Citation: Giuseppe Baretti (Ed.): "Numero XIX", in: La Frusta letteraria di Aristarco Scannabue, Vol.4\19 (1764), pp. 784-873, edited in: Ertler, Klaus-Dieter / Fuchs, Alexandra (Ed.): The "Spectators" in the international context. Digital Edition, Graz 2011- . hdl.handle.net/11471/513.20.946 [last accessed: ].


Level 1►

N.o XIX.

Roveredo I luglio 1764.

Level 2► Level 3►

La vita di Pietro Aretino, scritta dal conte Giammaria Mazzuchelli bresciano, accademico della Crusca. Edizione seconda riveduta ed accresciuta. In Brescia 1763, presso Pietro Pianta, in 8.o

Facendo riflessione alle tante opere scritte dal sig. conte Mazzuchelli, e come alcune d’esse, voluminose molto, debbono avergli costato fatica assai, e cure e sollecitudini non mediocri, e danari non pochi per procurarsi da infinite bande informazioni e notizie abbondevoli, onde renderle perfette quanto più per lui si poteva, e’ mi viene quasi ghiribizzo di spogliarmi per un quarto d’ora di quell’innocuo carattere di critico da me assunto in questi fogli, e buttandomi alla satira, sputare fuoco e fiamme come drago contro que’tanti magnati del nostro e d’altri paesi, che invece d’imitare quel conte con impiegare i loro quattrini in libri, e il loro tempo in incessante studio, s’immergono anzi nell’infingardia e nel vizio. Un bel trovato sarebbe questo per trinciarla da quel barbuto e venerando vecchio ch’io sono! Introducendomi bel bello nel mio argomento col lodevole pretesto di fare un meritatissimo elogio a quel conte, ognun vede come naturalmente potrei venir a dire della robaccia tanta a cento conti, [785] che sono il rovescio di questo Mazzuchelli, e che invece d’adoperarsi virtuosamente com’esso tutt’ora s’adopera, non pensano mai ad altro che a farsi ben incipriare le parrucche, ad abbigliarsi ogni dì dell’anno come il dì delle nozze, a masticarsi pranzi e cene sardanapalesche, a mischiare le cinquantadue, e a far all’amore con le donne d’altri. Che vasto campo da esercitare la malignità mia sotto colore di fare il moralista! E nello stesso tempo che bella congiuntura di rendermi amico in eterno quel signor conte tanto stimato da chiunque ha inteso il suo nome, e tanto amato da tutti quelli che personalmente lo conoscono! Pure nè l’una, nè l’altra di queste due cose voglio io fare. Non voglio fargli alcun panegirico, avvegnadiochè il dottissimo, il chiarissimo, l’eruditissimo, ed altri somiglievoli principali ingredienti de’panegirici agli uomini letterati, sono stati in questo secolo prostituiti a tanti allocchi, e a tanti pedanti, ch’io mi vergognerei di ficcarne uno solo nell’elogio del conte Mazzuchelli, come mi vergognerei di ornare il seno d’una qualche bella dama con un mazzo di svenute rose, o d’appassiti garofani. Nè io voglio tampoco pormi a tartassare que’magnati e que’conti che non si vogliono mai assomigliare al nostro Mazzuchelli, perchè, oltre al non poter trovare nel mio cuore un grano di [786] malignità, so poi anco per lunga sperienza che, se la satira giova qualche volta a tenere sulla dritta via i buoni, non fa però altro che render i tristi vieppiù perversi e bestiali, appunto come il pungolo dell’aratore, che ajuta il bue a tirar innanzi il carro e il vomero, ma fa dar indietro smaniosamente il toro, quando colui glielo faccia entrare alcun pochino nella pelle.

Standomi adunque fermo sul mio proposito di dire semplicemente quello che mi pare de’libri e degli autori, cosa che non può ragionevolmente dispiacere ad alcuno, e che deve anzi somministrare divertimento e spasso a tutti, Level 4► Heteroportrait► io mi farò ad assicurare con l’usata mia franchezza, che la Vita dell’Aretino scritta dal conte Mazzuchelli è uno de’meglio pezzi di biografia che s’abbia la lingua nostra. Dilettevolissimo a leggersi è quell’esatto e giudizioso ragguaglio ch’egli ne dà de’varj mezzi adoperati da quello scaltro uomo per salire in grido e in fortuna, che tutti gli riuscirono a pennello, malgrado quella tanta ignoranza e quella tanta scelleraggine che andò sempre accoppiata alla sua scaltritezza. L’ignoranza di Pietro Aretino fu tale, che la stampa stessa, multiplicatrice e conservatrice maravigliosa degli scritti cattivi egualmente che de’buoni, ha appena avuta forza sufficiente per tra-[787]mandare sino a noi le tante filastrocche da colui scarabocchiate, e pubblicate più volte: nè alcuno si è curato ne’due secoli all’Aretino susseguenti di raccogliere l’opere sue, se non alcuno di questi muffati filobibli, che tanto più volentieri procacciano un antico libro, quanto più è dall’universale negletto e disprezzato. La scelleraggine poi dell’Aretino fu sì grande per molti capi, che il solo meritarsi d’essergli assomigliato in qualche conto basta per coprir un uomo di somma infamia. Nulladimeno l’Aretino al maggior segno ignorante e al maggior segno scellerato, seppe pur trovar la via di farsi dare de’buoni regali da’più grandi principi e signori de’suoi tempi. E come ciò? Con dire un subbisso di male della gente in generale e massimamente de’principi e signori grandi, e adulando poi con una viltà da schiavo non solo tutti que’principi e signori de’tempi suoi a uno a uno, ma anche quasi tutti i letterati del suo tempo, ammucchiando sopr’essi i più superlativi titoli, e barattando con essi ad ogni tratto quello di divino. Questo artifizio, che a’dì nostri non caverebbe un grillo del suo buco, operò molto efficacemente a favor dell’Aretino in quel secolo, in cui le lodi esagerate erano una cosa graditissima perchè pur allora inventata, e in cui lo scarabocchiare [788] delle sfiancate prose e delle stucchevoli rime si chiamava virtù, per mancanza di quella critica che poco dopo fissò il vero significato delle parole, e determinò con giustezza le idee che alle parole si debbono accoppiare: tanto è vero quello che soleva sì frequentemente ripetere la buon’anima del mio Diogene Mastigoforo, che Citation/Motto► « nulla giova tanto a farci fare una gran figura nel mondo quanto il nascere a proposito. Se Alessandro (soggiungeva quel buon papasso antiocheno), se Alessandro fosse nato a’dì nostri, non avrebbe probabilmente conquistate due leghe di paese; e Oliviero Cromwello si sarebbe rimasto un piccolo gentiluomo campestre in vita sua se veniva al mondo un secolo prima, o un secolo dopo, ad onta della sua tanta astutezza, della sua tanta ipocrisia e del suo tanto coraggio. Le circostanze furono quelle che condussero il Macedone a trionfare d’ignote nazioni mille miglia di là dal Granico, e che trasformarono un piccolo campestre gentiluomo in protettore d’uno de’più nobili regni del mondo. » ◀Citation/Motto Oh Mastigoforo! oh mio venerato maestro, se tu potessi levare per poco il capo da quella tomba in cui ti sei oggimai giaciuto un mezzo secolo, e aprire verso di me que’tuoi bellissimi occhioni turchini, non mi riuscirebbe impossibile l’additarti un uomo, che per [789] ignoranza e per scelleraggine non la cede un jota all’Aretino; un uomo che come l’Aretino si crede dotato d’ogni virtù perchè sa scarabocchiare delle cattive prose e de’cattivi versi; un uomo che è scaltro, petulante e sfacciato nè più nè meno dell’Aretino; un uomo in somma, come l’Aretino, maldicente e adulatore insieme, e bravaccio e vigliacco e dissoluto e matto, quanto quell’iniquo eroe del secolo decimosesto! Ma che credi tu, Mastigoforo mio, che quest’uomo si faccia in questo mondo con tutti questi aretineschi ornamenti intorno? Forse che i principi e i grandi della terra gli mettano di lor mano le collane d’oro al collo? Forse che gli mandino de’buoni sacchetti di ducati a casa? Forse che gli assegnino delle grasse pensioni? Forse che ognuno gli dia del divino, e gli faccia stampare le medaglie, o lo celebri sopra tutti gli altri in sonetti e canzoni? No, no, Mastigoforo mio. Il ghiottone non seppe nascere a proposito; onde invece d’invidiargli le collane, i ducati, le pensioni e le lodi, ognuno lo beffa, lo vilipende, lo detesta e lo fugge; cosicchè per campare la trista vita non ti vo’ dire che ladri mestieri egli sia costretto ad esercitare. Questa, questa, Mastigoforo, è la gran figura che fanno nel mondo quegli Aretini che vennero sventuratamente a nascere nel nostro [790] secolo; secolo poco ammiratore delle loro virtù scarabocchiatorie, e poco curante delle furibonde invettive loro, come poco attento alle loro vilissime adulazioni.

