signoria mi riesce in questo suo libro.

[647] L’opera poi è divisa in cinque discorsi recitati nell’accademia di Pesaro in tempo di carnevale. Accademici di Pesaro, non lasciate più recitare nelle vostre carnevalesche adunanze delle sciempiaggini di questa sorte.

Il primo di questi Discorsi l’autore lo comincia con questa bella lode agli accademici ed a sè stesso. Niveau 5► Citation/Devise► « Bene e saggiamente divisaste allora quando vi piacque di darmi il carico, gravoso forse a più d’uno, di ridurre a sistema i fenomeni della Seccatura, che tanta influenza ha sulle cose dell’alto mondo. Qualche riprova che dato avevo delle mie cognizioni in questo genere, giustifica il vostro giudizio ». ◀Citation/Devise ◀Niveau 5 Quindi paragonando la Seccatura alla peste, ne numera bellamente i mali. Niveau 5► Citation/Devise► « Mettete a morte il Seccatore (sentite che faceti capricci!), e mentre muore vi secca. Nel gabinetto vi secca la pace, ne’quartieri vi secca la guerra. Seccano i progressi; secca vieppiù il far niente. Secca l’ignoranza, ed oggi giorno seccano ancora le lettere. Sonovi seccature straniere

Gallo-ispano-anglo-italico-tedesche
Greco-barbaro-persico-turchesche ». ◀Citation/Devise ◀Niveau 5

Indovini Grillo che diavolo si voglia dire con questi pazzi versi, o con la seguente stolta osservazione. « E sin dalla China ne sono venute (delle Seccature) per gri-[648]mire l’arsenal seccatorio, onde i residui del nostro umido radicale venissero consumati con lusso, concorrendovi ancora gli Antipodi ».

Metatextualité► Eccovi leggitori, un piccol saggio della giocondezza di mente di L. Antisiccio Prisco, probabilmente Pastor Arcade, che per caratterizzarsi vieppiù per insulso e per melenso, adopera anche come ingredienti di lepidezza i vocaboli di « Protemptico, d’Epibaterio, di Soteria, di Diagnosi, di Prognosi, di Gamelie, di Singrafe, d’Antigrafe » e simili. Ma se v’aspettaste, leggitori, ch’io volessi perder il tempo a dirvi pure alcuna cosa degli altri quattro Discorsi, v’ingannate per mia fè. ◀Metatextualité

Montefiascone, li 17 marzo 1764.

Il Capitolo che v’acchiudo, Aristarco mio, pare, all’argomento, che sia stato scritto molti secoli fa, non usandosi più in questo nostro morigeratissimo secolo operar così male come si usava anticamente. Se vi tornasse in acconcio il servirvene per riempiere qualche parte d’un vostro Numero, gli è al vostro comando egualmente che l’autore, che si chiama e si chiamerà sin che campa.

Vostro servitore
Scardasso degli Scardassi

[649] Niveau 5► Citation/Devise► A me non men che a te, compare mio,

Pesa la povertade, e se potessi
Nelle dovizie guazzerei anch’io;

E non dispiacerebbemi se avessi

Case, campi, giardini e servi e paggi,
Cavalli, muli, carrozze e calessi;

Chè avrei allor fra gli altri be’vantaggi

Versi eleganti in lode, e prosa colta
Da’letterati in quattro o sei linguaggi.

Si sa che per quattrini questa stolta

Genia si metterebbe a celebrare
Il boja che gli impicchi a tre per volta.

D’oscenità sarebbe un bel parlare

Con molti ben vestiti cavalieri,
E meco avrei sovente a desinare

Bari da carte, abati, avventurieri,

Filosofi, pittori e cantatrici,’
O. . . . . , e M. . . . .

Per farmi venerar da’miei amici

Direi con voce enfatica al mio cuoco:
Tu sei divino in arrostir pernici.

Tosto che Febo cede a Cinzia il loco

Avrei ne’luminosi appartamenti
Il concerto, i rinfreschi, il ballo, il giuoco;

Ed a tanti ineffabili contenti

Porrei l’ultimo colmo con trovarmi
Un’A . . . . in braccio a lumi spenti.

Convincerei il mondo che so farmi

Al par d’ogn’altro della roba onore.
Che vorrei sino agli occhi indebitarmi,

E se mercante, beccajo, o sartore

Da cupidigia o da bisogno indutto
[650] Di domandarmi un soldo avesse il cuore,

Saprei ben io mostrargli il viso brutto,

O strapazzarlo, oppur dargli parole
Da non cavarne mai alcun costrutto.

Sempre in contado quando in Cancro è il sole

De’miei castaldi a svergognar andrei
Le mogli, le sorelle e le figliuole.

E perchè so che lo studio amerei,

Di libri ben legati in marrocchino
Una biblioteca anche vorrei.

Vorrei l’opere aver dell’Aretino

Quel modesto teologo de’cani,
Che da sè stesso si chiamò divino;

E vorrei quegli autori oltramontani

Che parlan come bestie del Vangelo,
E l’Indice n’avrei dall’ . . . .

