Lo Spettatore italiano: Sezione VII

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Nivel 1


Sezione VII
Degli Alemanni

Nivel 2

Gli Alemanni sempre hanno con laude gareggiato nelle scienze e nelle arti colle nazioni della moderna Europa le più civili.

Cita/Lema

“Ma non ha egli più di un mezzo secolo, siccome dice M. A. Schlegel, che dopo di avere trascorso un periodo infelice in fatto di cose d’ingegno e di gusto, essi hanno cominciato ad affaticarsi con migliore successo, e fatti subitamente passi giganteschi nella letteraria carriera.”
Nondimeno si dilungherebbe assai dal vero chi avvisasse non avere la lingua alemanna avuto sua forma innanzi a quest’epoca, nè contar parecchi scrittori commendabili. Primi a segnalarsi furono i poeti dei tempi cavallereschi: perciocchè l’Alemagna ne’suoi Minnesingers ebbe veraci Trovatori, i quali a simiglianza di quelli delle altre nazioni cantarono
Le Donne, i Cavalier, l’Arme e gli Amori.
Rimangono ancora molte delle loro poesie raccolte e pubblicate da Bothmer col titolo di Saggi dell’antica Poesia degli Svevi del XIII secolo. Nota questo valente critico che lo stile in cambio d’esser grossolano è chiaro e scrupolosamente conforme a grammatica; che vi si vede da per tutto molta naturalezza, e che in ispecial modo da quelle traspira una dolce e induttiva morale da rendere amabile la virtù.
Il decadimento della cavalleria, le turbolenze che agitarono l’Allemagna per la concorrenza all’imperio e l’estinzione dell’imperial dinastia di Svevia, si opposero ai progressi della lingua e della poesia. Si trascurarono allora i Minnesingers che avevano prima dai principi e dai grandi liete accoglienze, e prestamente insieme colla lor rinomanza parve che se ne spegnesse la generazione. Ma sottentrò a questi una novella famiglia di poeti i quali superbamente si presero il fastoso nome di Meister Sangers, o, vogliam dire, Maestri Cantori.

