Référence bibliographique: Giuseppe Baretti (Éd.): "Numero XIII", dans: La Frusta letteraria di Aristarco Scannabue, Vol.3\13 (1764), pp. 532-576, édité dans: Ertler, Klaus-Dieter / Fuchs, Alexandra (Éd.): Les "Spectators" dans le contexte international. Édition numérique, Graz 2011- . hdl.handle.net/11471/513.20.950 [consulté le: ].


Niveau 1►

N.o XIII

Roveredo, I aprile 1764.

Niveau 2► Metatextualité► La lingua francese ha omai tanti amatori in Italia, che spero non sarà discaro a buona parte de’miei leggitori il trovare in uno di questi miei fogli una lettera tutta in quella lingua. La mia risposta in italiano farà capire la proposta a chi non sa il francese. ◀Metatextualité

Niveau 3► Lettre/Lettre au directeur► « Monsieur Aristarque. Je suis un Étranger qui désire de se perfectionner dans la langue italienne, que j’aime plus que toutes les autres langues d’Europe après la mienne. Je l’ai beaucoup étudiée et je me flatte de ne l’avoir pas fait sans succès. Cependant il me reste quantité de doutes et de difficultés, dont je ne trouve nulle part une soluton satisfaisante. Vôtre Frusta Letteraria m’est tombée depuis peu entre les mains, et j’ai cru y remarquer une critique si judicieuse du mauvais stile, et en même tems une manière d’écrire si simple, si claire, si coulante, et si nette, qu’il me semble ne pouvoir mieux faire que m’adresser à vous pour parvenir au but que je me suis proposé en venant en Italie. J’ai lu nombre d’Ouvrages sur la langue italienne: mais il faut avouer que si les règles qu’ils renferment pour l’exactitude et la pureté de la langue sont vraies, il y a bien peu d’Italiens qui parlent correctement, puisque leur langage [533] dément à tous momens ces mêmes règles. « Lei mi dice. Lui ha fatto. Acciocchè possi. Purchè abbino. Quando venirà, ec. » Voilà ce que j’entends dire à chaque instant. Il est vrai que ces fautes sont plus rares dans les livres; mais en revanche il s’y rencontre des termes et des facons de parler si extraordinaires, qu’à l’aide même de tous les dictionnaires il n’y a presque pas moyen de les déchiffrer. Comment déviner en effet cette quantité d’énigmes et de logogriphes dont fourmillent les Cicalate dans les proses florentines, et de tant de rebus qu’on prétend faire servir d’ornement à des Ouvrages très-serieux? Que veulent dire par exemple ces expressions « Dare la madre d’Orlando. Restar in Nasso. Dar le trombe. Andar a Babboriveggoli. Far la festa di s. Geminiano. Far conto che passi lo imperadore. Far lo gnorri. Saper a quanti dì è s. Biagio. Parer il Secento. Giuocare co’mammagnuccoli. Aver pisciato su più d’un muricciuolo. Aver cotto il culo ne’ceci rossi. Aver dell’Ognissanti. Dire manco che messere. Beccarsi il cervello a isonne e a fanfera. Far venir del cencio a isonne » et tant d’autres, dont je pourrois vous fournir une liste très longue? Si ces manières de parler sont bonnes, pourquoi ne vous en servez-vous jamais? Et si elles sont [534] mauvaises, pourquoi des auteurs graves les emploient ils dans leurs compositions? De grace, grand Aristarque, apprenez aux étrangers à connoître la vraie langue italienne. Expliquez-nouz comment vous vous y êtes pris pour vous faire un stil aussi simple et aussi naïf que celui de vos feuilles? Où parle-t-on la langue dans la quelle vous écrivez? Et quels sont les auteurs que vous avez étudiés pour éviter l’affectation, et vous rendre aussi intelligible que vous l’êtes? Si vous ne jugez pas à propos de nous éclairer sur tous ces articles, au moins donnez vous la peine dans vos feuilles périodiques de particulariser un peu plus vos critiques sur le mauvais stile; d’entrer dans le détail des fautes que vous reprenez d’un manière un peu trop générale, et enfin de substituer le bon qu’il faut suivre au mauvais qu’on doit rejeter. Si de pareilles observations ne serviront pas à corriger les écrivains de votre païs, vous aurez du moins la satisfaction d’avoir rendu un service essentiel aux amateurs étrangers, qui vous en sauront un gré infini.

Vôtre ec. Aristophile. » ◀Lettre/Lettre au directeur ◀Niveau 3

Niveau 3► Lettre/Lettre au directeur►

Risposta d’Aristarco ad Aristofilo.

Niveau 4► Signor mio. Pur troppo è vero che quasi tutti i nostri parlatori, e non pochi de’nostri odierni scrittori sgrammaticano assai, massime quelli che non sono nativi di Toscana. Sapete perchè? Perchè sono ignorantacci, che vogliono parlare e scrivere quando non dovrebbero fare nè una cosa nè l’altra. Non so darvi su questo punto una meglio ragione. Que’modi poi da voi notati nelle cicalate e che a voi pajono enimmi e logogrifi, sono modi usati da battilani, da’trecconi, da’pesciajuoli, da beccai, dalle sgualdrine, e da altra simil gente di Firenze e de’suoi contorni. I nostri Lippi, i Minucci, i Biscioni, i Salvini, i Bellini, e cent’altri scrittori di Toscana hanno ammirati que’canaglieschi modi, e li hanno sparsi per le loro opericciattole, e gli accademici della Crusca li hanno ficcati nel loro Vocabolario. Sapete perchè? Perchè que’si-[536]gnori e quegli accademici nel loro modo di pensare avevano del plebeo in buondato, per dirvela con una delle loro fiorentinerie. Il mio modo di scrivere io vi dirò, signor mio, ch’io non l’ho imparato nè da’Fiorentini nè da alcun’altra nazione d’Italia. Ho letti da fanciullo e da giovane tutti quegli autori comunemente da noi chiamati di Crusca, o se non tutti la maggior parte, come anche molte centinaja di quelli che non sono di Crusca. Così mi sono copiosamente provvisto di vocaboli e di frasi. Leggendo quindi gli autori della vostra nazione, e que’d’Inghilterra, e notando il loro schietto e natural modo d’esprimersi, senza trasposizioni, senza raggiri di frase, senza la minima leccatura di periodi, mi parve bene di scrivere nella mia lingua com’essi scrissero nella loro, sempre ridendomi di chi loda e raccomanda l’imitare lo stile del Boccaccio, e sempre fisso in questa opinione, che la lingua adoperata dal Boccaccio sia per lo più ottima, e il suo stile per lo più pessimo. Non so quale sarà l’opinione de’posteri intorno a questo mio stile. All’universale de’miei coetanei pare che non dispiaccia, se devo credere a’troppi corrispondenti che questa mia Frusta m’ha procurati. De’nostri autori non ve ne posso raccomandar troppi come modelli di buono stile. Il Segretario fioren-[537]tino, e il Caro sono i due ch’io stimo più da questo canto; pure quel Segretario abbonda troppo di parentesi, e il Caro non è sempre uguale. Il Redi ha scritto con chiarezza, ma gli manca forza e armonia. Alcune lettere del Salvini mi piacciono assai, ma i suoi discorsi e altre cose sue mi seccano. A tutti i nostri cinquecentisti ho troppo che apporre, e specialmente a’Boccacciani. Non posso sopportare il Galateo del Casa, quantunque il Casa appunto per quel Galateo sia da’miei paesani riputato un degno rivale di Cicerone stesso; e credo che mi dispiaccia perchè troppo s’assomiglia nello stile a Cicerone, fraseggiando alla latina. Degli odierni toscani il solo Cocchi ha uno stile quasi perfettamente buono. Tutti gli altri non sanno cosa sia stile. S’avvicina pure al perfetto lo stile d’un conte Gasparo Gozzi in Venezia, e quello d’un certo giovane professore di Padova, di cui ho viste molte lettere manoscritte: ma perchè non ha ancora stampato alcun libro, non ve lo nomino. In Piemonte e in Lombardia non conosco alcun autore che scriva per eccellenza in prosa. Due o tre scrivono in versi assai bene. Gli autori romani e napoletani scrivono tutti male; dico sempre riguardo allo stile. Questo ragguaglio non vi parrà troppo onorifico a questa mia cara patria; ma s’ha egli a [538] dire delle bugie per far onore alla cara patria? L’estendermi poi, come mi consigliate, in più minute critiche sullo stile degli autori che vado ficcando nella mia Frusta, ne renderebbe la lettura nojosa alla maggior parte de’miei leggitori, onde non lo posso fare. Lo so anch’io che facendolo gioverei a’forestieri che la leggessero, ma questi son troppo pochi, ed io voglio scrivere pe’molti e non pe’pochi. Mi sono già tanto esteso in più luoghi sul fatto dello stile, che l’accennatovi professore di Padova me n’ha biasimato, onde poco più ne dirò in avvenire. Sono sans complimens.

