Référence bibliographique: Giovanni Ferri di S. Costante (Éd.): "I bisogni immaginari e la mediocrità", dans: Lo Spettatore italiano, Vol.4\23 (1822), pp. 162-167, édité dans: Ertler, Klaus-Dieter / Fuchs, Alexandra (Éd.): Les "Spectators" dans le contexte international. Édition numérique, Graz 2011- . hdl.handle.net/11471/513.20.887 [consulté le: ].


Niveau 1►

I bisogni immaginari e la mediocrità

Citation/Devise► Si ad naturam vives, nunquam eris pauper; si ad
opinionem, nunquam dives

(Senec.).

Non sarai povero mai, se vivi secondo natura; nè
ricco giammai, se secondo l’opinione. ◀Citation/Devise

Niveau 2► Socrateaddimandato qual de’mortali più alla felicità degli Iddii si accostasse, rispose: Colui che ha meno bisogni. Con queste parole quel saggio senza dubbio intendeva, non la quantità de’beni che altri possiede, ma i limiti coi quali sa li suoi desii circonscrivere. E nel vero cotal temperanza di desii puote appareggiare il semplice abitatore d’una botte al signor del mondo: lo che mosse Alessandro a protestarsi che s’egli stato non fosse Alessandro, sarebbesi tolto d’esser Diogene.

Nimici dell’umana felicità sono gl’immoderati disii; perciocchè disio, bisogno e indigenza importano il simigliante. Quegli che sendo tranquillo possessore di tutti i beni del mondo, ne immaginasse un altro da non poter essere da lui posseduto, costui veracemente saria povero.

Delle cose che sono a noi maggiormente richieste, stata ci è natura larga dispensatrice; laddove con misura quelle ne ha dato che accrescer non possono la nostra felicità. Così comune e il ferro, e rado e l’oro; l’uno dei [163] quali è presto ad ogni nostro maggior uopo, e l’altro non è buono che a risplendere, e dalla sola sua rarità procede il gran pregio che si tiene del suo folgoreggiare. In tutte le parti della fisica vita e della morale le necessarie cose son come il ferro, e come l’oro le superflue. Lieve è l’acquisto di ciò che ci fa veramente mestieri, ed è ancor si lieve, che i più degli uomini fatti per la copia ciechi, e i naturali disii cogli artificiati confondendo, hanno immaginato fittizi bisogni per potersi distrarre. Ondechè principal cagione d’infiniti bisogni è la copia stessa. La povertà eziandio, che sì spesso e sì sventuratamente s’incontra presso le incivilite nazioni, procede dai mutamenti che l’opulenza produce nei costumi. Perciocchè allora soltanto natura poveri ci rende, quando il necessario ci toglie; ma noi per usanza addimandiamo indigenza il bisogno delle cose superflue.

In cambio d’apprendere ad infrenare i suoi disii, pare che tutta sua vita l’uomo si brighi di crearsi nuovi bisogni. Si compiange egli tuttora, è ben vero, di non bastare a procacciarsi la felicità, e confessa ch’egli è un essere necessitoso e precario, a mille bisogni sottoposto, ai quali nè coll’industria nè colla forza può satisfare. Ma frattanto fingendo bisogni non naturali, egli si forma una artificiata povertà, e si rammarica mancargli assai cose, le quali eziandio conseguite non vagliano a procurargli alcun sollazzo.

Un ardente e sfrenato desire, qual che siane l’obbietto, può ad ogni ora turbare la nostra [164] tranquillità. Conciossiachè quello di cui abbisognare estimiamo, ne crucia non già a misura del suo intrinseco pregio, ma di quello che noi vi apponghiamo nell’animo nostro. Così quel Romano che piangea la morte della sua cara lampreda, provò quel grado medesimo di cordoglio che nelle afflizioni veraci ne strappa dagli occhi le lacrime.

Ogni razional creatura dee secondo lor reale utilità estimare le cose. Poche conferir possono alla felicità, e poche per conseguente vogliono essere da noi con ardor desiate. Quale a’nostri immaginarii bisogni pon mente, puote i beni di questo mondo col medesimo occhio guatare, che faceva Socrate la fiera d’Atene, e puote esclamare com’egli: Quante cose di cui non saprei che farmi!

