Référence bibliographique: Giuseppe Baretti (Éd.): "Numero X", dans: La Frusta letteraria di Aristarco Scannabue, Vol.2\10 (1764), pp. 397-441, édité dans: Ertler, Klaus-Dieter / Fuchs, Alexandra (Éd.): Les "Spectators" dans le contexte international. Édition numérique, Graz 2011- . hdl.handle.net/11471/513.20.944 [consulté le: ].


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N.° X

Roveredo 15 febbrajo 1764.

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Introduzione alla volgar poesia in due parti divisa, dal P. Giambattista Bissi palermitano. Prima edizione veneta accresciuta e migliorata. In Venezia 1762 per Giambattista Indrich, in 8.o

Niveau 4► Hétéroportrait► Questo libro fu stampato per la prima volta in Palermo nel 1749. L’editore di Venezia innanzi di ristamparlo ne chiese licenza all’autore, e l’ottenne. Ecco co-[398]me dovrebbero fare tutti quelli che s’accingono a ristampare i libri degli autori viventi, e specialmente quegli stampati da essi autori a proprie spese. Va bene che gli stampatori e i libraj mantengano sè stessi e le loro famiglie, promulgando a lor potere l’opere de’letterati d’ogni secolo e d’ogni nazione. Ma poichè nè i libraj, nè gli stampatori potrebbono pur esistere senza i letterati, la buona creanza egualmente che l’equità, e le stesse leggi del Cristianesimo richiedono che i signori libraj e stampatori non danneggino con le loro ristampe chi contribuisce un poco alla loro esistenza, e chi non fa loro alcun male.

Metatextualité► Scrivo qui questo preamboletto come per ricordo; ◀Metatextualité cioè per ricordarmi un altro giorno di spaziare un poco su questo iniquissimo costume d’alcuni tipografi e bibliopoli, a’quali ho qualche verità da far capire; e questa fra l’altre, che non è lecito ad alcuno il rubare.

Venendo adesso al libro di cui ho qui registrato il titolo, dirò che è libro da riuscire di qualche uso a que’giovanetti che ambiscono di diventare fabbricatori di versi e di rime; poichè qui si spiegano a parte a parte tutte le regole che possono condurre un principiante a scrivere metricamente; qui si dice a minuto [399] di quante sillabe ogni verso dee costare, e quanti versi si richieggano in un ternario o in un’ottava; qui si definisce tanto bene, quanto nel libro del Decolonia, la sineddoche, e la metonimia, e l’antonomasia, e l’ipotiposi, e la catacresi, e la metalessi, e l’etopeja, e la prosopopeja, e l’onomatopeja. Qui s’insegna con molta dottrina a maneggiar le metafore, a scegliere gli epiteti, e a fare un uso discreto delle licenze intorno agli accenti, intorno alle sillabe, e intorno alle rime: qui vengono dati de’bellissimi segreti per far sonetti di più maniere, senza coda, con la coda, con l’intercalare, a corona, di proposta, di risposta, per le rime e per le desinenze; qui s’imparano in somma molte singolarissime ricette per fare madrigali, epitaffj, cantate, canzoni alla petrarchesca e alla pindaresca; e quarte rime, e seste rime, e egloghe in verso sdrucciolo, e idillj, e ditirambi, e altre tali gentilezze da disgradarne gli arcadi. La sola cosa che non mi garba in questa Introduzione sono due buoni terzi degli esempj tratti da diversi poeti pastori, e proposti a que’giovani che cominciano ad arrampicarsi su pel monte Parnaso. Nominiamone quattro o cinque per un verbigrazia.

Benedetto Menzini, che è qui citato come un arcifanfano febeo, è uno de’peg-[400]gio poeti che mai abbia avuta l’Italia; e molto male faranno i giovani a formarsi lo stil poetico sulla sua Poetica specialmente, perchè quella Poetica non è altro che un’ampollosa pedanteria dal primo verso sino all’ultimo.

Niveau 5► Citation/Devise► «Erto è il giogo di Pindo. Anime eccelse

A sormontar la perigliosa cima
Tra popolo infinito Apollo scelse.
* * * *

Non l’altrui fama, e non sporcar l’onore

Nelle satire tue; che da cartello
Non è il sacro di Pindo almo furore;

Perchè quantunque fur Lupo e Metello

Dipinti al vivo in satiresco ludo,
Vuol più rispetto il secolo novello.

Ciascun che vede farsi aperto e nudo

Ciò che vorria nascosto, arma la mano
Alla vendetta, e a te di se fa scudo.

Tu, se’ hai fior di giudizio intero e sano,

E se hai la penna di prudenza armata,
Dai veri nomi ti terrai lontano. » ◀Citation/Devise ◀Niveau 5

Questi modacci romorosi del Menzini dovevano anzi esser dati come esempj da guardarsene, quantunque sia vero che il giogo di Pindo è erto; quantunque sia vero che non tutte l’anime son poetiche; quantunque sia vero che la satira non debbe deturpar l’onore de’galantuomini; e quantunque sia vero che non si può nominare senza pericolo il nome d’un briccone in versi. Niveau 5► Exemplum► «Erto è il giogo di Pin-[401]do; l’almo e sacro furore di Pindo; ludo satiresco; fior di giudizio intero e sano, e penna armata di prudenza» ◀Exemplum ◀Niveau 5 sono frasi idropiche, checchè se ne dicano centinaja di sciocconi, che scambiano le vesciche per palle, e l’orpello per oro.

Se Benedetto Menzini è cattivo per la sua turgidezza di parole e di frasi, Francesco Lemene è cattivo per la sua ricercatezza e miseria di pensieri. Sentite, fra l’altre sue cose, che bel madrigale è il seguente, da essere qui proposto per un imitabile esempio di quelle corbellerie chiamate madrigali:

Niveau 5► Citation/Devise► «Rasciuga, Elpina, i rai,

Disse Maria, che a lagrimare or prendi
Perchè il tuo fior lasciai.
Semplicetta che sei! Tu non l’intendi.
Rasciuga i rai, rasciuga, e ti consola;
Che se la rosa sola
Io prender volli, il tuo bel fior perdoni:
Sol per me quando il serbi, a me lo doni: ◀Citation/Devise ◀Niveau 5

Che bella dignità! Mettere in bocca a Maria un equivoco fanciullesco, dopo d’averle fatto chiedere scusa a un fiore! Di questi concettini e quolibeti magri il Lemene ne ha troppi nelle sue rime, e i giovani principianti si guasteranno la testa non che lo stile, se prenderanno il poetare del Lemene per modello del loro poetare.

Carlo Maria Maggi, grande amico del [402] Lemene, e commendato assai in questa sua Introduzione dal P. Bissi, ebbe dalla natura più poetiche doti che non n’ebbe lo stesso Menzini; il che si scorge assai chiaramente dalle sue composizioni nel suo nativo dialetto milanese; ma scrivendo toscano fu talora turgido come il Menzini; e falso, ricercato e fanciullesco, come il Lemene. Questo Lemene scrisse una commedia nel suo dialetto lodigiano, e mi sovviene che quando la lessi, son molt’anni, mi piacque assai più che non le sue cose italiane.