Vostro ec. ◀Niveau 4 ◀Lettre/Lettre au directeur ◀Niveau 3

Niveau 3►

Del baco da seta, Canti IV con annotazioni di Zaccaria Betti. In Verona 1756, in 4.o

Non solamente la natura ha dato a tutte le nazioni l’istinto di conoscere quanti piedi e quante sillabe abbisognano perchè ciascuna formi versi convenevoli alla sua lingua, ma ha altresì benignamente suggerito loro il modo di legare tali versi con piacevolezza insieme. La natura fu, che additò a’Greci ed a’Latini come loro principal verso il verso esametro, agl’Italiani ed agli Spagnuoli l’endecasillabo, ai Francesi l’alessandrino, agl’Inglesi il [539] decasillabo, e ad altre genti altre forme di versi adattissime ai parlari loro. Essa fu, che fece dall’un canto fuggire ai Greci ed ai Latini quelle rime che rendono sì musicale la poesia di Toscana, e che dall’altro insegnò a’Toscani a schivare quelle catenelle di dattili e di spondei, che rendono tanto armonico e dignitoso il legato sermone de’Latini e de’Greci. Quindi è, che barbari furono chiamati que’tempi, ne’quali gli uomini, non dando più retta alla voce della natura, si fecero a rimare la lingua latina a dispetto dell’indole sua natia, e che barbari a giusta ragione si dovrebbono altresì chiamare quelli, i quali, a dispetto della natura volessero verbigrazia ridurre l’italiana in esametri, la francese in verso sciolto, la spagnuola in alessandrini, l’inglese in isdruccioli, ed altre simili poetiche scelleraggini commettere. La natura disse in diebus illis ai poeti latini, ecco che oltre al verso esametro io vi regalo anche il pentametro. E que’poeti subito posero quel pentametro dietro l’esametro. Ma perchè mai que’poeti non posero il pentametro dinanzi all’esametro in que’loro componimenti formati di tanti distici uno dietro l’altro. Perchè? V’è egli forse una ragione fisica, la quale proibisca il cominciare un distico latino dal pentametro nè più nè meno che dall’esame-[540]tro? Niveau 4► Exemplum► Ovidio, per esempio, fece dire da Enone a Paride.

Niveau 5► Citation/Devise► Me miseram quod amor non est medicabilis herbis.

Destituor prudens artis ab arte mea,

Non poteva mo Ovidio far dire ad Enone

Destituor prudens artis ab arte mea:

Me miseram quod amor non est medicabilis herbis? ◀Citation/Devise ◀Niveau 5 ◀Exemplum ◀Niveau 4

Forse che il pensiero non sarebbe stato lo stesso? Forse che il senso sarebbe stato diverso? Il pensiero e il senso, gentilissimi signori, sarebbono stati esattamente gli stessi tanto nel secondo modo quanto nel primo; ma una voce interna avrebbe gridato ad Ovidio: Che razza di verseggiare è questa tua? Perchè, fai tu contro l’indole della tua lingua? Perchè sciocco, metti tu il pentametro prima, e l’esametro dopo? Non senti tu che mal effetto questo fa? Dove hai tu gli orecchi? Dove hai tu l’anima, Ovidio mio?

Così, Metatextualité► leggitori miei, ◀Metatextualité così sgridando avrebbe la natura parlato a Ovidio in tal caso; e se Ovidio avesse caparbiamente risposto: Io mo voglio far così non essendovi ragion fisica per cui m’abbia a fare il contrario, e voglio mettere il pentametro innanzi, e l’esametro dietro, la natura l’avrebbe certamente punito di tale sua stolta caparbietà, con suggerire a’leggitori di non leggere i versi d’Ovi-[541]dio; ed essi avrebbero ascoltati e seguiti i di lei suggerimenti. Supponghiamo ancora, Metatextualité► donne mie belle, ◀Metatextualité che il vostro caro Metastasio, invece di frammischiare ne’suoi recitativi il settesillabo all’endecasillabo, come giudiziosamente fece, avesse fatto un impasto d’ottosillabi e d’endecasillabi, vi pare che avrebbe fatto bene? Metastasio poteva, per esempio dire

Niveau 4► Exemplum► No: t’inganni. Un’alma grande

È teatro a sè stessa. Ella in segreto

E si approva, e si condanna;

Sempre placida e sicura

Del volgo spettator l’aura non cura. ◀Exemplum ◀Niveau 4

Il primo, il terzo, e il quarto di questi versi, Metatextualité► come vedete, donne mie, ◀Metatextualité sono ottosillabi che hanno i debiti accenti. Ma che brutto effetto non fann’eglino costì! Che spiacevoli botte non danno al timpano degli orecchi! Eppure il sentimento contenuto in questi cinque versi è lo stesso stessissimo che quello chiuso in questi altri.

Niveau 4► Exemplum► T’inganni. Un’alma grande

È teatro a sé stessa. Ella in segreto

S’approva e si condanna;

