La Frusta letteraria di Aristarco Scannabue: Numero XXIII

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N.o XXIII.

Roveredo, I settembre 1764.

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Dell’agricoltura, dell’arte e del commercio, Lettere di Antonio Zanon, tomo terzo. In Venezia 1764, appresso Modesto Fenzo, in 8.°

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Eteroritratto

Questo terzo tomo del signor Zanon non m’è a un gran pezzo piaciuto quanto i due precedenti, essendo per la più parte scritto in modo declamatorio anzi che istruttivo. Egli l’ha diviso in due parti. La prima parte s’aggira sui vini, cioè sul modo di farli e di conservarli; la seconda spazia sull’impero della moda, cioè parla assai di quelle tante cose non assolutamente necessarie al viver nostro, con cui le genti che il possono fare si adornano le persone e le case. La prima parte è divisa in sei lettere; la seconda ne contiene dodici. Cominciamo a dire della Parte prima. Lettera prima. Dopo un preamboletto dal quale siamo informati che un conte Lodovico Bertoli fu il primo che nel Friuli introdusse ed esperimentò la maniera di fare il vino all’uso di Borgogna: questo signore (dice il signor Zanon)

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Citazione/Motto

« dopo lunghi studj e larghi dispendj, per eccitare anco gli altri a secondar le sue idee, pubblicò a comune istruzione ed utilità il frutto delle sue costose esperienze (in un libretto intitolato le Vigne ed il Vino di Borgogna in Friuli, stampato in Venezia nel 1747). Ma un difetto nazionale, ed il soverchio impegno che regna in favore de’vini di Francia, suscitò bentosto contro di lui mille censure; il che è avvenuto, non già perchè il suo vino dal colore, dal sapore, dall’odore, o dagli effetti men salubri si facesse manifestamente conoscere di una specie affatto diversa da quello di Borgogna, ma piuttosto per esser fatto nel Friuli; quasi come se cotesta provincia per le sue acque, per le sue terre, e pel suo clima fosse tanto diversa dalla Borgogna, che per quante diligenze usassero i Friulani nella scelta delle viti, nella piantagione e nella coltura delle vigne, e nella maniera di fare il vino ad imitazione di que’di Borgogna, non potessero giungere in verun modo a formar un liquore simile a quello ».
Questo discorrere del signor Zanon, con sua buona grazia, è specioso, ma non è giusto. Io concedo che nel Friuli si possono fare de’vini eccellenti sì pel sapore che per la salubrità; e gli concedo pure che quel vino a uso di Borgogna fatto dal conte Bertoli era un vino molto buono; ma non gli concederò già che fosse vino da ingannare il palato, e da farci scambiare per vino di Borgogna. Io l’ho assaggiato, molt’anni sono, in Inghilterra, dove ne fu mandata qualche quantità; n’ho anche assaggiato di poi qui in Italia: ma quantunque al colore s’avvicinasse a quel di Borgogna, pure nell’odore e nel sapore era assai diverso, onde non è maraviglia se non ebbe quello spaccio in Inghilterra e in Italia che si aspettava. Se fosse stato vino da scambiarsi facilmente per vino di Borgogna, la mala fede, che è tanto comune fra la gente che traffica, avrebbe trovato il modo di spacciarlo tanto in Inghilterra che in Italia per vero vino di Borgogna, vendendolo in bottiglie di Francia, ed imitando il modo di chiuderle come i Borgognoni chiudono le loro. Non credo poi che in Italia si faccia tanto consumo di vini di Francia da dar motivo ad alcuno de’nostri zelanti paesani di scatenarsi con soverchia veemenza contro que’pochi Italiani che vogliono qualche bottiglia di Borgogna e di Sciampagna alle loro mense. Il vino di Francia non costa soverchiamente in Francia. Quello che lo rende caro in Italia è la condotta e i varj dazi che paga prima di giungere nelle nostre città. Le condotte e i dazj non sono dannose all’universale degl’Italiani, portando qualche provento a’rispettivi particolari ed a’rispettivi principi: e al poco costo originale del vino non occorre badar troppo, considerando che se in Italia si beve qualche quantità di vini Francesi, fuor d’Italia si beve anche qualche quantità di vini italiani. In Francia, in Inghilterra, in Germania, e in altre parti si bevono de’vini di Sicilia, di Napoli, di Toscana, del Friuli, del Piemonte, e sino dello Stato di Milano. Perchè dunque far tanto fracasso contro gl’Italiani che amano di bere qualche sorso di vino francese? E perchè cercar d’impedire una cosa che alfin del conto non pregiudica punto nè l’interesse, nè il costume universale, e che tende solo a soddisfare il capriccio di pochi individui? L’impegno di bere vin di Borgogna in Italia non è tanto fatale quanto appare all’immaginazione del signor Zanon, e s’egli vorrà darsi l’incomodo di cercare quanto vino di Francia si consumi da’suoi amati compatriotti in capo all’anno, troverà che non occorrono tante esagerate non meno che inutili declamazioni per diminuirne il consumo. Io ammiro poi l’acutezza del suo ingegno negli sforzi ch’egli fa per provare che

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Citazione/Motto

« il Friuli è atto a produrre del vino simile a quello di Borgogna. Gli concedo che il clima è parallelo a quello della Borgogna, e che il terreno del Friuli è conforme a quello della Borgogna nelle sue proprietà »:
Io approvo tutto quello ch’egli cava pel suo proposito dalla Geografia Fisica di Woodward; e non m’oppongo alle opinioni del signor don Antonio Lazzaro Moro, insigne letterato friulano, sul fatto de’crostacei ed altri corpi marini. In somma io meno buono tutto quello che il signor Zanon dice de’sali, de’nitri, de’solfi, e degli altri ingredienti che fanno assomigliare il Friuli alla Borgogna. Il fatto sta però che il prefato vino diligentemente fatto dal conte Bertoli ad uso di Borgogna non potè riuscire affatto simile al vino di Borgogna, e che quel conte ed alcuni altri che tentarono la stessa intrapresa, furono tosto obbligati ad abbandonarla. I fatti, dice un proverbio italiano, sono gente ostinata; e che vuole il signor Zanon opporre ai fatti? Vi vuol altro che argomenti e che esagerazioni a rimuovere i fatti dalla loro ostinazione! Nel Friuli, a detta del signor Zanon, si fanno de’vini che s’assomigliano al tanto celebrato vino di Tocai, che è un luogo in Ungheria; ed ecco un altro scoglio contro al quale si rompono gli argomenti recati da lui per provare che il Friuli è un paese somigliante alla Borgogna sì pel clima, che pel terreno. Come si può che il Friuli s’assomigli in quelle due principali cose alla Borgogna, e che sia atto a produrre vini somigliantissimi a que’di Borgogna, se il Friuli s’assomiglia anche a una parte dell’Ungheria, e se produce de’vini che sono somiglianti ai vini di Tocai in Ungheria? Vorrà egli forse dirmi che la Borgogna e 1’Ungheria s’assomiglino nel clima e nel terreno, e per conseguenza nelle produzioni loro, quando si trova manifestamente tanta differenza nel colore, nel sapore e nell’odore de’loro vini? Questo argomento, come ognuno vede, non ammette risposta, quantunque sia vero quello che il signor Zanon dice (uscendo forse troppo del suo proposito) che il Brasile produce diamanti come il regno di Golconda; quantunque possa esser vero che la radice chiamata gin seng da’Cinesi, si trovi nel Canadà egualmente che nella Cina; quantunque possa esser vero che la terra Ollaja degli Svizzeri si trovi nello stesso Canadà nè più nè meno che fra gli Svizzeri; quantunque sia indubitabile che in molte isole dell’America occidentale, ed anche in qualche parte del suo continente, si coltivi il caffè come in Arabia; e quantunque si possa trovare nel corpo di qualche animale nato in paesi lontani dall’Indie quello stesso belzuar che si trova nel corpo di certe capre selvatiche dell’Indie. Tutta questa erudizione io la chiamo scialacquata dal signor Zanon in questa sua lunga Lettera prima, perchè finalmente non prova, com’egli vorrebbe, che il Friuli possa produrre un vino affatto somigliante nel colore, nell’odore, nel sapore a quello che la Borgogna produce. Torno a dire che il Friuli produce de’buoni vini, e che facendovi dello studio intorno, que’vini si possono tuttavia migliorare, come è il caso in tutti i paesi che producono vino: ma torno altresì a dire che tutti gli argomenti del signor Zanon per provare il suo principale assunto, mi pajono troppo frivoli, e che tutta la tanta erudizione a cui egli appoggia gran parte delle sue prove, si poteva lasciare ne’libri da cui l’ha tratta, non servendo qui che per pompa, e non essendo valevole a convincere i nostri palati sul fatto del vino di Borgogna. Lettera seconda. Comincia con un lungo squarcio d’una delle lettere scientifiche del Magalotti, in cui si prova che il vino « è un composto d’umore e di luce ». O vero o falso che sia il ragionare del Magalotti, io non vedo a qual proposito il signor Zanon ne ricopii otto buone pagine. Che hanno che fare gl’ingredienti che formano il vino con l’assunto di questa lettera, il quale è di provare come