Metatextuality► Ecco, leggitori miei (a dirvela come per parentesi), ecco l’uso principale che nell’opinione mia bisogna fare de’biografici libri, che dipingono i costumi al minuto degli uomini e de’tempi, come i libri storici li dipingono all’ingrosso. Bisogna confrontare i costumi degli uomini e de’tempi d’allora con quelli degli uomini e de’tempi d’oggi; e se la saviezza e la prudenza consistono nell’operare a norma d’un retto giudizio formato dietro l’esame, o come vogliam dire, dietro il confronto delle operazioni altrui, gli è certo che un pezzo di buona biografia ajuterà que’nostri esami e confronti, e contribuirà forse più a renderne savj e prudenti nelle operazioni nostre, che non cento de’più stimati pezzi di storia. ◀Metatextuality

Nessuno però si desse mai ad intendere che il divino Aretino, pieno d’ignoranza, e di scelleraggine, e scaltro, e petulante, e sfacciato, e maldicente, e adulatore, e bravaccio, e vigliacco, e dissoluto, e matto, e fregiato in somma d’ogni più abbominevole dote, si sia sguazzata tutta quanta la sua vita nella gloria, nell’abbondanza, nella letizia e nella pace. Leggete, illustrissimi signori, leggete la Vita [791] sua scritta dal conte Mazzuchelli, e vedrete che in fondo alla coppa delle mondane dolcezze v’è sempre qualche pochetto d’assenzio; ond’è, che se all’Aretino diluviarono addosso le collane e i ducati, le pensioni e le lodi, egli venne anche onorato più d’una volta d’alcuna buona coltellata, che lo tenne a suo bell’agio in letto le settimane e i mesi. E qui osserviamo un vantaggio che ha il nostro secolo sul secolo dell’Aretino. Gli è vero che questo secolo non abbonda di signori prodighi di collane e di ducati, di pensioni e di lodi a tutti coloro che sanno scarabocchiare delle cattive prose e de’versi cattivi; ma gli è altresì vero che questo secolo scarseggia di quegli uomini stizzosi, che menano coltellate a furia per ogni frivola cosa detta o scritta contro d’essi; cosìcchè gli Aretini moderni se dall’un canto sono condannati a vivere nella penuria e nel dispregio, sono eziandio moralmente certi che la loro pelle è fuori d’ogni pericolo d’essere bucata come lo fu quella del loro celebre prototipo, mercè il poco o nessun caso che la gente fa d’essi e de’loro scarabocchi.

Oltre ad una molto viva e chiara idea de’costumi che correvano nel secolo decimosesto in Italia ed anche fuor d’Italia, il curioso leggitore ricaverà da questa Vita dell’Aretino mille pellegrine notizie in-[792]torno a’più famosi letterati, guerrieri e principi di que’tempi, essendo poche le pagine di questo libro che non contengano un qualche aneddoto assai singolare, o in cui non si riferisca qualche detto o sentenza d’alcuno di que’tanti uomini, che fecero e fanno tuttavia tanto parlare di se stessi da tutti quelli che si dilettano di letteratura toscana, latina e greca. ◀Heteroportrait ◀Level 4 ◀Level 3

Level 3►

Rime amorose inedite del signor abate Gio. Battista Vicini. Parigi, appresso Montalant 1759, in 12.o

Level 4► Heteroportrait► Nessuno s’aspettasse mai nell’aprire questo libercolo di trovarvi per entro altro che di que’comuni pensieri o insulsi o falsi, che si trovano nella maggior parte de’versi arramacciati da’nostri sciocchi pastori arcadi. Per essere subito convinto di questa verità basta leggere il primo quadernario del suo primo sonetto in lode d’una delle più pregievoli dame che adornino la nostra Italia, e a cui sarebbe stato facilissimo il dire qualche pellegrina cosa, o qualche cosa almeno non affatto volgare. Eccovi il quadernario.