Cita/Lema

“Se non che in luogo di presentare, come dice Sulzer, la naturalezza e l’amenità dei loro antecessori, elli scrivevano di cotali versi grossolani e miseri centoni, che allettar potevano solamente l’uomo volgare a modo dei ciarlatani.”
Per lo spazio di due secoli, nel quale durarono siffatti cantori maestri, pochissimi fra loro si segnalarono per componimenti che fossero meno informi, e d’un ingegno e d’una vivezza maggiore forniti. Che se questi ebbero incontro, ne furono debitori non tanto alla protezione ed ai privilegi loro accordati dagli imperatori Ottone II e Massimiliano I, quanto all’imitazione dei classici antichi, comechè fatta senz’arte ed al natural gusto delle rappresentazioni drammatiche. Sono ricordati siccome i migliori fra i Meister-Sangers Brocardo Waldis, autore di favole che hanno assai buon senso ed una piacevole semplicità; e Ugo di Trimberg, il quale compose una lunga satira intitolata il Corriere, ove rivede le ragioni a tutti gli stati della vita, e ne ritragge i vizi con alcune pennellate spesse volte naturali e vivaci; e Ugo Freidank, che mise fuori la Bibbia de’Laici, ossia i Principali fatti dell’antico e nuovo Testamento, posti da lui in versi, e sparsi di morali osservazioni; e Melchiorre Peintsing, autore d’un poema che ha per titolo le Gesta e le Traversie dell’eroe Tewzdanck, dove il poeta personifica tutte le passioni su cui fa trionfare il suo eroe; e Alkmars, il cui poema satirico appellato Reineck (Volpe) gode tuttavia rinomanza; e finalmente i drammatici scrittori Giovanni Rosenblut cui procacciarono nome i suoi Carnascialeschi Giuochi, Paolo Rebhun a cui l’Allemagna va debitrice della prima tragedia (La casta Susanna), e Giovanni Sachs, autore di molte commedie e tragedie, di cui poscia si parlerà.
A questi termini era condotta l’alemanna poesia, quando comparve Martino Opitz, tenuto qual riformatore, concioffossechè primo traesse fuori composizioni di classico andamento. Egli si conformò in su lo studio dei Greci e Latini, e dagl’Italiani eziandio apparò l’arte d’imitarli ed emularli. Ad un molteplice ingegno, univa egli assai dottrina, e le cognizioni perfezionò ne’lunghi viaggi, ne’quali strinse amicizia co’più celebrati scrittori d allora. Nè vi ha poetico arringo che non abbia corso, e quasi sempre con lode; ma noi non faremo in questo luogo menzione se non se delle sue liriche poesie, di cui porse a’suoi concittadini per primo l’esempio. Le sue odi sono più morali che liriche; e non è tanto l’affetto e l’immaginazione, quanto l’ingegno e la ragione che vi signoreggiano: il perchè lasciano il desiderio di un maggior lirico fuoco. Oltre a ciò, egli, nato nel 1597, ha il vanto di avere aperto agli Alemanni la carriera della bella letteratura; perciocchè aiutò a mandare innanzi la prosa, come aveva fatto la poesia; della qual cosa è argomento la sua traduzione dell’Argenide del Barclai, ove si scorge uno stile assai più puro ed elegante che non è quello degli scrittori che lo precedettero.
Opitz ebbe fra i suoi contemporanei parecchi imitatori pregevoli e chiari. Fra i coltivatori della lirica poesia maggioreggia Dieterick di Werder, che fu l’amico d’Opitz, Federico di Logau e Paolo Flemming; il primo dei quali, oltre odi morali, diè una traduzione del Tasso e dell’Ariosto, nella quale è più fedeltà che eleganza; il secondo è più noto come poeta epigrammatico che lirico, gli epigrammi del quale sono nel vero pieni di sale e d’ingegno, e non senza semplicità; e Flemming, fornito di più immaginativa, ma di meno discernimento che Opitz, atteso la sua lunga dimora in Perugia, e l’avere studiato negli orientali poeti, ne trasse spesse volte il colorito e le immagini, ed in tal guisa arricchì lo stile poetico.
Hoffmann Waldau fu il primo che si allontanò dalla classica maniera introdotta da Opitz. Avendo egli grande immaginativa, non potea comportare il freno delle regole. Scrisse molte liriche cose, nelle quali si trovano novelle idee e immagini aggradevoli, ma spesso anche l’affettazione e il mal gusto. Tra le sue poesie sono reputate migliori l’Eroidi, le quali contengono per verità alcuni tratti degni de’maggiori poeti. Grandi bellezze ancora si trovano nel suo Sogno d’un Cimitero, donde si crede che il celebre Young preso abbia l’idea delle sue Notti.
Questo stile, lontano dalla semplicità e dalla naturalezza degli antichi, del quale Waldau dato avea per primo l’esempio, fu adottato da parecchi poeti che ne portarono più innanzi l’affettazione e la gonfiezza, massime ne’traslati. Vorrebbero alcuni critici alemanni di cotesto malvagio gusto fra loro introdotto derivare la principal cagione dallo studio che quelli facevano allora de’Seicentisti italiani. Al qual proposito, dice Bertola, che essi per avventura si affaticano di cercare in casa altrui l’origine dell’incendio, con tutto che sapessero di averne nella propria le faville non bene spente1. Ma qual che si fosse la cagione del mal gusto che tenne l’Alemagna per un grande spazio del secolo XVII, certa cosa ella è che il felice procedere della Lirica cotanto nobilitata da Opitz, e poscia da parecchi valentuomini mantenuta nel suo vigore, al tutto mancò. Primi ad adoperarsi con lode a ricondurre il classico stile furono Michele Richey, il barone Canitz e Cristiano Günter. Quegli scrisse con nobile ed aggradevole maniera di comuni argomenti; e specialmente ebbe gloria dalle odi pindariche, delle quali le scritte in laude di Carlo XII sono più spesso ricordate: ma nondimeno non si è saputo sempre schermire dall’affettato e dal gonfio. Il barone Canitz, uomo di corte e ministro di stato, è commendato per avere alla lirica poesia dato una cotal grazia e delicatezza, a cui pochi alemanni poeti seppero aggiungere. Günter nelle sue odi s’innalza ad un altissimo tuono, e presenta assai tratti di rassomiglianza col nostro Chiabrera: ma il non avere saputo infrenare la fantasia, gli ha tolto il primo lirico alloro.
In fra i poeti i quali col loro esempio hanno contribuito a richiamare il buon gusto e dato incominciamento all’epoca luminosa della letteratura alemanna, è primamente ricordato Federico Hagedorn, nato in Amburgo nel 1708, il quale cresciuto nella lettura degli antichi, e conoscendo ancora i poeti d’Italia e Francia, coltivò con felice riuscita più generi di poesia, e massime il lirico. Le sue filosofiche odi sono smaltate d’ingegnosi pensieri e di nobili affetti; se non che gli vien dato biasimo d’esser freddo e monotono, non essendo egli per avventura filosofo così profondo, quanto è richiesto per apparirlo in versi. Più laude gli fruttarono le canzonette anacreontiche, dove spiega tal vivacità, delicatezza e facilità, quali in altro poeta della sua nazione non si erano vedute insieme accolte.
Alberto Haller, nato in Berna lo stesso anno che nacque Hagedorn, era destinato a recare l’alemanna poesia fino alla sua perfezione, e a locarsi tra i grandi poeti del secolo XVIII, siccome si è locato fra i dotti più cospicui: perciocchè la novità e l’altezza de’suoi pensamenti, la forza dell’espressione, un franco e sicuro andamento sono il generale carattere delle sue poesie. Massime nella Lirica egli occupa il primo posto. Nessun poeta ha scritto odi più morali delle sue sulla Virtù, sulla Superstizione, la Gloria e l’Eternità. Quanta magnificenza d’immagini! quanta sublimità di affetti! quanta vigoría di locuzioni! Ma un poeta che dispiega cotal grandezza nelle sue odi filosofiche, come è semplice, soave e affettuoso nella sua Dori e ne’suoi lamentevoli canti sulla morte della prima e della seconda moglie! Spirano essi la tenerezza, e vi riconosci il più ingenuo linguaggio del cuore, e che ti va all’anima. I critici alemanni a lui danno mala voce che il suo stile a quando a quando senta dell’elvetico dialetto, nè serbi sempre la purità della buona lingua alemanna. Può anche notarsi d’aver dato alle sue odi una forma piuttosto didattica che lirica, e di accumulare immagini e pensieri discordi e confusi; i quali difetti però non sono così spessi da torgli il primo scanno tra i Lirici.
Di costa ad Haller si vuoi collocare Klopstock, che va innanzi agli altri non meno nella lirica che nell’epopeia. Si propongono le sue odi di celebrar la religione, o di risvegliare l’amor della patria. Le une si possono risguardare siccome altrettanti salmi cristiani, ove sa rivestire di visibili immagini idee illimitate; traspira dalle altre quel cotal entusiasmo che t’induce a tutto sagrificar per la patria. Il canto dei Bardi dopo la morte d’Hermann, dai Romani chiamato Arminio, è tra i lirici componimenti di questo poeta il più singolare. Ha egli composto su varii subbietti altre odi, nelle quali si trova quella grazia che dalla fantasia e dalla sensibilità procede; e di queste le più pregevoli sono quella sull’Usignuolo, in cui tratta in modo novello un trito argomento, e l’altra sul Vino del Reno, le cui sponde sono state la scena di tante guerresche imprese e nei tempi antichi e nei moderni.
Assai lirici poeti, o contemporanei, o successori di Haller e di Klopstock, ne hanno emulato la gloria, dei quali noi ricorderemo i più reputati. Il barone Casimiro di Creuz ha composto una raccolta di Odi filosofiche, nelle quali si trova un colorito cupo e poco amico dei quadri della immaginativa, ma ben propizio a dar corpo e vigore alle idee più astratte e più forestiere in Parnaso. Pietro Ultz ha saputo anche nelle sue liriche poesie abbellire di convenevoli immagini la più profonda morale, così come la politica: nè meno il suo pennello è maestro in ritrarre i teneri ed animati argomenti. Andrea Cramer, posto dagli Alemanni tra i loro critici più valenti, ha molto nome eziandio come poeta lirico; perciocchè ha dato alla luce una bella traduzione dei Salmi e parecchie sacre poesie, tra le quali quella sulla Resurrezione è risguardata, tanto per l’affetto e per li pensieri, quanto per la condotta e per lo stile, siccome un classico lavoro.
Ad inspirare l’amore della patria e della gloria hanno consagrato le loro canzoni i poeti Guglielmo Gleim e Felice Weisse, il primo dei quali ne’suoi Canti guerrieri per l’altezza, il fuoco e l’energia si è procacciato il nome di Tirteo alemanno; e l’altro mostra le medesime doti nel suoi Canti di un’Amazzone, cui rappresenta furiosa per desiderio di gloria e d’amore fra cento scontri guerreschi, l’uno più pittoresco e più interessante dell’altro, nei quali il contrasto delle passioni è pennelleggiato con naturalezza. Gleim si è segnalato così nel cantare gli amori, come le armi: ondechè, per la verità delle immagini e la spontaneità dell’espressione, le sue poetiche finzioni dilettano, e un illustre seggio gli assicurano tra i poeti che senza fare onta al pudore hanno saputo ritrarre le tenere affezioni. Anche del pieghevole e fecondo ingegno di Weisse fanno testimonianza le Canzonette pe’Fanciulli di un facile e ameno stile, e d’una acconcia e attrattiva morale. A queste canzonette è stata adattata una musica popolare; nè v’ha quasi fanciullo in Alemagna che non le canti. Per tal guisa ha egli recato vantaggio all’educazione, e ricondotto al suo primo divisamento la poesia, ad essere cioè utile agli uomini, dei quali è stata la prima educatrice e maestra. Porrà fine a questo nostro cenno sui lirici poeti Guglielmo Ramler, il quale è soprannomato l’Orazio alemanno, così per le sue odi, come per la traduzione del suo esemplare. Spesse volte i suoi versi ne porgono la ricchezza, la varietà, la grazia e il discernimento, che sono le principali virtù del Lirico latino. Egli ha pubblicato eziandio una Scelta di Canzoni alemanne, fornendole di prefazioni e di note a pro della gioventù.
Tra i generi di poesia coltivati dagli Alemanni con maggior lode fin dal cominciamento della loro poetica carriera, si è la pastorale; forse perchè il loro linguaggio meglio vi si piega: ma senza dubbio ella ha loro procacciato una celebrità maggiore, mercè dell’immortale Gesnero. Primo a segnalarsi in cotal genere si fu il celebre Opitz, il quale, fornito di una dolce immaginativa e d’un cuore veracemente tenero, ed oltre a ciò di un ridente e facile colorito, vi si esercitò con uno speciale affetto, e n’ebbe gloria più che dagli altri generi di poetare. Fiano lette ognor con piacere le sue Egloghe, l’Elogio della Vita campestre e la Ninfa Ericina, tutte specchio della bella natura, ed esemplari di una verità di carattere e d’indole conformi al genio della nazione.
Gesnero creossi un mondo pastorale per lui frequentato dei più amabili e felici abitatori dell’età dell’oro; i quali esseri formati dal suo ingegno rappresentano la sua anima nobile e dolce, ma insieme nel loro carattere hanno improntato qualche cosa d’ideale che sorpassa l’umana natura. All’antica semplicità dell’infanzia del mondo accoppiano essi i dilicati affetti, che paiono confarsi ad uomini i meglio inciviliti. Vero è che i pastori di Gesnero tutti hanno per poco il medesimo carattere; essendochè le inclinazioni dell’uno son tali eziandio negli altri; e si crede quasi sempre di veder gli esseri stessi, come che differenti ne sieno le circostanze. Parrebbe che ne dovessero procedere soverchie ripetizioni ed una rincrescevole monotonia: le quali sconcezze come ha egli ben saputo schifare! Quali cangiamenti di scena vi succedono! qual varietà d’incidenti! qual particolarizzata dipintura della pietà, della virtù, della beneficenza e della tenerezza vi si scorge ritratti! In quante novelle forme ricompariscono gli affetti che in altri trasfonde!
Altro poeta non v’ha nel genere affettuoso che ne cavi fuori più dolci lagrime e sia più lontano dall’affettare un tenero cuore. Allettano le scene della domestica felicità per lui dipinte; e in parecchi idilli trovi rappresentate alcune circostanze della sua vita. Tali sono il Mattino di autunno, ove egli dipinge la sua famiglia e la sua felicità; e l’idillio intitolato Dafni e Cloe, che scrisse poscia ch’egli fu sottratto da una pericolosa infermità, ed ove nella più affettuosa maniera favella la pietà figliale. Fu detto giustamente che ciascuna pagina di Gesnero racchiude una buona azione, la quale onora il cuore e l’ingegno suo. E nel vero il leggitore si sente andare all’anima una così allettatrice impressione che lo sforza ad esser migliore.
Non ha mancato la critica di affiggere il suo dente nel più perfetto poeta campestre, ripigliandolo ora di troppa uniformità, con tutto che ella si trovi nelle scene piuttostochè negli argomenti, nè impedisca in generale l’interesse; ora anche dopo di aver confessato esser lui forse il poeta alemanno di maggior discernimento, gli rimprovera di troppo particolarizzare le descrizioni e le dipinture; lo che talvolta le rende languide e fredde. Lo ha morso per cagione dei ragionamenti e delle riflessioni che i suoi pastori fanno sui più piccioli oggetti della natura, tacciandole di troppo filosofiche; ed ha gridato altamente, dover godere i pastori più che altri dello spettacolo della natura, ma per un intimo senso e per una diretta impressione, non per le studiate riflessioni. Le quali obbiezioni, chi accorderà a Gesnero aver lui potuto immaginare esseri superiori all’umana natura, le troverà di pococonto. Il chiarissimo Sulzer avvisa che le poesie pastorali di Gesnero

Cita/Lema

“sarebbero state perfette, quando ne avesse posto la scena nella Mesopotamia, o nella Caldea, e quando in luogo del ridicolo culto dei greci idoli dato avesse a’suoi pastori la natural religione non iscevra di qualche innocente superstizioncella.”