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Citazione/Motto

« a torto certuni, che si vantano finissimi conoscitori e giudici dei vini, disapprovano il vino del Friuli fatto a somiglianza di quel di Borgogna? »
Che importa che il raggio del sole entri o non entri ne’granelli dell’uva? che in quelli si rompa o non si rompa? e che perduto tra i filamenti e tra le fibre di que’granelli si converta o no, prima in lucidi serpentelli, e quindi in polvere lucidissima? per provare che il vino del conte Bertoli o quello del conte Porta è uguale, anzi in qualche parte superiore al vino di Borgogna non occorreva tanto sottile filosofia. Bisognava citare l’autorità di genti assai, che avessero sbagliato il vino di que’signori per vino di Borgogna a cagione della somiglianza sì nel sapore che nel colore e nell’odore. Ma questo è quello che nè il signor Zanon nè altri, cred’io, possa fare. Tuttavia egli s’è fitto fortemente in capo di volere che que’vini del suo paese agguaglino in ogni cosa il vino di Borgogna, e va citando un’autorità d’un altro filosofo per convincerci e tirarci dalla sua, non avvedendosi che qui non vi vogliono argomenti e filosofia, ma che vi vogliono due soli bicchieretti, uno d’un vino e l’altro dell’altro. Io concedo al signor Zanon, che molto vino si beve in Europa per vin di Borgogna che non è vin di Borgogna; io gli sono obbligato della storia ch’egli ne fa de’vini di quella provincia, e del come salirono in fama; io ammiro il zelo ch’egli mostra per la sua contrada, beffando e sgridando quegl’Italiani che preferiscono i vini stranieri a’vini loro; io dico com’esso, che sarebbe cosa buona se cercassimo senza frode e senza impostura di metter in credito i nostri vini; io approvo in somma tutti gli onesti suggerimenti fatti dal signor Zanon a’suoi compatriotti perchè diventino tutti ricchi magni; ma l’assunto di questa seconda lettera è, come quello della prima, di provare che il vino Bertoli e il vino Porta sono due vini da scambiarsi entrambi per vino di Borgogna da’palati nostri, da’nasi nostri e dagli occhi nostri; e in vece di trovare in questa lettera delle prove evidenti di questa proposizione, io non vi trovo che delle citazioni d’autori morti un pezzo prima che i conti Bertoli e Porta facessero que’loro vini; non vi trovo che de’pezzi di filosofia e de’pezzi di storia, che non convincono e non possono convincere nè i nostri palati, nè gli occhi nostri, nè i nostri nasi. Lettera terza. Il signor Zanon s’introduce nell’argomento di questa lettera con informarci che i Francesi hanno trovato il modo di raddolcire i marroni d’India, onde possano ingrassarne i pollami; e che ne fanno anche una spezie di polvere di Cipro; e che cavano pure da essi un olio buono per le lucerne.

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Citazione/Motto

« E non sarà mai (soggiung’egli) che anche i nostri sassi e le ghiaje nostre, che danno vini così squisiti e sete così distinte, escano fuori della loro inutilità e scioperaggine! »
Fatta questa esclamazione egli ne dà ragguaglio d’un’accademia eretta in Bordeaux capitale della Guienna; de’premj distribuiti da quell’accademia, e di alcuni temi proposti in essa nel 1743. A imitazione di quell’accademia

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Citazione/Motto

« io non ho proposto (dic’egli) di formare un’accademia la quale dispensi premj, ma un’accademia sibbene che studii per promuovere i proprj e universali vantaggi; avendo l’opportunità d’addottrinarsi e di profittare di tutte le scoperte che vengono fatte con tanti studj e dispendj da tutte le accademie d’Europa ».
Che bella cosa se questo disegno del signor Zanon potesse essere eseguito in quel suo Friuli? Ma il signor Zanon, uomo studioso e mercantile insieme, non vede le invincibili, o almeno le molteplici difficoltà che s’oppongono alla riuscita di questo suo vastissimo disegno, e non è questo il luogo di fargliene l’enumerazione.

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Citazione/Motto

« Nella nostra e nelle vicine provincie (siegue a dire il signor Zanon) una botte del nostro vino vale cento lire, e una botte del vin di Borgogna ne vale otto mila ».
E qui egli esclama contro il lusso degl’Italiani, che potendo bere il propio vino a buon mercato, bevono quel di Borgogna che costa sì caro. Ma ho già detto nelle mie osservazioni alla prima lettera di questo tomo, che tali esclamazioni sono intempestive, perchè i compatriotti del signor Zanon fanno venir sì poche botti di vino dalla Borgogna, che non monta neppur il pregio di farne motto, non che di esclamare. Il vino del Friuli chiamato Piccolito sono anch’io del parere del signor Zanon, che quando è di quel buono, o vecchio bene, ha molta somiglianza col Tocai, e dico anch’io con esso che i Friulani farebbero benissimo a coltivarlo, acciocchè se ne potesse sempre più vendere in Germania, come si fa di quello che già si va coltivando da qualche anno in alcune poche parti del Friuli: ma egli torna a dar addosso al vin di Borgogna, e torna a dire che il vino del Friuli

