La vedova fedele Giovanni Ferri di S. Costante Moralische Wochenschriften Alexandra Fuchs Editor Alexandra Kolb Editor Valentina Rauter Editor Institut für Romanistik, Universität Graz 19.12.2016

o:mws-117-1143

Ferri di S. Costante, Giovanni: Lo Spettatore italiano, preceduto da un Saggio Critico sopra i Filosofi Morali e i Dipintori de’Costumi e de’Caratteri. Milano: Società Tipografica de’Classici Italiani 1822, 371-374 Lo Spettatore italiano 4 65 1822 Italien
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La vedova fedele

Ille meos, primus qui me sibi junxit, amores.Abstulit; ille habeat secum, servetque sepulcro.

Virg.

Chi a me primo s’aggiunse, ei l’amor mioRapissi; ei l’abbia, e nella tomba il serbi.

Celestina, ricca ereditiera, dotata di tutte le avvenevolezze e di tutte le virtù domestiche, fu per moglie dimandata da una schiera di vagheggiatori, offerendole di splendidi parentadi e di titoli assai onorevoli. Ed ella estimando le sue divizie non ad altro doverle servire che a farla beata, si elesse Isidoro, bello e pregiato giovane, di onesto ma non chiaro lignaggio, e di mezzano stato. Giammai donna alcuna non ebbe maggior guiderdone dell’aver sacrificato la vanità al sentimento che avesse ella: nè mai fu tanta felicità, quanto quella era, onde in braccio al suo Isidoro Celestina godea. Ma, ahimè, quanto fu breve il godimento! In capo di forse un anno e mezzo l’amato suo amante morì. Io che d’Isidoro era amico, mi tenni obbligato di consolare per alcuna guisa la dolorosa vedovella, e fui ad essa in campagna, dove ella s’era ridotta per passare la sua doglia e la sua vedovanza in un piccolo abituro, ereditario poderetto del suo sposo.

Dopo così compiuti diletti, come furono quelli di cui ho goduto, mi disse ella, non potrò mai ripensare a quel fiero punto che mi ha tolto il mio Isidoro, senza provare un altissimo dolore; nè di quella piaga, che tanta perdita m’ha fatto nel cuore, potrò io più guerire. Non è più per me il mondo; in mezzo delle sue liete e splendidi scene io non so gustare alcun piacere, e le sue occupazioni vengono a tormentarmi fin sotto queste romite alberate. Un’ora sola di pace e di riposo non posso io trovare. Gli amici s’ingegnano a mostrarmi che gravi siano loro le mie fatiche: la fortuna mi arride; la lusinga e l’adulazione si adornano delle più piacevoli sembianze per isvellermi dalla mia solitudine. Molti amanti, le cui ottime doti mi rammentavano Isidoro, hanno tentato inspirarmi di teneri sentimenti: ma il mio cuore è pieno del suo primo affetto; il quale non e più quella passion fervente che vive solo fra i vivi, e della comunicazione della cosa amata si nutrica. Egli è un amore affreddato, ma non ispento, il cui soggetto è sotterra; è un amor che piange sopra un sepolcro con l’arco allentato e con le saette infrante. Solo una dolce rimembranza mi sostiene in vita e mi fa sofferire il peso di quella.

Io ho già rinunziato al mondo, e mi sono in questi solinghi luoghi ricolta, che furono già da Isidoro abitati. Per quivi egli i suoi dì conduceva in mezzo ai piaceri della vita campestre, sollevando l’umile sua fortuna con tutti i vantaggi degli studi dei buon gusto e del sapere. Ecco per dove egli mi portava quella ardente affezione, la quale per la modesta sua indole gli saria rimasa sempre chiusa nel petto, se io non avessi i suoi pregi traveduti, e diveltogli di bocca il segreto d’amore. Io gli rendei foco per foco, e lo innalzai ad uno stato cui egli ornò ai uno splendore, ah! troppo breve e transitorio.

Proponimento ho fatto di passare nell’eremo d’Isidoro il rimanente dei giorni della mia vedovanza. Vedete: quegli alberi e quegli arboscelli sono stati piantati e cresciuti da lui; egli ha in quel canale le acque di questa vena ristrette, ed inviate sopra quella rupe onde elle caggiono con dilettevole mormorio e continuo.

Questo portico d’ordine dorico, dove noi seggiamo, è opera dell’immaginazion sua; e quelle imprese d’amore e d’amicizia, adornamento di quella parete, sono suoi pensieri. Nè posso io passeggiare per questi viali, nè farmi per entro questa selvetta, nè andarmene riva riva di questo aggirevole fiumicello, senza riconoscervi i segni dall’antica fiamma, già dolce, or disperata, della quale fui io il suggetto e la mercede.