E placida e sicura

Del volgo spettator l’aura non cura. ◀Exemplum ◀Niveau 4

Or ditemi, signori miei, e mel dica il più filosofico poeta del mondo: perchè mai questo passaggio del Metastasio sta bene, com’egli ha fatto in questo secon-[542]do modo, e perchè starebbe malissimo se l’avesse fatto in quel primo? Non mi si può risponder altro, se non che l’imperiosa natura vuol così, comanda così. Vuol che l’ottosillabo e l’endecasillabo non s’accostino mai l’uno all’altro sotto pena di guastarsi scambievolmente, e d’esser vilipesi entrambi, quantunque dicessero così congiunti cose bellissime, cose singolarissime, cose sublimissime. E quello che la natura vuole e comanda che si faccia, quello assolutamente bisogna fare, anche quando ella non si vuole compiacere di darci del suo comando una ragione visibile e palpabile; una ragione sull’andare delle ragioni geometriche dimostrativa e convincentissima. Bisogna ubbidirla, e non cercar più in là; e non lusingarsi che il lasciar lei, e far ricorso all’arte ne voglia valere un’acca. L’arte può qualche volta, ajutata dall’ignorante moda, far sì che un poeta suo divoto viva qualche breve spazio; ma un lungo spazio non potrà farlo viver mai. Chi lascerà la natura per seguir l’arte, annojerà o tosto o tardi le brigate, e la fatica fatta in poetare sarà presto perduta. La moda, e talora il capriccio, farà bene che un certo numero di gonzi ammiri quel nuovo artifizioso meccanismo di que’versi; o qualche pedante si troverà, che esorterà le genti a uscire della via comune, e a lavorare dei [543] componimenti poetici col nuovo artificioso meccanismo. Pure la natura, che è inesorabile quando s’incapa, farà o tosto o tardi tombollare nel fiume di Lete quei poetici componimenti così artificiosamente fatti, malgrado tutti i gonzi, e malgrado tutti i pedanti dell’universo. Tale sarà il destino di chi in italiano frammischia per esempio gli sdruccioli e i tronchi d’ogni numero di sillabe a versi senza sdrucciolatura e senza troncatura; e di chi spruzza rime qua e là come gli torna più comodo: e di chi fa un terzetto o un quadernario, e poi v’appicca una coda a modo di quelle de’sonetti codati; od in somma di tutti quelli che cercano stoltamente farsi belli con questa o con quell’altra bisbetica singolarità nella materiale struttura delle sue poetiche composizioni. Eh l’intendano una volta questi balordi, che la poesia non consiste nel variare il materiale, cioè il metro del verso e della strofe, e nell’inventare stravaganti accoppiamenti di versi schietti con versi sdruccioli o con versi tronchi, ma sibbene nel variarne il sostanziale, cioè i pensieri e i sentimenti, e nel dire cose naturali, cose belle, cose grandi, cose molte, con semplicità, con forza, con entusiasmo. E questo è tanto verissimo, che una delle qualità che contribuiscono a rendere l’epica poesia più rispettabile [544] d’ogni altra, è appunto l’uniformità de’suoi materiali. Se l’Ariosto o il Tasso, per esempio, avessero fatta ora una stanza sdrucciola ed ora una tronca; ora una di quattro ed ora di sei versi, e se avessero per conseguenza così distrutta l’uniformità del loro materiale, i poemi loro non sarebbono leggibili. E non è da dire che il filo delle favole loro l’avrebbono que’grandi ingegni potuto pur conservare. Se Virgilio avesse nell’Eneide cucito ora un Asclepiadeo, ora un Saffico, ora un Pentametro, oh come varia l’Eneide sarebbe riuscita! Ma se Virgilio fosse stato colpevole di questa matta varietà, e’si sarebbe per certo fatto fischiar via dalla casa di messer Mecenate. Perchè, gli avrebbono detto sino i lacchè di quel buon signore, perchè quest’arte sciocca? Perchè questa mancanza di costante uniformità? Perchè non far esametri tutti i tuoi versi, secondo l’indole della tua lingua, che non soffre in un poema epico latino di queste bislacche mescolanze? Vattene via di qui, goffo mantovanaccio, vanne a imparare che senza uniformità ne’materiali l’Eneide non può esser buona a nulla; vanne via, che invece di farne una toga alla romana tu n’hai fatto un abito da Arlecchino. Virgilio, che era ubbidiente alla voce della natura, si conformò senza farselo dire due volte all’in-[545]dole della sua lingua e poesia, e infilzò esametri a centinaja uno dopo l’altro senza stancarsi, contentandosi di solamente andarne variando i piedi, mettendo ora lo spondeo dinanzi al dattilo, ed ora il dattilo dinanzi allo spondeo; e con tale solennissima uniformità si è meritato un mecenate in ogni leggitore. L’Ariosto e il Tasso anch’essi, che erano due galantuomini amici della loro lingua e della loro poesia, dietro ad un’ottava ne scrissero un’altra, e poi un’altra, contentandosi di variare le rime, e tratto tratto qualche accento, qualche posatura qui e qua; e così facendo divennero la delizia non meno che la superbia principale della loro Italia. Se avessero, come dicevo, variati i loro versi, o le loro strofe, o scritto in verso sciolto o in verso sdrucciolo, o trovata qualche altra simile bislaccheria, chi si dorrebbe con Bradamante e con Erminia? Chi vorria bene a Ruggiero e a Tancredi? Lo stralunato Paladino e l’impavido Argante potrebbono farne de’be’colpi di spada! A nessuno sarebber più noti di quel che lo sieno que’de’nostri Ferraresi schermidori al gran cane di Tartaria o all’imperadore d’Etiopia; e in somma nessuno baderebbe nè alla bella Gerusalemme, nè al divino Furioso.

Metatextualité► Ora vedete, leggitori, che largo giro [546] io ho voluto fare per venir d’improvviso a dare una picchiata sul capo a quel traditore del verso sciolto. Come, dirà qui taluno di voi, come? Vuoi tu forse, Aristarco, venirci a provare che il verso sciolto non è verso insegnato agl’Italiani dalla natura? Verso nato dall’indole della nostra lingua? Verso suscettibile d’ogni maggior bellezza poetica? Verso in somma atto a rendere immortale immortalissimo qualsisia nostro poeta, quanto il verso rimato?

Illustrissimo, no, rispondo io a quel taluno di voi; illustrissimo, no. ◀Metatextualité Il verso sciolto è un verso inventato dall’arte, e non dettato dalla natura della nostra lingua, e non suggerito dall’indole della nostra poesia. Se il verso sciolto fosse naturale alla nostra lingua, se fosse, dirò così, figlio dell’indole della poesia nostra, i nostri poeti l’avrebbero trovato almeno due secoli prima che nascesse il Trissino suo inventore. Que’nostri primi poeti l’avrebbero trovato senza studio e senza fatica, come senza studi e senza fatica trovarono le rime, perchè la natura della lor lingua e l’indole della poesia loro l’avrebbero ab initio suggerito loro, come lor suggerirono le rime senza che si tormentassero il cervello a cercarle. Niveau 4► Exemplum► Il bell’onore che si fece quel Trissino a introdurre questa poltroneria di questo verso [547] sciolto nella sua contrada! ◀Exemplum ◀Niveau 4 La poesia nostra ha veramente fatto un maraviglioso acquisto acquistando questa sciempiaggine del verso sciolto! Sia però ringraziata [548] la natura, la quale ci rende avversi al leggere quella stucchevole tiritera di quella sua Italia liberata; che ci ha omai fatta scordare l’esistenza delle Sette Giornate del Tasso; che appena ci lascia scorrere una o due volte in vita nostra la Coltivazione dell’Alemanni, e l’Api del Rucellai; e che ci proibisce di leggere la Canapeide, e la Riseide, e molt’altre versisciolterie in Eide, sotto pena d’una noja maledetta. E il Caro ringrazi le tante intrinseche bellezze degli esametri virgiliani se qualche volta accondiscendiamo a leggere un libro intiero della sua Eneide versiscioltata. E qualche moderno poeta, come sarebbe a dire il conte Gasparo Gozzi, e l’abate Parini, ringrazino sè stessi che sono stati giudiziosamente brevi ne’loro Sermoni, e ne’loro Mattini. Senza la loro brevità nè i Mattini loro, nè i loro Sermoni sarebbono da noi letti con piacere, anche a dispetto di quelle belle [549] e buone cose di cui sono stivati anzi che riempiuti.