Level 5► Citation/Motto► « Se quante stelle il cielo e l’onda arene,

Tante lingue avess’io, forse potrei,

O viva gemma degli adriaci dei,

Mandar tuoi pregi ove il dì nasce e sviene ». ◀Citation/Motto ◀Level 5

Che diascane! Non poteva mo questo poe-[793]ta trovar fuora un cominciamento di sonetto meno ampolloso e meno triviale di questo! Già li abbiamo sentiti milioni di volte questi pensieri; già milioni di rimatori hanno desiderato d’avere tante lingue e tante penne quante stelle ha il cielo, quante arene o gocce d’acqua hanno i fiumi e il mare, quante foglie hanno gli alberi, quanti fiori ed erbette hanno i prati, quante spiche i campi, e simili ciancie. E mi ricordo sino d’un contadino, introdotto in una farsa francese, il quale dice con un entusiasmo tanto poetico quanto quello dell’abate Vicini. Si la mer étoit d’encre, si les arbres fussions des plumes, et la terre du papier, tout cela ne suffiroit pas pour écrire les beautez de ma mie. Non mi piace neppure quel chiamare la dama una viva gemma degli dei adriaci. Questo è anzi un indovinello che una lode. Che mai sono le gemme degli adriaci dei? Molti anni sono trascorsi dacchè Aristarco ha lasciato di lodare le belle dame in versi, perchè sono molt’anni che la vecchiaja lo ha reso poco grato alle dame. Quando però bolliva anche a lui il suo bello e buono estro poetico, e quando esse si degnavano d’ascoltare qualche suo sonetto, cospetto di bacco, e’ si sarebbe vergognato di dire ad alcuna d’esse di quelle cose che possono venir in testa ad ogni goffo che abbia pur letto un solo tomo [794] della raccolta del Gobbi, o delle rime degli Arcadi! A lui non piaceva stare sul generale, e dire i tuoi pregi, le tue doti, o le tue virtù senza individuare qualcuno di que’pregi, qualcuna di quelle doti, o qualcuna di quelle virtù, particolare a quella tal dama; di maniera che non vi sarebbe stato modo d’adattare un suo solo sonetto a due differenti dame; cosa che non ha saputo qui fare questo poeta primario, il di cui sonetto sta tanto sull’universale, che, mutandogli l’indirizzo, tanto può fare per una dama quanto per un’altra; anzi tanto per una dama quanto per una bottegaja. Non s’è poi accorto il signor abate, che augurandosi tante lingue quante stelle ha il cielo e quante arene ha l’onda (credo voglia dire il mare), egli s’è per conseguenza augurato di avere una boccaccia larga quanto l’immaginazione può formar larga una fornace; la quale immagine invece d’esser poetica, è mostruosamente ridicola, e orribilissimamente spaventevole. E mi dica poi un poco il signor abate, che gioverebbe alla dama l’aver i suoi pregi mandati dove il dì nasce, o dove il dì sviene, cioè dove il dì casca in deliquio? Non sa egli che il dì nasce e sviene lontano molte miglia dal nostro globo, e che colà non vi sono abitatori che possano ammirare i pregi della dama, e che per con-[795]seguenza que’pregi non si dovrebbono da lui mandare colà, se foss’anco in suo potere il mandarli, e privarne così la persona che da que’pregi è adornata? Ma questi benedetti Arcadi, o per dir meglio questi subarcadi (che tali s’hanno a chiamare gli arcadi delle colonie) egli è un pezzo che sono avvezzi a sbalestrare delle cosacce strane; e purchè i versi sien giusti, e le rime esatte, abbia cura il cielo de’pensieri e de’concetti. Andiamo innanzi col sonetto.

Level 5► Citation/Motto► « Ma se il nobil tuo volto, e le serene

Volgessi alme pupille a i versi miei,

Scorto da sì gran lume, allor saprei

Alzar mio canto a gloriosa spene. » ◀Citation/Motto ◀Level 5

Ecco il primo pensiero abbandonato, ed ecco che senza avere quelle innumerabili lingue e quella boccaccia detta di sopra, basterebbe al nostro poeta, che la dama desse un’occhiata a’suoi versi, perchè egli sapesse alzare il suo canto a gloriosa speranza. Capperi, direbbe il mio don Petronio, questi poeti spiccano talora de’salti mortali! Povero il mio abate Vicini, che sai cavare dal più profondo centro del tuo cervello de’pensieracci così vasti come questi, e che poi ti abbassi a dare alle pupille d’una dama i volgarissimi epiteti d’alme e di serene! Eh va, e impara a epitetare un po’ più peregrinamente quando ti vuoi fare a lodar delle [796] dame! E qual è quella tua spene che sta suso in alto, e a cui tu vorresti alzare il tuo canto? Sentiamo la prima terzina del suo sonetto, che forse ce lo dirà.

Level 5► Citation/Motto► « Sì, che del tuo favor l’avra soave

Condur potrebbe ad immortal cammino

Qualunque afflitta e combattuta nave. ◀Citation/Motto ◀Level 5

Che ha mo qui che fare questa improvvisa nave afflitta e combattuta con quelle lingue, con quella boccaccia, o con la gloriosa spene detta di sopra? Non bisogn’egli essere più astrologo mille volte dell’astrologo Padovanello per indovinare quest’altro indovinello? Terminiamo il sonetto.

Level 5► Citation/Motto► «Allora invaso da furor divino

Insulterei l’acerbo Fato e grave

Preparato a goder miglior destino ». ◀Citation/Motto ◀Level 5

Legatemeli tutti questi arcadi, che davvero sono tutti matti quando danno in così grandi smanie senza la minima cagione. Il signor abate dunque, se avesse innumerabili lingue invece d’una sola nella bocca, o se i suoi versi fossero soltanto letti da una dama atta a condurre una nave ad immortal cammino coll’aura soave del suo favore, vorrebbe insultare il grave Fato? E che vorrebbe egli fare a quel grave personaggio per insultarlo? Dargli de’pugni? de’calci? scrivergli de’sonetti contro? Oh, abate mio, come male sapete lodare le nostre belle dame! Eppure voi stampando rime amorose vi dichiarate in-[797]namorato. Ma come mai è possibile che un innamorato mi faccia di questi pasticci quando si tratta d’una dama, che colla bellezza e colla virtù sua rapisce il cuore d’ogni uomo che se le avvicina? Andate via, andate via, che voi non foste mai innamorato. Entrate in quella vostra afflitta e combattuta nave, e spiegando al vento tutte le vele, fuggite lontano dalle belle e virtuose dame, onde non vi venga mai più la tentazione di lodarne alcuna con una boccaccia piena di tante lingue quante ha stelle il cielo e arene l’onda.

Il resto poi di queste Rime amorose è a un dipresso tutto subarcadicamente scritto come questo sonetto. Dappertutto s’incontrano le dee di Pindo, l’eliconio dio, gli aonii fiori, e altre simili rarissime cose; senza contare il suono ora dolente, ora giocondo delle sospirose rime; senza contare le ridenti rose de’dolci labbri; e gli eburnei visi; e i crini tra il nero e il biondo; senza contare i dardi e gli strali usciti dalla faretra di Cupido; e una donna che non ha simile; e un diluvio d’altre tali fanciullaggini ripetute milioni e milionissimi di volte da milioni e milionissimi de’nostri meschini poetanti; cose da staffilare un ragazzo se le dicesse in versi passato il decim’anno dell’età sua. Nè men ladre de’sonetti di questo abate sono le canzoni. [798] Sentite se si possono scrivere de’versi più voti, più duri e più miseri de’seguenti.

Level 5► Citation/Motto► « Bella, se il roseo labbro

Tacito e fermo sta;

Bella, se il bel cinabro

Te dischiudendo va;

Bel labbro tumidetto

Nel mezzo, e qual convien,

Che sopra ha un amoretto,

Due sui confin ne tien ». ◀Citation/Motto ◀Level 5

Che è il cinabro che va dischiudendo le donne? Com’è poetico il qual convien! Sentite questi altri.

Level 5► Citation/Motto► « Già la luce azzurrina (cioè gli occhi)

Lodai d’Egeria, ed ora

La mano alabastrina

Mi vuol suo lodator.

Se i bei cerulei rai (cioè gli occhi)

Ti fur di se cortesi,

Sai pur, mi dice, il sai, (è la mano che parla)

Se merto egual onor ». ◀Citation/Motto ◀Level 5

E che direte voi, leggitori, d’una vesta flebile che troverete nella strofa seguente?