Cristiano Kleist, dimestico amico di Gessner, imitollo con lode nella pastoral poesia, tuttochè non n’abbia la dolcezza, la sensibilità e la ridente fantasia, e gli stia di lungi, massime nella dipintura delle scene, le quali in Gessner sono ad un tempo e dilettevoli e varie. Oltre i pastorali idilli, Kleist, ad esempio del Sanazzaro e del Rota, ne ha scritti de’piscatorii. Anche gl’idilli di Bronner hanno per argomento il ritrarre i costumi e le occupazioni de’pescatori.

Cita/Lema

“Ne’suoi versi, dice Gesnero, egli dipinge il suo carattere. Visitava i più ameni luoghi di costa ai fiumi e alle loro sponde, e là faceva l’abbozzo delle sue dipinture, nelle quali con diletto si mirano novelle immagini e ridenti, per minuto ritratte; e vi si nota un’esatta e fedele osservazione di tutte le bellezze della natura.”
Gesnero gli rimprovera nondimeno di star troppo in sulle minutezze, avvegnachè sieno semplici e naturali.
Federico Schmidt avria potuto correre a prova con Gesnero, se avesse continuato ad esercitarsi nella poesia pastorale, di cui diede un saggio luminoso nella prima gioventù, pubblicando un volume d’Idilli sacri. Augusto Werthes ha conseguíto non poca celebrità colle sue Canzoni pastorali, in cui si è studiato di raccogliere la semplicità di Teocrito, la grazia di Anacreonte e l’affetto di Tibullo. Vi è anche di lui una traduzione dell’Ariosto molto riputata. Molti altri poeti alemanni hanno avuta lode dalla pastoral poesia, tra i quali son più nominati Blum, Voss, ec.
I Minnesingers, primi poeti alemanni, conobbero dover la poesia esser consecrata ad abbellir la morale; e perciò essi per primi la presentarono sotto il velame di una ingegnosa allegoria, inventando gli apologhi. Dei quali gran numero si è conservato, e molti ne pose Bothmer nella raccolta delle antiche poesie. Gellert, nel Saggio sull’Apologo, li nomina siccome modelli di un tal genere; ma per avventura le sue lodi sono soverchie, dicendo che si può metterli a lato delle più belle favole moderne. Non si vuol tuttavia negare che il modo di narrare di quei favolatori è sollazzevole, lo stil semplice e naturale, e che essi sempre racchiudono un’utile morale.
Dachè l’alemanna poesia fu sottoposta alle regole dei classici, Hagedorn diè per primo all’apologo una forma più dilettevole e varia: se non che col volere adornar la ragione degli incantesimi dell’immaginativa e dell’ingegno, si allontanò spesse volte dalla naturalezza e dalla semplicità, principali doti di un tal genere. Non si frodi però della debita lode per la ricchezza della invenzione, la varietà de’subbietti e la solidità della morale. Imitator di Fedro nella scelta degli argomenti e nel modo di maneggiarli è stato il famoso Lessing, il quale ne ha adattato le favole ai tempi e costumi moderni, comechè si dilunghi dalla elegante semplicità del suo esemplare, e per essere breve inciampi spesse volte nell’aridità. Ingegnose e piacevoli sono le favole di Gellert detto il La Fontaine dell’Alemagna, e sono piaciute traslatate in altri linguaggi. Per volerle abbellire più che non han fatto gli altri favolatori alemanni, diventa spesse volte prolisso e minuto per modo, che v’ha taluno il quale agli studiati ornamenti di Gellert antipone la semplice brevità di Lessing.

Cita/Lema

“La lunghezza di Gellert, dice mi rinomato critico, non somiglia quella di La Fontaine, per l’interesse che l’autore prende nelle cose che narra, ma procede dalla troppa minuta descrizione e dalla fredda lungaggine in cose di nessun rilievo2.”

Goffredo Lichtwer ha scritto quattro libri di favole, nelle quali si trovano assai tratti piacevoli ed uno scopo morale ch’ei sempre con arte ci pone dinanzi. E ben si ravvisa essersi proposta l’utilità dei giovanetti, dachè le favole del Fanello, dei Caprioli e molt’altre fanno le veci di un trattato di educazione. Parecchi apologhi suoi hanno una invenzione ingegnosa e frizzante, come si è quello delle Furie, che può risguardarsi come una delle più ingegnose satire scritte per motteggiare le donne. Giovanni Michaëlis ha composto una raccolta di Favole pei Fanciulli, nelle quali mostra che sa vestire di piacevoli forme e ridenti i morali subbietti. Reputate sono tra gli Alemanni ancor le favole di Pfeffel per la vivezza e leggiadria dello stile; e n’è anche da commendare per saper esso cavare un’istruttiva morale da subbietti che meno ne paiono acconci. Dalle quali cose si vuole inferire che gli Alemanni, se a simiglianza delle altre nazioni non hanno un poeta da compararsi con La Fontaine, il quale al suo singolare ingegno è debitore del modo di scrivere, e che non si puote imitare, hanno almeno, come le altre, scrittori di favole ingegnosi, dilettevoli e instruttivi.
Gli alemanni poeti hanno coltivato eziandio la satira e l’epistola, le quali, a somiglianza dell’apologo, si propongono di porgere morali ammaestramenti e di ritrarre i costumi: se non che per avviso di Sulzer non hanno agguagliato nella prima le altre nazioni.

Cita/Lema

“Tra i nostri poeti, ei dice, soli nella satira romana si sono segnalati Kanitz e Haller. Non manca il verace talento del satireggiare neppure a Liskow, a Ross e Rabener, e massime al primo; ma il più essi s’intertengono in su i vizi e gli sconci delle infime classi, nè trattano argomenti molto importanti. Se Liskow fosse nato alquanto più tardi, v’è luogo a credere che avrebbe seguitato le regole del buon gusto.”
Non ostante la severa sentenza di questo dotto critico, Rabener, Gellert e Lessing denno essere locati tra i buoni Satirici. Il primo avendo scritto in prosa alla maniera di Luciano e di Swift, appartiene alla classe dei prosatori che dipingono costumi e caratteri. Le satire di Gellert intitolate la Gloria e la Ricchezza, il Cristiano, l’Orgoglioso sono condotte con arte, e scritte con uno stile vivace e facile; e vi si scorgono ritratti ben delineati e ingegnosi pensieri. Lessing posciachè nelle sue commedie ebbe ritratto i costumi, ricorse per correggerli all’epigramma e alla satira; e nel primo emulato ha Kastener, tenuto pel migliore epigrammista d’Alemagna. Entrambi censurano il vizio e percuotono il ridicolo senza usare licenziose immagini e senza lusingare la malignità. Entrambi hanno per tal genere una particolar disposizione, mancando la quale può altri fare un buono epigramma, ma non molti sopra varii subbietti, nè bene.
Le morali e filosofiche epistole amano, oltre i vezzi della poesia, l’aggiustatezza, la profondità e il regolare andamento delle idee: le quali doti si trovano nell’epistole di Cramer, donde si ravvisa quel filosofico ed osservatore ingegno che domina nei suoi poemi didattici e nello Spettatore del Nord. Nè meno sono riputate le morali epistole di Pietro Ultz, il quale sparge di poetici fiori i più malagevoli argomenti, e vi racchiude i pensieri più avviluppati e ritrosi, senza nuocere alla precisione delle frasi e alla chiarezza. Giovanni Michaëlis, già da noi posto fra i buoni favolatori, ha scritto ancora molte epistole e alcune satire, nelle quali ha saputo bene imitare i buoni esemplari, conservando insieme il suo proprio carattere, il quale è riposto in una fina ironia e in un delicato motteggiare. Il famoso Wieland, che in più generi di poesia va per lo maggiore, ha raccolto una singolar lode dalla epistola morale; perciocchè ne fa ricordare quelle di Orazio, di cui egli ha spesse volte l’amabile filosofia, il grazioso piacevoleggiare e la felice negligenza.
La didattica poesia, la quale più che altra immediatamente intende ad ammaestrare, fu con laude coltivata dai poeti alemanni: ma in ciò son ripigliati di aver contribuito a farla degenerare con introdurre il Genere descrittivo, sconosciuto agli antichi, e posto nel descrivere pel descrivere, passando di uno in altro obietto senza che v’abbia un tutto, un ordine e una corrispondenza di parti. Ma un siffatto biasimo può darsi ancora agl’Inglesi e ai Francesi, i quali han posto fuori molti di tali poemi, ove anco ne’migliori, siccome sono quelli d’Akenside e Delille, hanno di bei tratti, l’uno dei quali l’altro distrugge, perchè con monotonia si succedono e nell’unione discordano. Ma si noti ancora per amore di verità, che la lingua alemanna meglio delle altre si acconcia a ritrarre le scene domestiche, o campestri, e i menomi oggetti della natura. Sono gli alemanni poeti singolari in far semplici e allettatrici descrizioni; e posto ancora che ne siano troppo larghi, il modo con cui sanno colla verità del particolareggiare animarle, fa sì che si escusi e si dimentichi ancora la soverchia lunghezza. Tali qualità, tra perchè al linguaggio ed ai costumi appartengono, non possono trapassare in una traduzione, nè assaporarsi dagli stranieri.
Opitz, riformatore della poesia alemanna, diè per primo a’suoi cittadini l’esempio di un poema didascalico in quello del Monte Vesuvio, in cui descrive la terribile eruzione del 1631. Regolare è il disegno di quest’Opera e ben collegate le parti. L’amenità della Terra di Lavoro e le deliziose vicinanze di Napoli vi son dipinte coi più vivi colori e più luminosi; al che segue un quadro di scure e porti tinte, che ritragge l’esplosione del vulcano, e l’orrore e lo spavento che l’accompagnano. Ha egli da gran poeta cavato il suo pro dai contrasti che l’argomento gli presentava, e talvolta s’innalza al pari dei classici poeti. Ben locate e artificiosamente condotte sono le morali considerazioni tratte dal guasto e dallo spavento cagionati da un flagello sì orribile; se non che troppo in quest’Opera pompeggiano le cognizioni scientifiche onde abbondava il poeta, e che talvolta la rendono fredda.
L’esempio d’Opitz inpegnò ad accoppiare la filosofia alla poesia, e fece diventare il genere didascalico di moda. Tre poemi di tal maniera scrisse Cristiano Federico Zerniz, il primo intitolato: l’Uomo in quanto alla cognizione di se stesso; il secondo: Pensieri filosofici sulle prove della Divina Sapienza tratte nella morale del genere umano; e il terzo: Pensieri sui disegni di Dio nella creazione dell’Universo; nel qual ultimo si vede aver l’autore tolto particocolarmente (sic.) per esemplare il Saggio sull’Uomo di Pope. Giangiacomo Dusch ha similmente seguíto le orme di quel celebre Inglese ne’due poemi didascalici, intitolati, l’uno Saggi sulla Ragione, e l’altro le Scienze in quattro Canti, in cui tratta dell’origine e utilità loro. Brockes, dopo aver tradotto le Stagioni di Thompson e il Saggio sull’Uomo di Pope, scrisse parecchi poemetti didascalici;