Di Giambattista Zappi ho già fatte parole altrove, e detto il poco conto ch’io faccio del suo eunuco rimare. Qui alcuni de’suoi versi sono citati come cose stillate, e fra gli altri questa sua non men breve che cattiva descrizione dell’inverno, in cui tentando di esprimersi con forza, e di allontanarsi per conseguenza dal suo snervato natural carattere, ha detta una sciocchezza in ogni sillaba:

Niveau 5► Citation/Devise► «Ecco l’anno già vecchio; eccol canuto,

Pien dì gelide bave il petto e il mento,

Che il ciglio innaspra, e semina spavento

Infra i solchi del volto orrido irsuto.» ◀Citation/Devise ◀Niveau 5

Sarebbe appena possibile far quattro versi peggiori di questi, chi cercasse di farli cattivi a bella posta. L’anno è qui chiamato vecchio e canuto, perchè in dicembre suol nevicare, e perchè la neve ha [403] qualche somiglianza coi capelli canuti, senza riflettere che suol nevicare anche in gennajo, che è principio d’anno, o per dirlo con la stolta metafora zappesca, infanzia dell’anno, come il dicembre è la vecchiaja. Quelle gelide bave poi, che imbrattano il petto e il mento all’anno, ne presentano un’immagine più sozza che pittoresca, e così l’inasprare il ciglio, e così i solchi del volto irsuto ed orrido ch’egli si semina da sè stesso di spavento, sono cose false in poesia, e false fuor di poesia.

Vincenzo Filicaja è men cattivo poeta del Manzini, del Lemene, del Maggi e del Zappi; tuttavia è sovente, come il Menzini turgido ed ampolloso, anzi che grande; e perciò si deve considerare come un mal esemplare pe’giovani, a’quali non bisogna proporre per modelli che poeti schietti e naturali. Eccovi fra gli altri versi del Filicaja, due suoi quaderni registrati in questa Introduzione, come se fossero due giojelli.

Niveau 5► Citation/Devise► «Dov’è, Italia, il tuo braccio? A che ti servi

Tu dell’altrui? Non è, s’io scorgo il vero,
Di chi t’offende il difensor men fero;
Ambo nemici sono; ambo fur servi.

Così dunque l’onor! così conservi

Gli avanzi tu del glorïoso impero?
Così al valor, così al valor primiero
Che a te fede giurò, la fede osservi?» ◀Citation/Devise ◀Niveau 5

[404] Questa declamazione, sbattuta così sul muso all’Italia, è affatto da pedante. E che può fare l’Italia se il rotare delle umane vicende ha mutato il suo antico sistema o politico, o guerriero? Se chi era una volta nemico e servo, ora è amico e padrone? Presentando in questo aspetto a’giovani le vicende umane per farli poeti, si corre rischio di abbujar loro la chiarezza del raziocinio; e perchè la poesia sia buona, dev’esser tale, che non istravolga mai la retta idea delle cose, e che non le offra alla mente in un lume falso; nè giova ricorrere al salvum me fac, che la poesia deve dire ogni cosa in modo diverso dalla prosa. Se l’Italia adopera poeticamente l’altrui braccio, gli è perchè non può adoprare il suo: l’Italia non conserva che quegli avanzi d’impero che può conservare. Quello sgridarla in bisticcio perchè «osserva poco la fede al valore, che giurò fede a lei», è cosa mezza buja e mezza pazza; e in somma ogni fanciullo che facesse due quadernarj stravaganti come questi, meriterebbe una buona staffilata sul deretano dal maestro di scuola per ognuno degli otto versi.

Anche Girolamo Gigli è nominato qui, non mica come quel tristo poetastro ch’egli era, ma come un poeta di merito singolare; e si dà sino un suo sonetto per una cosa celebre, che la più scempiata [405] cosaccia non si può scarabocchiare senza avere più del matto che del savio. Ecco il sonetto sul Crocifisso.

Niveau 5► Citation/Devise► «Supplizio o trono è quell’eccelso legno?

Giudice o reo è quel che su vi ascende?
Trono? Come trafitto un re vi pende?
Supplizio? E come un Dio vi fa il suo regno?

Giudice è quei? ma non gli fa sostegno

Sua legge, e podestà non lo difende.
È reo? Ma un ladro assolve, e seco il rende
Mondo di colpe, e di sua gloria degno.

Sì, dissi: e Cristo a me risponder sento:

Trono questo sarà e supplizio mio,
Qual tu lo vuoi che miri il mio tormento.

Qual vuoi, giudice o reo vuol farsi un Dio:

Se tu non piangi, io giudice divento:
Se piangi, il reo per te voglio esser io». ◀Citation/Devise ◀Niveau 5

Che strano modo è questo d’inculcare la necessità di pentirsi dei peccati, e di ricorrere alla misericordia divina! Che matti concettuzzi son questi di trono e di supplizio! di giudice e di reo! di reo e di Dio! Questi si chiamano bisticci e quolibeti da Brighella e da Truffaldino, e non pensieri di poeta cristiano. La poesia non consiste nel dire studiatamente una cosa comune.

Non ho mai vedute le poesie del P. Pastorini; ma se tutte sono segnate allo stesso conio che il sonetto registrato in questa Introduzione a pag. 96, e che ha per argomento la morte del matematico [406] Manfredi, esorto i giovani principianti a buttarle tutte al fuoco, insieme con quelle di Neralco pastor arcade, e con quelle del fratel Cerasola, dalle quali tutte non v’è poesia da imparare. Lo stesso dico di quelle di Jacobo de Mazzara siciliano che ha fatto quel sonetto posto a pag. 101 sul nome di Maria, in cui ha giuocolato argutamente col mare, non so se Mediterraneo, Baltico, o Atlantico. Mi si dirà che essendo le rime di questi quattro autori per lo più spirituali, dev’esser buona cosa il raccomandarle a’giovani; ma io dico che le cose spirituali i giovani le hanno a leggere nel Kempis, nello Scupoli, e in altri tali libri in buona prosa, e non ne’cattivi versi di Neralco, del Mazzara e d’altri tali; e dico che i trattati di poesia hanno a insegnare la poesia a’giovani, come i libri ascetici la spiritualità, senza confondere le materie, e senza volere che il buono serva di passaporto al cattivo.

Molt’altri autorelli vengono qui nominati con encomio da questo dabbene autore, che è certamente più ricco di buon volere, che non di cognizioni poetiche; ma eccettuati i pochi esempj da esso tratti dal Petrarca, dall’Ariosto, dal Tasso, e da due o tre altri, poco caso s’ha a fare de’restanti, quantunque corroborati dalla poco rispettabile autorità del Crescimbeni, del Quadrio, e d’altri tali eruditi, ma spoe-[407]tatissimi giudici di poesia. Non voglio però lasciar di dire che ho trovata anch’io, come il P. Bisso, molto leggiadra ed elegante la traduzione di quell’endecasillabo di Catullo Lugete o Veneres, fatta dal padre Jacopo Antonio Bassani.