Niveau 4► Hétéroportrait► Ma che domine diremo noi di questo versiscioltajo da Verona, che ha scritto questo poema del Baco da seta con le Annotazioni? Ohimè! Poco bene se ne potrebbe dire, se foss’anco scritto in rima! Troppo tisica è questa sua poesia, e non v’è modo che possa vivere lungo tempo. Morrà presto, come appunto muore il baco, e come presto muojono le versisciolterie troppo lunghe di tutti i trissinisti. Il signor Zaccaria Betti comincia questo suo poema con questi versi.

Niveau 5► Citation/Devise► « Qual opra voglia l’arboscel felice

Che l’esca porge a’più fecondi insetti;

E qual di questi aver cura, e a’lor morbi

Qual convengasi aita, onde ritrarne

Delle fatiche loro il frutto, io canto. » ◀Citation/Devise ◀Niveau 5

Cattivo quell’Io canto in punta a questo lungo ed intralciato periodo. Ma come diavolo si cantano i versi sciolti? Al suono di quale stromento? Del plettro forse? Di quell’eburneo plettro che quella benedetta Euterpe del signor Frugoni ha sempre al collo, e massimamente quando reca alle spose ghirlande di fiori spiranti eterno chiabreresco odore? Ah miseri versiscioltai, sappiate una volta che i versi sciolti non sono cantabili, e che è assurdo il dire: io canto cosa che non è cantabile. Supponghiamo tuttavia che que-[550]sta sorte di versi si potesse pur ajutare con qualche sorte di musica, come faremo, signor Zaccaria Betti, a renderne suscettibile questo vostro prosaico e durissimo verso.

E qual di questi aver cura, e a’lor morbi? Vi pare che questo sia verso da essere onorato dal Gesolreutte o dal Feffautte? E vogliam noi dire che si potrebbono in qualche modo cantare questi altri ch’io leggo nel vostro primo canto:

Niveau 5► Citation/Devise► Ed ei non pianse, sì dentro impetrò.

Vengon onde veloci a cader giù.

Spinta dal duolo giù precipitò? ◀Citation/Devise ◀Niveau 5

Ohibò, ohibò, ohibò! Se volete fare de’versi sciolti, signor Betti, fattene col nome del cielo à vôtre péril et risque, come dicono i legali francesi; ma non gl’intralciate mai di tronchi, perchè un solo verso tronco basta a guastare dieci mila versi sciolti, appunto come una mela marcia ne guasta un mucchio di buone.

Ma se il signor Betti non mi va a sangue dicendo che canta quello che non si può cantare nè al suono del plettro, nè al suono della chitarra, egli mi nausea poi con questa sua fanciullesca invocazione:

Niveau 5► Citation/Devise► « Il novello poeta, o caste suore,

Ancor non uso a’villerecci carmi

Delle dolci d’Ascrea acque aspergete:

E tu, bella d’Amor vezzosa madre,

[551] Or che d’opra a te sacra i carmi sciolgo,

Vienne il crin cinta dell’amato gelso

Con le tue grazie, e dà forza alle muse. » ◀Citation/Devise ◀Niveau 5

Lasciamo andare che il terzo di questi versi è pur prosaico; e lasciamo andare che non mi piace quella frase di sciogliere i carmi d’un’opra; ma queste ciancie delle caste suore, dell’acque d’Ascrea, della madre d’Amore, delle Grazie, delle Muse, con tutte quelle filastrocche di Pindo, del fonte d’Elicona, del Pierio Monte, del Biondo Apollo, dell’Idalie Rose, e migliaja d’altre simili grecherie e latinerie, sono omai rese tanto trite e comunali nella lingua nostra, mercè massime a’nostri numerosi versiscioltai, che sarebbe pur tempo di lasciarle a’ragazzi, e non ne dovrebbe più far uso chiunque si sa far la barba da sè stesso, o se la fa fare dal barbiere. I Latini e i Greci avevano grazia nel dir queste tali cose, e i nostri primi poeti sono da scusarsi se le hanno copiate ne’primi tempi della nostra poesia. Ma quel vederle copiate così sempre successivamente, e dette, e ridette, e rifritte, e ripetute in tanti e tanti milioni di modi, pare a me che dovrebbe pure cagionar noja ad ogni cristiano, come cagionano a me. E se il signor Betti, o qualche altro mi domanderà come s’ha a fare la solita invocazione in que’poemi che sono epici, o che [552] puzzano dell’epico, io risponderò che si può lasciare di far loro l’invocazione quando non ne basti la vista di farne una, in cui non entrino le Muse, o Apollo, o le caste Suore, o il biondo Nume. Forse che il nostro poeta sarà peggiore, perchè sarà privo d’una trita e comunale invocazione? Questo segreto, nobiltà riverita, v’insegna gratis il vostro Aristarco sul fatto delle invocazioni. Servitevene francamente, che v’assicuro riuscirà buono contro la noja. Ne volete un altro, signori poeti? Eccovelo. Non fate mai a gara con que’poeti greci e latini, anzi neppure con quegl’italiani, che sono da tutto il dotto mondo riconosciuti per maestri sovrani di poesia; vale a dire, non ripetete mai le cose da essi dette, perchè, avendole essi dette con quella somma possanza con cui le han dette, correrete sempre troppo pericolo di svergognarvi col paragone. Volete una prova irrefragabile della bontà di questo mio segreto? Ecco qui il signor Betti, che nel primo canto di questo suo Baco da Seta ha voluto ripetere dietro ad Ovidio la favoletta di Piramo e Tisbe. Quella favoletta è tanto ben raccontata nelle Metamorfosi, che s’io avessi avuto a scrivere del Baco da Seta o in versi sciolti o in versi rimati, non avrei voluto ripeterla se mi fosse anche stato offerto mezzo il Perù. Il [553] signor Betti mo’è stato d’altro avviso, onde suo danno se m’ha tanto seccato con la sua narrazione, quanto Ovidio m’ha dilettato con la sua. Sia permesso per mo’ di dire a un Ariosto il giostrare con un Ovidio, e il contrapporre Olimpia ad Arianna; ma il signor Betti non deve ancora aspirare all’onore di tali tremende giostre. Forse verrà tempo che potrà entrare anch’egli in così perigliosa lizza, ma per ora se ne stia di fuori a notare i colpi de’combattitori, che farà assai bene per quanto posso giudicare dal suo primo canto, il solo de’quattro che ho avuta la flemma di leggere.

Metatextualité► Trascrivo qui alquanti degli ultimi versi di tal canto, per dare un po’più d’idea della smilza maniera di poetare, anzi di verseggiare di questo verseggiatore. ◀Metatextualité

Niveau 5► Exemplum► « O d’Italia splendor, Verona bella,

Alza omai da le mura altero il capo,

Che di qual frutto ei sia (cioè il gelso)

far ne puoi fede.

Tu di ben coltivar gli amati gelsi

Fra tutt’altre città riporti il vanto ».

I mercanti da seta non dicono tutti così.

« Tu alla bella Ciprigna i sacri onori

Rendi fregiata il crin di verde moro,

E le fila dorate all’are intorno

Grata d’un tanto don devota appendi ».

Questo è detto per mostrarsi mitologo frugoniano.

[554] « Lunge stieno da te l’antiche fila

E di Sero e di Coo, che nel tuo seno

Di quelle a paro ne racchiudi e nutri ».

Questo non è ragione perchè le antiche fila di Sera e di Coo abbiano a star lunge dalle moderne fila di Verona.