Cita/Lema

“sui quali, dice il celebre Gesnero, aver lui scelto un genere di poesia a cui era mirabilmente acconcio; che osservando esattamente le varie bellezze della natura, le menome cose non gli sfuggivano; e benchè qualche volta sia diffuso e ricercato, pure i dieci volumi delle sue poesie essere una galleria d’immagini e di quadri ricopiati dalla natura.”
Si possono ricordare ancora quai poeti didattici degni di pregio Guglielmo Triller, autore d’una raccolta di poesie col titolo di Pensieri filosofici su’diversi soggetti tratti dalla natura e dalla morale; e Federico Sucro, che compose un poema sulle differenti Qualità dell’Animo, nel quale sfoggia l’arte di esprimere profonde idee in poche parole e di satireggiare con delicatezza; e Goffredo Lichtwer, di cui si ha un poema filosofìco in cinque libri intitolato il Dritto naturale, dove l’autore fedelmente ha seguíto la filosofia di Wolfìo, dominatrice allora delle scuole, senza però saper abbellire, come si richiedeva, il suo subbietto, perchè ne scomparisse la secchezza; il qual difetto si può dir comune ai didascalici poeti venuti appresso Opitz. E notisi che un cotal genere, come spogliato di finzione e di azione, è di necessità soggetto alla freddezza, la quale non si può schifare se alla solidità e importanza della materia, alla precisione e aggiustatezza delle idee non si accoppino tutte le grazie poetiche, variando le forme dello stile, e vestendole di ardite immagini e figure, colle quali il poeta anima le descrizioni.
Queste sono le doti onde va ricco il poema delle Alpi del rinomato Haller. Grande non meno che importante n’è l’argomento. Le Alpi pongono sotto l’occhio dell’osservatore innumerabili meraviglie e infinita varietà di scene. Le descrizioni del poeta sempre pittoresche sono a quando a quando o ridenti, o sublimi; e in esse con molta laude è adoperata l’arte dei contrasti. Quando egli ha dipinto l’innocenza e la felicità degli Alpigiani, semplici alunni della natura, si leva in su la cima del S. Gottardo, dove il Sole rischiara più da vicino la terra, e quivi osserva e descrive novelle meraviglie, le montagne di ghiaccio ed il Grande Serbatoio dell’Europa, il quale con abbondanti fiumi alimenta due mari. Si è anche proposto il poeta un grande morale divisamento, di mostrare cioè, che l’innocenza del cuore e i puri e semplici piaceri della natura formano la felicità dell’uomo. Questo poema è stato tradotto in tutte quasi le lingue, e durerà, dice l’autor d’un elogio di Haller, quanto le montagne in esso descritte. Non doveva però essere esente da molte critiche, come avviene a tutte le Opere eccellenti. I Francesi in particolare tacciano le descrizioni delle salutifere piante delle Alpi, e le minute particolarità dei costumi e delle occupazioni di quegli abitanti. Ma dachè la lingua francese per opera del famoso Delille ha imparato a ritrarre tutti gl’importanti oggetti della natura, pare avere rinunziato i Francesi a quella falsa delicatezza generata dalla secchezza e sterilità del loro linguaggio poetico.
Haller ha inoltre trattato un altro subbietto di una maggior difficoltà per essere sottoposto alle leggi poetiche; tale si è il poema sull’Origine del Male, in cui siegue da lungi i principii della Teodicea di Leibnizio. Le dipinture delle meravigliose Opere della natura e delle beneficenze del Creatore non sono inferiori a’più bei tratti del poema delle Alpi. Sulzer li propone egualmente ambidue per esemplari ai poeti della sua nazione.
Cristiano di Kleist è anche egli tra i primi poeti alemanni pel poema della Primavera, traslatato nel nostro linguaggio con eleganza e fedeltà insieme da Tagliazucchi il giovane. È questo poema uno dei più begli elogi che si sian fatti di questa stagione, e contiene per tutto variate e ridenti dipinture, fatte con un vivo, facile e naturale colorito, spirando ad un tempo un cotal dolce affetto e soave calore che penetra e ravviva i cuori. Intendeva egli di cantare ancora le altre stagioni; ed è da dolere che n’abbia deposto il pensiero, quando gli vennero vedute le Stagioni di Thompson; al qual proposito diceva che la più bella raccolta di fiori già era fatta. Essendo illustre poeta e guerriero, consecrò ancor la sua musa a cantare le guerresche imprese. Il suo poema in tre canti col titolo di Cicide e Pachete è scaldato da una grande passione per la gloria e per l’amor della patria, e si chiude con un voto che fa il poeta di morir per lei da eroe; voto che fu esaudito, perciocchè fu ucciso alla battaglia di Kunersdorf avvenuta tra i Russi e i Prussiani. Lo celebrarono i più grandi poeti suoi contemporanei, e Federico il Grande, estimator singolare dei militari e letterarii talenti, onorollo di una statua.
Federico di Creuz, del quale abbiam favellato trattando dei più eccellenti Lirici alemanni, è autore similmente di due reputati poemi didattici. Il primo, diviso in sei libri e intitolato le Tombe, si accosta al fare d’Young per l’arditezza dei pensieri e la forza dell’espressione; ma non è punto esagerato, nè confonde la soave malinconia coll’orror ributtante. Il secondo, intitolato Saggio sull’Uomo, e partito in due canti, non ha simiglianza alcuna con quello di Pope. Creuz esamina l’uomo nello stato di natura e di società. Afferma un critico alemanno

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“che lo stesso Rousseau non avria potuto più poeticamente descrivere la preferenza dello stato selvaggio e il danno di coltivare le scienze, di quello che è stato fatto in tal Saggio, nè insieme si potria con più forza rispondere a’cotestui paradossi.”
Taluno amerebbe di vedervi più ordine; ma non ostante questo è un poema compiuto e interessante.
Il celebre Gleim ha scritto un moral poema intitolato Haladat ovvero il Libro Rosso, nel quale imita la maniera de’filosofi indiani, ossia Bramini, dichiarando i principii della natural religione e della morale. Quest’Opera, che spira la semplicità e l’eleganza proprie d’ogni poesia di Gleim, ne fa risovvenire l’altra dell’inglese Dodsley intitolata l’Economia dell’uman vivere, scritta da un antico Bramino.
Il barone di Cronegk, come che rapito in sull’aprile degli anni, ha lasciato alcune Opere di pregio in più generi, tra le quali principalmente si legge con piacere il poema della Solitudine, da lui composto per confortarsi dalla somma afflizione in che il traboccò la morte di sua madre, cui piange col nome di Serena. Ben si ravvisa aver lui spesso avuto per le mani il mesto e malinconico cantore di Filandro e Narcisa, al quale però, se cede senza dubbio per l’energia dell’espressione e la grandezza delle immagini, non è da meno in quanto al patetico. Piero Ultz ha celebrato le virtù e i talenti del suo amico Cronegk in sulla fine di un moral poema, bene a ragion reputato, che ha per titolo l’Arte di essere sempre contento.
Insigni monumenti d’un ingegno che a varii generi di poesia mirabilmente si acconcia, abbiamo ancora di Guglielmo Zaccaria: ma qui toccheremo solo quelli che appartengono al didascalico e descrittivo, come sono le Quattro età della Donna, i Piaceri della malinconia, e le Quattro parti del Giorno. Bertóla ci ha dato una libera traduzione del primo, il quale, per suo giudicio, vaghissimo essendo per la dipintura massime de’nazionali costumi, si è perciò uno di quegli arbuscelli che mal soffrono d’essere trapiantati. Ne’Piaceri della malinconia si trova un seguace del celebre Young, ma con una immaginativa men tetra e più atta a ritrarre i dolci e teneri affetti, che le profonde e gagliarde passioni. Le Quattro parti del Giorno sono anzi una imitazione di Thompson, che del chiarissimo Parini: ma per quanto sia il pregio dell’Alemanno, non tiene fronte a quello dell’Italiano.
Chiuderemo questo articolo sui poeti didattici ricordando l’opera per la quale il celebrato Wieland si mise nell’arringo delle lettere. Non sorpassava il quarto lustro, quando egli divulgò il poema della Natura, accolto con assai plauso dagli Alemanni. Avria voluto Sulzer