Tutto quello poi che il Padre Bisso ne dice nella seconda parte intorno al sonetto, n’è stato soverchie volte rifritto da molt’altri. Molt’altri n’hanno detto soverchie volte, che un sonetto è il capo d’opera d’un cervello poetico, e che è più difficile fare un buon sonetto che non un buon poema epico. A tali ciancie io non ho a rispondere, se non che sarebbe assai buona cosa, se, in vece di far sonetti, i giovani imparassero a fare scarpe, o calze, o aghi, o chiodi, o altre simili derrate. Così riuscirebbono membri assai più utili alla società che non facendo de’sonetti. Un poeta frugoniano m’ha scritto pochi dì sono quattordici poco buoni versi, in cui mi dice che loda il mio stile, «il mio pensiero, il saggio criterio ch’io faccio ai scritti (doveva dire agli scritti): e che ne’miei fogli v’è sapere, e puro e tosco e natural linguaggio». Sono obbligato a questo mio panegirista del suo panegirico; ma il primo ternario del suo sonetto m’ha scandolezzato, con rimproverarmi che io «affanno colla mia severità un tenero garzone [408] che imprime novi passi sul sentier di gloria, e che lo costringo a lasciare e plettro e rime». Volesse Dio ch’io m’avessi tanta forza da distogliere molti de nostri teneri garzoni da quel sentiero di gloria, cioè dal cantar sonetti, e canzoni, e versi sciolti al suon del plettro. Con queste frugonerie de’plettri, delle lire, e dell’auree cetre si fa perdere il tempo e il cervello a innumerabili giovani in questa nostra Italia. Si fa lor credere che il far de’versi sciolti e de’versi rimati conduce al sentiero di gloria. Si fa lor credere che l’essere ammessi pastori nell’Arcadia è un non plus ultra d’altezza intellettuale; nè mai si dice loro apertamente che tutti questi poetastri moderni non insegnano al più al più che sfacciatissimi modi d’adulare. Metatextualité► Oh se la mia Frusta potesse aver la virtù di cangiare questi non meno stravolti che universali modi di poetare nella mia dolcissima Italia! Oh se potessi far capire ai giovani, che il riuscire poeta è cosa veramente gloriosa, ma che il riuscire versiscioltajo o rimatore è cosa vituperosissima! ◀Metatextualité

Torno per poco all’Introduzione, e dico ancora che l’autor suo m’ha fatto sogghignare dove dice che «i rimarj bisogna sempre averli alle mani». I giovani principianti si ficchino dunque bene questo suo gran precetto in capo, che chi vuol [409] essere poeta, non occorre possedere perfettamente la lingua, sapere infinite cose, ed avere quella indefinibile sorte di caldo nell’anima chiamato estro; ma «che deve aver sempre il rimario alle mani». Oh precetto maraviglioso!

Dietro a questa Introduzione è stata stampata una Lezione del marchese Maffei sugli autori italiani, e specialmente sugl’italiani poeti. È cosa picciola, e riboccante di falsi giudizj.

Se l’autore piacentino della seguente Anacreontica a Venere ne manderà dell’altre eguali a questa, Aristarco anderà dando lor luogo nella Frusta, senza ch’egli si dia l’incomodo di fargli de’lunghi complimenti.

Niveau 5► Citation/Devise► « Santa Dea, madre d’Amore,

D’onde vien questa dolcezza
Ch’io mi sento intorno al cuore;

Se non cede la durezza

Della rigida mia Fille
Alla tanta sua bellezza?

Se le amabili pupille

Questa ninfa troppo ria
Mai non volge a me tranquille?

Qual insolita malía

D’improvviso accheta e calma
La turbata fantasia?

Dea, Dea beata ed alma,

Or a te divotamente
Levo l’una e l’altra palma,

[410] E pel cinto onnipotente

Che ti feo posseditrice
Della palla rifulgente,

Prego te tranquillatrice

D’ogni cuor troppo doglioso,
Dea pietosa, Dea felice,

Fa che il figlio tuo sdegnoso

Così tosto non si desti
A turbar il mio riposo!

Io lo vedo, che i celesti

Lumi ha chiusi, e dorme queto:
Copril ben con le tue vesti.

Come appare mansueto!

Come splende in quel bel volto
Un chiaror soave e lieto!

Ma, quand’è dal sonno sciolto,

Ahi mi batte con tant’ira,
Che mi rende quasi stolto!

Ma già sento che sospira;

Già sbaviglia, già si muove;
Già ver me quegli occhi gira:
Dove fuggo, ah dove, dove! » ◀Citation/Devise ◀Niveau 5 ◀Hétéroportrait ◀Niveau 4 ◀Niveau 3

Niveau 3►

Lettere familiari e critiche di Vincenzo Martinelli. Londra 1758, presso Giovanni Nourse nello Strand, in 8.o

Assai libri italiani pieni d’oscenità e d’irreligione sono stati in questi ultimi anni pubblicati in Londra. Che bella cosa se gli autori di tali libri fossero cacciati tutti in una galea, insieme co’loro edi-[411]tori, co’loro stampatori, e con tutti i libraj che li vanno con ogni segretezza vendendo! Che bella cosa se tutta questa buona gente fosse quivi mantenuta qualche anno a forza di biscotto, d’acqua e di frustate! Metatextualité► Io intendo in qualche mio futuro foglio di fare un’esatta lista di tali autori, editori, stampatori e libraj; e mostrare ad evidenza, che nessuna galea vogò mai pel Mediterraneo, i di cui remiganti meritassero tanto l’onor del remo, quanto que’tanti furfanti che registrerò in quella lista. ◀Metatextualité

Niveau 4► Hétéroportrait► Nessun galantuomo tuttavia abbia difficoltà di leggere queste Lettere del signor Martinelli, quantunque italiane, e stampate in Londra. L’autore le ha pubblicate in Londra perchè sta in Londra. Se egli fosse stato in Italia avrebbe fatto a’suoi paesani il regalo che ha fatto agl’Inglesi. Queste sue lettere sono tutte scritte come dovrebbero scrivere tutti gli uomini dabbene. Sono intitolate Familiari e Critiche, perchè alcune furono scritte così in su due piedi, come si suol dire, ed alcune studiatamente e a bella posta. Non sono tutte egualmente pregne di sapere, di riflessioni e di belle cose, perchè non tutti gli argomenti possono essere uguali; ma assai notizie belle e pellegrine si possono dalla più parte d’esse ricavare, perchè l’autor loro, per quanto appare, è uomo [412] che ha rovistati libri assai, e veduto di molto mondo. Egli scrive con molta facilità e chiarezza; e se ha difetto rispetto allo stile, non è altro che un po’ di negligenza, o un po’ troppo di libertà in formarsi talora de’vocaboli che non sono, e che non saranno forse mai adottati dalla Crusca. Fra le più belle di queste sue cinquantanove Lettere è quella in cui si racconta come si è estinta la linea de’ granduchi medicei di Toscana; e le cinque in cui si fa l’anatomia ad alcune parti dell’Esprit des Loix di monsù di Montesquieu; e le due sul libro di monsù di Voltaire intitolato Siécle de Louis XIV, e le due sull’uso dell’acqua fredda; e le due sul libro dell’Origine e Fondamenti della Disuguaglianza fra gli uomini di monsù Rousseau, e le tre sulla Musica. Copierò qui la quarantesimaquarta per saggio della corrente maniera di scrivere di questo signor Martinelli. Ella è diretta al signor dottore Giovanni Marsili, il quale, per quanto mi vien detto, ha visitati di molti paesi studiando ogni produzione della natura, e singolarmente le vegetabili, e se ne sta ora in Padova professore di botanica in quell’antichissima università. Questa lettera è scritta da Londra al signor Marsili in Oxford e dice così:

Niveau 5► Citation/Devise► «Amico carissimo. Con sommo piacere ho letta la vostra dei cinque del corrente. [413] Non mi giunge nuovo il diletto che voi trovate in cotesta forbitissima università, perchè anch’io vi ravvisai quella magnificenza fiorentina che voi notate negli edifizj, con quella quiete che voi chiamate patavina, e che io chiamo pisana; e finalmente quella sapienza ed incomparabile umanità dei professori, per cui voi saggiamente pensate di tornare fra poco a passare due mesi beati fra loro. Poichè voi dite di nuotare in quel piacere filosofico, al quale tutti gli studiosi come voi di continuo agognano, non vi desidero di ritorno sì presto; e vi ricordo di fare una visita alla magnifica villa di Blenheim, monumento tanto venerabile, perchè tra i rarissimi eretti nei nostri secoli in ricompensa e in memoria perpetua della virtù. Fu veramente quel duca di Marlbourough uno degli eroi più fortunati di tutti i secoli, perchè, oltre lo essergli tutte le sue imprese riuscite felicemente, tanto che si dice di lui che vinse tante battaglie quante ne diede, e prese tante fortezze quante ne assediò, morì colmo di doni e d’onori dispensatigli dalla sua patria in premio delle sue grandi azioni. Non vi devierete molto dal vostro cammino, passando da Stow, sede amenissima di My lord Temple, dove vedrete il più bel giardino, o almeno uno de’più belli di tutta Inghilterra, la cui magnificenza [414] oltrepassa assai l’economia d’un privato, essendovi una quarantina di monumenti, il costo d’ognuno de’quali, o almeno della maggior parte, sarebbe bastato a costruire il ritiro d’un comodo gentiluomo. Vedrete un tempio tra gli altri, che ve ne sono molti, ove My lord Cobham, zio del presente signore, che ne è stato l’erede, pose i busti rappresentanti gli amici suoi prediletti, e un ponte copiato da un disegno di Palladio, che unisce le due parti del giardino, le quali rimangono tramezzate da un fiumicello, che colle sue limpidissime acque vi nutre e mantiene una verdura perpetua e deliziosissima. Io vi fui col signor Businello, quand’era qui residente, e con altri quattro cavalieri italiani, quel giorno stesso che My lord Cobham vi spirò. Due giornate ci tenne piacevolmente occupata la vista di quel giardino, e chi vi trovava della somiglianza con quello di Circe descritto da Omero, chi con quello d’Alcina descritto dall’Ariosto, chi con gli orti di Lucullo, chi con quelli di Mecenate; ed io, lasciando i giardini de’poeti e degli storici, lo assomigliai in gran parte a quello di Boboli, dove la magnificenza de’granduchi medicei trasportò tutto il più bello che dalla poesia e dalla storia in fatto di giardini si trova ricordato. Ed ho poi con mio piacer sommo trovato, parlando con gli eruditi di giardinesmo, che i primi Inglesi, i [415] quali quel puerile che al presente si vede nei giardini di Francia e d’Olanda abbandonando, si diedero a quel rurale elegante e filosofico tanto dagli stranieri generalmente ora ne’ loro giardini ammirato, ne presero le prime idee da Boboli, il quale fu e rimane anche al presente uno dei più magnifici e deliziosi dell’universo. E qui fo una riflessione, che quella sempre gloriosa famiglia de’Medici, per non lasciare alcun topico della grandezza ed eleganza degli antichi inespilato, anche nei giardini volle il più bello della elegante e magnifica antichità richiamar dall’obblío, e nel suo antico splendore nuovamente riporlo. Di nuove guerriere è superfluo ch’io ve ne parli, perchè costì sono le stesse gazzette che abbiamo qui. Quanto alle nuove diarie del paese che possono interessarvi, elle si ristringono tutte ad una, ed è che questa mattina ha terminato il suo pellegrinaggio il signor Vincenzo Pucci ministro di Toscana a questa corte. Cinquanta e più anni ha vissuto in questa capitale, parte dei quali fu segretario, e quindi nel 1719 creato ministro con carattere al re Giorgio primo. Egli ha fatto il corso della vita felicemente, moderato ne’suoi desiderj, allegro anzi che invidioso dell’altrui fortuna, liberale cogli amici, pietoso coi poveri, amante dei buoni, compassione-[416]vole de’cattivi, e in somma l’integer vitæ scelerisque purus desiderato da Orazio piuttosto che sovente incontrato. Un esempio assai raro d’illibatezza di questo onoratissimo galantuomo mi è stato più volte ripetuto da un grosso mercante, e tanto più onorevole per lui quanto ch’e’ non era ricchissimo. Quel mercante mi raccontò come immaginando egli che il Pucci potesse, stante il suo ministero, essere tra i pochissimi che in Londra avessero il primo sentore della pace che doveva succedere alla guerra del mille settecento trentatrè, andò a trovarlo, e gli propose di dividere seco un guadagno grandissimo ch’egli avrebbe potuto trarre dall’avere quella notizia una settimana prima degli altri mercanti, comprando un numero considerabile d’azioni, il di cui prezzo al pubblicarsi d’essa pace sarebbe alzato un dieci per cento e forse più. A questa proposta non si scompose d’un atomo il Pucci, e con una calma da Fabricio all’aspetto improvviso degli elefanti di Pirro, si sbrigò dalla tentazione con uno equivalente di quella magnanima risposta che il Tasso fa dare da Goffredo ad Altamoro che gli offeriva ricchissimi doni se lo salvava;

“Guerreggio in Asia, e non vi cambio o merco”.

Il Pucci ha vissuto circa ottantadue anni, e senza vedere i forieri rincresce voli [417] della morte. È trapassato com’uom, cui sonno piglia. Voi state sano ed allegro quanto vi permette il martello ulisseo di rivedere il fumo dei camini della casa paterna: amatemi e comandatemi, ch’io sono e sarò sempre pieno verso di voi di stima e di verace amicizia. ◀Citation/Devise ◀Niveau 5 ◀Hétéroportrait ◀Niveau 4 ◀Niveau 3

Niveau 3► Lettre/Lettre au directeur► Metatextualité► Signor Aristarco. La compiacenza che avete avuta di stampare nel vostro Numero Sesto una mia lunga lettera, m’inanimisce a mandarvene un’altra da me scritta alla medesima dama, la quale dopo d’avere assai volte disputato meco intorno al modo d’imparare le lingue, mi regalò un letto, con patto le scrivessi il primo sogno che mi fossi in quello sognato.

Vostro Servidore Onesto Lovanaglia. ◀Metatextualité

Niveau 4► « Eccovi, My Lady, il sogno fresco fresco, e tal quale lo sognai stanotte in quel letto che m’avete donato. Quel materasso pieno di piume di cigno, e quelle cortine gialle hanno prodotto l’effetto ch’io m’aspettava. Sappiate dunque, che subito addormentato mi parve d’essere trasportato in quella parte de’Campi Elisi, dove i grammatici hanno lor domicilio. Quivi stavano molti di essi seduti in cerchio sopra certi durissimi sassi in luogo non molto ameno: voglio dire in un po’ di piano ineguale assai e senz’erba, all’ombra di certe rupi scoscese, e ricoperte di fred-[418]dissima neve, circondati da certi alberi, o piuttosto tronconi d’alberi, quasi privi in tutto di frondi, da’ di cui secchi rami pendevano alcuni pochi frutti di scorza molto dura, amari al gusto, e di non facile digestione. Vedete, My Lady, che strana dimora è toccata in que’fortunati Elisi a’poveri grammatici! Qui io trovai un Alvaro, un Restaut, un Buffier, un Veneroni, un Buonmattei, un Wallis, un Beniamino Johnson, e molt’altri, i di cui sparuti visi m’erano affatto ignoti. Egli erano orribilmente immersi in una vivissima disputa; ed il soggetto del loro crudelissimo altercare era: « Se una persona che vuole apprendere una lingua, debba cominciare dalle regole grammaticali, o no». L’Alvaro, fiancheggiato principalmente dal Veneroni, gridava come spiritato, che faceva assolutamente d’uopo dar principio alla fabbrica con un buon fondamento di regole, e saper bene quel che significa nome, verbo, mascolino, femminino, presente, preterito, gerundio, supino, attivo, passivo, dativo, ablativo, genere, numero, impersonale, anomalo, e altre simili gentilezze. Il buon padre Manuello si fece sudare, numerando a uno a uno tutti i vantaggi che può ritrarre colui o colei che fassi a studiare una lingua col vero metodo grammaticale, gridando che stolta cosa sarebbe l’avven-[419]turarsi in un labirinto senza un buon gomitolo di spago, o il buttarsi per la prima volta a nuoto senza giunchi o senza zucca. Nè seppe l’ardente uomo risolversi a por fine al suo ragionare, se non quando il troppo violento gridare gli ebbe minuito il fiato, secche le fauci, e quasi spente le forze.