Level 5► Citation/Motto► « Guidano i dì guerrieri

La falciatrice morte

Che pone in vesta flebile

La figlia e la consorte ». ◀Citation/Motto ◀Level 5

Chi ha mai sentito in lingua nostra dar l’epiteto di flebile alla veste? Flebile si dice della voce, del suono, de’lamenti, e simili cose, e non delle vesti, o delle [799] calze, o delle berrette. Ma che sa egli di lingua questo buon lombardo, che sempre scrive avra, avre, avreo, avree, lavro, tesavro, ed altre simili voci, con l’ consonante quando si devono scrivere con l’ vocale se non si vogliono falsificare colla pronuncia, e farle scambiare per voci del Perù anzi che per voci toscane. Gli è però tempo ch’io mi vergogni d’aver buttato tanto inchiostro dietro ad un fascio di rimacce tutte dozzinali e tutte cattive dalla prima sino all’ultima; e fia bene ora ch’io cavi rispettosamente il mio turbante a questo bell’innamorato, e che inchinandomegli con un profondo salamelecche, auguri una buona notte a lui e al suo collega degnissimo il signor dottore Agarimanto Baronio, raccomandando ad entrambi di leggere attentamente questo mio Numero diciannovesimo. ◀Heteroportrait ◀Level 4 ◀Level 3

[800] Metatextuality► Quantunque nell’opinione mia gl’Italiani d’oggi sieno tanto al di sotto de’Francesi in fatto di lettere, quanto i Marrocchini lo sono agl’Italiani, con tutto ciò voglio compiacere la dama che m’ha mandato da Napoli il seguente capitolo, e dargli luogo nella Frusta, recidendogli però i cinque primi terzetti e i due ultimi per una ragione che non occorre dire. Eccolo. ◀Metatextuality

Level 3► . . . . . . . . . . . . . : 

« Egli mi viene una stizza bestiale

[801] Allor ch’io leggo qualche autor francese

Che sputa tondo, e in zucca non ha sale.

Con tutta Europa egli viene alle prese,

E sempre disapprova, e danna, e biasma

Tutto quel che non è del suo paese.

Di lodar Francia sua tanto si spasma,

Che chi Francia non vede non sa fare

Neppur di pan bollito un cataplasma.

Chiunque vuol co’piedi camminare,

Chiunque vuol toccare colle mani

Bisogna vada in Francia ad imparare.

Ma che dirò di que’cerve’balzani

Fautori, ammiratori e lodatori

Di questi sputatondi oltramontani?

Le dotte dame, i sapienti signori

Non solo si vergognan se non hanno

Francesi i parrucchieri ed i sartori;

Ma non leggon mai altro in tutto l’anno

Se non romanzi, e frottole, e novelle,

Venute d’oltramonti col malanno,

Che hanno legature molto belle,

E non contengon nulla, o la dottrina

Te la sbucciano solo in pelle in pelle.

O grama Italia, o Italia meschina,

Perchè produci ancor poponi e fichi

Per chi ti disonora e t’assassina?

Perchè questi moderni li nutrichi,

Questi moderni seri infranciosati

Che somiglian sì poco a’loro antichi?

Saper non denno questi scioperati

Che non soltanto gli scrittor romani

Tutti di qua dall’Alpe sono nati;

[802] Ma che anco i loro imitator sovrani

Dante, Petrarca, l’Ariosto, il Tasso

Furono tutti quanti Italiani.

Italiani fur tanti ch’io lasso

Indietro per non far la litania,

Ch’ogni Francioso tengono giù basso:

Tanti che insegnerebbon poesia

A’Francesi non sol, ma quasi a Omero:

Scusa, lettor, s’io dico un’eresia!

E istorici eccellenti che mestiero

Saria d’una leggenda lunga un miglio

Chi ne volesse il catalogo intiero:

Critici, che di ferro avean l’artiglio:

Filosofi che avean la barba bianca;

E teologi puri come il giglio:

E tanti e tanti che con ala franca

Volar per tutte le scienze e l’arti,

Che a dirne di cento uno il fiato manca.

Questi prima, e poi quelli d’altre parti

Leggano i figli della nobil terra

Che tu, padre, Apennin, per mezzo parti,

E allora, se il giudizio mio non erra,

Cioè se qualche po’ d’ingegno avranno,

Alla ragion più non faranno guerra.

Da se medesmi si convinceranno

Che per aver diletto o documenti

Di gire in Francia ancor d’uopo non hanno.

In casa abbiam da illuminar le menti,

E da dar gusto al cuor quel che abbisogna:

Se in Francia è un libro buon, qui ve n’ha venti.

Firenze, Roma, Napoli, Bologna,

Milano, Pisa, Padova, Ferrara

A Grecia antica non farien vergogna.

[803] Gente han prodotta quasimente a gara

Che penna usato ha in pace, e in guerra spada,

Che fu in ogni cosa illustre e rara.

Nè v’è di questa nostra alma contrada

Un angolo, un cantuccio sì deserto

Che di qualche grand’uom lieto non vada.

Un ampio campo io qui mi sono aperto,

E potrei dire mille buone cose,

Ed il nostro pesar coll’altrui merto;

E a voi, donne d’Italia permalose,

Che fioracci ed ortiche ite cogliendo

Nell’orto d’altri, e in casa avete rose,

A voi potrei con un tagliar tremendo

Cader addosso, e mostrarvi che il clima

In cui nasceste, è un clima reverendo;

Ma il ruvido Aristarco ha troppa stima

De’be’vostr’occhi, e col muso m’accenna

Che guai s’io volgo contra voi la rima;

Però mi fermo, e tempero la penna;

E voi, signori, non vogliate ch’io

Ch’io vi bastoni un dì con un’antenna.

Io d’onorarvi ognor cerco e disio;

Ma quando poi alcun di voi ritrovo

Alla ragion retrogrado, o restio,

Signori miei, ad ira allor mi muovo;

Allora meno giù botte da cieco

Da non guarirsi colla chiara d’uovo.

Studiate adunque ben latino e greco;

E poi badate all’idioma vostro.

Nè fate a’galli scioccamente l’eco;

E allora un calamajo pien d’inchiostro

In vostra laude io voterò, che spero

Onor faravvi più che l’oro e l’ostro;

[804] Ma se con vostro sommo vitupero

Voi tirerete innanzi a far le bestie, »

. . . . . . . . . . . . . . ◀Level 3

Metatextuality► La seguente lettera è una delle molte mandatemi da quel R. M. G. nominato nel numero X a pag. 434, ed è stata scritta nel mese di marzo 1751. Credo che a molti de’miei leggitori non sarà discaro di fare un giro per Londra coll’immaginazione. È diretta, come l’altra del numero X, a quel Milanese, e dice così. ◀Metatextuality

Level 3► Letter/Letter to the editor► « Amico dolcissimo, che volete ch’io vi dica di Londra se non è ancora un mese che sono qui, e se non intendo ancora un’acca di questa lingua quando si parla, scarsamente indovinando il senso di qualche sentenza quando leggo, nè mi essendo possibile ancora giudicare del paese che per mezzo de’sensi? Già sapete che questa è una vastissima città piena di popolo, piena d’arti, piena di scienze, pienissima di ricchezze. Ma guarda ch’io voglia entrare così tosto a parlarvi d’alcuna di quelle cose delle quali l’uomo giudica col giudizio! Voglio starmi zitto su quelle sintanto che non sono assolutamente maestro della favella britannica. Datemi tempo ch’io me la ficchi tutta nella memoria, e allora sì che ve ne dirò alcune, anzi molte di quelle ben intese e ben discusse, e pesate alla bilancia [805] dell’orafo. Se nulladimeno volete ch’io vi cianci di quelle delle quali l’occhio e l’orecchio, e anche il naso può giudicare, di quelle vi ciancerò.