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“che Wieland si fosse il Lucrezio della filosofia di Leibnizio”;
ma quando in Lucrezio non fosse altro che la filosofia d’Epicuro, quel poema sarebbe stato già dimenticato; e per simile guisa nell’immortal Saggio sull’Uomo quel che si cerca, è la poesia di Pope, non l’ottimismo di Leibnizio.
Il poema epico, quel sommo sforzo dell’umano ingegno, non risplende se non se dopo l’intervallo di più secoli, e tra le sole nazioni le quali hanno avuto maggioranza nel mondo letterario. Gli Alemanni vanno superbi d’averne veduti nascer tra lor due nel medesimo tempo; perciocchè la Messiade e la Morte di Abele, qualunque posto loro si assegni, dovranno sempre annoverarsi fra gli epici poemi. Innanzi a Klopstok e Gesnero, altri poeti si accinsero ad una impresa sì malagevole; e può tenersi come il primo saggio dell’alemanna epopeia un poema appellato Niebellungen, trovato da poco tempo in qua, e lavoro d’ignoto autore del tredicesimo secolo. I grandi fatti di Sigisfredo, l’eroe dell’Alemagna del Nord, assassinato da un re Borgognone, e la vendetta che ne fecero i suoi nel campo di Attila, e che pose fine al primo reame di Borgogna, formano il subbietto del poema. In questo si trova il carattere dell’antico spirito cavalleresco, il suo eroismo, la lealtà e quella che si dice bonomia, e in fine la rozzezza del Nord accoppiata colla sensibilità.

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“Negli uomini di quel tempo, dice madama di Staël, tutto era vero, forte e risoluto, a simiglianza dei primi colori della natura.”
La lingua del poema è chiara e semplice. Il poeta si occupava allora di raccontare solo le azioni, o quegli incidenti che scoprono il carattere, nè per anco le generali idee avevano posto il piede nel regno poetico.
Andrea Scultett, coetaneo d’Opitz, ha lasciato un lungo poema sulla Risurrezione di Nostro Signore, dato alle stampe nel 1640. Lessing ne ha giudicato assai favorevolmente, trovandovi più tratti sublimi, aggiustatezza e nobiltà d’idee, scelte e forti locuzioni, e specialmente lodando la descrizione del mondo, onde la natura tutta celebrò la Risurrezione del Salvatore; nel qual passo, per sentenza di quello scrittore, v’ha una bellezza degna de’più grandi poeti dell’antichità. Ma tutti questi elogi, per certo amplificati di troppo, non hanno potuto fare che si legga il poema di questo scrittore, il quale forse anco per l’immatura morte non vi avrà posto l’ultima mano.
A Bothmer, autore della Noechide, deggiono gli Alemanni il primo epico regolare poema. Egli, che nacque nell’Elvezia l’anno 1698, ha coi precetti e cogli esempi suoi contribuito molto a condurre l’epoca luminosa della letteratura alemanna. Assaissimi scrittori si recavano a lui, siccome ad oracolo, per consigliarsi in fatto di buon gusto e di critica; ed anco il celeberrimo Haller nell’epistola a lui indiritta il commenda di avere alle future generazioni alemanne dischiuso il sentiero della gloria verace. Ammirava Bothmer oltremodo i poeti inglesi, e Milton più degli altri, avvisando di trovare in quelli gli esemplari, se non più sicuri per ogni parte, almeno i più conformi alla propria nazione. Ma nel suo poema sopra Noè più è l’arte che l’ingegno, e vi trovi spesse imitazioni de’più bei tratti dei classici bene applicate e ordinate. Con tutto questo è freddo e languido il poema, non vi essendo uno stile ed una invenzione che allettino tanto, quanto per dar vita all’epopeia si conviene. I tratti più segnalati di questo poema sono la dipintura dei costumi del primo tempo del mondo, e quella dell’universale diluvio.
La gloria di dare alla Germania un epico poema degno di stare con quelli delle altre nazioni, si riserbava a Klopstok. Fino dalla sua giovinezza si era proposto per suo primo scopo il comporre un grande poema; e qua egli rivolse tutte le sue facoltà e tutti gli studi, e vi consumò venti anni di vita. Come la Bibbia aveva inspirato Milton, così Klopstok attinse dal Nuovo Testamento le maggiori bellezze della Messiade. Dalla semplicità del Vangelo sa egli trarre un’allettatrice poesia che non ne altera la purità. Non si vide mai più bella alleanza della religione cristiana e della poesia. Vero è che l’argomento trapassa tutte le invenzioni del più alto ingegno.

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“Ma quanto se ne richiedeva, dice madama di Staël, a mostrare in un modo cotanto sensibile l’umanità nell’esser divino, e con una forza sì grande la divinità nell’esser mortale! Quanto se ne richiedeva per risvegliare un vivo interesse nel raccontare un avvenimento già determinato prima da un volere onnipossente!3

La Messiade non si propone di narrar la vita di G. C., ma comincia dall’istante nel quale i suoi nemici ne domandano la morte; e questa, che è la principale azione del poema, ne comprende la prima metà. Pare che il poema, dovria compiersi quando cessa il principale interesse. E nel vero, benchè i dieci ultimi canti contengano grandi bellezze, e per avventura i migliori episodii, non porgono nondimeno quell’allettamento che i precedenti.
Klopstok avea fatto l’abbozzo del suo poema prima di leggere il Paradiso perduto; ma pure confessa che la lettura di Milton gli ha trasfuso novelle idee per ritrarre i suoi concetti. Questi due grandi poeti in parecchie cose si rassomigliano. L’altezza dell’ingegno è per certo la qualità che signoreggia nell’uno e nell’altro: ma l’altezza di Milton procede dalla repubblicana fierezza; quella di Klopstok, dal religioso entusiasmo. Ambidue si distinguono nella sublimità dei pensieri, delle immagini e degli affetti. Ma la sublimità di Milton dispiega una maestosa tranquillità ed una grandezza che sbalordisce; quella di Klopstok è il più delle volte accompagnata da maggior calore e patetico. La sublimita dell’uno si manifesta massime nel dipingere maravigliosi oggetti; quella dell’altro, nell’esprimere azione ed affetti. Ambidue son forniti d’un’accesa fantasia, cui non sanno sempre infrenare; e se questi è bizzarro, spiacevole e fanciullesco in parecchie finzioni, quegli è gigantesco e inverisimile. Nell’uno e nell’altro poeta prendono gran parte all’azione i buoni spiriti e i cattivi; e l’uno e l’altro sa meglio dipingere i demonii che gli angeli. Il carattere di Satanno, disegnato da Milton con forza che non ha pari, è uno de’più bei trovati della moderna poesia. Di somma lode è similmente degno in Klopstok il carattere che egli ha immaginato d’Abbadona, di quel demone pentito che studia di far bene agli uomini. Qual pensamento si è questo retrocedere in verso la virtù, quando il destino è irrevocabile!