«Richiama omai l’antico ardor; rammenta

L’avite glorie ed i novelli onorj;

Scorgi gli archi, il teatro, e l’ampia arena:

Odi la fama di tue merci, e pensa

Che furon figli tuoi Catullo e Macro,

E ‘1 divin Fracastoro, alme di cui

Tu sola no, ma sen va Italia altera.

Se bene io veggio a la tua nobil fronte

Pullular nuovi allori, e vati illustri

Sorgon la fama ad oscurar degli avi ». ◀Exemplum ◀Niveau 5

Desidero che questi tre ultimi versi dicano vero; ma mi pare che si potrebbe facilmente fare un meglio elogio a Verona che non è questo fattole dal signor Betti, del di cui poema non vo’dir altro, se non che i canti sono soverchio lunghi. Questo primo oltrepassa gli ottocento trenta versi. Le Annotazioni m’hanno assai più dilettato che non i suoi versi. Dico quelle che trattano semplicemente della coltura del gelso e delle qualità del baco, e che non si diffondono in vana erudizione. In esse il signor Betti mi riesce meglio agricoltore, e meglio fisico che non mi riesce poeta nel suo poema. ◀Hétéroportrait ◀Niveau 4 ◀Niveau 3

Niveau 3►

Lettere scritte a Roma al signor ab. Giusto Fontanini intorno a diverse materie spettanti alla storia letteraria, raccolte dall’abate Domenico Fontanini. In Venezia 1762. Presso Pietro Valvasense, in 8.o

Fra le cose che mettono sovente in moto la mia facoltà risibile, una è il vedere i poveri letterati complimentarsi a vicenda molto ferocemente, e a vicenda promettersi senza punto di scrupolo l’ammirazione e gli applausi de’contemporanei, e l’amore e la gratitudine dei posteri; e una fama più durevole del marmo e del bronzo, e una gloria più luminosa del sole ed altre tali sfondolatissime felicità in copia magna.

Nel numero di quelli che più degli altri si usano di queste reciproche cortesie, hanno certamente il primo luogo i rimatori e i versiscioltai. Di questi però non m’occorre adesso far parole. Dietro ad essi immediate vengono le tre grandissime fratellesche caterve degli studiosi di cose inutili; cioè vengono prima quegli storici, che stanno sempre sul pescare fuor dell’obblio de’nomi affatto scordati dal genere umano; e poi quegli antiquarj che s’inviperiscono a spiegare ogni più misera lapida che si trovi in un cimitero; e quindi que’filobibli che fanno incetta di [556] libri o intieramente sconosciuti, o generalmente negletti da ogni colta classe di persone. Queste tre caterve di studiosi sono per lo più compresi sotto il collettivo titolo di eruditi; ma chi volesse riflettere alla forza delle loro schiene, e alle violenti fatiche che fanno, e alla somma pazienza che hanno, pare a me che potrebbe comprenderli tutti sotto un titolo, se non più decoroso, almeno più assai caratteristico.

Niveau 4► Exemplum► Di questi eruditi, che pajono nati apposta per ricambiarsi le lodi e i complimenti, la nostra gloriosa Italia abbondò in modo maraviglioso sul cominciare di questo secolo; e dai loro imitatori e seguaci, che non sono nemmeno scarsi a’dì nostri, vengono con molta compunzion di cuore venerati i gran nomi del Magliabecchi, de’due Salvini, d’Apostolo Zeno, di monsignor Fontanini, del Crescimbeni, de’marchesi Orsi e Maffei, del Muratori, del Gori, e di molt’altri su questo taglio. ◀Exemplum ◀Niveau 4 Malgrado però la tanta venerazione avuta loro da’loro moderni imitatori e seguaci, e malgrado quelle lodi smisuratissime che essi stessi si sono versate mutuamente addosso, io non sono gran fatto ammiratore in essi di altre qualità che della loro imperturbabile flemma nell’ammucchiare una farraggine di notizie per la più parte di nessun uso nella vita [557] civile, e della loro memoria tenacissima tanto, che poteva conservare senza scompaginarsi quella farraggine d’inutili notizie.

Non è ch’io voglia perciò dire, che quegli uomini sieno da onninamente dispregiarsi, e da riputarsi come pretti perdigiorni perchè fecero come fecero. Voglio solamente dire che le signorie loro non furono personaggi tanto maravigliosi quanto i nostri più moderni scienziutacci vorrebbono darci ad intendere; che poca stima si deve tributare a coloro i quali sono più ricchi di memoria e di flemma che non d’intelletto e d’immaginazione, e che la stima va serbata appunto per quelli che abbondano d’immaginazione e d’intelletto.

[558] Niveau 4► Hétéroportrait► Chi si farà a leggere le presenti Lettere scritte a monsignor Fontanini, vedrà molto bene (quando però sia dotato d’una competente dose d’ingegno) che questo mio giudicare non è senza fondamento; poichè, dopo d’averle tutte quante lette con ogni possibile attenzione, troverà che non avrà da tal lettura imparata cosa alcuna che gli possa riuscir atta a migliorare se stesso, o altrui, aggirandosi tutte senza eccettuazione sopra argomenti, come dissi, di nessunissimo uso nella vita civile.

La maggior quantità di tali Lettere fu appunto fattura del sopradetto Apostolo Zeno; e da nessuna d’esse si può scorgere che il loro autore sforzasse una sola volta la mente a spinger fuora qualche cosa di nuovo, di dilettevole e di sublime. Queste sue lettere sono cinquantanove, e tutte contengono o notizie magre di scrittori ignoti, e di libri per lo più dimenticati; o spiegazioni d’iscrizioni mezze mangiate dal tempo; o ragguagli di dodici manoscritti che nessuno vorrebbe leggere se mai si stampassero: o corbellerie genealogiche ed araldesche; e altre somiglianti fanfaluche frammiste a qualche strapazzo e a qualche invettiva contro questo e quell’altro teologo eterodosso, senza mai una parola di chiara confutazione; e frammiste a qualche encomio fatto o a’proprj versi, o alle proprie medaglie, o a’proprj cataloghi.

[559] Metatextualité► Dietro le lettere del Zeno ne vengono sette del Muratori, nelle quali guai che vi fosse un solo pensiero che avesse un po’ del pellegrino, o un solo aneddoto che meritasse d’esser collocato nella mente d’un leggitore. Sentite di che robaccia egli empie la sua sesta lettera. « Ho finalmente ritrovato il romanzo del Casola, scritto in lingua provenzale, e ben grosso, perchè in due grossi tomi d’un quarto grande. Il carattere è pessimo, perchè pieno di abbreviature e d’altri malanni. Dice tra le altre cose: ◀Metatextualité

Niveau 5► Citation/Devise► « Nen croy vous chanter des fables de berton

De Ysaut ne de Tristan, ne de breuz li felon.