Il Buonmattei, che in cotali materie non vuol cedere un jota a qualsivoglia gran barbassoro, lasciati sfogare alcuni, che con nuove ragioni, e con nuovo gridare puntellarono l’alvaresca sentenza, sentendosi toccar col gomito nel gomito dal suo amicissimo Restaut, s’alzò finalmente egli; e tiratasi alquanto bruscamente la berretta in sugli occhi, e rassettatasi alquanto la zimarra intorno la persona, e fattosi grave nel sembiante quanto più potette, disse con un tuon di voce assai chiaro e sottile: «Conciossiacosachè, Padri Coscritti, io abbia scorbiccherata a’miei dì una Grammatica Toscana, la quale ha pur reso il mio nome illustre nel mondo lassuso; nulladimeno, s’io v’ho a dire schiettamente l’animo mio, io tengo opinione, Coscritti Padri, che molto male farebbe esempligrazia quello straniero il quale volendo apparare la fiorentina favella, cominciasse limbiccarsi la fantasia con quella mia grammatica. Egli fa di mestieri, penso io, che quello stranie-[420]ro, nello accingersi all’ardua intrapresa, si faccia primamente spiegare dal maestro alcuni de’nostri autori più facili e piani; e che procacci in tal foggia un mediocre capitale di triti vocaboli e di frasi comunali anzi che entrare nel vasto pelago delle difficoltà e delle minuzie grammaticali; altrimente sarà un andare innanzi come sciancata mula di ser Fioramonte, che a furia di sproni faceva un buon miglia in tre ore, e anche in quattro. E che domine chiamate voi il fondamento d’una lingua, Padre Manuello Alvaro spettabilissimo? La Grammatica? Padre no. I più triti vocaboli, e le più comunali frasi, a casa mia sono il fondamento d’ogni lingua, e non la Grammatica. E siccome non si dee voler ergere una fabbrica senza aver balía buona quantità de’primi grossi materiali; così il voler apparare una lingua senz’aver innanzi tratto qualche provvisione di parole e di modi di dire, opera di mentecatto più che da savio sarebbe. Sì, Padri Coscritti: quando quello straniero avrà quella qualche provvisione, legga e rilegga, o faccia studio sulla Grammatica; avvegnachè la Grammatica debbe servire a lui come la calce a’muratori, onde legar bene insieme le pietre e i mattoni, che sono a mio intendere i primi grossi materiali d’una lingua; e allora sì, Padri Coscritti, ch’egli vedrà il suo edifi-[421]zio alzarsi bello e presto, e star saldo e durevole incontro agli anni.

Al Padre Alvaro in questo mentre s’erano rinfrescati un poco i polmoni, onde secondato da’suoi rabbuffati partigiani e discepoli, fu un istato di replicare al discorso di Buonmattei un signor no con tanto spaventosa voce, ch’io ne fui risveglio come da un estivo scoppio di tuono; ed uscendo immediate di sotto le coltri, e affibbiatimi alcuni pochi de’miei panni indosso, mi sono posto a scrivervi il sogno pur ora sognato. Scusate, My Lady, se non me lo sono sognato più bello, perchè nessuno può sognarsi i sogni belli a posta sua. Farewel, my good Lady». ◀Niveau 4 ◀Lettre/Lettre au directeur ◀Niveau 3

Niveau 3►

Trattato della Satira italiana, con una Dissertazione dell’Ipocrasia de’Letterati, del D. Giuseppe Bianchini da Prato, accademico fiorentino. Terza edizione. In Firenze e in Roveredo 1759, in 8.o

I miei corrispondenti non vogliono ancora lasciar la pecca di biasimare l’onesta franchezza con io dico il mio pensiero d’ogni libro ch’io leggo, e troppi d’essi continuano ancora a chiamarla imprudenza, tracotanza e mordacità. Ma come diavolo fanno queste anime di lumaca a ritenere la flemma loro quando vedono un [422] autore appena padrone di quattro o cinque mila vocaboli, e appena infarinato di sapere, ficcarsi baldanzosamente in una stamperia, e non uscir di quella senza molte copie d’un suo tomo in mano, fatto quivi moltiplicare da’tipografici torchj? Come diavolo fa la più parte de’leggitori a non istizzirsi contro uno stupidaccio che ha l’insensata audacia di suporre il mondo bisognoso d’un suo maladetto libro per ammaestrarsi nelle facende umane, o per acquistare idee giuste ed ampie d’arti e di scienze?

Chiunque scrive un libro dev’essere considerato, diceva il mio vecchio maestro Diogene Mastigoforo, come un soldato comunale, che s’allontana dal suo campo, e che s’avanza a sfidare braveggiando l’oste nemica. Se un individuo di quell’oste s’inanimisce a quegli sfidi e a quelle braverie, e se viene addosso a colui con la lancia in resta, e lo scavalca, egli opera cosa degna d’applauso da entrambi gli eserciti, perchè insegna a chi milita in uno ad esser giusto estimatore delle proprie forze; e insegna a chi milita nell’altro a non soffrir in pace che ogni martano si spacci temerariamente per un grifone o per un aquilante.

Metatextualité► Sappiano dunque una volta per tutte i miei signori corrispondenti, che mi esorteranno sempre inavno, ogni qualvolta mi [423] esorteranno ad adottare la loro prudente cautela, o, per dirla alla mia moda, la loro codarda pusillanimità. Io mio sono irremovibilmente risoluto di voler essere una spezie di campione universale, e voglio pigliar su ogni guanto che vedrò o coraggiosamente o temerariamente gittato nello steccato da qualsiasi guerriero letterario, e giostrare con esso fin che mi durerà la lena; e tanto peggio per me, se qualche asta fatata come quella dell’Argalía mi butterà pur un tratto colle gambe all’aria.

Ora che la protesta è così solennemente rinnovata, io vengo al libro dell’accademico fiorentino, e dico schiettamente che tanto il suo Trattato della Satira italiana, quanto la sua Dissertazione dell’Ipocrisia de’Letterati, sono due insulsissime seccaggini, immeritevolissime d’una terza edizione. ◀Metatextualité Chi può sopportare con pazienza di leggere un libro in cui si dice con cento parole quello che si potrebbe dire con dieci? In cui si avviluppa una frivolissima o una conosciutissima cosa in un immensissimo involto di stucchevoli frasi? In cui s’infilzano precetti notissimi ad ogni scuolaretto?