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“Mancava ai tormenti dell’inferno, dice madama di Staël, l’essere abitato da un’anima ritornata sensibile.”
In ambedue i poeti i caratteri de’buoni angeli non sono nè abbastanza notati, nè varii, essendochè la perfezione esclude le passioni, e rende malagevole il coglierne le differenze. In Milton si ammira la dipintura degli amori di Adamo ed Eva, e si credeva che non si potesse avere un altro modello d’un amore che fosse non debolezza, ma virtù. Klopstok ne porge un secondo nell’amore di Cidlì e di Lazzaro, tornati in vita da N. S., i quali si amano l’un l’altro con un affetto sì puro e sì celeste, come è la lor novella esistenza.
La lettura dell’intera Messiade, come del Paradiso perduto, può affaticare, perchè l’argomento sempre trascende i sensi, e l’animo nostro si stanca col meditare soverchio. Troppo uniformi sono le impressioni che il poema risveglia, e le funeste immagini oltre modo vi abbondano. Questo poeta è anche ripigliato di aver troppo spesso fatto parlare i suoi personaggi, e troppo a lungo. È indubitabil cosa che le forme drammatiche aggiungono gran pregio all’epopeia; ma un carattere, un incidente, un quadro che lascino al lettore qualche cosa a indovinare, percuotono l’animo più che la stessa eloquenza. Si vorrebbe ancora che la Messiade fosse men lirica, e sparsa di più tratti patetici. E nel vero alletterebbe ogni sorte di leggitori, se avesse più tratti sì passionati, siccome sono gli ultimi istanti di Maria sorella di Lazzaro, nel quale dipinge la morte del giusto. Allorchè Klopstok similmente si stava moribondo in sul letto, ripeteva con fioca voce i suoi versi sopra Maria, per esortarsi da sè a ben morire; e questo canto fu recitato intorno al suo cataletto, quando tutti gli abitanti di Hambourg a lui renderono gli ultimi onori.
Parmi inutile l’aggiungere che un poema tanto religioso, quanto è la Messiade, ha più morale degli altri; ma non è inutile il notare che non se ne dee dar sentenza sulla scorta delle traduzioni, non potendo alcun linguaggio ritrar le bellezze proprie della lingua alemanna arricchita colle locuzioni, le frasi e le figure della Bibbia. Klopstok ha usato nella Messiade l’esametro de’Latini e de’Greci, al quale ha saputo dare tanta armonia, forza e nobiltà, che un tal metro sembra essere stato adottato pei grandi poemi.
Se l’epopeia dev’essere ad un tempo sublime e popolare, può dirsi che Gesnero ha più dato nel segno che Klopstok. Il suo poema sulla Morte di Abele, traslatato in ogni linguaggio, si è procacciato una general rinomanza, come il Goffredo e il Telemaco. Ma per amor della giustizia si noti che l’argomento per lui scelto è più felice che quello della Messiade. In questo la maestà del subbietto, la sublimità inesprimibile e l’inviolabile verità non consentivano al poeta se non dipinture severe e scene senza passione. Nell’argomento eletto da Gesnero il tempo e l’azione, i caratteri e i contrasti che gli danno risalto, lo rendono per certo il più poetico tratto dell’Istoria santa: ed era capace ad un tempo di un forte e affettuoso interesse, senza cercare gli ornamenti delle favole, e tutta conservando la dignità della religione.
Gesnero si è nella Morte di Abele appigliato ad un pastorale argomento, trattandolo però alla maniera degli epici, per modo che alle semplici e ridenti bellezze spiranti grazia ed affetto, che ne rendono piacevoli gl’idilli, congiunge la dipintura delle forti passioni, discorsi d’una nobile patetica eloquenza, ed episodii ingegnosamente inventati, che molto ne allettano. Osservazione è dei critici che un tal poema saria stato nel suo genere più perfetto che gli altri noti poemi epici, se ai troppo spessi dialoghi si frammezzassero più spesso le descrizioni e i racconti, se men lunghe ne fossero le parlate, e se il poeta non vi avesse posto l’episodio del demone Abimelecco.
Alcuni critici concedendo a Gesnero un ragguardevolissimo posto tra gli scrittori, niegano di annoverarlo tra i poeti, non avendo scritto in verso, essenzial carattere, a loro giudizio, della poesia. Ma quanto egli valesse nel verseggiare, provollo in parecchi idilli: ondechè se nelle maggiori Opere ha tolto anzi di usare una prosa misurata, si dee credere che forti ragioni ve l’abbiano indotto. E forse gli avrà dato la spinta l’esempio dell’autor del Telemaco, la qual Opera, posto ancora che fosse stata scritta in versi, non avria potuto più generalmente piacere. Forse sarà egli stato dell’avviso di coloro i quali non già nella versificazione, ma nella fedele e viva dipintura dei naturali oggetti e delle passioni pongono l’essenza della poesia.
Due famosi poeti, cioè Zaccaria e Wieland, han posto mano a due grandi poemi, dell’uno dei quali argomento è Cortes, ovvero la Conquista del Messico, dell’altro Ciro il Grande; ma nè l’uno nè l’altro furon compiuti. Wieland, soprannomato il Voltaire dell’Alemagna per la varietà e la maggioranza dell’ingegno suo, ha scritto parecchi poemi, de’quali il più pregiato è l’Oberon; ed anzi in Germania è quasi tenuto per un epico poema, comechè appartenga al genere romanzesco. Esso è cavato da una cavalleresca istoria francese intitolata Huon di Bourdeau, di cui Tressan ci ha dato un sunto. Wieland ha saputo spargervi di molte ricchezze poetiche, e rallegrarlo colle grazie e colla immaginativa. Vero è che la tenerezza del cuore non ama di starsi in compagnia del meraviglioso, come quella che è negli affetti suoi così seria, che ricusa di vedersi allato la scherzevole immaginativa: con tutto questo a Wieland è venuto fatto di unire le fantastiche finzioni con veraci affetti, per modo che è laude sua sola. V’ha di molta varietà ne’caratteri, sempre ritratti con naturali e vivaci colori; ma l’amore non vi è per avventura dipinto con molta severità: nè può scusarsi nè meno l’Ariosto colla libertà dal romanzesco poema accordata, dell’aver più volte violato la decenza. V’ha un po’ di lunghezza nell’Oberon, il quale in tutte le lingue piacerebbe, come accadde dell’Orlando furioso, se fosse ben tradotto: ma gl’Inglesi solamente si hanno un tal vanto mercè di un lor poeta vivente de’più riputati, quale si è il signor Southey.
In tutti quasi i generi, a simiglianza di Wieland, scritto ha ancora Giovanni Goethe, nè con meno celebrità. Ciò che distingue singolarmente que’due scrittori, si è che quegli ha scritto in sul far de’Francesi, senza riuscire imitatore; e questi si è studiato di dare alla letteratura alemanna un carattere proprio ed una originalità nazionale. Abbiamo un suo poema intitolato Ermanno e Dorotea, che alcuni vorrebbono far passare come epico; se non che i personaggi e i fatti non sono di tal momento da locarlo così alto. Vero è nondimeno che i menomi particolari ivi hanno una natural dignità, la quale non si disdirebbe agli eroi di Omero; e sua specialissima laude si è massimamente una soave ma continua commozione, la quale dal primo in fino all’ultimo verso si sente. Non è venuto l’atto di trasfondere nelle traduzioni quell’allettamento che si trova per entro a quest’Opera; e benchè l’abbiano traslatata rinomati scrittori in francese e in inglese, pure non ha avuto molto incontro.
Enrico Voss è autore d’un poema intitolato Luisa, il quale tien qualche somiglianza con quello di Goethe. Semplicissimo n’è il subbietto, il maritaggio della figliuola d’un venerabile pastore; e tutto è animato da puri e religiosi affetti. Nessuna cosa più va all’anima quanto la nuziale benedizione del pastore nel maritar la figliuola. Voss ne porge il più bell’esempio della vera semplicità, di quella cioè dell’anima, la quale conviene al popolo così come ai re, ai poveri non meno che ai ricchi. Ammirano assai gli Alemanni le descrizioni che in questo poema si scontrano sul modo di fare il caffè, di accendere la pipa; le quali minutezze con ingegno e verità son ritratte. Le chiameresti altrettanti quadri fiamminghi benissimo disegnati: se non che la poesia descrittiva impiegata in oggetti vulgari presenta una cotal semplicità, che in una traduzione difficilmente può generare diletto e interesse4.
Si annovera tra i poemi il Primo Navigatore e il Dafni di Gesnero, scritto in prosa, come la Morte di Abele. Queste due Operette porgono un allettamento simile a quello degl’idilli, e piacciono, perchè si translocano in un modo affatto nuovo, e dimenticar ne fanno la stessa nostra esistenza per darcene una novella. Intertengono elleno con interesse; ma il Dafni è propriamente un romanzo pastorale: nel Primo Navigatore v’ha maggior poesia per le finzioni, le dipinture e gli episodii; se non che vi si vorrebbe più azione, men lentezza nell’andamento e minor numero di soliloqui e di dialoghi.
Hanno eziandio gli Alemanni coltivato con laude la poesia sollazzevole, ovvero eroicomica, la quale richiede che al saper ben motteggiare il poeta aggiunga una ridente immaginativa.

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“Quando la letteratura alemanna, al dire di Sulzer, si era ancor bambina, Logau e Wernikc mostrarono non essere loro ignoto il buon gusto che nel piacevoleggiare dee trovarsi. Ma percuoter meglio nel segno della giocosa poesia, come di altri generi parecchi, fu dato ad Hagedorn, il quale fu poscia lodevolmente imitato da Listkow, Rost e Rabener; e finalmente Wieland e Zaccaria a ne dieron poemi eroicomici, i quali possono locarsi da canto alla Secchia rapita, al Leggío ed al Riccio rapito.”
Due sono i poemi eroicomici di Wieland, cioè il Nuovo Amadigi e l’Idri, nei quali si scorge originalità, spirito e grazia; ma gli vien dato carico di abusarsi talvolta della facilità e di scostarsi dalla decenza.