Ne de la royne Zaneure

Mes dune Ystoire verables q-n’est se voire non

Sicum je ai atrue in Croniche p-raison

Et sor li bon autor, que fist Ma-t-saz hon

Daquillee et de Concorde intraist ma-t licion

A prie dun mon amis li vertueus Simon

Lombre et li cortois filz q-fu Paul bison

Celui de Feraire, ou nait tez tezhe fuer bon

Por fer a le Marchis da Est un riche don

Ovorremat a suen oncles dan Boniface il baron

Par ce me pria et dist p.r buene intencion

Que je feisses il libre, ou touz la division

In risme translate de France a pont, a pon

Et je p.r lui servir; mort paine Ma t saison

De fere eis Romains, dont Nicolais ais non

Da chasoil il Longbars, et ais ma maison

En Boloigne la Sainte, ou fu ma naison. » ◀Citation/Devise ◀Niveau 5

[560] Metatextualité► Leggitori miei, non siete voi edificati della sfolgorante bellezza di questi versi provenzali in on, riferiti in quella sua lettera sesta dal Muratori? ◀Metatextualité Non è egli un peccato ch’egli non si sia fatto edificatore di tutto quel poema, o romanzo? A me pare che invece di leggere dieci pagine di que’due grossi tomi in quarto, o invece di consumarsi gli occhi a dicifrarne le abbreviature, avrebbe fatto molto meglio a buttarlo sul fuoco, per togliere qualch’altro eruditaccio dal pericolo di perdere il tempo in fare quanto fece esso. Questa sorte di composizioni antiche e perfettamente barbare non dovrebbono conservarsi, perchè non meritano neppure d’ingombrare un atomo d’aria dell’atmosfera nostra.

Sieguono diciotto lettere di quel gran Magliabecchi, il quale fu non ingiustamente chiamato un librajo fra gli eruditi, e un erudito fra i librai. Nella seconda di tali sue Lettere sono trascritti molti versacci del Mauro, poetastro alla berniesca del cinquecento, molto scorretto e molto scostumato. Nell’altre dieciassette lettere non v’è cosa che importi un’acca il saperla. Si parla in essi d’autori, di editori e di commentatori per lo più di nome oscurissimo, quantunque il Magliabecchi li onori spesso di titoli superlativamente altitonanti; e chi sapesse tutta la storia di tutti gli Arlecchini e di tutti i Covielli che fio-[561]rirono dacchè s’inventarono i caratteri di Coviello e d’Arlecchino, sarebbe dotto nè più nè meno di chi sapesse la storia di quegli autori, editori, e commentatori nominati in queste diciotto lettere.

Non so perchè il raccoglitore di queste lettere dietro a quelle del Magliabecchi abbia appiccato un capitolo alla berniesca composto da un ebreo fatto cristiano. Quel capitolo è scritto con una facilità snervata, e i cattivi versi in esso sono assai più numerosi che non i buoni.

Non sono neppure diventato un grano più dotto di quello ch’io era, leggendo le dodici lettere che sieguono dell’abate Grandi, alle quali però ho le mie belle e buone ragioni per non far loro quattro postille secche secche.

L’abate Salvino Salvini, fra l’altre stupende cose che dice a monsignor Fontanini nelle sue lettere, promette di far gemere i torchj, cioè promette di stampare un lunghissimo Catalogo de’Canonici d’una Chiesa Metropolitana. Che ricchezza di letteratura non acquisterebbe l’Italia, se tutti i dotti alla salvina ne regalassero in istampa di tutti i lunghissimi cataloghi che si potrebbono fare di tutti i canonici di tutte le metropolitane che si trovano nel mondo cristiano! Bisognerebbe ancora aggiungere a que’lunghissimi cataloghi gli altri lunghissimi cataloghi degli altri ca-[562]nonici dell’altre chiese non metropolitane, che sono sparse qua e là per il mondo cristiano.

Ma ecco qui l’altro Salvini, cioè Antonmaria, mille volte più dotto del fratello cataloghista. Di quell’Antonmaria abbiamo in questa raccolta nove lettere delle quali non v’è da imparare che qualche sottilissima sottigliezza di greco. Questo immenso grecista di rado si dava l’incomodo di mettere insieme pensieri, e cose d’importanza. Fu meschino traduttore, fu nojoso commentatore. Non gli voglio però crudelmente negar la lode di buon filologo. Nessuno de’nostri filologi seppe meglio il suo laborioso mestiere di quel che lo seppe l’abate Antonmaria Salvini.

Sieguono sette lettere d’un cavaliere Antonfrancesco Marmi, delle quali il mondo letterario e il non letterario avrebbono potuto benissimo far senza, e non riceverne un jota di pregiudizio.

Dietro al Marmi viene quell’altro mostro di sapienza, e specialmente di sapienza antica etrusca, detto l’abate Antonfrancesco Gori. Questi nella bella e prima sua lettera al Fontanini caccia fuori un progetto stupendo per accrescere vieppiù quell’empio tesoro d’idee che già possediamo. Eccovelo. Niveau 5► Citation/Devise► « Util cosa sarebbe che ognuno desse le antichità della sua patria vedute e rivedute, e riscontrate da se ». ◀Citation/Devise ◀Niveau 5 [563] Cospetto di - che quasi me la lascerei scappare! Questa sì che saria bella cosa raccogliere tutte quante le antichità di tutte quante le patrie, e stamparle tutte quante dalla prima all’ultima! Che gaudio non sentiremmo nel leggere que’pochi milioni di tomi in foglio, che occorrerebbono per eseguire questo disegno! E che bel campo ne s’aprirebbe di sapientissime dispute, massime sur ognuna delle iscrizioni che sarebbono contenute a migliaja e migliaja in ognuno di que’tomi! Quasi tutte l’altre undici lettere di quel Gori parlano d’iscrizioni o edite o inedite. E di che diavolo parlerebbono, se non parlassero d’iscrizioni o edite o inedite?

Sulle poche lettere che sieguono non occorre buttar parole, quantunque ve ne sieno sette di Eustachio Manfredi, i di cui studj sono stati molto più utili alla società umana, che non quelli di tutti gli antiquarj, e filologi, e filobibli sinora nominati. Conchiuderò questo mio severo articolo con ricopiar qui una intiera lettera d’un Floriano Montacuti scritta al Fontanini, che servirà come per saggio di quella scienza di cose inutili, della quale io mi mostro così poco fautore. Ella è registrata a pagina 456; Metatextualité► ma vi avverto innanzi tratto, leggitori, ch’ella è nojosa assai, e che non vi porgerà nè utile nè diletto alcuno. Io la trascrivo, a dirvela schietta, unica- [564] mente per ajutarmi a riempiere questo numero con manco fatica. Questa è la lettera. ◀Metatextualité

Niveau 5► Lettre/Lettre au directeur► Citation/Devise► « Ritornato qua il signor abate Mariani, mi ha riferito, che svanitagli dalla memoria una notizia da me statagli suggerita a bocca, e poi con lettera ricordata, senza individuarla, non abbia potuto parteciparla a vossignoria illustrissima e reverendissima, come l’avevo pregato, col supposto che ella l’avrebbe benignamente gradita, quantunque fosse di poco momento, per concernere essa la sua Badia di Sesto. Facendomi dunque istanza il signor abate predetto di comunicarla, adempisco questa parte tanto più volontieri, perchè quando anche tal notizia non fosse ignota alla sua immensa cognizione, almeno questa congiuntura mi dà campo di rinnovare a vossignoria illustrissima gli atti più ossequiosi della mia umilissima servitù.