E que’balordi, che di sciocco zelo

Fiammeggian sempre, e che co’loro scritti
Vorrebbono mostrar la via del cielo,

Polverosi in un canto e derelitti

Starebbon tutti, o, per me’dir, sarieno
Dagli scaffali miei tutti proscritti,

Che non vorrei esser tenuto in freno

Da quella lor morale, che ti stiva
Di fumi il capo, e d’ipocondria il seno.

Vivre’ in somma una vita allegra e attiva

Senza mai darmi il minimo pensiere
D’onor, di morte, o d’altra cosa schiva.

Ma se la direttrice delle sfere,

Che sorte è nominata da’profani,
Non mi volle a battesimo tenere;

Se de’beni che chiamansi mondani

[651] Mostrarsi mai non volle a me cortese
M’ho per questo a scannar con le mie mani?

Oh, perchè don Gregorio non m’apprese

A furia di solenni staffilate
Gli elementi dell’arti del paese!

Se quel buonuom nella mia prima etate

Invece de’gerundj e de’supini
Le vie del mondo avessemi insegnate;

Se modellati i miei pensier bambini

Avesse differentemente, oh quanti
Nelle tasche m’avrei scudi e zecchini!

Ma secondo il costume de’pedanti

La testa egli mi volle empier d’idee
Veramente bislacche e stravaganti,

E ammirator d’antiche usanze ree

Solea chiamar l’usanze d’oggigiorno
Anticristiane, eretiche, o giudee.

E in qualche tema di sentenze adorno

Mi dettava che il vizio sempre porta
Un corno in testa come il Lioncorno;

E che da traditor dietro una porta

S’asconde, e dà cornate a chi vien drento,
E molta gente ha sbudellata e morta.

Che la virtù con un manto d’argento,

E lieta in viso come una regina
Saggio rende ciascun, ricco e contento.

Che a chi va per istrada la mattina

Con questa bella donna in compagnia
Ognuno cede il muro, ognun s’inchina.

In somma con più d’un allegoria

[652] Su questo andare il primo mio maestro
Ahi mi contaminò la fantasia!

Di modo che, nel cominciar l’alpestro

Cammino della vita, il mio cavallo
Non curò briglia o spron, frusta o capestro;

Ma galoppò quand’io volea fermallo,

O si fermò s’io galoppar volea,
O inalberossi, o pose un piede in fallo.

In mal punto a me poi venne la Dea

La quale in diebus illis fe’cantare
Achille a Omero, ed a Virgilio Enea.

E sorridendo, e con dolce parlare

Mi disse: o giovinetto, se tu vuoi
Venire in Pindo a scrivere in volgare,

Il nome che ti diero i padri tuoi

Io farò che risuoni eternamente
Qui da Montefiascone ai Lidi Eoi.

Il suon di quella voce sì piacente,

E la speme de’premj insidiosi
Mi scosse il cuor così possentemente,

Che pieno di pensieri baldanzosi,

Senza riguardo alcun sulle vestigia
Di quella lusinghiera i piedi posi.

Ebbi d’allora in poi sempre ingordigia

Di rendermi famoso in quelle parti
Lontane tanto dalla sponda stigia.

Nè mi curai d’apprendere quell’arti

Che nell’aureo palagio di fortuna
Sfacciate si millantano di trarti.

E specialmente trascurai quell’una

La qual con tanto studio è coltivata
Dove comune teco ebbi la cuna,

[653] Che da que’che la Crusca hanno studiata

Si suole nominar vigliaccheria,
Ma che da noi prudenza è nominata,

Di qui avvien che se un goffo in poesia

Presume dar giudizio d’un sonetto,
Tre contr’un che gli dico villania.

Se una dama si scuopre troppo il petto,

O se per imitare le Francesi
S’imbratta le mascelle col belletto,

Almen con gli occhi di disdegno accesi,

Se non colle parole, disapprovo
Le mode strane degli altri paesi;

E di repente ad ira mi commuovo

Se in mia presenza un asinaccio tristo
La bocca pon nel Testamento Nuovo.

E se un ignobil ricco mi vien visto

Di cordoni e di nastri decorato,
Fatto d’un feudo o d’una croce acquisto;

Se gentiluom vuoi essere stimato

(Gli dico) la natìa bassezza lava
Con opre buone, e con trattar garbato;

Nè aver del nuovo grado troppa fava

Quando vedi a tuoi giorni . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

L’avaro, l’invidioso, il bacchettone,

L’arrogante, lo sciocco, e l’impostore
O taglio in pezzi, o almen metto in canzone;

Ed al mestiero dell’adulatore,

Quantunque sia mestiero da poeta,
Mettere mai non ho potuto amore;

Anzi ebbi sempre una foja indiscreta

D’accoccarla a que’grandi che di vizio
[654] Si veston più che d’oro e che di seta.

E la scrofa del nostro almo Fabbrizio

Onoro sempre con la rima in ana
Per potermelo rendere propizio;

E faccio a que’ la guardatura strana

Che godono parlar del peccadiglio
Della scostumatissima . . . . . .

Nè per la mano stringo mai famiglio;

Mezzano, o druda, acciò che mi procuri
Dal padron lauta mensa, o lieto ciglio.