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“La sua Musa, dice Sulzer, ha perduto assai dell’antico pudore, conversando coi licenziosi Fauni.”
Abbiamo di Zaccaria più poemi sollazzevoli, dei quali i più riputati sono il Fazzoletto e il Gatto nell’Inferno; le cui finzioni sono ingegnose e aggradevoli, e maestrevole la dipintura dei costumi e dei caratteri. Si pregia ancora la Vittoria di Cupido, poema di Pietro Ultz; il Cagnolino di Giangiacomo Dusch, e parecchi poemetti di Enrico Niccolai. Tutti questi poeti sono da commendare d’aver saputo tenere il mezzo tra il serio ed il comico, il quale agevolmente si trapassa cadendo nel burlesco.
L’arte drammatica, a simiglianza degli altri generi di letteratura, non è ita molto innanzi nell’Alemagna che nell’ultimo secolo: ma i rozzi principii del teatro si vogliono prendere molto più addietro, perciocchè così in questo, come negli altri paesi, tutti i popoli amano le rappresentazioni. Dopo alcuni grossolani esperimenti fatti innanzi al secolo XV, Giovanni Sachs, vivuto tra la fine di questo e tra il cominciare del secolo vegnente, scrisse assai tragedie e commedie e farse, ovvero intrammezzi da carnevale, ove si trovano tutti i difetti di un’arte ancora bambina. In quanto alla forma si rassomigliano molto a quelli che tra le altre nazioni si appellarono moralità, e vi hanno spesso personaggi allegorici. L’arte drammatica avanzò alquanto mercè del celebre Opitz, che nel secolo XVII diè miglior forma al teatro, traducendo alcune antiche tragedie, e imitando le pastorali italiane. Tenne a lui dietro Andrea Grifio, che il signor Schlegel reputa il più antico autore alemanno che possa dirsi drammatico. Sapeva egli molto innanzi nella sua arte; del che sono argomento le sue imitazioni e traduzioni, come che molto irregolari, nè si sappia se siano state mai rappresentate. Gasparo Lohenstein, coetaneo di Grifio, lo ha imitato nella maniera delle sue tragedie, nelle quali ha invenzione, e quello che dicesi effetto teatrale; ma lo stile è pieno di affettazione e gonfiezza, lo che gli ha dato il soprannome del Marini alemanno.
A questo stato d’imperfezione si rimase contenta nell’Alemagna l’arte drammatica infino quasi alla metà del secolo XVIII, tra pel difetto di composizioni di pregio, e per quello di regolari teatri. Erranti recitatori di farse, e palchi di fantocci erano i soli attori e i soli teatri che infino allora si conoscessero. In ultimo Gottsched, avvegnachè scrittore molto mediocre, traducendo commedie e tragedie francesi, e rappresentar facendole da commedianti di professione, intraprese ad accelerare i progressi dell’arte drammatica. Questo esempio destò l’emulazione in molti altri, i quali si accinsero a correre il medesimo arringo. Altri ne diedero mediocri imitazioni del teatro inglese, o francese; ed altri al contrario scrissero Opere originali, e crearono in fine un teatro nazionale. Noi qui porgeremo brevemente contezza dei principali autori drammatici, classificandone le Opere secondo i generi diversi, per quanto l’irregolare forma, che spesso li confonde, ce lo consentirà.
Posciachè Gottsched con altri scrittori fecero rappresentare commedie francesi in verso alemanno, furon poste in sul teatro con grande incontro le commedie di Holberg traslatate dal danese. Questo autore ha con somma naturalezza imitato i costumi locali, e ritratto colla maggior verità le sconcezze, le follie e la scempiaggine. Non manca di comica forza nel disegnare i caratteri e gl’incontri; ma poca invenzione egli ha per annodare e condurre un intrico onde risvegliare la curiosità e cagionar meraviglia. Non v’ha dubbio che il grande incontro avuto dalle sue commedie in Alemagna si debbe alla molta simiglianza che hanno i costumi danesi cogli alemanni: ma oggidì non son più recitate, perciocchè il buon gusto presente sarebbe offeso da quel tuono vulgare che signoreggia nelle composizioni di Holberg.
Elia Schlegel è stato de’primi comici autoriche della nazione e del tempo loro ritrassero i costumi, comechè si studiasse di conformare le sue invenzioni alla foggia francese. Assiaissimo piacque la sua commedia intitolata il Trionfo delle Donne saggie, certo perchè ella era un fedele e natural quadro della società. Il Misterioso e la Muta Bellezza, altre sue commedie, si denno similmente commendare. Cristiano Kruger è venuto anch’egli in fama per le commedie del Marito cieco e dei Candidati, in più luoghi delle quali si scorgon le imitazioni di Molière. Aveva egli comico ingegno e sommo amore per l’arte sua, nella quale ai suoi cittadini saria stato di esempio, se morte immatura non lo avesse rapito. Si provò nell’arte drammatica anche il celebre Gellert, tra le cui varie commedie è più commendata la Pinzochera, ove più cose ha imitato dal gran Comico francese, e da cui gli furono suscitati nemici e brighe, come avea fatto il Tartufo a Molière ed il D. Pirlone al Gigli; perciocchè in nessun paese gl’ipocriti perdonano a chi lor toglie la maschera. La Sorte nella Lotteria ebbe più incontro che le altre commedie di Gellert, e lo ebbe per più tempo.

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“Le sue commedie, per detto di Schlegel, le quali dipingono i costumi del suo tempo, meriterebbero più stima, se non avessero il difetto di trasportare talvolta in teatro quella noia che nelle brigate si cagiona dalla mellonaggine e dalla stupidità ch’egli ha voluto rappresentare.”

Si nota da Sulzer che gli Alemanni hanno in genere le stesse abitudini e maniere; e che per conseguente non può avere la commedia fra essi tanta varietà di subbietti, quanta ne trova in Francia e in Italia.

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“Il Tedesco, egli aggiunge, si guarda di dar nelle inezie; nè gli soffre l’animo di seguire al tutto il suo genio, e perciò è meno originale degli altri: ma non manca in verità di pregiudizi e di follie; mancano sibbene ingegni che guardino per entro i nostri difetti, e che si attentino di disvelarne i ridicoli, trovati che gli abbiano.”

Il rinomato Lessing è stato uno di quegli ingegni di cui Sulzer desiderava l’esistenza. Egli fu il primo ad incoraggiar gli Alemanni di onoratamente affaticarsi, seguendo il loro genio; ed a lui per verità si attribuisce l’esistenza del teatro alemanno, dachè l’incontro che ebbero le sue composizioni fecero dimenticare le traduzioni dal francese e le Opere alemanne fatte su quel torno. Va egli debitore di sua celebrità massime ai drammi, ossia alle storiche e romantiche tragedie; ma corse anche con lode il comico arringo. La Mina di Barnhelm riscosse maggiori applausi che le altre sue commedie; ed è sentenza del signor Schlegel che ella adempia il fine della commedia meglio che non fanno i suoi drammi quello della tragedia. È piaciuta ancora nel teatro francese l’imitazione che ne ha fatto Rochon di Chabanes negli Amanti generosi. Ella, in quanto alla forma, partecipa della maniera francese e dell’inglese; ma e nell’invenzione del subbietto e nell’imitazione de’costumi ridole il fare alemanno. I serii affetti nel vero tengono alquanto dell’affettato e dello studiato; al quale sconcio suppliscono i comici personaggi con molta naturalezza e piacevolezza ritratti. Si vogliono eziandio commendare le altre commedie di Lessing, intitolate l’Ebreo, lo Spirito forte e il Tesoro, comechè non aggiungano al pregio dell’altra.
Engel si dee risguardare come un discepolo di Lessing; ma i suoi brevi drammi, scritti alla foggia del suo maestro, sono, a parere di Schlegel, di picciol conto. Con tutto questo la sua commedia intitolata il Paggio, ed alcune altre, attesa la fedel dipintura dei costumi e la vivezza e la naturalezza del dialogo, ebbero incontro: ma gl’intrichi vorrebbero essere meglio disnodati, e meglio disvelati i caratteri. Il gran Federico nel Saggio sulla Letteratura alemanna colma di lode Ayrenhoff, autore d’una commedia intitolata il Postzug, ossia il Tiro a quattro.