« La notizia è, che il patriarca Goffredo, avanti la sua promozione al patriarcato, fu uno degli antecessori di V. S. Ill. nella Badia di Sesto, come riferisce l’annalista del monistero di Admont, dato in luce dal p. Pez, il quale nell’anno 1182 ha le seguenti parole. Ouldaricus Patriarcha Aquilejensis moritur, pro quo Gotfridus Abbas Sextensis. In proposito di questo Uldarico, che è il secondo di tal [565] nome, mi sovviene un errore dell’Ughello, il quale nel tomo V. Italiae Sacrae attribuisce al medesimo la rinunzia fatta da Burcardo e da Enrico sopra l’avvocazia e placito della chiesa d’Aquileja, la quale fu fatta in mano di Uldarico primo, e non di questo secondo, come appare dalle seguenti parole inserte dallo stesso Ughelli nella predetta rinunzia. Qui Venerabilis Patriarcha gaudens super his, quœ ex justa et bona voluntate prædicti fratris sui Henrici, ec. Uldarico primo, che fu figlio di Marquardo duca di Carintia e di Liutburga, ovvero Liutgarda figlia di Enrico IV imperadore, ebbe per fratelli Ludolfo ed Enrico, duchi parimente, ed Ermanno primo abate del monastero di Vitrins, fondato dal fratello Enrico. Uldarico secondo fu figlio di Volurando conte di Treven; il quale non ebbe alcun fratello di nome Enrico, anzi pare che egli sia stato l’ultimo della sua famiglia; onde essendo seguita la rinunzia in mano di quell’Uldarico, che aveva per fratello un Enrico, ciò si dee necessariamente intendere del primo e non del secondo. Per altro il castello di Treven è situato nella Carintia, poco lungi da Villaco, dal quale ebbe l’origine Uldarico secondo, e non da un altro castello di simil nome, situato nel Cragno; come crede il Valvasore; e ciò si prova da una delle diverse lettere [566] di esso Uldarico date in luce dal p. Pez. Saranno da molti anni dacchè io insinuai a V. S. Illustriss. d’aver scoperta nel monte di Croce, che è l’Alpe Giulia di Fortunato, una iscrizione, e ne mandai un frammento di essa tale quale mi fu da altra persona trasmessa. Portatomi poi alla patria quattro anni sono, trovai il senso di detta iscrizione tutto differente da quello trasmessomi, e ne aggiungo qui quel poco che ne ho potuto ricavare, non avendo avuto tempo di rilevarla intieramente per un fiero temporale che me lo impedì. La ventura primavera facendo ritorno alla patria, come spero, cercherò di ricavarne l’intero senso. L’iscrizione è la seguente ». ◀Citation/Devise ◀Lettre/Lettre au directeur ◀Niveau 5 ◀Hétéroportrait ◀Niveau 4 ◀Niveau 3

Metatextualité► Ma questa iscrizione seguente Aristarco non la regala a’suoi leggitori, non mica perchè è mozza, e di nessuno immaginabile uso, ma perchè invece di dar del suo ha qui dato tanto dell’altrui, che deve bastare. Addio antiquarj miei. ◀Metatextualité

Poscritta agli stessi antiquarj. Un mio corrispondente promette un mazzo di ravanelli a quell’erudito che manderà una soddisfacente spiegazione del seguente pataffio trovato sur un sarcofago di terra cotta.

Eno.

I. H.

Cni. Milo. Tr.

Ab.

[567] Metatextualité► La seguente lettera, venuta pur ora di Londra a un mio amico, ne dà una notizia di poca importanza, ma che potrebbe non essere discara a qualche mio poetico leggitore, onde per risparmio d’un po’ di fatica, la stampo tale e quale. ◀Metatextualité

Niveau 3► Lettre/Lettre au directeur► « Signor mio. Son degli anni parecchi, che leggendo anch’io la Biblioteca dell’Haym, mi sentii destare un’ardente voglia di trovare il poema, di cui desiderate notizia; e giunto in questa gran metropoli non tardai molto a cercar conto della libreria reale di Westminster, dove l’Haym lasciò scritto che esisteva l’unica copia di quel poema da esso veduta; ma mi fu detto che da alcuni anni quella reale libreria era stata dal passato re donata al museo Britannico. Andai dunque al museo Britannico, di cui vi farò un’altra volta la descrizione. Il custode de’numerosissimi libri quivi deposti non ebbe difficoltà di pormi quel poema in mano, onde potetti tosto vedere che l’Haym prese un grosso granchio quando ne disse che il Filogine era un poema epico come l’Orlando Innamorato, e che, come quell’Orlando, era fattura del famoso conte Matteo Maria Bojardo, vero padre di tutte le nostre epiche invenzioni. Il Filogine, per disgrazia nostra, non è altro che una goffa cosaccia in ottava rima scritta da un poetastro parmigiano del decimosesto [568] secolo, il di cui nome non so se si trovi in altro luogo che nel titolo di questa filastrocca; il qual titolo dice così. Niveau 4► Citation/Devise► « Il Philogine, libro d’arme e d’amore intitolato Philogine del magnifico cavaliero messer Andrea Bojardo parmeggiano, nel quale si tratta di Hadriano, e di Narcisa, delle giostre e guerre fatte per lui, e di molte altre cose amorose e degne, nuovamente stampato MDXXXV ». ◀Citation/Devise ◀Niveau 4 Il volume è in sedici, e nell’ultima pagina dice « stampato in Venegia per Francesco Bindoni et Mapheo Pasini compagni, il mese di giugno MDXXXV ». È stampato in carattere semigotico, e in otto fogli, senza numeri e senza registro. Ogni facciata, divisa in due colonne, contiene dieci ottave, e tutto il poema è di quindici mila versi circa, de’quali io ho avuta la pazienza di leggere forse due mila; cosa che, dall’autore in fuora, nessuno ha probabilmente mai fatta, nè alcuno farà mai più, che la seccaggine è troppa. Una misera Dedicatoria in prosa è indirizzata dall’autore a un suo. Niveau 4► Citation/Devise► « Compare cordiale, e osservandissimo consanguineo, chiamato il magnifico messer Giovan Francesco Garimberti ». ◀Citation/Devise ◀Niveau 4 E questa dedicatoria ne dice chiaro, che tutta l’opera fu da esso autore scritta in quattro mesi per ubbidire a una dama, la quale avendo letto un libro de’suoi sonetti, gli [569] ordinò di comporre qualche trattato amoroso; e siamo inoltre informati da una lettera impressa in fine, e scritta da un Antonio Carpessano al lettore, che fu egli il signor Carpessano che con sottile astuzia ha rubato il manuscritto all’autore, e poi senza saputa e contra la voglia sua l’ha fatto stampare, perchè il mondo non rimanesse privo di così stupendo poema. È però da notarsi che quel Carpessano fu non meno bugiardo di quel che si confessa ladro, perchè il libro non poteva stamparsi senza saputa, e contro la voglia dell’autore Bojardo, quando la dedicatoria sia, come la è certamente, del Bojardo stesso. Nè occorre dire che la dedicatoria insieme col titolo sarà stata, come s’usa sovente, stampata dopo il poema in pagine staccate da quello, perchè il primo foglio contiene il titolo, la dedicatoria, e tanta parte d’esso poema, quanta ne potette contenere. Molti scrittori de’tempi nostri hanno, come molti de’tempi andati, fatto uso di simili sciocchi artifizj, e hanno tentato di cattivarsi benevolenza e favore da’leggitori con mostrarsi umili e pieni di diffidenza, e con assicurarli che non sarebbon iti a infastidire le genti in istampa se avessero potuto sottrarre gli scritti loro alla gentile importunità, o all’amichevole rapacia di messer un tale, o di [570] madonna una quale; ma i cattivelli non sono tutti goffi come il ladro Carpessano, e procurano di dar miglior apparenza alle lor bugie, che non diede colui alla sua, nè è per lo più facil cosa il prenderli sul fatto, come si lascia prendere colui. Eccovi, signore, tutto quello che vi posso dire del Filogine, di cui l’invenzione è puerilmente stolta, e i versi tanto flosci e miseri, che non monta il pregio buttar via una pennata d’inchiostro di più in cosa tanto da nulla ». Addio.