Niveau 4► Hétéroportrait► Sentite con che abbindolamento e con che povertà questo autore dà principio al suo Trattato. Niveau 5► Citation/Devise► «Siccome gli uomini odono volentieri le lodi loro, e da quelle, essen-[424]dosene forte innamorati, e le adulazioni non conoscendo, biasimevolmente signoreggiare si lasciano, così con torvo animo e dispettoso, le correzioni ascoltano, e gli stessi correggitori dispregiano, e talora in temeraria guisa villaneggiano: quindi è ec.». ◀Citation/Devise ◀Niveau 5 Non è questo uno scrivere da cacasodo, e un riputarci bufoli affatto, venendoci a snocciolare una dottrina non ignota neppure alle più ignoranti pettegole di Camaldoli? Non si sa egli sin da’cani, che le lodi piacciono, e che chi è tanto dolce di sale da non distinguere le lodi dalle adulazioni, si lascia da quelle signoreggiare? Ma da che non si lascerebbe signoreggiare quel gonzo e quel baggeo, che non ha neppur tanto cervello da fare qualche differenza fra le lodi e l’adulazione? e crede mo il signor dottore accademico fiorentino, che il Trattato della Satira italiana sarà capito da alcuno di que’gonzi e di que’baggei così privi d’intelletto? Nè meno volgare e comunalissima è la seconda parte della sua sentenza, che le correzioni s’ascoltano con torvo animo e dispettoso: non è però troppo generalmente vero che i correggitori sieno dispregiati, quando meritano giustamente il nome di correggitori. Chi corregge con giustizia è per lo più odiato e sfuggito, appunto perchè non è facile dispregiarlo. Tutte le indagazioni poi del nostro acca-[425]demico dietro l’origine della satira sono tutte cose che le abbiamo sentite mille volte quando andavamo a scuola, nè egli ha detta cosa alcuna in tal proposito, che possa riuscir nuova a chi sa quattro cujussi; e tutti sanno a mente che Dante è stato un poeta assai satirico; e tutti sanno a mente il suo canto del conte Ugolino; e tutti sanno che le satire dell’Ariosto sono state delle prime che si sieno composte in lingua nostra. Le lodi quindi ch’egli ammucchia nel suo dilettissimo Benedetto Menzini e sul suo Lodovico Adimari, non bisogna considerarle per altro che per esagerazioni al solito modo toscano; perchè nè l’uno nè l’altro di questi due scrittori di satire sono a un gran pezzo così maravigliosi, come tanti toscani esageratori ne vorrebbon dar ad intendere. Quel boccon di satira del Menzini qui citato, è una fiorentineria stentata e piena di turgidezza, che non serve a correggere i vizj nè del pubblico, nè d’alcun privato, quantunque vi sia lo «sguardo che pilucca, l’obbligazione da farne un piatto; il nato dagl’intarlati; il frollo in antichità; il destino rattrappito e monco» ed altre cotali frasi non so se di Mercato Vecchio o di Calimara.

La seconda parte del trattato ciancia assai del Burchiello, e del Berni, e del Fagiuoli, come se il primo e il terzo di [426] questi fossero da compararsi al secondo. Il Burchiello era forse un bello spirito quando si stava a recitare i sonetti nella sua bottega col rasojo in mano, ma delle sue facezie non ve n’ ha forse quattro da far fortuna fuori della bottega d’un barbiere, nè saranno lette che da qualche bastardo cruscante fuori della porta San Gallo, perchè troppo peculiari a’Fiorentini e troppo dipendenti dall’idiotismo loro; e al Fagiuoli io non saprei dare altro titolo che quello di principe de’ seccatori, non sapendo nessun rimatore fiorentino che possegga, o che abbia meglio di lui posseduta l’arte di seccare il prossimo. Basta leggere quello squarcio che il signor Bianchini ne dà qui del suo modo di scrivere e di satireggiare, per convincersi che il povero Fagiuoli era un chiacchierone floscio, snervatissimo, senz’ombra d’invenzione, senza un grano di sale, e privo in somma di novantanove di quelle cento qualità che debbe avere ogni poeta.

Ho letto un tratto quelle satire o capitoli di Gabriello Simeoni stampati dal Cravotto: ma li trovai molto freddi e nojosi, nè credo possano mai piacere ad altri che a questi raccoglitori di libri antichi che sono per lo più gente d’ingegno bovino. Mi è però piaciuto quel componimento di monsignor Vai, intitolato il Pedante, registrato in questo suo Trattato dal signor [427] Bianchini. Il Pedante è quivi caratterizzato assai bene, sì riguardo al parlare che riguardo a’costumi.

Della Dissertazione dell’Ipocrisia de’Letterati non vo’ dir altro, se non che chi la scrisse non mi par degno d’allacciar le scarpe a que’due Scaligeri e a quell’Erasmo, de’quali e’ s’è sforzato a provare che avevano de’difetti. E chi è che non n’abbia massimamente se è letterato, o se ha la matta furia di mostrarsi tale senz’esserlo? ◀Hétéroportrait ◀Niveau 4 ◀Niveau 3

Niveau 3► Lettre/Lettre au directeur►

Lettera scritta dagli spazj immaginarj ad Aristarco.

Niveau 4► Utopie► «Io sono, Aristarco mio, quella povera Ninfa che è fatta il maggior bersaglio de’moderni poeti. Io sono quella Ninfa meschina, che sono da essi tuttodì chiamata crudele e infedele; ingannatrice e traditrice; spietata e fella, d’amor rubella; io sono quella sventuratissima creatura creata dalle loro immaginazioni, che a chiunque mi guarda attentamente faccio subito inarcar le ciglia per maraviglia; che tutti empio di pene, o cingo di catene, massimamente quando movo il bel labbro tinto di cinabbro, o che volgo l’una e l’altra stella in questa parte o in quella. No, Aristarco; questi ricadiosi poeti, e più di tutti quegli Arcadi benedetti, non [428] mi vogliono lasciar in riposo in questi spazj immaginarj, dove men venni a dimorare dal dì che fui creata nel già detto modo. Oh, Aristarco! io vorrei pure starmene quassù nella mia nonessenza, nonentità naturale, senza dar martoro al mio dolce tesoro, e senza colmar di dolore ogn’alma ed ogni cuore! Non vorrei mai avere ad impacciarmi nè co’mirti, nè cogli allori, nè con altr’alberi fronzuti, non vorrei mai premere col santo piede le verd’erbe, nè vedermi l’auree trecce scomposte dai zefiri! Non vorrei in somma dormir mai sulle fiorite sponde al mormorío dell’onde, non avendo poca antipatía co’ruscelli e co’venticelli, come anco coi monti e coi fonti. Sopratutto poi non vorrei unquanco avere a sedermi in cima a’pensieri d’alcun sonettante, o Arcade o non Arcade che egli sia. Ma oimè, Aristarco! È non v’è scampo nessuno, neppure negli spazj immaginarj, contro l’inerzia mentale di tanti scioperoni! E m’è forza ad ogni poco capitombolar nel nulla de’ loro versi! E se la mia ventura fa qualche volta che alcuno d’essi si scordi di farmi violenza in così strano modo, ah Numi! Numi, ditelo voi come se la fanno in tal caso la mia dolce sorella Clori, e la mia soave cugina Amarilli, e Egle, e Laura, e Nice mie amorosissime aeree compagne!