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Citazione/Motto

« ha tanta rassomiglianza con quello da non potersi distinguere qual sia di Borgogna, e quale del Friuli; »
ed io torno a dire che egli non ha provata questa sua asserzione. Il poco che si dice per allungar questa lettera sul carattere de’Francesi, e le lodi che il signor Zanon dà ad essi di gente « volontariamente sobria ed economa in mezzo alla tanta ubertà e varietà de’loro prodotti », se fosse scritto in versi rimati direi che è detto in grazia della rima. I Francesi sono come tutti gli altri uomini, parte sono sobrii, e parte no; parte economi, e parte no. Lettera quarta. Ohimè, ohimè! Anche in questa lettera si declama contro gl’Italiani, perchè « danno le quaranta, e talvolta fin le ottanta bottiglie del loro vino per una sola bottiglia di vino di Borgogna! » Ohimè, ohimè! Anche in questa lettera vi sono de’pezzi di filosofia e di storia, che non provano punto la somiglianza del vino del Friuli col vino di Borgogna! Lettera quinta. Credo che il signor Zanon abbia ragione di biasimare i Friulani sul modo loro universale di

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Citazione/Motto

« pigiare gran quantità d’insetti coll’uva, e di lasciar marcire tre o quattro giorni le uve nelle tine a solo fine di far sì che il vino annerisca, e diventi denso e morchioso. »
Ma il signor Zanon non ha ragione di dire che il vino assai nero e denso e morchioso piace agl’Inglesi. Sono stato molti anni testimonio di vista del contrario, e il tanto vino della Guienna bevuto in Inghilterra non è nè soverchio nero, nè denso, nè morchioso; nè s’assomiglia al corbino più forte del Friuli. Molti squarci poi d’erudizione raccolti dal signor Zanon in questa sua lettera possono riuscire giovevoli a chi s’impaccia in far vino, egualmente che a chi ne fa traffico. Lettera sesta. In questa lettera si berteggia alquanto il fu signor Pontedera, già professore di botanica nell’università di Padova, per certa vana pompa d’erudizione da esso fatta un giorno cianciando sopra una cert’erba mangiata dagli antichi ebrei in insalata. Quindi si riferisce un suo parere, diviso in ventidue paragrafi, intorno all’impossibilità di fare un vino nel Friuli che s’assomigli perfettamente al vino di Borgogna. A quel parere vien dietro la risposta del signor Zanon, la qual risposta non piglia punto a confutare que’ventidue articoli, che a dir vero non sono confutabili sul totale. Qualcuno d’essi, concedo che è alquanto frivolo, ma la forza di tutti insieme è tale, che bisogna essere troppo cattivati dalla propria opinione per non vedere in qual chiarissima luce pongano l’assoluta impossibilità di arrivar a fare con l’arte del vino simile a quello di Borgogna nel Friuli. E il signor Zanon avrebbe certamente fatto molto bene se avesse accettato il savio consiglio datogli dal signor Pontedera in quel parere, cioè se avesse scritto in universale del pregio de’vini italiani, essendovene in molte provincie molti preziosi, e di qualità migliori che non i vini stranieri, quantunque non simili a quelli. Il signor Pontedera disse forse delle cose degne di riso facendo quella lezione nell’orto sulla prefata insalata ebraica, ma il suo consiglio al signor Zanon era sensatissimo, e s’egli lo avesse posto in pratica si sarebbe fatto più onore che non se n’è fatto col suo tanto declamare contro il vino di Borgogna, e col suo tanto ripetere che in Italia abbiamo generalmente « uno sciocco impegno per le manifatture e pe’vini forestieri ». Delle manifatture forestiere non ho altro da dire se non che noi non abbiamo che a recarci in mano un oriuolo, un astuccio, una scatola, un bottoncino d’abito o di camicia, insomma ogni bazzecola fatta in Francia o in Inghilterra, e compararla ad altra simile fatta in Italia, per essere tosto convinti che innumerabili cose manufatte egualmente in que’paesi e nel nostro non hanno a competere; altrimente il vantaggio non è dal canto nostro a mille miglia, eccetto che vogliamo negare all’evidenza di tutti cinque i sensi del corpo nostro. Concedo al signor Zanon, che in diebus illis le manifatture d’Italia erano in generale superiori a quelle di Francia e d’Inghilterra, e non m’occorre la sua raddoppiatissima erudizione per persuadermi di questa verità, che è senza difficoltà concessa da ogni Francese e da ogni Inglese; ma i tempi sono mutati, ed essi che hanno imparato da noi sarebbero ora i nostri maestri, se avessimo la volontà, o per meglio dire il modo di diventare loro scolari à notre tour.

Metatestualità

Conchiuderò queste mie osservazioni sulla prima Parte di questo tomo terzo del signor Zanon con dire, che io ammiro il suo zelo pe’vantaggi della provincia in cui è nato, e per tutta Italia in generale, ma che lo trovo in queste sue sei lettere quasi alterato non ragionevolmente contro agli stranieri, e specialmente a’Francesi, a’quali bisogna che noi procuriamo di scemare i vantaggi che da noi ricavano vendendoci le robe loro, non mica con disprezzare quelle robe, ma con farne delle migliori o almeno delle equivalenti; cosa però che non so se sarebbe possibile quand’anche n’avessimo la volontà. Vegniamo adesso alle lettere della Parte seconda.
Lettera prima. L’autore si propone in questa e nelle seguenti lettere di trattare della Moda, cioè di mostrare che l’imitare e il seguire che noi facciamo le mode straniere e quelle di Francia spezialmente, ne riesce cosa dannosissima. Egli ne dà tre definizioni della moda tratte da tre differenti autori francesi; quindi soggiunge che vuol

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Citazione/Motto

« trattare primieramente della moda rispetto al suo imperio; poi per riguardo al suo cambiamento: e finalmente per quello che nella moda appartiene al buon gusto ».
A questa divisione del suo argomento ho osservato però, che egli non si conforma con soverchia rigidezza in queste sue lettere, e che va saltando da un punto all’altro come gli torna più il conto, intralciando tutto quello che dice con frequenti pezzi d’erudizione, che talora sono molto al proposito, e talora s’avrebb’anche potuto far senza. Dietro tale sua divisione dell’argomento il signor Zanon ne dà in succinto la storia della moda, e come l’arte di fabbricare le stoffe più nobili e più stimate, cioè quelle di seta, egualmente che le fogge del vestire, fiorirono prima fra i Tirj: quindi in Costantinopoli; poi in Sicilia e in Venezia.

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Citazione/Motto

« Chi potrà pertanto negare (aggiunge egli) che i Francesi non abbiano per maestri gl’Italiani e singolarmente i Veneziani? »
Ma questa interrogazione si poteva risparmiare, perchè, come ho già additato, ognun sa che molte arti passando dall’Oriente all’Occidente si fermarono primamente in Italia, d’onde si sparsero per la Francia e per l’Inghilterra, e che colà nominatamente furono più che altrove perfezionate. Questa gran cosa è già stata detta e ridetta da migliaja di scrittori, ed è cosa alquanto increscevole il sentirsela qui ripetere ed inculcare con l’aggiunta di molte autorità. Lettera seconda. L’autore dice nel cominciamento di questa lettera che vuol fare le sue

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Citazione/Motto

« osservazioni sopra i diversi cambiamenti della moda, e rintracciare la continua variazione delle maniere di vestire nell’uno e nell’altro sesso; »
ma appena ha incominciato a spaziare sull’indole naturale ed unica de’Francesi per trovare strane fantasie nel mutare ad ogni istante gli abbigliamenti, intoppando casualmente in certi bagni, non può il signor Zanon resistere alla tentazione di darci, dietro all’istorico Poggi segretario di papa Giovanni xxiii, una descrizione de’Bagni di Baden in Germania, che non ha che fare colle mode del vestire di Francia o d’Italia, e con tale descrizione egli termina questa sua seconda lettera. Lettera terza. Tratta de’costumi de’Romani che fra l’altre cose,