Oh avventurato colui che, nato in mediocre fortuna, sa i fittizi bisogni interdirsi! Ma tutti lodano la mediocrità, e niuno se ne contenta; la qual contraddizione procede nel vero dal non sapere li beni della natura e della fortuna secondo lor giusto valore apprezzare. Perciocchè i primi che a ragione tener si possono come i più solidi beni del mondo, inducono sul lor possessore una mano d’inconvenienti, quando una giusta misura oltrepassano. La bellezza, ad esempio, sì disiato e invidiato dono della natura, a quanti danni non espone quelle femmine che ne sono fornite? Di rado ella fa mischianza colla virtù, e prepara lunghi rammarichi, sendo verissimo ciò che per una famosa donna fu detto, che poco tempo ci ha per essere belle, e molto per non esserlo più. [165] Sanità, forza, e ottimo temperamento di persona son necessarie per certo a godere i beni della vita e adempierne gli officii; ma frattanto questi vantaggi stessi, oveche giudicar se ne possa dalle apparenti lor conseguenze, sono spesse fiate nocevoli a coloro a cui più largamente furono conceduti. La fidanza che altri pone in sua forza, trascinalo nella negligenza, nella irregolarità e negli eccessi, e sovente non fa che abbreviarne la vita, o conducelo a gemer lungo tempo nella debolezza e nel dolore.

Le qualità dell’ingegno sono per se stesse sempre gran beni. Ma incontra egli di farne generalmente buon uso? e quando oltrepassanti siano, non ne espongono anzi a mille danni? Degli uomini di gran fama pochi ci ha che tra i felici sieno annoverati. I più conseguito hanno dopo lor morte la gloria che a tutto posero innanzi; e mentre che vissero, fur giuoca dell’invidia, dell’ignoranza e dei pregiudizi. Schifiamo di non far capitale dei grandi ingegni, li quali eziandio, se funesti sono ai loro possessori, recano spesse fiate molto vantaggio alla società; ma consideriamo che minor male è non aver grande ingegno, che non adoperarlo in bene, e che egli quasi sempre ha un’influenza contraria alla felicità della vita.

Di tutti i vantaggi che sopra gli altri ci pongono, non è pur uno che più infiammi gli sforzi e i disii nostri, come le ricchezze. Sempre ci sta dinanzi agli occhi il male della povertà, male di tanti sollicitudini apportatore e di tante pene, che ogni uomo a suo potere d’evitarlo s’ingegna; lo che finalmente allora [166] si consegue, quando alla mediocrità, riparatrice del bisogno, si perviene. Ma appena ha l’uomo ottenuto questo agio temperato, subito muta pensiero sulla povertà, misurando con altra stadera i suoi bisogni. Il destro ch’egli ha di adempiere i suoi desii, ne fa rampollare degli altri; e per tal guisa coll’andare del tempo i bisogni a dismisura moltiplicano. Egli diventa ingordo e insaziabile, perciocchè non pon mente che a quelli veraci agevole è satisfare, e il danno prevenire dello esservi esposti; che sendo infinite le richieste della vanità e dall’ambizione, uopo è ultimamente mettersi al niego; e che il tener fronte a quelle è men faticoso, quando adusate non le abbiamo a farle contente.

Se attentamente si risguardi il possessore di grandi facoltà, si scorgerà non esser tale la sua condizione, che per acquistarle uopo sia porre a rischio il riposo e la virtù. Perciocchè tutto il vantaggio che ha una grande opulenza sopra uno stato mediocre, è di porgerci più agio per tener dietro ai nostri capricci, più privilegi per nutricare l’ignoranza, più diritti alla vile adulazione, più falsi piaceri, i quali ognor seguita il rimorso. Il vero mezzo di sapere se l’oggetto de’nostri desii meriti le nostre cure, è di considerare prima la felicità di chi lo ha posseduto. Spesso colla brama di ben meritare degli altri si scusa la cupidità delle ricchezze; ma cotesto desiderio non si misura coi mezzi a noi porti dalla fortuna, sembrando anzi ch’egli si scemi secondo che i mezzi si accrescono.

[167] Chiamasi felicità l’aver ciò che l’uomo desia, ma è felicità maggiore il non desiare più oltre di quel che si ha. Chi non intende all’arte di esser felice con poco, fia sempre infelice.

Ragione ci detta che non si vuol misurare il bene cogli oggetti di cui altri gode, ma con quelli di cui sa fare a meno.

Non ha uomo il necessario, ovechè non possa fare a meno del soperchio.

Grande ventura non accresce punto la felicità, avvegnachè come sterili e indifferenti si faccian le cose di cui altri una volta godè.

“Sono sventurati i pitocchi, dice un filosofo, perchè son sempre pitocchi; e i re similmente, perchè sempre son re.” Le mezzane condizioni da cui altri esce più agevolmente, offrono piaceri al di sopra e al di sotto di quelle. Elle allargano eziandio le cognizioni di coloro che in esse si trovano, porgendo l’agio di conoscere più pregiudizi e di paragonare più gradi di stati; e questa si è la principal cagione per cui nelle condizioni di mezzo ha più felici uomini e più sensati. ◀Niveau 2 ◀Niveau 1