[429] Deh Aristarco Scannabue, in virtù di quel sovrano potere che vi siete da voi medesimo arrogato sopra ogni sorte di letteratura, e massime sulla poesia; voi, Aristarco, che avete spontaneamente impreso a difendere il femmineo sesso, sì reale che immaginario, da ogni oltraggio che gli possa esser fatto: deh, se la gamba di legno vel permette, correte in ajuto di noi povere inesistenti fanciulle, e brandendo quella vostra maladetta inesorabilissima Frusta, menatela addosso a costoro che sempre tentano di violare l’onor nostro con le loro rime! O se sdegnate d’adoperarla contro cotesti nostri dappochi nemici, emanate almeno per l’arcadiche regioni un decreto, con cui si proibisca ai loro abitatori di più molestarci, e di più infastidirci per l’avvenire. Quant’obbligo v’avremo, se vi piegate a’nostri voti, ed alle umilissime preghiere della

Vostra sconosciuta amica
Fille dal Biondo Crine!» ◀Utopie ◀Niveau 4 ◀Lettre/Lettre au directeur ◀Niveau 3

La seguente Pastorale non è uscita della penna d’un uomo, e colle donne Aristarco non può mostrarsi rigido; però le dà luogo qui abbenchè l’argomento sia un po’ troppo frivolo, e abbenchè io sospetti di qualche mordace allegoria a’danni d’alcun povero amante.

[430] Niveau 3► «Vieni e siedi a me vicino,

Caro Elpino,
Ch’io ti narri un caso strano;
Fatti qui sotto quest’ombra,
Mentre ingombra
La tua greggia tutto il piano.

Non è meglio star cianciando,

Che vagando
Ir sull’ora meriggiana?
Senti, senti bestial atto
Che m’ha fatto
Jeri il Fauno alla fontana.

Là vicino a quegli allori

La mia Clori
Acconciavasi le trecce,
Mentre liete le sue belle
Pecorelle
Ne leccavan le cortecce.

Co’capegli sparsi ed irti

Di que’mirti
D’amor caldo il Fauno uscío;
Con l’orribile figura
Qual paura,
Pensa, fece all’idol mio!

Come suole timidetta

La cervetta
Via fuggir velocemente,
Quando l’affamato lupo
Fuor d’un cupo
Antro uscire urlando sente;

Tale Clori tosto sorge

Che s’accorge
[431] Del bestione, e che lo vede;
E attraverso la foresta
Lieve e presta
Sbigottita move il piede.

Io che dietro ad un ulivo

Con furtivo
Modo in lei beava il ciglio,
Pensa, s’io stetti a sedere
Nel vedere
Clori bella in tal periglio!

Sbuco tosto dell’agguato,

Disperato
Dietro al Fauno corro a furia;
Ah ti voglio trarre il core,
Traditore,
Se tu fai a Clori ingiuria!

Credo amor prestommi l’ale:

Come strale
Lo raggiunsi in un momento:
Già la branca aveva tesa;
L’avea presa
Pe’beni crini sparsi al vento.

Con quel mio baston di cerro,

Che di ferro
Alla punta ha un cerchio intorno,
Calo al tristo un marrovescio,
E a sghimbescio
Lo colpisco sur un corno.

S’io menava scarso un dito,

Egli er’ito,
Che una tempia andava in terra;
Pure il colpo non fu vano,
[432] Che sul piano
Stramazzando i denti serra.

La crudel che m’innamora

Si rincuora,
E si volge a me soave;
E la voce riavuta
Mi saluta
Con un vezzo dolce e grave.

O Menalca, poi mi dice,

Or felice
Son per te, pastor cortese,
Che volando sei accorso
In soccorso
Di chi tanto già t’offese:

Ma, pastor, se un dì crudele

Tue querele
D’ascoltar mostraimi schiva,
Mostrerotti in avvenire . . .
In ciò dire
Diventò qual fiamma viva.

Del medesimo cinabbro,

Che il bel labbro
Naturalmente le tinse,
Sì, di quel colore appunto,
In quel punto
Tutto il viso si dipinse.

Pien d’amore, d’allegrezza,

Di dolcezza,
Una mano le pigliai,
E tenaci come pece
Più di diece
Baci tosto le appiccai.

[433] Par che il gaudio fuor degli occhi

Mi trabocchi.
Ma non posso aver il fiato,
Nè risponder m’è permesso
Dallo stesso
Troppo gaudio inaspettato.

Volli dir mille amorose

Dolci cose
In quel punto alla mia Dea:
Caro Elpino, e’ pajon fole,
Due parole
Raccozzar io non sapea.

Stando in tal confusïone

Quel bestione
Ritornò ne’sentimenti:
Bestemmiando il Dio del loco
Gittò fuoco
Fuor degli occhi, e fuor dei denti.

Pensa, Elpino, com’io risi

Di que’ visi
Furibondi ch’e’facea!
La boccaccia fuor buttava
Schiuma e bava,
Ed io sempre più ridea.

Fa scoccar per l’empia rabbia

L’unte labbia,
E ad un albero s’appoggia.
Poi mi dice: E che t’ho fatto,
Pastor matto,
Che mi tratti in questa foggia?

Forse è fatta quest’altera,

Tua mogliera,
[434] Che col cerro tu mi batti?
Se nol sai, tel dic: l’amo;
Mia la bramo;
Vanne dunque pe’tuoi fatti.

Se tu l’ami, l’amo anch’io,

Fauno mio,
Beffeggiandolo risposi:
Il mio core ha pur conquiso
E quel viso
E que’ begli occhi amorosi.

Nè si vuol con queste frodi,

E con modi
Così brutti rattristarla,
In tal guisa nella selva
Qualche belva
Puoi amar, se vuoi amarla.

Se non vuoi far pochi avanzi,

Di dinanzi
A noi togliti, bestione;
O farò che ancora piombi
Su tuoi lombi,
Sozzo Fauno, il mio bastone». ◀Niveau 3

Niveau 3► Lettre/Lettre au directeur► «Signor Aristarco. Questa vostra Frusta mi pare che la vogliate ridurre a una specie d’olla putrida, cioè che la vogliate rendere una vivanda adattata ad ogni bocca, come dicono che sia l’olla putrida degli Spagnuoli quando è ben fatta, ficcando in essa lettere, dissertazioncelle, ode, anacreontiche, capitoli, satirette, e [435] cose forse ancora di minor sostanza, oltre a quelle vostre severissime critiche, le quali spero ne formeranno sempre la parte principale. Desidero che l’olla vi riesca perfetta, onde si possa confare con ogni palato; cosa però che vi verrà molto difficilmente fatta, poichè tanti sono quelli fra di noi che hanno i palati guasti, che perchè ne gustassero volentieri e a tutto pasto saria d’uopo la vostr’olla fosse un composto di cose pessime. Checchè v’avvegna, sappiate ch’io ho redate tutte le carte manoscritte d’un uomo, che in questo nostro Milano fu riputato studioso assai quando viveva. Tra quelle carte mi sono abbattuto in un picciol fascio di lettere, che se non sono tanto filosofiche quanto quella del vostro corrispondente Onesto Lovanglia, sono tuttavia tanto leggiadre, che dovrebbono, pare a me, trovare un cantuccio di qualche vostro Numero per allogarvisi. Ve ne mando una per saggio. Non so dirvene l’autore, perchè, quantunque tutte pajano originali, chi le scrisse non aveva costume, per quanto vedo, di sottoscriversi, forse sapendo che l’amico a cui le scriveva, non aveva bisogno del segno per conoscerlo. In alcune v’è la data da Roma, in altre da Napoli; e questo è tutto. Se stampate questa prima, supporrò che tutte potranno piacervi, e ve le anderò copian-[436]do e mandando a una a una. State sano».

Vostro parziale assai R. M. G. ◀Lettre/Lettre au directeur ◀Niveau 3

Niveau 3►

Lettera d’un Romano o Napoletano ad un Milanese.