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Citazione/Motto

« si profumavano tre o quattro volte il giorno, si facevano sovente strappare tutto il pelo, amavano i letti morbidi, baciavano le mani a’grandi, toccando loro le ginocchia, »
e operando una quantità d’altre cose, che non han troppo che fare coll’argomento principale, come vi hanno pur poco che fare le

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Citazione/Motto

« riflessioni di monsù di Montaigne sulle leggi suntuarie ».
Non mi soddisfa neppur troppo l’essere nuovamente allontanato dall’argomento colle riflessioni che fa il signor Zanon sulla necessità di variar le leggi a norma de’paesi; sul prezzo de’pesci rombi e de’pesci salamoni; su i barbari che saccheggiarono Roma; sullo scoruccio, o nero, o bigio che si fosse degli antichi Romani; sulle loro toghe, sulle loro stole, sulle loro preteste, sulle loro trabee, sulle loro tuniche laticlavie o angusticlavie, sulle loro lucerne, sulle loro penule e sulle loro scortee. Tutta questa enumerazione degli abiti e degli adornamenti usati da’Romani è soverchiamente prolissa, e fatta dall’autore per isfoggio d’erudizione anzi che per dar luce a’suoi argomenti; e così trovo pure prolisso e fuor di luogo lo squarcio tratto da monsù di Montesquieu, in cui quel signore fa che un Persiano si rida de’capricci de’Francesi nel vestire le loro donne. Con quello squarcio il signor Zanon termina questa sua terza lettera, appiccando ad essa verso il fine una postilla, in cui si racconta come

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Citazione/Motto

« ad una signora parigina di poche fortune fu regalata una delle prime cuffie alte di nuova moda. Impaziente d’essere tra le prime a farne pompa per Parigi, ordina che si attacchi la carrozza. Ci monta dentro; ma l’esorbitante altezza della cuffia l’obbliga a stare in quella tanto curva e disagiata, che determina di farne alzare il cielo. Ciò fatto, non può entrare per la porta. Conviene alzare anco le porta. Si trova l’impedimento delle travi. S’alza perciò il primo appartamento. Dopo questo s’alza l’altro, e per non perderne uno s’alzano le mura e il tetto. I fornimenti non servono più; convien fornirla tutta di nuovo e alla moda. Terminato tutto questo, il marito si trovò rovinato ».
Tutta questa storiaccia è una magra buffoneria, checchè ne paja al signor Zanon, il quale se ne compiace tanto che consiglia il Goldoni di farne una buona commedia veneziana, perchè sia intesa da tutti; ma io gli dico che Goldoni non farebbe altro, che aggiungere una inutile sciocchezza teatrale alle tante sciocchezze teatrali che ha già pubblicate, e che sarebbe cosa da stomacare chiunque ha il senso comune, se seguendo l’avviso del signor Zanon, si facesse poi stampare questa nuova commedia del Goldoni, e se si obbligassero tutti gli uomini che si maritano ad impararla a mente. Il signor Zanon non è stato dalla natura destinato ad essere un legislatore teatrale. La quarta Lettera comincia a riferire

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Citazione/Motto

« alcune spiritose osservazioni del marchese d’Argens che si finge un Levantino arrivato a Parigi »
su i costumi di Francia. Poi riferisce alcune altre osservazioni, alle quali io darò l’appellativo di false o insulse, del signor abbè le Blanc, il quale dice che in Parigi le fantesche si sforzano d’imitar le padrone nel vestirsi, e che al contrario in Londra le padrone si sforzano d’imitare nella stessa cosa le fantesche. Chi ha mai sentito spropositi e scempiaggini di questa sorte! Dopo d’aver tradotti alcuni insipidi squarci delle stolte lettere di quel monsieur l’abbè, il signor Zanon fa una breve digressione sui flati, e poi sugli occhiali; quindi narra una storiella d’un certo Brimboc sposato mattamente da una donna di Berlino, la quale storiella non m’ha punto fatto ridere, e così si termina questa lettera. Lettera quinta. Si passa in questa lettera (o si pretende di passare) « all’esame del buon gusto della moda; » ma questo esame non consiste in altro che in un lungo ragguaglio de’progressi fatti dalla pittura in Francia, accompagnato da una nojosa lista de’nomi di alcuni pittori francesi, fiamminghi, spagnuoli e tedeschi; e poi si fa un altro ragguaglio di certe mode tolte dagl’Italiani agli ortolani di Chioggia, città o isola poco lontana da Venezia; e si tira innanzi a riferire berteggiando molte mode di Francia e d’Italia; e si cita un lungo squarcio dello Spettatore Inglese; e poi si citano due altri lunghi squarci d’una cattiva traduzione fatta da un conte Silvestri delle Satire di Giovenale, e poi si cita un passo del signor Valois, e poi un altro passo d’un signor conte Altani sulle femminili acconciature del capo, il qual passo è corredato di due iscrizioni antiche; e in somma quasi tutta questa lettera non tende ad altro che a mettere in ridicolo la cura che si danno le donne di acconciarsi la testa, e di variare perpetuamente gli ornamenti loro, con un diluvio tale d’erudizione medagliesca, che mi ha seccato moltissimo, spiacendomi sempre il vedere uomini ben nati fare degli sforzi non meno inutili che ridicoli per cambiare la naturale inclinazione che hanno le donne di comparire belle al possibile. Forse che gli uomini non hanno anch’essi lo stesso desiderio fitto loro nel cuore dalla madre natura? E forse non piace a noi la varietà negli abbigliamenti quanto piace alle donne? Le notizie storiche intorno alle parrucche dateci dal signor Zanon in questa sua lettera, non provano in sostanza altro se non che l’amore della varietà è una cosa naturale negli uomini quando convivono con le donne, come si usa in Europa. Bisogna esser Turchi, e trattar le donne come vilissime schiave, per poter soffocare il nostro violento desiderio di comparire belli e piacenti agli occhi loro quanto sia possibile; anzi guardando a’Turchi stessi m’immagino che l’amor loro al magnifico vestire derivi in parte dalla lusinga di piacer vieppiù alle loro donne. Lettera sesta. L’autore la comincia con dire che vuol parlare « dell’attinenza che la pittura ha con la manifattura dei drappi di seta ». Quindi prova che i colori usati da’nostri tintori nel tinger le sete sono tanto belli e vivaci e durevoli quanto quelli usati dai tintori di Francia; e le sue prove non solo mi pajono buone in conseguenza degli argomenti che adduce, ma mi debbono anche parer tali per illazione, riflettendo che il signor Zanon professa principalmente la mercatura di derrate seterecce, e che gli è forza se n’intenda quanto chiunque. Assicurata replicatamente la perfezione de’nostri colori, il signor Zanon abbandona il suo soggetto, e scappa a parlare dell’arte di tinger le lane presso il popolo eletto; dell’opere di piuma usate dagli antichi, e delle antiche tessiture di piume e d’oro ne’drappi. Racconta quindi un caso succeduto a’cortigiani di Carlo Magno; e fa un breve panegirico a un certo ingegnoso pollajuolo veneziano per aver messo insieme certe piume con buon disegno in una specie d’arazzo. Poi ritorna a discorrere delle opere di piuma usate dagli antichi, e de’loro lavori d’oro filato, e del loro modo di filar l’oro, e delle Opere Polimitarie di cui si parla nella scrittura; e dell’antichità dell’arte di tingere; e dell’ajuto somministrato dalla chimica a quell’arte. Passa quindi a darci delle notizie concernenti la scuola o compagnia de’tintori veneziani, e d’una legge veneziana fatta a vantaggio dell’arte loro nel 1510. Poi ne dà notizia d’un libro molto raro composto in lingua veneziana da un Gioanventura Rossetti sull’arte del tingere panni, tele, bambagie e sete; e datoci in una lunga postilla il proemio di tal libro, prova ad evidenza come i Francesi hanno da’Veneziani, e probabilmente da questo Gioanventura, imparati i due modi di tingere in grand teint, et en petit teint, chiamati da quel Veneziano l’arte maggiore e l’arte minore. Con questo si dà fine a questa lettera, la quale m’è riuscita curiosa e dilettevole, quantunque in alcune delle sue parti si sfoggi più erudizione che forse non occorreva. Lettera settima. Narra istoricamente come l’arte del tingere fu ridotta alla sua perfezione in Francia mercè l’attenzione e gli statuti fatti colà dal tanto celebrato Colbert ministro di Lodovico decimoquarto; e come quell’arte era già stata ridotta da dugent’anni prima alla sua perfezione da’Veneziani. Ne dà quindi conto d’un libro francese intitolato le Tenturier parfait tradotto dal già nominato libro di Gioanventura Rossetti, e di tal traduzione ricopia l’avertissement tal quale sta nel libro, volgarizzandolo poi, e facendovi qualche postilla, e qualche riflessione sopra, con che si dà fine a questa lettera. Lettera ottava. Si propone di trattare « della invenzione nella varietà dei disegni, che dai Francesi sono stati introdotti nei drappi di seta, » ma al suo solito fa molte digressioni, cominciando a riferire alcune riflessioni fatte da Giacomo Savary nel suo Trattalo del Perfetto Negoziante, e dal canonico dello stesso nome nel suo Dizionario Universale del Commercio intorno all’inventare nuove mode, o piuttosto intorno al pericolo di fabbricare stoffe di moda capricciosa, e che può essere di poca durata. Fa quindi una storia dell’introduzione e del progresso de’fiori ne’drappi di seta che è molto curiosa, e narra come i Francesi si seppero destramente servire in tal proposito di que’fiori orientali descritti nell’Orto Malabarico, e in altri libri di botanica.