Level 4► Heteroportrait► « Londra dunque a misurarla colla vista, come ho fatto dalla vetta di san Paolo, suo principal tempio, mi pare quattro, e anche cinque volte più grande del vostro Milano. Ella è divisa in due parti dal Tamigi, e queste due parti sono riunite da due gran ponti, uno chiamato il ponte vecchio, l’altro il ponte nuovo. La parte che è alla destra del fiume non è che una striscia di case lunga forse dieci miglia, e fa figura di borgo, che da sito a sito va mutando nome. La parte che siede sulla sinistra del fiume è pur essa verbalmente, e non di fatto, divisa in due parti. Una parte si chiama London e l’altra Westminster. London è generalmente mal fabbricata per quanto appare di fuora. L’esteriore di Westminster è molto migliore, in particolare quelle fabbriche situate intorno a certe piazze chiamate di Grosvenor, di Cavendish, di Berkeley, di Hannover, di Soho, e di Saint James, che sono piazze grandi assai. Quella di Grosvenor fra l’altre è maravigliosa. Ma delle piazze tra London e Westminster ve n’ha forse trenta, e la più ampia è quella di Lincoln’s Inn-Fields, che fa [806] quasi tre volte quella di san Marco in Venezia. Molte delle strade di questa città sono tanto larghe che sei carrozze vi passerebbono a paro agiatamente. Una di queste strade attraversa sotto varj nomi tutto Westminster, e poi tutto London. Per questa sola strada si può dire che in certe ore del dì vadano molte nazioni più numerose che non è verbigrazia la Lucchese e anche la Genovese. È impossibile dire la gente che lungh’essa si vede; e i carri, e le carrozze, e i cavalli, e talora gli armenti di buoi, e i branchi di pecore che vanno in su e in giù a’differenti macelli; e più impossibile ancora è il dare un’idea dell’immenso fracasso che tante persone, e tante ruote, e tante bestie fanno. Lungo questa strada di qua e di là, come anche di qua e di là di moltissime altre le botteghe sono a migliaja, e piene di tante e sì diverse sorte di robe, che a registrarne solo i nomi saria mestiero un vocabolario venti volte più grosso di quello della Crusca. Oh quanti milioni di cose vi sono in quelle botteghe, che non m’abbisognano! So bene che nè per cento, nè per dugento mila scudi io non vorrei impegnarmi a rifare solamente le insegne di quelle innumerabilissime botteghe, migliaja delle quali insegne sono larghe come larghe tavole da osti, con di molte strane figure ed iscrizioni dipintevi suso d’ambi i lati, [807] sicchè se ne farebbe un libro assai bizzarro chi le volesse ridurre tutte in un libro. I più notabili abitanti di London sono per la maggior parte dati al traffico e alla mercatura. Que’ di Westminster sono lordi e cortigiani, e signori d’ogni fatta, perchè in Westminster il monarca, e tutta la corte, e i nobili, e i gentiluomini grandi e piccoli del regno stanno di casa per la più gran parte. London ha la sua cattedrale, che è quel san Paolo già nominatovi, e Westminster ha pur la sua, detta la Badìa. Di san Paolo ne fu architetto un cavaliero Cristoforo Wren. I maestri d’architettura trovano di molti difetti in questa chiesa; ma io che non la so guardar tanto pel sottile in certe cose, dico ch’ella è un edilìzio grande stupendo, e che t’empie tutti due gli occhi di magnificenza. È sicuro che san Pietro di Roma è più grande, e più stupendo che non san Paolo di Londra, ma le cose in questo mondo non possono esser tutte ragguagliate a una misura, e basta che san Paolo ha il suo gran merito, e che il cavaliere Wren se non era un Michelagnolo, o un Bramante, non era neppure un’oca nell’arte vitruviana. La Badìa di Westminster ha pure la sua brava larghezza, e lunghezza, e altezza; ma la sua architettura è gotica e bujamente maestosa. Chi ne fosse l’architetto non lo so. [808] Questo è il tempio in cui sono riposte le ceneri di tanti re, di tanti letterati, di tanti guerrieri e di tanti artefici singolari e famosi a’loro dì. La più parte degl’insigni poeti inglesi hanno quivi o l’ossa, o la statua, o almeno una lapida. Fra essi, come il matto ne’tarocchi, v’è Saint Evremond, franzese, di corta suppellettile tanto in filosofia, quanto in poesia. Un suo amico inglese lo fece quivi riporre dopo morto; ed io so di molti filosofi e poeti franzesi moderni, che starebbono meglio morti quivi, che non vivi in questo mondo. È non farebbono, a dir vero, troppo onore ai tanti onorati cadaveri che illustrano questa Badìa, ma non farebbono neppure tanto danno al prossimo co’loro incessanti sciaguratissimi scritti se avessero già il pataffio addosso. Oltre a quelle due cattedrali, alcune vaste fabbriche adornano questa gran città. La casa de’Banchetti, fabbricata da un Inigo Jones, che penso sia stato il migliore degl’inglesi architetti, non è che un picciolo pezzo d’una reggia, la quale se fosse un dì finita sul disegno lasciatone da quel valentissimo uomo, sarebbe la più bella e la più grande cosa che il mondo avesse in genere d’architettura. Il palagio reale di San James non è altro che un convento antico, le di cui parti sono brutte, e bruttamente accozzate insieme. Di den-[809]tro però vi sono degli appartamenti assai ricchi. Guild-hall, o sia il palazzo della ragione, è di struttura gotica, grande molto; e quello del Lord Mayor, cioè del primo magistrato di London, quantunque palazzo modernissimo, non è che uno sconcio cumulo di sassi. Di gran danari si saranno spesi per fabbricare così svenevole edifizio. In London è rimarchevolissimo il monumento. Così chiamano una grossa ed alta colonna eretta per conservare perpetuamente la memoria dell’incendio, che ne’tempi di Carlo II consumò gran parte della città. Quel monumento ha una iscrizione che attribuisce quell’incendio all’empietà de’cattolici Romani; ma quell’iscrizione è smentita dal gran cancelliere Clarendon, dal vescovo Burnet, e da altri istorici, e da molte memorie di que’tempi, cosicchè il poeta Pope, parlando di quel monumento, non ebbe difficoltà di dire

« Where London’s Column pointing at the Skies Like a tall Bully lifts the head and lies. »