«E tu vuoi, anima bella, ch’io mi bea su que’tre grandi epitetoni datimi dal tuo compare di Verona? E tu vuoi ch’io mi creda celebre, impareggiabile, immortale? E tu vuoi che la mia modestia imbagasci a tal segno? Santi Numi del cielo, deh se fu voler vostro che la mia incauta modestia fosse un tratto violata dal mio amor proprio, deh non permettete che ora si prostituisca di buona voglia a que’tre peccaminosi epiteti! Io celebre? Io impareggiabile? Io immortale? Oh il bel celebre ch’io mi sono, per cominciar dal celebre! Vi saranno forse dieci persone in quella Verona che conoscono il mio nome, e dieci nel tuo Milano, che fanno venti; e cinque in Torino, che fanno venticinque; e venticinque in altre in tutto il resto del Piemonte e della Lombardia, dandoti anche giunta tutta la Savoja di là, e tutto il Mantovano di qua, che fanno cinquanta; cinquant’altre tra Bologna, Modena, Ferrara, Padova e Venezia, che fanno cento. Cento in tutta Toscana, giunta il Genovesato, che fanno dugento. Poniamo un centinajo qui nella mia Roma, e un’altro centinajo là nel [437] mio Napoli, che fanno quattrocento. Una trentina in tutto il resto d’Italia, inchiusa la Sicilia, la Sardegna e la Corsica, con tutte l’isolette e scogli adjacenti, che fanno quattrocentotrenta. Allarghiamo quanto si può la mano, e diciamo che il mio nome è conosciuto ad altre settanta persone sparse per la Francia, la Spagna, la Germania, o per far più tosto, in tutto il resto del globo terracqueo, che fanno il numero tondo di cinquecento persone. E tu vuoi, anima mia, che un galantuomo tuo amico, conosciuto da cinquecento sole persone in tutto quanto il mondo, si bea su del celebre, in grazia d’un tuo compare da Verona? Ma sai tu che in Europa sola si contano da cencinquanta milioni di persone? Aggiungi poi cinquecento milioni in Asia, quattrocento in Africa, e trecento in America; e forse qualcosa più d’altri cinquecento milioni nelle terre australi, e in altre parti del globo non ancora da’baldanzosi Europei visitate. Queste tante persone messe insieme, fanno intorno a due mila milioni di persone. Di questi due mila milioni di persone non ve n’ ha una che conosca il mio nome, trattene quelle cinquecento che già contai. E tu vuoi, anima mia, ch’io mi bea su quel celebre, io che sono ignoto a due mila milioni di persone, e che sono soltanto noto a cinquecento? V’è [438] egli ragguaglio tra cinquecento e due mila milioni? Va bene, che il nome d’Omero, e quello di Platone; o quello d’Alessandro Magno, e quello di Giulio Cesare, e simili altri nomi, s’abbiano un poco del celebre o in bene o in male, perchè da molti milioni di persone furono sentiti e pronunziati. Ma il mio nome sentito e pronunziato, e questo anche assai di rado, da cinquecento persone solamente, tu vuoi che sia il nome d’un celebre, sulla sola autorità d’un tuo compare da Verona? Oh, anima mia, io non la Posso inghiottire! Io me la sento lì nelle fauci che mi strozza! Or pensa tu, com’io voglia poi ingojarmi anche quegli altri due aggettivacci d’impareggiabile e d’immortale! Canchero! suonano entrambi anche più magnificamente che non suona quel celebre, onde non li voglio in corpo, no in coscienza! Oh siamo pure indiscreti noi Italiani, quando facciamo a lodarci l’un l’altro. Chi ne credesse! Siamo gente grande, gente maravigliosa, gente sovrumana! Se facciamo un sonetto, oh gli è stupendo! una canzone, oh è un mezzo miracolo! Un capitolo, una ventina d’ottave a forza di rimario, oh sono montagne d’ingegno, oceani di sapere! Gli è vero che le lodi sono per lo più la sola ricompensa che ne tocca de’versi nostri, e anche delle nostre prose, che te le metto [439] qui come sopra mercato: ma e’ vi vuole nondimeno un po’ di moderatezza in ogni cosa, e non iscialacquare il celebre, l’impareggiabile e l’immortale. Se verrà il tuo compare da Verona a dirmi che la mia prosa non è tanto sciapita quanto quella del Manni, e che i miei versi non sono così tristi come que’ del Cerretesi, mi lascerò forse solleticare alquanto, mi tirerà forse dalla sua: ma ch’egli mi voglia farmi mandar giù in un sorso tanto di celebre, tanto d’impareggiabile, tanto d’immortale, anima mia, nol posso, nol devo, e nol voglio fare. Mi dirai che per un compare tuo, anzi pure per un benevolo mio, bisogna ch’io faccia qualche cosa, e che poco di meno posso fare che accettare questi tre titoli, che alfin del fine non sono poi altro che tre vocaboli di Crusca. Ma o di Crusca, o non di Crusca, io non li voglio; e s’egli li vuol pur dar via, zitto, che troveremo di che contentarlo. Se tu guardi in non so quale di que’grossi tomi del quondam padre, e poi abate Quadrio, tu vi troverai registrate, penso io, cento accademie, quasi tutte poetiche, seminate qua e là per l’Italia, quale più antica, e quale meno antica. La nostra sola, che va (come ben sai) sotto il pueril nome d’Arcadia, a pigliarla dal dì della sua fondazione sino al dì d’oggi, parlando così a aria, e mode-[440]ratamente giudicando, potrebbe somministrare un catalogo di quindici o venti mila accademici, abusivamente chiamati pastori e più abusivamente ancora chiamati poeti. Aggiungi a que’quindici o venti mila poeti altrettanti membri d’altre accademie registrate dal prefato Quadrio nel prefato suo tomo. Possibile, anima mia, che fra quelle tante migliaja di poeti antichi e moderni non ne troviamo almeno un centinajo, che vogliano accettare di miglior grado che non io o del celebre, o dell’impareggiabile, o dell’immortale? Eh che quasi tutti si sono creduti, e si credon degni degnissimi di tutti tre quegli epiteti, e d’una soma d’altri anche maggiori, se ve n’ha nella Crusca; nè ti basterebbe l’aritmetica e l’algebra, se tu imprendessi a calcolare quanti milioni di volte se li sono versati caritatevolmente addosso l’un l’altro! Ad essi dunque si volga il tuo compare da Verona; ma da me non venga mai, ch’io non voglio permettere nè a te nè a lui d’aver in Roma un amico, un conoscente, un corrispondente, meritevole de’tre epìteti celebre, impareggiabile ed immortale. Vale, vale». ◀Niveau 3

Rendo grazie a quel mio corrispondente di Bologna, che si sottoscrive Filiberto Tacconi, dell’affetto che mi mostra, del sonetto che m’ha mandato, e più del [441] cordiale avvertimento che mi dà di guardarmi da qualche nuovo sinistro. Non so però indovinare a qual mio antico sinistro egli alluda nella sua lettera. I miei scimmiotti stanno bene; a’miei pappagalli non manca una penna; i miei cani e i miei gatti abbajano e miagolano al solito, e don Petronio beve e fuma al solito in perfetta salute; nè io ho incontrati mai sinistri in tutto il corso della mia vita, eccetto quello notissimo della sciabolata circassa in Erzerum, e quello altro della palla uscita dal riferito brigantino di Marocco che mi obbligò mio malgrado a farmi fare una poco bella gamba da un legnajuolo. Dio sa, signor Filiberto, che baggianata v’è stata venduta da qualche buon uomo! ◀Niveau 2 ◀Niveau 1