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Citazione/Motto

« Gli uomini di spirito e di coraggio come sono i Francesi (dice quindi il sig. Zanon) sanno profittare di tutto. Hanno innumerabili modelli da imitare, e possono cavare delle nuove mode dalle tappezzerie delle ricchissime guardarobe reali, e da quelle di tant’altri principi; da tanti arabeschi, da tanti grotteschi, e che so io ».
Ecco come il nostro autore sa far giustizia al merito de’Francesi; ma mi sia permesso di riflettere, che quando una nazione ha tanti mezzi da perfezionare manifatture quanti ne ha la nazione francese, è forza che dia il gambetto a quelle nazioni che non ne hanno e non ne possono avere altrettanti: per conseguenza si fa una cosa non solo inutile, ma ingiusta, declamando e sgridando contro quelli che non riducono le loro manifatture alla perfezione di quelle di Francia, poichè il non ridurle a tale perfezione deriva da quella invincibile mancanza di tutti quei tanti mezzi: onde il signor Zanon poteva in molti luoghi di questo suo tomo risparmiare molte delle sue declamazioni, e molte delle sue grida contro que’suoi compatriotti che danno la preferenza sulle loro a molte manifatture francesi. Il signor Zanon dietro le riferite parole viene a discorrere degli arabeschi e de’grotteschi usati nelle stoffe di seta, e annicchia nel suo discorso il ragguaglio d’un suo paesano chiamato Giovanni Nani da Udine, disegnatore maraviglioso di grotteschi e scolaro del famoso Raffaello d’Urbino. Nel panegirico che il nostro autore fa a quell’Udinese trova pure ingegnosamente e con garbo il modo d’introdurre le lodi d’un gentiluomo veneziano ora vivente, che è propio degno d’ogni lode, poichè impiega le sue ricchezze in provvedere la sua patria di molti capi d’opera che le mancavano, specialmente di pittura e di scoltura, con una liberalità d’animo veramente principesca. Ma se io do ragione al signor Zanon quando parla del nobil uomo Filippo Farsetti, io non gli do gia ragione quando dice che

