Citation: Giovanni Ferri di S. Costante (Ed.): "Conoscer se stesso", in: Lo Spettatore italiano, Vol.4\39 (1822), pp. 248-252, edited in: Ertler, Klaus-Dieter (Ed.): The "Spectators" in the international context. Digital Edition, Graz 2011- . hdl.handle.net/11471/513.20.903 [last accessed: ].


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Conoscer se stesso

Citation/Motto► Illud nosce se ipsum, noli putare ad arrogantiam
minuendam solum esse dictum, verum etiam ut bona
nostra norimus

(Senec.).

Non credere che quel dovere te stesso conoscere, a
solamente scemare l’arroganza sia detto, ma ezian-
dio acciocchè le buone cose che avemo, siano per
noi conosciute. ◀Citation/Motto

Level 2► Level 3► Dialogue► Fa che ti conoschi, è sì celebrato, diceva Eudosio, e ricevuto comandamento degli antichi sapienti, che fu avuto per un oracolo di Apolline. Codesto non mi par così utile comandamento, rispose Arispo. Non son io stato sempre con meco? chi mai ha me da me dipartito? Conosco io bene la mia persona, la mia statura e la carnagione; e conosco altresì bene l’animo mio, i miei costumi e le mie facultà. E chi si vanterebbe saper di me più di me? I miei più famigliari amici non possono dirne più che quello ch’io lor ne mostro. Può egli ben essere, soggiunse Eudosio, che abbiate sin qui vissuto con voi stesso, e che non siate di meno esperto nell’arte di travisar voi a voi: e forse che non solamente tenete celate agli amici le passioni e gli abiti vostri; ma voi medesimo, quantunque sottile intenditore vi siate, avrete tra voi e la conoscenza di voi posto alcun velo. Innumerabili sono quelli i quali s’avvisano di sapere, e non sanno [249] pur la forma del corpo loro: anzi, per alcuna gentil fattezza ad essi nella puerizia lodata, si danno a credere non pur sotto quella dovere tanti altri lor difetti restar nascosi, ma che da quella sia tutto il rimanente abbellito. Favola è che il pavone, superbo dello splendor di sue penne, credette avere ancor bella voce; e che al cigno, accecato similmente dall’amor proprio, il bianco delle penne non lasciasse vedere il nero de’piedi. Quel ch’io ragiono del corpo, addiviene ancora dell’animo. Ha uomo ingegno niuno? gli pare essere un’aquila: ha egli qualche bontà? si reputa vaso di perfezione.

Level 4► General account► Una novelletta da certo antico scrittor raccontata di Apelle apertissimamente dimostra quanto per illusione d’amor proprio sia il conoscimento di se stesso all’uomo impedito. Fu a quel gran dipintore imposto che dipingesse la Dea d’amore e della bellezza. Ardua opera veramente; perciocchè quando mai, o dove aveva egli veduta Venere, o quale umana bellezza potea somigliarla? Pure alcuna ne gli parve da tanto, come quella che da lui, secondo la lusinghiera ed idolatra usanza de’dipintori e de’poeti, era stata, quasi in segno di suo tributo, per dignità di bellezza a Venere agguagliata; onde che tra le belle per lui così fatte Dee si argomentò di trovar l’esempio del suo lavoro.

Non fu sì tosto saputo che Apelle era sopra questa impresa, che una maravigliosa gara fra tutte le fanciulle di Grecia si levò: ed egli, per guatare le più pregiate in bellezza, si [250] veniva io tutte le brigate e in tutti i pubblici festeggiamenti trovando, sempre col pensiero di abbattersi in tale che al suo caso soddisfacesse. Ma chi’l crede? Egli che sin qui da innamorato riguardate le avea, ed ora da artista e da conoscitore considerando le andava, trovò de’difettuzzi anche nelle più reputate in bellezza; e quelle medesime ch’egli aveva adorate, non più che alcun lineamento, o garbo, o ombra di bello portavano. Molto tempo sopra la scelta egli stette, ed ultimamente, Se nessuna, disse, è compiutamente bella, convien ch’io per modello le abbia tutte insieme. Torrò le labbra e ’l riso da Lesbia, gli occhi da Safira, da Galatea la carnagione, da Lidia la persona, il sen da Mirra, e le braccia e le mani da Aspasia: e dal componimento di queste sparte forme mi verrà fatta la Dea. Certo, gli disse un amico, in questo modo potete voi riuscire ad un’ottima dipintura; ma voi perderete la grazia di queste donne, ciascuna delle quali estimasi Venere, e non si veggendo ritratta nella vostra tavola, vi si cruccerà forte di non aver voi posta ben cura alle sue sembianze. Grande pareva il pericolo; ma il dipintore che il cuore umano conoscea, tenne il suo proponimento.

