Lo Spettatore italiano: I lamenti dello schiavo
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I lamenti dello schiavo
O infelici schiavi, fra me diss’io, sempre adunque dovrete voi essere alla nostra lussuria,
all’avarizia nostra immolati? Or non fia mai che da queste male derrate, che voi del vostro sudore
temperate e del vostro sangue, noi ci rimanghiamo? Confortatevi, o miseri schiavi, che il suono
de’vostri lamenti è pervenuto in parte dove per certo non grida a vuoto l’umanità: ha essa di già
posta in luce la ragion vostra, e poco andrà che rotte saranno le vostre catene.
Zitat/Motto
Libertatem nemo bonus, nisi eum anima, simul amit
titLa libertà nessun buono, se non se colla vita, insieme
tit
(Sallus.).
La libertà nessun buono, se non se colla vita, insieme
la perde.
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Allgemeine Erzählung
“Deh! come son lasso e languente, udiva io dire (raccontava Goodman)
con voce sì fioca che poteva appena formar parole.” Questo lamento veniva dalla bocca di un Moro, il
quale riarso dal sole, servendo allora la state, e vinto dalla fatica, si riposava alquanto da’suoi
gravi lavori. Maledetta sia l’avarizia degli Europei che fa traffico delle altrui miserie ed
arricchisce col sangue de’suoi simili! Così gridai, siccome di quel tribolato schiavo mi fui
accorto, le cui lagrime pareva che non più dal dolor ch’ei sentiva, ma ancora da altra affezione
movessero. Chi sa, diss’io fra me stesso, non egli sia stato dalle braccia del suo padre o della
madre sua strappato a forza? Non potrebbe egli avere alcuna giovinetta amata, da cui fosse riamato,
e per la quale il di lui cuore ardesse pur anco di viva fiamma? Forse che sospira il punto
avventuroso di dovere nel sen di lei ritornare; ed al presente . . . . e qui mi corresti all’anima
tu, o Elisa, dolce compagna della mia vita, e m’ingegnai con questo di rimuovere dalla mia mente
quella misera immagine che m’era davanti; ma non mi venne fatto. “Ben fui un tempo io
felice, mi diceva lo schiavo; ciò fu mentre che io di là dalle grandi acque mi dimorava, dove non
aveva io ad udire le strida della disperazione, nè dallo spirito de’venti m’erano recati i lai degli
sventurati. In un bel fresco e ridente valloncello stava la capanna mia, la quale altissimi pioppi
ombravano; e quivi non mi sgomentando la vista d’un abbominevole padrone, nè quella delle laceranti
flagella, dolci m’erano e care le fatiche, siccome quelle che erano da me sostenute per procacciar
da vivere ai vecchi miei genitori, dei quali un sorriso era assai larga mercede al mio sudore. Ogni
cosa era letizia, ogni cosa diletto e dolcezza. Nell’ora ch’incominciava a nascere il giorno, io per
le fresche aurette mattutine a mio diporto n’andava; quando egli era nel più alto punto del suo
arco, io soleva nelle vive e chiare acque del gran fiume bagnarmi, ed al salir della sera menava
co’miei compagni sollazzevoli danze sul prato; ma ora . . . . . .” E più non disse, chè sospiri e
singhiozzi la compassionevole novella interruppero. “Amava io, lasso! la bella Ionca, seguitò lo
sconsolato schiavo, la cui bellezza era il subietto di tutte le mie canzoni, talchè l’invidia era di
tutte le verginelle della contrada. Io per amor di lei con due uomini d’arme ebbi battaglia, i quali
vinti e presi da me furono, ed a’piedi di lei tratti; ed ella, come colei che sopra ogni cosa mi
amava, tutta tremante aveva sentito il pericolo della mia vita, e festa fece della mia vittoria. A
lei io presentava dei banani, i quali ella, perciocchè erano stati colti per le mani
mie, mi diceva essere oltre l’usato soavi. Per lei io saliva sulle cime degli alberi di cocco, e
gittavale dall’alto nel grembiale di quelle preziose frutta. Quando andavamo a caccia, ella dava
forza al mio braccio e ardimento al cuore; cosicchè disprezzando i rischi, nè la morte curando, io
assaliva eziandio nelle loro tane ferocissime bestie; e con tutto che gli occhi loro fulgurassero
fiammelle d’ira e di rabbia, le feriva ed atterrava, e spargevansi in questo modo fiumi di sangue
per la mia Ionca. Quindi io ne portava le spoglie alla sua capanna, e ponevale sotto il suo tetto di
verdi frasche tessuto. Adesso però la cattivella piange il suo perduto guerriero, nè a lei arrivano
i guai che egli tragge nella schiavitù, sotto cui si consuma e si raccomanda alla morte. O me
dolente! che uno sterminato oceano ci tien lontani. Spesso mi do a credere che li zeffiri, i quali
scherzando increspano l’acque, possano i miei sospiri portarle e i miei lamenti; e più volte gli ho
di questa grazia pregati, nè m’hanno, ahimè! dato ascolto giammai.” Infelice schiavo, gli diss’io,
come ebbe principio la tua sventura? “Noi danzavamo una sera in sull’erbette, egli mi rispose, non
suspicando che l’ora del pericolo si appressava. Ma il gran navilio entrò nel fiume ed afferrò al
nostro lito, ed in un punto per tradimento e per forza fummo presi e cattivati, non ci valendo il
chieder mercè, nè il piangere; perocchè sordi sono i Bianchi ai pianti de’Mori. O crudeli! non
conoscono essi quanto e qual tesoro dietro a me è rimaso. Oh! fosse ancora in vita; oh!
fosse in libertà la mia donna! Tornanmi alla mente le gioie e i sollazzi presi insieme con lei, e
questa rimembranza vie più mi trafigge e mi dispera. Le disordinate fatiche hanno sì rotte le forze
mie, che dalle perdute mani escemi spesso questo gravoso strumento. E pure mi conviene ancora un
crudele strazio e disonesto sofferire sotto i Bianchi, i quali, per aver gli Dei molto più potenti
che i nostri, sono fortissimi. Valgono ai nostri padroni smisurate ricchezze gli stentati nostri
lavori, ed essi ci trattano e governano molto peggio che agli insensati giumenti non si suol fare.”