Livello 5

Citazione/Motto

« verrà forse un tempo in cui le nazioni si ravvederanno e stupirannosi d’avere così ciecamente profuso tanti tesori per correr dietro a tante capricciose invenzioni de’Francesi, a’quali è riuscito di spargere con indicibile felicità per tutte le parti del mondo tante mode, tanti usi, tanti libri, abiti, galanterie, manifatture d’ogni sorta, e perfino la loro medesima lingua, che forse ne’secoli avvenire si crederà che il mondo tutto sia stato un giorno dominato da’soli Francesi, siccome il fu da’Romani, e sarà mercè di siffatte bagattelle perpetuata la memoria di quelli siccome l’hanno perpetuata questi con tante magnifiche opere, che ancora si conservano dovunque s’estese il loro vastissimo imperio. »
Questa tirata contro i Francesi è una declamazione troppo stizzosa, e non conveniente in bocca d’un uomo filosofico. Se i Francesi hanno avuto tanto ingegno e valore da perfezionare molte arti, e specialmente le manifatture che si fanno colla seta; se i Francesi hanno inventate tante mode, e usi e abiti e galanterie, e fattele adottare da tutte l’altre nazioni; se i Francesi hanno scritto de’libri universalmente preferiti da’loro vicini a’loro proprj libri: se i Francesi in somma hanno omai fatta ricevere la lingua loro per la lingua più bella di tutte le lingue d’Europa, i Francesi non devono essere tacciati d’autori di bagattelle, ma devono essere ammirati, lodati e considerati più di quelli che sono ancora lontani mille miglia dal far altrettanto. Va bene che noi amiamo ciascuno la patria nostra, che la lodiamo, che procuriamo di giovarle con le parole nostre e con le nostre opere; ma non per questo dobbiamo maltrattare quelli che confessiamo essere superiori a noi in moltissime cose. « E come mai (siegue a dire il signor Zanon) e come mai non si scuotono dal sonno loro gl’Italiani? » Cioè, vuol forse dire, come mai non fanno anch’essi delle stoffe di seta tanto belle quanto quelle de’Francesi? come mai non inventano delle mode, e degli usi, e degli abiti, e delle galanterie, delle manifatture d’ogni sorta che possono spargersi dappertutto come quelle di Francia? Come mai non iscrivono de’libri che possano render la loro lingua così universale come lo è ora la lingua francese? Questi come mai sono presto detti; ma chi sa indagare e scorgere le situazioni o vogliam dir le circostanze attuali delle nazioni, sa altresì che il fare certe cose non dipende sempre dall’ingegno e dalla buona volontà degl’individui d’una nazione, ma che dipende dall’ampiezza e dalla potenza sua, e da molt’altre cose che non sono arbitrarie, e possibili a farsi per semplice virtù d’ingegno e di buona volontà. Se non si fosse verbigrazia scoperto il Capo di Buona Speranza e quindi l’America, le arti avrebbero probabilmente ancora il seggio e il primato in Italia; ma che possiamo noi fare adesso per rimediare a’mali che ne sono accidentalmente stati cagionati da Velasco de Gama e da Cristoforo Colombo? Pure non ingolfiamoci ora in un mare troppo vasto, e basti questo cenno sulla cagione della decadenza dell’arti, e delle manifatture, e del commercio in Italia, e sulla presente impossibilità nostra di gareggiare co’Francesi, e con qualch’altra nazione europea in fatto d’arti, di manifatture, di commercio e di universal sapere. Lettera nona. In questa lettera il signor Zanon torna a dire che potrebbe facilmente « provare come tutte le invenzioni Francesi ebbero il loro nascimento in Italia; » ed io gli torno a dire che non occorre provare una cosa data per concessa non solo dagli Italiani ma da’Francesi stessi, com’egli medesimo dimostra e prova invincibilmente. Fatta l’introduzione alla sua lettera il signor Zanon parla di que’merli che sono chiamati punti in aria, delle legature de’libri, e di varie macchine che servono a seminare il frumento. Tutte queste cose sono state originalmente inventate dagl’Italiani, e specialmente da’Veneziani. Nessuno glielo niega; sia con Dio, ma che conchiude questo? Che importa il sapere il nome degl’inventori de’punti in aria, delle legature de’libri e delle macchine da seminare il frumento? Esortiamo i nostri compatriotti a far fabbricare di molti merli se v’è probabilità di spacciarli fra gli stranieri: confortiamo i nostri autori a scrivere de’buoni libri, e i nostri libraj a farli bellamente legare: e chi di noi ha de’campi, si faccia fare delle macchine per seminarli, se quelle macchine possono far doppiare il prodotto de’nostri campi; ma non disperiamoci a gridare contro chi sa far fare de’merli che si comprano volentieri per tutta Europa; contro quelli che sanno ben comporre e ben legare de’libri: e contro quelli che seminano i loro frumenti con certe macchine non inventate in casa loro. Questo è quello che bisogna dire a’nostri Italiani, senza tanto istizzirsi contro i sordi popoli che non vogliono badare a loro ingegnosi e industriosi artefici. Lettera decima. Si continua anche in questa lettera sul tuono d’alcuna delle antecedenti a dire che gl’Italiani sono gente ingegnosa, e capace d’inventare non che d’imitare, se in Italia e fuori d’Italia si potessero vendere le loro manifatture. Chi diascane è d’opinione contraria? E perchè poi a questo proposito imbrattare un libro che parla dell’Agricoltura, dell’Arti, e del Commercio, con mentovare, come si fa in questa lettera, il costume che v’è in Venezia di far valutare dal sarto la stoffa che si vuol comprare da un bottegajo? Queste sono notizie che non avrebbero dovuto trovar luogo in un libro decorato da un titolo così magnifico. Questi piccoli pezzi di particolar costume bisogna lasciarli metter in ridicolo al più al più da Truffaldino, da Tartaglia sul teatro, e non parlarne con una serietà e con una magnificenza di rimproveri da sbigottire mezzo mondo. Ma da una superficiale scorsa da me data pur ora al resto di questa lettera decima, e all’altre due che compiscono questo tomo, vedo che tutto continua a un dipresso nello stesso stile; e siccome sento che il minuto ragguaglio di ciascuna d’esse comincia a infastidirmi e ad annojarmi, così penso che potrebbe annojare e infastidire anche i miei leggitori, onde giudico a proposito di risparmiare a me questa poca fatica di andare sino al fine del tomo, e di avvertire chi ha voglia di saperne esattamente il contenuto, che ricorra a quelle;

Metatestualità

che io intanto conchiudo il mio giudizio d’esso, con dire che
non mi pare eguale in bontà a’due tomi precedenti, riboccando troppo di declamazioni, di ripetizioni, di digressioni e di citazioni non sempre bene annicchiate. Il signor Zanon però si mostra sempre e lodevolmente un campione forte e feroce in favore della sua contrada; voglio dire uno scrittore pieno di buona volontà verso i suoi paesani, e un galantuomo che fa quanta fatica può fare per giovare a’Friulani e a’Veneziani in particolare, e a tutti gli uomini in generale.

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Lettera intorno alla cagione fisica de’sogni, del P. D. F. F. L. V. In Torino 1762, nella stamperia Mairesse, in 4.o

I secoli antichi hanno abbondato egualmente che il nostro d’una certa razza di scrittori molto malvagia, e che dal comune delle genti è oggidì denominata da’collitorti, perchè coloro che la formano hanno per la più parte il mal vezzo di portare il collo un pocolino inclinato sulla spalla sinistra. Oltre a questo segnale, gli scrittori collitorti si possono quando tacciono distinguere con facilità dagli altri uomini a una cert’aria di viso sempre grave come quella per mo’di dire d’un somiero di molta età; e quando parlano si riconoscono con agevolezza ancora maggiore, perchè il loro parlare è per lo più un grido continuato ed uniformemente collerico, non troppo dissimile del venatorio abbajare de’cani. Il mestiero principale di questi scrittori collitorti è appunto d’inseguire que’pochi, che sono a giusta ragione avuti dalla gente per filosofi, e di abbajar lor dietro a guisa di segugi e di bracchi a misura che li veggono avanzare con franco piede pe’vasti campi delle difficili scienze. Uno studioso e contemplativo galantuomo si fa, verbigrazia, ad esaminare la propensione de’sensi o la natura delle idee; le proprietà della materia, o le qualità dell’anima, l’estensione dello spazio, o l’ampiezza de’corpi che per lo spazio s’avvolgono; la possibilità o l’impossibilità di questa, di quella, e di quell’altra cosa; ed ecco subito uno di questi maladetti collitorti, che salta fuori dalla cava dell’ignoranza, o dall’antro della prosunzione, e che subito gli corre dietro a quattro gambe, o ragliando, o squittendo e bociando a quanto n’ha in gola.

Livello 4

Eteroritratto

Da qualcuno di questi scrittori, di cui v’è sempre stata nel mondo più che mediocre abbondanza, si guardi dunque l’ingegnoso autore di questa Lettera sulla Cagione Fisica de’Sogni; e si ricordi che i veri cani sono assai meno pericolosi di questi cani per similitudine. Questo autore si è buttato qui sur un argomento alquanto astruso, onde si potrebbe dar il caso che un terribile nemico d’argomenti astrusi, voglio dire il finto conte Puppieni, gli latrasse dietro, come fa all’inglese Derham e al napoletano Genovesi, che hanno avuta la baldanza di trattare de’soggetti fuori della mental portata di questo grave cervello. Gli è vero che questa stolta genìa non è più tanto da temere a’tempi nostri quanto lo era a’tempi andati. A’tempi andati si sa come i Puppieni furono possenti in Grecia, e come astrinsero il povero Socrate a sorbirsi un buon bicchiere di cicuta: nè la Toscana si può ancora dimenticare che il suo gran Galileo, soverchiato dall’impeto di cotale ciurmaglia, si trovò, lottando con essi, ambe le braccia poste alquanto fuori del loro sesto naturale. Quantunque però al dì d’oggi le faccende stieno un poco altramente, e che gli scrittori collitorti non tripudiino e trionfino più tanto come allora, l’autore di questa lettera, come dissi, vada cautissimo nel trattare questa sorte d’imbrogliate materie, non essendo buona cosa l’aver a fare con questi rabbuffati ipocritoni, che minacciano rovina al panteone tosto che sentono qualcuno parlare con ferma voce nel suo vestibulo. Intelligenti panca. Vengo ora alla sua lettera. Questa lettera il P. D. F. F. l’ha scritta a proposito d’un sogno d’una dama, verificatosi poco dopo che fu sognato. Indagando la cagione fisica del nostro sognare egli riferisce tre opinioni.