L’eccellenza e la perfezione del lavoro suscitò disiderio della sua veduta a tutta la Grecia: e le fanciulle che per l’idea vi furono adoperate, più che mai della lor beltà superbe, si venivano a rivedere nel quadro. Bene, disse alla prima vista Galatea; molto bene ha egli qui incarnata la mia carnagione; e persuasa di [251] esser Venere, andò via. Lesbia temendo non con l’aprir della bocca se le guastasse la divina similitudine, non fece motto. Appresso si fece avanti Lidia, e, come se fuor di pensiero e senza avviso il facesse, s’acconciò nell’atto della immagine, dicendo: È impossibile che ’l dipintore non m’abbia debitamente affigurata; troppo notabile è l’atteggiamento. All’uscir di Lidia, entrò Safira, la quale appena ebbe veduta la tavola, divenuta vermiglia e ridendo, Ecco là, disse, gli occhi miei, questa è la mia effigie. Quindi Mirra, È veramente, disse, un grande e fedel dipintore questo Apelle: ve’come ha qui ben renduto il mio seno. Finalmente Aspasia, intendendo dell’emule sue, Oh tapinelle! disse; costoro morran d’invidia, se s’accorgono che Apelle m’ha qui presa fino all’estremità delle dita. Altre Greche ancora vi vennero, le quali senza altro, che alcun tratto, alcun piccolo tratto di sè ravvisarvi, contentissime tutte, non altrimenti che se tante Veneri state fossero, lodando Apelle, se ne partivano; il quale guardava l’amico e rideva. ◀General account ◀Level 4

Io non dico, rispose Arispo, che l’amor proprio non ci abbarbagli; ma io giudico il saper ben se medesimo, essere una scienza oscura e forte non per sè, ma per penuria di schiettezza, che ad aggiungervi si addimanda. Vi volete voi conoscere, ed apertamente ogni vostra facultà vedere? Portate fede a voi stesso, investigate i principii e i movimenti delle vostre operazioni, ed in poca ora saprete a fondo la vostra coscienza e ’l cuor vostro. Con quello studio [252] dovete voi considerar voi, col quale vi assottigliereste di comprendere la natura d’un altro: ed allora vi scorgerete come in ispecchio, il quale v’aprirà nudo ciascun vizio, quello anzi più grandicello che più piccoletto mostrandovi, per la cagione che voi vi guaterete con ischietta disposizion d’ammendarvene e perfezionarvi.

Un’altra difficultà si trova nell’andare al conoscimento di sè, la quale è che non siam disposti, ove pur ci si pervenisse, ad usarne: perchè l’uomo, qual egli è, tal s’ama; e crede i suoi difetti minori degli altrui, e fugge di cercarne il verace capo, perchè se lo rinviene, gli pare essere in un cotal officio di doversene rimanere. E per conseguente il maggiore, e forse il solo impedimento che abbiamo a conoscer noi stessi, è il sapere che ci dobbiamo saviamente servire di questa conoscenza. Per la qual cosa l’uomo, in luogo di desiderare, abborre di discernere se stesso, ed è un farlo sventurato il costringerlo a porsi gli occhi addosso. E così la sollecitudine di voler la vista di se medesimo schivare, è la fonte di tutte le sue male faccende, e spezialmente di ciò che si chiama dissipamento e vaghezza. ◀Dialogue ◀Level 3 ◀Level 2 ◀Level 1