Cioè dove la colonna di Londra additando le stelle, alza la testa come un Rodomontaccio, e mentisce. » Non vi dirò a uno a uno i palazzi, gli spedali, e i molti altri solenni edifizii sparsi qua e là per questa immensa metropoli, che saria faccenda troppo lunga. Vi voglio però dire de’due già nominati ponti sul Tamigi. Il [810] Ponte Vecchio è quello di London, che ha gli archi gotici, ed è largo tanto che di qua e di là vi sono delle case assai grandi, assai alte, e assai piene di gente. Il Nuovo è il ponte di Westminster, forse troppo più massicciamente fabbricato che non era bisogno, ma degno per la sua dismisuratezza d’una tanto dismisurata capitale. Di là da questi due ponti, e lungo il fiume come di qua, v’è quella prodigiosa striscia di case, di cui dissi, lunga dieci buone miglia, che mi fa propio sbalordire quando la considero. Così, a porre insieme tutte le abitazioni che sono riunite da que’due ponti, cioè a mettere insieme London, Westminster e quel lunghissimo borgo di là dal fiume, si ha una città infinita chi rifletta alle case, e si ha un regno de’ben popolosi chi ne numera gli abitatori. La vista poi è moltissimo rallegrata a chi va per le vie di questa gran città dal vago e modesto aspetto d’assai donne e donzelle, fra le quali vi sono de’capi d’opera di bellezza in quantità. Ma siccome in questo mondac-[811]cio il buono per decreto immutabile è sempre misto a di molto cattivo, così a chi va per queste vie viene altresì offesa moltissimo la vista da innumerabili oggetti spiacevoli. Sono anzi troppe che poche le case brutte bruttissime che qui si vedono d’ogni banda, e la più parte delle strade sono mal selciate, piene di fango nero come inchiostro, e d’ogni più stomacosa sporcizia, onde riescono alquanto dolorose a chi non v’è ben avvezzo, e per meglio dire a chi non ha cocchio. Gli è vero che si può andare il dì e la notte dappertutto in carrozze di vettura, che stanno aspettando su tutti i canti chi v’entri dentro; ma in esse si balla poi tanto, e si soffrono sì dure scosse, che gli è tuttavia men male per chi ha buone gambe trottare a piede. O terque quaterque beati coloro che hanno ghinee abbastanza da farsi fare de’carrozzini matematicamente molli e dondolanti! Eccovi, amico, uno de’tanti vani desiderj che Londra fa venire alla gente. Ma contentiamoci un po’ una volta di quel poco che abbiamo, e tiriamo un po’ innanzi per Londra a piede, senza languire dietro un carrozzino che non si ha, e che non si avrà mai! Quegli sfaccendati che così pazzamente invidiano altrui, invece di lagnarsi tacitamente e rodersi, e chiamar crudele il fato che non li ha fatti ricchi [812] a misura del loro amor proprio, che nol ringraziano anzi d’averli posti fuor del numero di quelle tante migliaja di creature umane che s’incontrano ad ogni passo per queste strade, avviluppate in lacerissimi stracci, e cariche d’ogni sorta di putente sudiciume? Voi non potreste credere, amico, quanti formicai di pezzenti v’abbia in questa città. Malgrado i numerosi ed ampj spedali qui eretti per ricovero loro, malgrado la quotidiana e somma liberalità d’infiniti uomini e donne, che danno quattrini a quasi ogni poverello che incontrano, e malgrado molte centinaja di mille lire sterline che tutto il regno paga pel mantenimento loro, l’opulentissima Londra contiene tanti poveri, che se ne popolerebbe una provincia delle grandi. La cosa vi parrà esagerata, ma non l’è. Pochi dì dopo il mio arrivo ebbi la buona sorte di far conoscenza col signor Enrico Fielding, autore di Tom Jones, di Jonathan Wild, e di molt’altri libri già a noi noti per mezzo delle traduzioni francesi. Questo signore è uno de’più rinomati giudici inferiori della città; e per conseguenza informatissimo di tutto quello che avviene in essa. Gli domandai se di tanti pezzenti che vanno per queste vie ne muor mai alcuno di stento e di fame. « Oh più di mille ogn’anno, mi rispose egli; ma la città, come vedete, è [873] sì grande, che non ce n’accorgiamo neppure. » Le ricchezze inesprimibili di questa nazione sono la fonte di questa inesprimibile povertà, perchè chi non è qui ajutato dalla fortuna, o dall’industria, bisogna sia irremissibilmente povero, che il danaro essendo a buon mercato, e rendendo per natural conseguenza ogni sorta di derrate carissima, guai a chi non può trovare di molti danari per procacciarsi quelle che sono indispensabili alla vita. Ma se i raggi visuali mi sono imbrattati dalla lordura di queste strade, e dalla sudicezza di questi tanti poveri, sventurato a me, che a nativitate m’ebbi un pajo di timpani agli orecchi troppo tesi, e troppo dilicati! Ad ogni sconsonanza che me li tocchi, e’mi tremolano con tanta violente vibrazione, che sarà pur miracolo se non torno in Italia sordo, perchè non vi è angolo in questa città, in cui non mi sia orrendamente scossa la tromba d’Eustachio da qualche doloroso frastuono. Se m’abbatto a sentire in case private, o in pubblici teatri uomini e [814] donne inglesi a cantare l’asprezza naturale delle loro voci, e la pochezza delle loro cognizioni musicali mi sfondano propio i timpani prefati. I loro trilli in terza, i loro stentati passaggi, le loro appoggiature di ferro, e i gorgheggi loro incastratissimi, sono cose da cannonate, non che da sassate. I loro Beard, i loro Champness, le loro Miss Young e le loro Mistress Cibber vi farebbono spiritare se le sentiste cantare su i teatri. E lo credereste voi, che fra le tante migliaja di dame e di signore giovani e belle, raccolte qui da tutte le parti dell’isola l’inverno, appena ve n’ha una dozzina dotata di belle voci? Non dico nulla di quelle de’dilettanti, che i lupi e i tori vi perderebbono gli urli e i mugghi. Eppure gl’Inglesi hanno la smania di cantare, e di sentir cantare, e pagano i maestri cari: anzi in Inghilterra si vuole a dispetto marcio della natura, che la musica sia una parte, e talvolta la più coltivata della donnesca educazione. E per colmo d’assurdità essi ascoltano poi la musica con tanta indifferenza, a giudicar d’essi cogli occhi, che i loro visi stanno sodi come maschere di marmo anche quando cantano i nostri musici migliori. Nulladimeno il ferreo suono delle voci ne’loro canti è una dolcezza ineffabile comparato a tant’altri suoni che qui ti squarciano a tutt’ora [815] le fibre auriculari. Chi vuol farsi un’idea viva e vera in mente dell’impero di Satanasso, non occorre che legga Dante, no: bisogna ch’e’venga a Londra a sentire l’indemoniatissimo romore de’carri, de’cavalli e de’cocchi; e le grida de’carrettieri, de’cocchieri e de’passeggieri dal primo spuntar dell’alba sino alla più chiusa notte; e le continue orribili bestemmie di questo popolaccio bestemmiatore, tanto potenti e tanto risonantissime, da far tornar indietro impaurite le saette e i fulmini di Giove. E la notte poi oh che diletto sentire i numerosi watchmen, cioè le notturne guardie della città che vanno intorno con una lanterna in una mano, e con un bastonaccio nell’altra, dando un gran picchio in ogni porta, e in ogni bottega, e gridando ciaschedun’ora con rauchissima rabbia! Oh soavissimo sollucheramento al cuore sentire il dindonìo di moltissime campanelle suonate da certi can malfussi, che vanno in volta cercando lettere dalle genti per portarle alle poste! Sentire gli strilli disperatissimi d’infiniti spazzacammini, o quelli delle mattutine venditrici di latte, o quelli delle vespertine mercantesse d’ostriche! Oh che gaudio ti desta ne’più rimoti nascondigli del cranio l’armonioso tintinnare di molte ossa di buoi menate orrendamente, e a due mani, sulle loro mannaje, da folte [816] truppe di beccai, che frequentemente corrono qua e là come mandre di tigri in caldo, facendo festa e barbaro tripudio. ◀Heteroportrait ◀Level 4 Metatextuality► Ma per oggi mi pare d’avervi detto abbastanza di Londra, onde statevi sano, che non voglio di più stancare nè voi, nè me ». ◀Metatextuality ◀Letter/Letter to the editor ◀Level 3

Level 3►

Poesie toscane e latine di Arcangiolo Quarteroni. In Arezzo 1754, per Michele Bellotti, in 8.o