Ah! che io qui non ho altro ornamento aggiunto, che quello del culto; siccome è l’arca sepolcrale da me in questa solitaria parte collocata sotto l’ombra dei funerei salci. Quello io vengo a visitare allo spuntar del mattino e all’imbrunir della sera. Colà mi pasco del mio dolore. Ah! no, io non lascerò mai più questo luogo dolente e caro. Ma che dissi? Oh Dio! la mia speranza è di lasciarlo in breve, per andarne a rivedere il mio diletto.

La vedova fedele Ille meos, primus qui me sibi junxit, amores.Abstulit; ille habeat secum, servetque sepulcro. Virg. Chi a me primo s’aggiunse, ei l’amor mioRapissi; ei l’abbia, e nella tomba il serbi. Celestina~k, ricca ereditiera, dotata di tutte le avvenevolezze e di tutte le virtù domestiche, fu per moglie dimandata da una schiera di vagheggiatori, offerendole di splendidi parentadi e di titoli assai onorevoli. Ed ella estimando le sue divizie non ad altro doverle servire che a farla beata, si elesse Isidoro, bello e pregiato giovane, di onesto ma non chiaro lignaggio, e di mezzano stato. Giammai donna alcuna non ebbe maggior guiderdone dell’aver sacrificato la vanità al sentimento che avesse ella: nè mai fu tanta felicità, quanto quella era, onde in braccio al suo Isidoro Celestina godea. Ma, ahimè, quanto fu breve il godimento! In capo di forse un anno e mezzo l’amato suo amante morì. Io che d’Isidoro era amico, mi tenni obbligato di consolare per alcuna guisa la dolorosa vedovella, e fui ad essa in campagna, dove ella s’era ridotta per passare la sua doglia e la sua vedovanza in un piccolo abituro, ereditario poderetto del suo sposo. Dopo così compiuti diletti, come furono quelli di cui ho goduto, mi disse ella, non potrò mai ripensare a quel fiero punto che mi ha tolto il mio Isidoro, senza provare un altissimo dolore; nè di quella piaga, che tanta perdita m’ha fatto nel cuore, potrò io più guerire. Non è più per me il mondo; in mezzo delle sue liete e splendidi scene io non so gustare alcun piacere, e le sue occupazioni vengono a tormentarmi fin sotto queste romite alberate. Un’ora sola di pace e di riposo non posso io trovare. Gli amici s’ingegnano a mostrarmi che gravi siano loro le mie fatiche: la fortuna mi arride; la lusinga e l’adulazione si adornano delle più piacevoli sembianze per isvellermi dalla mia solitudine. Molti amanti, le cui ottime doti mi rammentavano Isidoro, hanno tentato inspirarmi di teneri sentimenti: ma il mio cuore è pieno del suo primo affetto; il quale non e più quella passion fervente che vive solo fra i vivi, e della comunicazione della cosa amata si nutrica. Egli è un amore affreddato, ma non ispento, il cui soggetto è sotterra; è un amor che piange sopra un sepolcro con l’arco allentato e con le saette infrante. Solo una dolce rimembranza mi sostiene in vita e mi fa sofferire il peso di quella. Io ho già rinunziato al mondo, e mi sono in questi solinghi luoghi ricolta, che furono già da Isidoro abitati. Per quivi egli i suoi dì conduceva in mezzo ai piaceri della vita campestre, sollevando l’umile sua fortuna con tutti i vantaggi degli studi dei buon gusto e del sapere. Ecco per dove egli mi portava quella ardente affezione, la quale per la modesta sua indole gli saria rimasa sempre chiusa nel petto, se io non avessi i suoi pregi traveduti, e diveltogli di bocca il segreto d’amore. Io gli rendei foco per foco, e lo innalzai ad uno stato cui egli ornò ai uno splendore, ah! troppo breve e transitorio. Proponimento ho fatto di passare nell’eremo d’Isidoro il rimanente dei giorni della mia vedovanza. Vedete: quegli alberi e quegli arboscelli sono stati piantati e cresciuti da lui; egli ha in quel canale le acque di questa vena ristrette, ed inviate sopra quella rupe onde elle caggiono con dilettevole mormorio e continuo. Questo portico d’ordine dorico, dove noi seggiamo, è opera dell’immaginazion sua; e quelle imprese d’amore e d’amicizia, adornamento di quella parete, sono suoi pensieri. Nè posso io passeggiare per questi viali, nè farmi per entro questa selvetta, nè andarmene riva riva di questo aggirevole fiumicello, senza riconoscervi i segni dall’antica fiamma, già dolce, or disperata, della quale fui io il suggetto e la mercede. Ah! che io qui non ho altro ornamento aggiunto, che quello del culto; siccome è l’arca sepolcrale da me in questa solitaria parte collocata sotto l’ombra dei funerei salci. Quello io vengo a visitare allo spuntar del mattino e all’imbrunir della sera. Colà mi pasco del mio dolore. Ah! no, io non lascerò mai più questo luogo dolente e caro. Ma che dissi? Oh Dio! la mia speranza è di lasciarlo in breve, per andarne a rivedere il mio diletto.