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Citazione/Motto

« La prima è quella, dic’egli d’Epicuro, il quale essendo uno di que’filosofi che non vedono o non vogliono vedere più di quello che vedono, asseriva che tutto quello da noi chiamato sognare, sogno, o cagione per cui si sogna, non esser altro che spettri che si staccano continuamente da’corpi anche in tempo di notte, che così slanciati vanno a passar la rassegna scherzosamente sotto le finestre della spettatrice anima di coloro che dormono. »
Di questa opinione d’Epicuro il P. D. F. F. se ne fa beffe, e appena si dà l’incomodo di confutarla. Lo stesso avrei fatto anch’io, parendomi molto insussistente, e di soverchio buja. La seconda Cagion Fisica de’Sogni, continua l’autore

Livello 5

Citazione/Motto

« sia quella del Volfio, la quale, benchè più moderna, non pesa più della prima; e non temo d’affermarlo, non ostante che sia stata recentissimamente abbracciata ed insegnata quasi colle stesse parole da un gran filosofo (credo voglia dire monsieur di Maupertuis), e da due dotti e rinomati letterati, cioè da monsieur Formey e dal padre Jaquier. Il Volfio pretende aver dimostrato che tutti i sogni abbiano il loro principio da una sensazione, e che il succedimento delle immagini e de’fantasmi sia la cagione della maggior durata o continuazione di quelle stesse sensazioni, cioè de’sogni tanto imperfetti che regolati. »
A questa opinione del Volfio il nostro autore si oppone dicendo che

Livello 5

Citazione/Motto

« non capisce se Volfio e i suoi seguaci parlino delle sensazioni avute in tempo della veglia, o anche di quelle ricevute e fatte nel tempo che si dorme. Non capisco come faccia la sensazione ad eccitare e a produrre i fantasmi, e cosa sieno questi fantasmi, e cosa sieno questi fantasmi. Non veggo con qual ragione sufficiente debbano continuare i fantasmi a succedersi e a moltiplicarsi di numero, ed a crescere d’intensione; e non intendo come questa opinione possa renderci conto, come mai la produzione che fa la nostr’anima possa formare de’sogni regolati, poichè questa produzione di fantasmi (quand’anche si volesse supporre vera) deve giudicarsi fatta senza l’assistenza di quello che si chiama ragione, giudizio, volontà e libertà; altrimente si vorrebbe stentar di molto ad assegnare qual differenza vi sia tra l’immaginarsi quando siam desti, dall’immaginarsi quando dormiamo. »
Confutata così l’opinione del Volfio l’autore fa cronologicamente un salto mortale indietro, e pone per terza opinione quella d’Aristotile, cioè che

Livello 5

Citazione/Motto

« i sogni non sono che le tracce che lasciate nella nostr’anima dalle sensazioni del giorno. Questo antico filosofo (soggiunge l’autor nostro) suppone che ogni qualunque impressione, dopo che ci avrà cagionata una sensazione, lasci qualche reliquia o traccia di se stessa, cioè della sua forza, quasi direi vibratoria. »
Questa opinione d’Aristotile, nell’opinione del nostro autore, è vera per metà solamente.

Livello 5

Citazione/Motto

« Ella è appoggiata, dic’egli, sulla realità delle sensazioni, e sulla probabilità che quelle sensazioni lascino qualche specie di traccia dell’impressione che hanno fatta. Ma ciò non basta per intendere e spiegare i sogni ordinati, onde questa opinione va posta anch’essa nella linea delle verità apparenti, e non delle verità evidenti. »
Vegniamo ora noi all’opinione dell’autore che per suo dire s’accosta molto a quella d’Aristotile. Prima però di farcela palese egli premette queste tre verità, cioè

Livello 5

Citazione/Motto

« che vi sono alcune cose alle quali pensiamo e riflettiamo più che ad altre. Che noi pensiamo e riflettiamo più ad alcune cose, che ad altre a proporzione che queste sono più grandi e più interessanti o in loro stesse, o relativamente a noi; e che siccome il sapientissimo autore della natura ha fatto il tutto con peso, numero, misura, e ragione, così sia e debba essere assolutamente vero e certo che la forza che hanno tutti gli esseri di fare in noi qualche impressione o sensazione, ed il numero delle senzazioni e ribattimenti delle stesse: siccome ancora il tempo, la durata, e l’intensione con cui dobbiamo riflettere, tutto sia stato fatto con certa determinata legge tanto nella forza che nel numero. »
Premesse così queste tre verità, la terza delle quali è espressa con qualche imbroglio di lingua e di sintassi, egli viene finalmente a dire la sua opinione intorno alla Cagione Fisica de’Sogni in questi termini.

Livello 5

Citazione/Motto

« Dunque io credo ed affermo che tutto quello che si chiama sognare o sogno, altro non sia che le idee e le immaginazioni che sono eccitate nella nostra fantasia allorchè l’anima, o piuttosto il corpo umano, si trova nella quiete del sonno; e talvolta anche addormentato solo per metà; che sono eccitate, dico, dal ribattimento di quel numero di sensazioni ed impressioni in noi fatte ed eccitate prima ed in tempo che eravamo desti, ma che furono per qualunque cagione impedite poter ribattere in quel preciso numero che ciascuna di loro avrebbe ribattuto, giusta la natura di ciascuna sensazione. »
A questa opinione del P. D. F. F. vi sarebbero molte cose da dir in contrario, e con quella stessa facilità con cui egli risponde alle opinioni d’Epicuro, di Volfio e d’Aristotile. Ma questa cosa de’sogni è di sua natura non soggetta ad evidenza, dicasi quanto si vuole. Noi sapremo come si formano le immagini nella mente nostra sognando quando sapremo come si formano vegliando. Molto vi sarebbe da dire, e forse al fin del conto non si direbbe nulla di vero chi volesse rintracciar la cagione che fa sognare alcuni coricati piuttosto sur un lato della persona che sull’altro, che fa sognare ad alcuni de’sogni spiacevoli o terribili quando giacciono piuttosto in una che in un’altra positura; che fa parlare alcuni or chiaramente ed or confusamente nel sognare; che fa uscir altri di letto e passeggiar per casa, aprendosi anche gli usci e le porte, nè più nè meno che se vegliassero. Questi ed altri tali fenomeni del sogno troppo difficil cosa è spiegarli in modo che pienamente soddisfaccia. Qualche effetto prodotto dall’anima nostra lo possiamo congetturare se non indovinare appieno; ma come l’anima nostra operi in noi, e con quali forze muova questo e quell’organo del nostro corpo onde ne siegua questo e quell’effetto, noi nol sapremo mai, perchè chi ci ha fatti non ha giudicato a proposito di manifestarcelo, e poi (come nota l’autore) ne lasciò detto nel Levitico non observabitis somnia. Io lodo nulladimeno una moderata ricerca di certe verità che non sono obvie alle menti volgari, e mi piace di vedere il P. D. F. F. fare qualche sforzo per dirci qualche cosa di meglio sui sogni che non ci hanno detto altri: e lo loderei vie più se agli studj fisici e metafisici volesse aggiungere quello della propia lingua, e formarsi uno stile un po’ più toscano e un po’ più corrente, essendo questa sua lettera soverchio piena d’espressioni talora troppo francesi, e talora troppo stentate. Ed oltre alla lingua oscura e poco elegante v’è ancora un altro difetto in quest’operetta: voglio dire che l’autore procura tratto tratto di far il faceto: ma lo fa con tanta poca grazia e con tanta freddezza che mi nausea. Lasci dunque stare le facezie ne’suoi futuri scritti, che la natura non gli ha data una fantasia lepida. Malgrado però queste due imperfezioni raccomando la lettura di questa filosofica coserella a’miei leggitori, assicurandoli che troveranno in questo autore un uomo che si sforza di pensare, cosa di cui abbiamo bisogno grande in Italia, dove una troppo ampia turba di Domenici Manni, d’abati Vallarsi, di Giambattisti Vicini, d’avvocati Costantini e d’altri tali eterni ciancioni insulsi insulsissimi non fanno altro che scrivere, e scrivere senza mai fare il minimo sforzo per pensare prima di recarsi quelle loro sventurate penne d’oca fra le dita.