Level 4► Heteroportrait► Ecco qui un altro di que’poeti, che se non è ascritto fra gli arcadi, merita d’esserlo per la pochezza del suo ingegno e per la dozzinalità del suo poetare. Congetturo dagli argomenti, che la più parte delle composizioni registrate in questo suo tomo fossero prima da lui a mano a mano fatte per raccolte, e che innamorato d’esse le abbia poscia volute qui stampare tutte insieme per non lasciare sparso qua e là un così stupendo tesoro. Se però la mia congettura non è falsa, io gli dico che poteva risparmiarsi e la fatica, e fors’anco la spesa, che questa sorte di roba può passare in una raccolta, essendo le raccolte come ognun sa destinate a vivere ventiquattr’ore al più. Ma le poesie da raccolte non vanno poi messe insieme in un volume colla stolta speranza d’applauso presente o futuro dalle genti. Queste [817] poesie in somma Metatextuality► (dico le toscane, che di cose latine non ne voglio parlare in questi miei fogli) ◀Metatextuality sono quasi tutte lodi a persone vive o morte; ma lodi così triviali, così prive d’ogni poetico artifizio, così mancanti d’ogni brio, che ti muovono propio nausea. Mi ha però fatto sorridere un sonetto posto a carte ventotto, in cui lodando una dama genovese, celebre a’dì nostri pel suo molto sapere, il signor Quarteroni la paragona a Cristoforo Colombo primo scopritore del nuovo mondo, anch’egli genovese. Metatextuality► Sentite, leggitori, come il paragone cammina bene. ◀Metatextuality

Level 5► Citation/Motto► « Ligure invitto, già la via s’aperse

Laddove giunse appena uman pensiero,

Che da noi lungi nell’altro emisfero

Quel nuovo mondo ignoto altrui scoperse.

Emula del gran duce, il cielo offerse

Or a mostrar più bel suo magistero

Questa, che delle donne è raro altero

Mostro, in cui grazie unì tante e diverse ». ◀Citation/Motto ◀Level 5

Questo secondo quadernario non si può ridurre a costruzione grammaticale, e appena si può indovinare quello che il poeta volle dire in esso; ma dov’è l’emulazione della dama rispettivamente al gran duce? Chi è quello che abbia i denti sì buoni da tirar a segno la tomaia di questo paragone? E nessuno si pensi che ne’due terzetti che sieguono quel paragone si continui, che anzi l’autore se lo [818] sdimentica affatto, e salta in un altro pensiero. Ecco i terzetti:

Level 5► Citation/Motto► « Angeliche maniere, alto intelletto,

Senno, e saver sovra il mortal costume,

Virtù viril sotto donnesca gonna. ◀Citation/Motto ◀Level 5

Questi versi non hanno certo che fare con Cristoforo Colombo.

Level 5► Citation/Motto► Chi mira ben addentro il chiaro obbietto

Al folgorar di quel celeste lume

Vede che questa è più che mortal donna ». ◀Citation/Motto ◀Level 5

E neppure questi hanno che fare con quel Cristoforo. Oh povere dame de’tempi nostri, se non aveste altri lodatori che questi abati Vicini, e questi Arcangioli Quarteroni, e altri tali inetti arcadacci! Quando essi v’hanno chiamate più che donne, o più che mortali donne, o dee in mortal gonna, o quando v’hanno attribuite virtù virili, o quando v’hanno fatte risplendere come lucciole, e dati gli epiteti d’almi e sereni a’vostri occhi, si credono d’aver tocco il non plus ultra de’vostri meriti! Quanto meglio fareste, dame mie care, ad assistere il vostro fedel servo Aristarco a nettare il paese di questi poetastri, fulminandoli con qualche vostra collerica occhiata, come fa egli con la penna, quando s’accingono a fare quello che sono tanto atti a fare quanto lo sono i pappagalli! Che obbligo non v’avrebbe tutta la vostra Italia, e la bell’arte poetica in particolare, se voi voleste toglier-[819]vi questi magri lodatori d’intorno, e non permettere che altri vi lodasse fuorchè i veri poeti! Ma di ciò, dame mie care, sarà pur d’uopo che facciamo un dì insieme parole sul serio, e che troviamo insieme un qualche facil modo da distinguer tosto quali de’vostri lodatori sieno i poeti e quali sieno i poetastri. Chi sa, che consultando questa importante faccenda con molte di voi io non trovi come a dire una pietra di paragone che scopra tosto quale è oro poetico, e quale è ferro? Intanto tiriamo ancora un poco innanzi con queste poesie quarteroniane. Metatextuality► Sentite, leggitori, come il signor Quarteroni comincia una sua canzonetta in lode d’un santo martire con un bel pezzo di mitologia pagana. ◀Metatextuality

Level 5► Citation/Motto► « Biondo Febo, e voi sorelle,

Che le belle

Cime aonie in guardia avete,

Chi di voi mi guida al monte,

A quel fonte

A saziar l’ardente sete

Con que’puri e chiari umori

Che già fuori

Scaturir fece col piede

Quel destrier che avea le piume,

Or far lume

Su tra gli astri in ciel si vede? » ◀Citation/Motto ◀Level 5

Chi diavolo ha insegnato al signor Quarteroni a formare un periodo solo di due [820] strofe? E che dirò della sua grammatica, che gli fa dire or far lume quando dovrebbe dire e che or far lume? Lascio andare il suo vedere quel destriero fra gli astri in cielo. Gran vista debb’egli avere, poichè vede co’suoi occhi quello che nè io, nè don Petronio possiamo vedere neppure col nostro buon telescopio. Tiriamo innanzi.

Level 5► Citation/Motto► « La bell’onda fresca e pura

Tal natura

Ha sortito dagli dei

Che nel petto mette un fuoco

Molto o poco

A misura che ne bei ». ◀Citation/Motto ◀Level 5

Ho paura che quell’acqua sia acquavite, poichè mette del fuoco in petto.

Level 5► Citation/Motto► « Ferve il cuor, ferve la mente

Di repente

Per virtù di quelle stille:

Così tosto il seno ardeva

Se scendeva

Febo sopra le Sibille ». ◀Citation/Motto ◀Level 5

Anche in questi ultimi tre versi la grammatica zoppica un pochino, se l’autore intese dire che « il seno ardeva alle Sibille quando Febo scendeva sopr’esse ».

Level 5► Citation/Motto► « Di concetti e di pensieri

Nuovi alteri

S’empie allor la fantasia,

Che dall’estro trasportata

Vien alzata

All’onor di poesia.

[821] Or chi, Ninfe d’Elicona,

Mi corona

Una tazza di quel rio?

Chi di voi nel sen m’infonde

Di quell’onde,

Sia Melpomene, o sia Clio?