Di Londra, febbrajo 1764.

Il signor Giorgio Felini, mercante di liquori bevibili, mi scrive da Parma intorno a que’fiaschi Numero Ventisei mandatigli da Milano per saggio, e si lamenta meco d’essere stato gabbato nella sua aspettativa, trovando che que’fiaschi hanno la paglia bella e lucente come l’oro, ma che varj liquori contenuti in essi sono tutti svaporati; al che rispondo.

Che s’egli avesse assaggiato di que’fiaschi la mattina a digiuno, gli avrebbe trovati tutti squisiti ne’loro rispettivi generi. Tanto la birra e il sidro contenuti in quindici d’essi, quanto il vino di Portogallo degli altri undici, sono tutti liquori perfetti in modo, che neppure nelle cantine del Caro e del Bembo non se ne trovano de’meglio; comechè, a dir vero, [571] il Caro s’abbia in un lato della sua cantina un carratelletto di Montepulciano, a cui non v’è che apporre. Ma forse il signor Felini non ha, come dicono in Olanda, un palato da viaggiatore, ed io sospetto ch’egli s’intenda solamente de’vini di Novellara o di Bologna. Se questo è, non si ponga a far incetta d’ogni sorta di liquori col pensiero di trafficarli, perchè correrà rischio di fallir presto. Se poi io m’inganno nella mia congettura, e s’egli ha veramente quel palato da viaggiatore, che tanto vale quanto dire palato universale, necessario a chiunque vuol fare questa sorte di traffico, si lasci pur confortare da Aristarco, che ha le papille della lingua sensibilissime, ad empiersi la cantina d’ogni liquore offertogli da quel corrispondente. Concedo che alcuno de’fiaschi mandatigli è un po’ più piccolo del dovere: ma dovrebbe esser noto al signor Felini che tutti i fiaschi non possono essere a una misura; ed avrebbe dovuto altresì accorgersi, che una buona metà de’ventisei sono assai più grandi che non i fiaschi comunali. Ma un po’ più grandi o un po’ men grandi ch’ei sieno, il signor Felini ne compri pure un’altra cassa arditamente, che alfin del conto se ne troverà contentissimo, sempre però ricordandosi, come ho già accennato, che certa sorte di liquori vanno assaggiati la [572] mattina a digiuno, e non dopo il pranzo, e con la bocca scaldata da’vini nostrani, ancorchè buoni; o, quel che è peggio, guasta da acquavite straniere mal distillate, come troppi smemorati mercantelli sogliono tuttodì fare.

Metatextualité► All’altro articolo della sua lettera risponderò quando avrò dibattuto bene quel punto con don Petronio, che è anch’egli un poco dell’opinione del signor Felini. ◀Metatextualité

Poscritta. Gli raccomando d’assaporare adagio adagio del fiasco numero sette, e del fiasco numero quindici. Della seconda cassa ne ho ancora miglior opinione che non della prima.

Niveau 3► Lettre/Lettre au directeur►

Un buon Bolognese ad Aristarco.

Signor mio. Se volete che i nostri letterati s’arrischino a mandarvi qualche coserella per uso del vostro foglio, trattateli sempre con quella dolcezza con cui trattaste quello che vi mandò l’oda Felice l’uom. Noi siamo gente piena di buona volontà verso di voi, e faremo quel poco che potremo per ajutare con voi il bene universale delle italiane lettere, ma avvertite che non fa nulla chi co’Bolognesi vuol andare alla brusca. E qui notate che vi dico questo per ricordo, e non per consiglio, veggendovi poco amico di consigli. Intanto, se quest’altr’oda vi piace, sia vostra. Addio.

Niveau 4► Con torva faccia e rea

Invocando l’Averno
Il giovane africano
La minacciante mano
Alza, e giura odio eterno
Alla stirpe d’Enea.

Poi move furioso

E pien d’alta vendetta
Contro l’altera gente;
Eccolo orribilmente
Stralunar dalla vetta
D’un dirupo nevoso.

La rabbia d’Aquilone

Che d’un occhio lo priva
Nulla cura il feroce;
Anzi con rauca voce
Urla, sgrida, ravviva
Chi lo siegue carpone.

Già vien dall’Alpe come

Sasso enorme, che parte
Seco tragge del monte:
E allora fu che in fronte
Sentisti, Italia, alzarte
Per terrore le chiome.

Già ‘l Tesino e la Trebbia

Veggion con ispavento
Sanguinose lor onde,
Il Roman si confonde,
E fugge, come al vento
Fugge innanzi la nebbia.

Chi chi all’impeto regge

Della spada fatale
[574] Sul Trasimeno e a Canne?
Men scempio fer le zanne
Dell’orrendo cinghiale
Nel caledonio gregge.

Roma allora apprendeo

A conoscer i mali,
E gemer fu sentita,
Che l’Aquila atterrita
Raccolse le grand’ali
Sull’alto del Tarpeo.

Ma fingendo paura,

Di fuggir non si stanca
L’accorto dittatore,
Ed il prisco valore
Riaccende, e rinfranca
Nelle romulee mura.

Già un Scipio, già un Marcello

Con terribile grido
Escon della cittate;
Già con le spade alzate
Son d’Africa sul lido,
Già l’empion di macello.

Già di Capua le amanti

Da’lor fuggiaschi drudi
Abbandonate sono;
Già ‘l folgore e ‘l rintuono
De’brandi e degli scudi
È in contrade distanti.

Sete non mai satolla

Di regno! A brano a brano
Squarciata anche Asia stride;
E Annibale s’uccide
[575] Nel veder di lontano
Cartagine che crolla.

Cede al Quirino orgoglio

Ogni popolo, al fondo
Di schiavitù condotto:
Oh somma sorte! Tutto
Il soggiogato mondo
Adora il Campidoglio!

O Roma, vincitrice

Dell’universo, or godi
Tanta tua gloria in pace:
Perpetuo amor verace
Tutti i tuoi figli annodi,
E ti renda felice!

E poi ch’ogni procella

Passò: nelle tue mura
Fa di virtù tesauro,
E qual pianta di lauro
Dal fulmine sicura
Cresci sempre più bella.

L’usbergo sanguinoso

Appeso arrugginisca
Del Bifronte nel tempio;
Nè offrir olocausto empio
Il Flamine più ardisca
Al nume bellicoso.

Deposto il Tebro irato

Ogni pensiero bieco,
Di tal saper s’adorni
Che più ne’suoi soggiorni
Non osi un fiume greco
Laudar Omero e Plato.

[576] Popolo illustre e chiaro,

No, non esser più schivo
Dell’aratro e del gregge!
A chi l’Olimpo regge
Fu sempremai l’ulivo
Più della palma caro.

Che dico? Ah de’tuoi figli

L’un già l’altro minaccia
Col ferro e col veleno;
E già la gola e il seno
L’aquila tua si straccia
Co’suoi medesimi artigli.

Mille furie esecrande

Traggon nelle tue porte
La discordia e la guerra!
Roma infelice! A terra
Tu già ti butti, e morte
Già sopra te si spande. ◀Niveau 4

Poscritta. Mi scordava dirvi che l’autore di quest’oda, o buona o cattiva che vi paja, è pastor arcade. ◀Lettre/Lettre au directeur ◀Niveau 3 ◀Niveau 2 ◀Niveau 1