Livello 3

Del sale delle acque terminali di Lucca, Trattato di Giuseppe Benvenuti, con una lettera in cui si descrivono le infermità nelle quali convengono le medesime acque, in Lucca 1758, in 8.o

Livello 4

Eteroritratto

Questo Trattato, che è stato anche scritto e pubblicato in latino, contiene un’analisi molto accuratamente e molto giudiziosamente fatta da questo dotto medico dell’acque comunemente chiamate i Bagni di Lucca; bagni famosi da molti secoli, e frequentati sì negli antichi tempi che ne’nostri, anche da molti principi e signori grandi, talora per guarire di varj mali, e talora per godere delle scelte e numerose compagnie d’uomini e di donne che concorrono a quelli per passatempo e per diletto; ed io mi ricordo ancora con gusto che un mezzo secolo fa me la passai molto lietamente a que’bagni, mangiando, bevendo, e cantando, e ballando assai e di giorno e di notte con molto amabile brigata di persone dell’uno e dell’altro sesso, dopo d’essere stato dalla virtù di quell’acque e de’loro fanghi prestamente guarito d’una buona ferita fattami in un braccio da una bella schioppettata che ebbi l’onor di ricevere in Fiandra, quando seguivo le bandiere del famoso duca di Marlbouroug. O che bei tempi erano quelli, e che peccato che sieno passati! Ma che ci fare! Chiunque nasce e campa, bisogna che sia un tempo giovane, e un tempo vecchio! Non si può essere sempre giovani! L’autore di questo bel libretto scusi questa scappattina, che la sua esatta descrizione di que’bagni, e la diligente sua analisi di quell’acque ha cavata a forza dalla penna d’un vecchione che talora non può star a freno, ed è forza che siegua gl’impetuosi moti della bollente fantasia. Intanto questo suo libretto sia raccomandato a tutti gli amanti di studj fisici, e specialmente a que’signori che professano medicina, a’quali sono certo che la fatica fatta dal signor Benvenuti riuscirà utile e gradevole, contenendo molte notizie singolari, e atte a sempre più perfezionare la scienza di guarire i morbi che affliggono questa nostra benedetta umanità. Non faccio un estratto di questa operetta, perchè, come già dissi, parlando di un’opera fisica nel mio numero ix, non è possibile far estratti di certi libri che sono per così dire tutti sostanza. Cercando compendiarli non si fa altro che guastarli.
Terzetti scritte ad un amico d’un poeta Frugoniano.

Livello 4

Eteroritratto

Dite un poco a quel vostro Pretacchione, Che quando vuole far versi per nozze, Non istomachi tanto le persone. Non dico che non usi frasi sozze: Ma non vorrei neppur ch’egli adoprasse Certe lubriche immagini mal mozze: Vorrei che con ritegno egli parlasse; Vorrei che il molle seno e il casto letto E i casti baci da un canto lasciasse. Così procaccerebbe più rispetto Alla sua toga, e un certo soprannome Non gli saria così sovente detto. Faccia pure scherzar le bionde chiome Sulle guance vermiglie, e sulle bianche Spalle soavemente, io non so come: E batta pure a suo piacer le franche Ali, e sen vada a ragionar col fato E parlare per forza lo faccia anche; E giacchè tanto è a lui concesso e dato, L’oscura sede sua prema, e ne faccia Uscir più d’un oracolo sguajato; Corra di Dafne, nuovo Apollo, in traccia, E i verdi rami, in cui già furo un giorno Di colei trasformate ambe le braccia, Strappi egli pure a suo talento, e intorno La chierica sen cinga, onde ne appaja Come la statua di Virgilio adorno; E numeri a migliaja ed a migliaja Gli eroi tolti di man del sordo obblio, Assassinando il Guidi e ’1 Filicaja; E stiasi a tu per tu col biondo iddio, E di man gli tolga l’aurea cetra Sempre che di cantar gli vien disio; E i nomi altrui faccia volar sull’etra, A cavallo a’suoi carmi, e invidia intanto Si rompa i denti, mordendo una pietra; Ed in purpurea veste o in croceo manto Vegga scender Imene dalle sfere, Per la virtù del magico suo canto: Di tai baje n’infilzi a suo piacere, Che lo sfogar in versi la pazzia Non fu mai finalmente un mal mestiere: Ma da pudichi talami si stia Alquanto lunge, e da’lor puri lini La sua poco pretesca poesia: O noi pure usciremo de’confini Della nostra modestia secolare, E canterem noi pur certi latini Che zitto a forza lo faranno stare. Aristarco è molto obbligato a quel signor arciprete che se gli mostra tanto parziale: ma un intiero capitolo ha da essere condannato per un terzetto solo poco ripulito, per una sola difficoltà di rima non superata con bravura, per un solo vocabolo, o per una sola frase poco armoniosa o poca scelta. Ne’due capitoli del signor arciprete v’è molta facilità di pensare e d’esprimere; ma qualche trascuratezza, a dir vero di poco momento, che si scorge qua e là per essi, non permette al rigido Aristarco di farne uso ne’suoi fogli.

Metatestualità

Il chirurgo che ha scritta quella lettera al signor Antonio Savioli sull’Uso dell’aceto ne’casi d’idrofobia, legga l’avviso al pubblico posto in fine al numero XX.
Vannigio Enojo giudichi egli medesimo se il suo poema può riuscire una cosa degna dell’attenzione d’Aristarco quando ci narra sul serio che una botte di vino è stata annichilata per castigo di chi faceva cuocere i fagiuoli in quel vino onde riuscissero buona minestra.

Livello 3

Risposta d’Aristarco ad uno studioso cavaliere del collegio de’Nobili in Parma. Vi ringrazio, cortese giovinetto, della parzialità che mostrate a’miei fogli: ma m’è forza dirvi che vi leggete con poco frutto, poichè stampate de’versi all’età di sedici anni. Figlio mio, scrivete versi a vostra posta: ma non li stampate, se non volete avere un giorno cagione di rossore e di pentimento. Lo stesso dico al vostro amico che ne ha diciotto. Addio.