Ecco Euterpe dal suo coro

Col ristoro

Sospirato a me sen viene

Che nel petto appena sceso

Tosto acceso

M’ha un gran foco nelle vene ». ◀Citation/Motto ◀Level 5

Si può sentir di peggio a proposito di santo Ippolito, protettore di Bibiena, che ottenne la palma del martirio essendo stato fatto strascinar a morte da’cavalli? Che hanno che fare con sant’Ippolito il biondo Apollo, e Febo, e le sorelle, e il fonte, e il monte, e il destriero con le piume al piede, e le Ninfe d’Elicona, e il bere acqua o acquavite in una tazza incoronata, e Melpomene, e Clio, e Euterpe, e tutte queste mitologiche sciocchezze da lasciarsi oggimai a’ragazzi principianti, come ho già detto all’abate Vicini? E chi può astenersi dal dar la baja a uno smemorataccio di poeta, che s’introduce con esse a parlare del santo martire Ippolito? Queste novelle sarebbono state in qualche picciola parte scusabili, se la Canzonetta del signor Quarteroni fosse stata in lode di quell’Ippolito di Teseo re d’Atene, di cui [822] narrano i Greci favoleggiatori, che fu appunto strascinato a morte da’suoi proprj cavalli per opera di Nettuno, mosso dalle preghiere di quel re, che diede retta alle false parole dell’incestuosa Fedra sua seconda moglie; ma trattandosi di sant’Ippolito martire, fu un errore troppo majuscolo il dar cominciamento alla Canzonetta con tutta questa rancida mitologia. ◀Heteroportrait ◀Level 4 Metatextuality► Poeti miei, abbiate giudizio, altrimenti Aristarco ve ne darà delle buone; non ve ne lascierà passar una inosservata, e vi metterà spietatamente in ridicolo. Se Apollo, o Febo, o le Muse v’imbriacano sì con l’acque d’Elicona, che non possiate far a meno di non comporre de’versi cattivi, siate contenti di stamparli al più al più in qualche raccolta, e non cercate che vivano gloriosi più di ventiquattr’ore, altrimente starete da friggere quand’io mi porrò gli occhiali sul naso per esaminarli. Sopra tutto vi sia raccomandato d’andar cauti nel lodare le dame, perchè le lodi, quando sono o triviali o male adattate, sono piuttosto ingiurie che lodi; ed io non permetterò mai che sotto pretesto di lodarle voi facciate loro ingiuria. ◀Metatextuality ◀Level 3

Level 3►

Chiacchiere domestiche tra don Petronio Zamberlucco e Aristarco Scannabue, Dialogo terzo.

Level 4► Dialogue► D. Pe. Di gran lettere tu ricevi ogni spaccio. Tu sarai pur obbligato un tratto a mandare Macouf intorno mostrando per danari lo scimiotto Misotolma, onde poter pagare la posta.

Ari. Tu sbagli. Misotolma è quel cagnaccio là. Guardagli al collare. Il maladetto non sa far altro che abbajare allo scuro, onde mi pare che quel nome gli stia a pennello. Ma a proposito di questo cane, e delle tante lettere che con asinesca facezia hanno sulla soprascritta il Franco, ma cancellato; eccoti qui un altro plico di versiculi latini mandatimi da quello stesso Retindo Misotolma che m’ha somministrato quel bel nome pel mio cane. Leggili, o accendine la pipa se vuoi. A me basta il titolo: Aristarco Plagulejo Retindus Misotolma Salutem.

D. Pe. Eh, leggiamoli insieme.

Ari. Io leggere otto pagine di versiculi latini preceduti da un boccone di prosa?

D. Pe. E chi sa che il gaglioffo non si sia pentito? Chi sa che i tuoi fogli susseguenti non l’abbiano finalmente convinto; e che questi non sieno versi in tua lode come i primi erano in tuo biasimo?

Ari. Eh pensa tu, se questi poetastri [824] hanno mai tanto cervello da capire la ragione, e da lasciarsi convincere da quella! Chi nasce senza logica non avrà mai logica in vita sua.

D. Pe. Tu di’ bene; ma gli è poi anche vero che tu li tartassi molto spietatamente. Or via, non leggiamo versiculi. Dà qui le nostre pipe, Macouf. Accendiamole, e fumiamo. Puff, puff. A dirtela però . . . puff, puff . . . e’ mi pare che più tu vai avanti con questi fogli, più ti si accende la bile contro i nostri scrittori . . . puff, puff.

Ari. Questo avviene, perchè più vado avanti più ne leggo . . . puff, puff . . .

D. Pe. Buona ragione, affè . . . puff, puff. Guardati però che . . . puff, puff . . . non ti venga un dì addosso . . . puff, puff . . . una legione di questi Arcadi . . . puff, puff . . . e che non ti dieno addosso con l’Antifrusta . . . puff, puff.

Ari. Tu volevi dire qualch’altra cosa, don Petronio.

D. Pe. Volevo dire . . . puff, puff, puff, puff.

Ari. Sono però ito dello stesso passo già dieci mesi. E che m’è accaduto? Poh! credi a me, don Petronio, che tutti questi poetici bravacci sono tutti compagni del cane Misotolma. Sono tuttti buoni ad abbajare allo scuro, e qualche volta dietro la siepe, ma nessuno non avrà mai tanta [825] ferocia da venire a tiro di bastone. Tutti Retindi, tutti Misotolmi ti dico. Puff, puff, puff, puff.

D.Pe. Dunque puff, puff, puff, puff, e Macouf mi riempia un’altra pipa.  ◀Dialogue ◀Level 4 ◀Level 3

Rispondo al mio corrispondente di Parma, che ho data un’occhiata a quella traduzione in versi sciolti fatta dall’abate Angelo Mazza de’Piaceri dell’Immaginazione, Poema Inglese del dottor Akenside, e da esso Mazza dedicata all’incomparabile Frugoni. Sì l’ho veduta, e ho notato quel breve passo, in cui si allude ad Aristarco; e tuttavia non voglio pormi a tartassare nè quell’ampollosa e matta dedicatoria, nè la traduzione, perchè nè traduzione, nè dedicatorie sono cose che interessino molto il mondo letterario. E gracchino pure questi Frugoniani a lor posta, e dicano pur a lor posta. Sono io poeta, o non sono io poeta? E preghino pur Euterpe ad aprir loro il vero. Io rido e riderò sempre di queste inezie, e della loro amica aurea Febea. Quello ch’io posso dire al mio corrispondente su questo proposito è, che il poema del dottore Akenside è disprezzato anche in Inghilterra, quantunque l’autore sia uomo di sette o otto mila zecchini d’entrata; cosa che in Italia basterebbe forse, almeno durante la vita dell’autore, a far credere buono [826] il peggio poema che sia, perchè l’Italia abbonda di Frugoni, di Mazza, di Vicini, e d’altri tali incomparabili, e n’abbonda infinitamente più che non l’Inghilterra.

Aristarco prega il suo amico di Milano a non gli mandare gli ulteriori fogli del Caffè, perchè quel primo è una delle più magre buffonerie che si possano leggere. Se l’autore di tale opera non sa terminare neppur il primo suo foglio senza ricopiare la storia del caffè dalle memorie dell’accademia reale delle scienze di Parigi, sta fresco davvero. Chi vuole intraprendere di questa sorte d’opere bisogna che abbia ampio capitale di sapere, d’ingegno e di giudizio; e l’autore del Caffè non ha alcuna di queste tre cose neppure in grado mediocre.

La dissertazione mandatami da Bologna sulla favolosa bandiera orofiamma, è assai [827] curiosa; ma è troppo lunga perchè io le possa dar luogo in uno de’miei fogli.

Il capitolo mandatomi pur da Bologna, e che comincia Tacete, poetastri maladetti, non è neppur cosa che possa aver luogo nella Frusta, perchè nomina troppi cavalieri che fanno versi a dispetto della natura. Co’cavalieri bisogna usare qualche discrezione se si vuole andar avanti con un’opera giovevole al pubblico qual è la Frusta d’Aristarco. ◀Level 2 ◀Level 1