Prego lo sciuppatore che misuri

Le spese e che non tocchi il capitale
Se quell’eredità vuol che gli duri;

Dico al Zerbino tutto sfoggi e gale,

Tutto immischiato, e tutto inzibettito,
Che il suo fetore al capo mi fa male;

E s’uno affetta di parlar forbito,

Fingo di non intender quel che dice,
O l’interrompo, o chieggo se ha finito:

E s’una moglie mette la cornice

Al quadro del marito, le racconto
L’iniquo fin di qualche meretrice.

In conchiusione sono sempre pronto

A fare ad ogni razza di canaglia
Un dispetto, un rabbuffo ed un affronto;

E in atto d’uom che acchiappa, fora e taglia,

Contra i cattivi e i pazzi ho sempre in pugno
La forbice, il coltello, o la tanaglia.

Or se così contra le usanze pugno

De’cari miei concittadini, come
Vuoi che la sorte mi rivolga il grugno?

Altro vi vuol perch’ella dia le chiome,

[655] Che un verso giusto ed un’esatta rima,
E che nominar tutto col suo nome.

E prima ch’io cangi sistema, prima

Ch’io pieghi, piegherannosi gli antichi
Cerri che stanno all’Apennino in cima.

Però, compare mio, se tu nutrichi

Di vedermi arricchir la speme vana,
Oh tu vaneggi, è forza ch’io tel dichi,
E mal conosci la natura umana! ◀Citation/Devise ◀Niveau 5

Metatextualité► La seguente oderella è fattura di quella Cecca R. di cui ho registrata una non lunga lettera nel sesto Numero. Questi sono i primi versi che ha composti; e siccome scorgo in essi della facilità e dell’affetto, accondiscendo a stamparglieli, sperando che presto mi manderà qualche cosa di più importanza. ◀Metatextualité

Niveau 5► Citation/Devise► Al Sonno

Vieni, o nume del riposo,

Vieni in questo cor doglioso,
E ne’tuoi abbracciamenti
Scordar fammi i miei tormenti.

Care larve, a me volate,

E soave inganno fate
A’trist’occhi, al tristo core,
Somigliando al mio pastore.

Mi ripeta il mio fedele

Quelle tenere querele
Che di gaudio e di diletto
Tanto un dì m’empíano il petto.

[656] Ma da un sogno lusinghiero

Trista me! qual gaudio spero,
Se poi quando l’alba riede
Vieppiù vivo il duol mi fiede!

Nel tornar l’invida luce

Il mio ben via si conduce,
E col sonno, oh luce ingrata,
Vola via l’immago amata!

Se sperar desta non lice

Sol per poco esser felice,
Ah de’miei trist’occhi donno
Fatti sempre, o Dio del sonno! ◀Citation/Devise ◀Niveau 5 ◀Hétéroportrait ◀Niveau 4 ◀Niveau 3

Supplemento

A Retindo Misotolma, che mi scrive que’rabbiosi versiculi latini, non ho altro da dire, se non che l’Italia d’oggi abbonda un po’troppo di questi Retindi Misotolmi, che si credono poeti magni tosto che sanno avviluppare in qualche canagliesca frase latina o italiana qualche ingiuria grossolana e bestiale. Tirando però innanzi qualche anno colla Frusta, spero mi riuscirà di sminuire alquanto il numero di tali scioperati ribaldi. Intanto sarò obbligato al signor Retindo Misotolma se riverirà divotamente in mio nome il signor Sabinto Fenicio suo degnissimo collega.

Don Petronio Zamberlucco riverisce distintamente il celebre, impareggiabile ed [657] immortale signor Sofifilo Nonacrio pastor arcade, e lo supplica d’illuminare il mondo con qualch’altra sua bell’opera; vale a dire con una sua seconda lettera in biasimo delle gambe di legno, poichè tutte le copie della prima si sono tutte vendute a un terzo di bajocco ciascuna.

N.B. Macouf vuol essere anch’egli Pastor Arcade.

A quel signore, che ha mandato quel libro di Capitoli Bernieschi Manoscritti, Aristarco torna a dire che non li vuole accettare se non col patto di poterli correggere a suo modo dappertutto dove lo giudicherà a proposito. Non è vero poi che l’oda Felice l’uom che amante, sia fattura di quel Sere nominato nella lettera de’4 d’aprile; e se quel Sere lo assicura, assicura una bugìa. L’autore di quell’oda è una giovane dama di Bologna, che non vuole ancora farsi conoscere per quella valente poetessa che presto sarà. I prefati capitoli si rimanderanno a chi li ha mandati caso che la condizione proposta d’Aristarco non venga accettata. Gli è vero che sono per la più parte assai buoni, ma v’è qua e là qualche cosa, che non piace intieramente ad Aristarco; e specialmente qualche frizzo di satira troppo vivace pel secolo in cui si vive.

N. B. Avrei molto caro sapere da’si-[658]gnori Albertini stampatori in Rimini, chi sia quello sciocco di cui hanno stampato un sonetto col mio nome, onde poter insegnare a sua signoria qual differenza passi tra gli uomini e i scimmiotti. ◀Niveau 2 ◀Niveau 1