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“Gli amanti di Talía, dic’egli, sono stati più felici che quelli di Melpomene. Ci hanno essi forniti almeno d’una vera commedia originale, quale si è il Postzug, ove il poeta conduce in sul teatro i nostri costumi e ridicoli. Lo stesso Molière se avesse trattato il subbietto medesimo, non lo avrebbe fatto con maggior laude.”
Il Barone di Cronegk, segnalatosi in più generi di poesia, benchè rapito nel quinto lustro, si provò eziandio nell’arte drammatica, e vi riuscì. Nel lungo soggiorno ch’ei fece in Venezia, strinse dimestichezza col celebre Goldoni, e scrisse allora parecchie commedie, delle quali la più bella è il Diffidente.
Felice Weisse nelle sue commedie si avvicina al gusto ed alla maniera inglese: ma quando egli scrivendo siegue il suo genio, nessuno ha meglio di lui rappresentati i diversi caratteri di tutte le classi della società, e massime i nazionali costumi. Nella commedia dei Poeti alla moda mette in canzone il mal gusto e il mal lussureggiare de’concetti. Carlo Romanus è tenuto dagli Alemanni come un felice imitatore di Terenzio; ma, come l’esemplar suo, è vuoto di comico vigore. Stephanie il vecchio ebbe assai incontro nel teatro di Vienna; ma le sue commedie, che assai si commendano sulla scena, non reggono alla lettura. Di più comico ingegno è fornito il suo fratello cadetto, sagace osservatore e buon dipintore dei costumi e caratteri. Tiene egli simiglianza a Goldoni; ma le sue commedie non sono abbastanza studiate, e, come parecchie dell’illustre Italiano, piuttosto deggiono chiamarsi sbozzi.
Nelle Opere drammatiche di Kotzbue si trovano diversi generi; ma nondimeno parecchie appartengono alla commedia, e più spesso alla commedia detta sentimentale. Ha egli tratto da Holberg la commedia intitolata Don Ranudo Collibrados, che molto piacque. Questi è un gentiluomo spiantato che studia di farsi credere ricco, e in cose di pompa spende i suoi piccoli avanzi. Nelle commedie da lui inventate ei suole mostrare il medesimo ingegno che nei drammi, e cognizion di teatro, e immaginativa che gli suggerisce situazioni piacevoli.
Guglielmo Ifland, il Roscio alemanno, ha scritto parecchie cose, nelle quali si ammira la dipintura de’caratteri; e massime i costumi domestici vi sono egregiamente ritratti, e i personaggi veramente comici porgono quadri di famiglia al vivo rappresentati; se non che se gli può dar carico di troppa serietà e di poco ricoprire i suoi morali ammaestramenti.
Molti drammatici autori hanno esteso alla commedia il novello sistema da essi introdotto per la tragedia. Non basta loro la dipintura dei costumi per allettare: vogliono immaginativa nella creazione delle Opere e nell’invenzione de’personaggi. Il mirabile, l’allegoria, l’istoria, nessuna cosa lor parve soverchia per variare le comiche situazioni; ed han posto il nome di comico arbitrario a questo libero volo di tutti i pensieri senza freno, e spesso senza un determinato scopo. Tra gli scrittori di questa novella scuola Tieck ha più ingegno e piacevolezza. Egli è autore di una commedia intitolata il Gatto instivalato, óve, a simiglianza di Casti, spiega quella giocondità a cui gli animali possono dar luogo. Chi sa qual effetto produrrebbono sulla scena animali parlanti! Ottaviano e il Principe Zerbino, altre commedie di Tieck, sono ingegnosamente trovate. Nella prima rappresenta l’opposizione che vi ha tra il comun vivere e il pensar cavalleresco, e vi hanno scene assai spiritose e al tutto comiche. L’altra è una satira non meno ingegnosa che morale, conducendo in sul teatro un sovrano che si sente tratto all’entusiasmo, alla filantropia e a tutti i generosi sentimenti, circondato da cortigiani che si sforzano di spegnere in lui quell’inclinazione. Tieck lodevolmente pone in opera lo spirito e il comico per far bersaglio del riso l’egoismo, la falsa prudenza, e tutte le cose presupposte ragionevoli, cui gli uomini mediocri e invidiosi mettono dinanzi a chi comanda.

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“I generi oggidì più celebrati, dice il signor Schlegel, sono i quadri di famiglia e i drammi patetici; nè al tutto si può assolvere Lessing, Goethe e Schiller di avere coll’esempio e colle loro lezioni destato nel pubblico un cotal gusto.”
Dopo il sistema drammatico introdotto in Alemagna sembra non doversi escludere alcun genere. Il signor Schlegel biasima i quadri di famiglia, perchè pongono sott’occhio il giornaliero vivere d’uomini di mediocre stato, e solo ne porgono una imitazione individuale, e perchè è impossibile di rendere poetica la masserizia. Ma che vieta di ritrarre in simiglianti quadri qualche generale carattere? E non sarebbono ancora queste vere commedie? Il dramma patetico a lui sembra dannoso, perciocchè, a suo dire, ei dà questa generale lezione che la sensibilità fa perdonare ogni fallo, e che non si dee giudicar della virtù con severi principii. Ma ciò procede dall’abuso, non dall’essenza di un tal genere; nè mancano al teatro alemanno, come al francese e all’inglese, drammi patetici di un fine è di un effetto al tutto morali.
La tragedia alemanna dapprima fu come la commedia, informe e grossolana, poscia timida imitatrice, e in fine originale e irregolare o romantica. Il fecondo Giovanni Sachs coltivò insieme i due generi, e scrisse sessantasei Opere del primo e quarantanove del secondo genere. Per certo egli, a simiglianza di Shakespeare, fu dotato di un natural genio, e fu come quegli sprovveduto di letteraria educazione: nondimeno saria strano il paragonarli insieme, secondo che più critici han fatto. Opitz diè la prima idea della regolare tragedia, traducendo l’Antigone di Sofocle e le Troadi di Seneca. Andrea Grifio, che gli venne dietro, fu più felice nella tragedia che non era stato nella commedia; e nelle tragedie intitolate Arminio, la Morte di Papiniano e Carlo Stuardo si trovano caratteri con forza ritratti e parecchi squarci eloquenti. Gasparo Lohestein imitò la Sofonisba del Trissino e quella del gran Cornelio, e mostrò ingegno nell’Ibrahimo, benchè irregolare tragedia e scritta con istile ampolloso. Elia Schlegel fu de’primi a dar Opere non imitate, e a mostrarsi conoscitore dell’arte drammatica, come si rileva nelle sue cinque tragedie, Canuto re di Danimarca, Arminio, Didone, ec., le quali tuttochè difettose nel totale, contengono però di belle scene. Sapeva egli il linguaggio delle passioni; ma spesso le raffredda con ricercati pensieri e col moltiplicar di troppo gli affetti. Giorgio Behrmann, dato che ebbe una bellissima imitazione degli Orazii di Cornelio, trattò con laude il bell’argomento di Timoleone, in cui l’amor della patria viene a cimento coll’amor di fratello. L’affettuoso episodio della Gerusalemme liberata, cioè Olindo e Sofronia, e l’Istoria di Codro suggerirono al barone di Cronegk due tragedie, la cui tessitura non è regolare, ma alcune scene sono assai passionate. Felice Weisse, maggior de’poeti or or nominati, si tolse per esemplari i Tragici inglesi, senza essere imitatore servile. Sulla loro maniera cercò situazioni di grande effetto, e riempiè d’orrore il teatro. L’Atreo e Tieste spira ancora più tetraggine che quello di Crebillon. Le tragedie più reputate di Weiss sono l’Odoardo III e il Ricardo III, d’un andamento assai regolare e di un forte stile.
Klopstok spiegò nella drammatica poesia quel genio e quegli affetti medesimi che spiegati aveva nella lirica e nell’epopeia; perciocchè le sue tragedie si propongono anch’elle o di celebrar la religione, o di trasfondere l’amor della patria. La Morte di Adamo, sua prima tragedia, non simiglia alcun altra. Gli affetti de’nostri primi padri vi si veggono espressi con naturalezza e forza eguale, e il congedo che Adamo piglia innanzi al morire è il più tenero che si sia fatto tra gli uomini; come anche la prima morte dovè cagionare un più grande stupore. Questa tragedia non può, per confessione dello stesso autore, rappresentarsi; ma secondo lui, è in arbitrio dello scrittore lo eleggere la forma drammatica per lui creduta più opportuna al subbietto cui vuol trattare, benchè il dramma non sia acconcio alla scena. Simili a questa sono le altre sue tragedie il Salomone e il Davidde; e nella seconda è soprattutto mirabile la descrizion della peste, da alcuni anteposta a quella di Omero e Tucidide. La Battaglia di Arminio, tragedia consecrata al patriottismo, è un fedel quadro dei costumi e del modo di guerreggiare degli antichi Germani, allorchè i Bardi coi loro canti rincuoravano gli eroi che combattevano contro i nemici della patria. Tanto è l’ingegno del poeta, che si vede in azione l’intrepido coraggio dei figliuoli di Tuiston e lo sbalordimento de’Romani, come è stato scritto da Tacito. Il celebre Goethe nelle Osservazioni sul Teatro pretende che Klopstok vada molto innanzi agli altri Tragici alemanni; del quale avviso non può essere se non chi reputa affatto capricciose le principali regole della Drammatica dai più gran maestri seguíte.
Lessing poscia che ebbe scritto più cose drammatiche, ove non si leva gran fatto sopra i suoi coetanei, si volse alla critica teatrale, ad analizzare il teatro francese, e a par primo conoscere Shakespeare sulle scene alemanne. Nella matura età compose i suoi drammi, che gli han dato il vanto di padre della tragedia urbana, ovvero del dramma romantico. Schlegel è d’opinione che Lessing uscisse vittorioso dalla guerra che ruppe contro l’autorità del gusto antico in fatto di tragedie; e non ostante questo, il riprende di non aver conosciuto la vera imitazione poetica, affermando Lessing che il dialogo, come le altre parti del dramma, deggia per l’appunto seguir le orme della natura; quasi che nelle belle arti sia richiesta, o anco possibile una scrupolosa imitazione della realtà. Lo rimprovera ancora di aver fatto prova di cacciare ogni versificazione dalla tragedia, e di avere indirettamente cagionato quella insipida trivialità, onorata col nome di naturalezza, che oggidì è seguitata dalla più parte dei Drammatici alemanni, dachè l’obbligo di scrivere in versi avrebbe lor posto addosso un felice vincolo.
La prima tragedia urbana di Lessing si è Sara Sampson, stesa sull’esemplare, o, a meglio dire, ad imitazione del Mercante di Londra, dramma dell’inglese Lillo. È stata ella tradotta in quasi tutti i linguaggi, e non ostante questo il signor Schlegel la reputa languida e maninconiosa. Il Filota, seconda tragedia di Lessing, è mancante di verità nel carattere nell’eroe, nè alletta gran cosa. Emilia Galotti, che supera i menzionati drammi, non è altro che l’argomento di Virginia, che Lessing ha creduto di poter trasferire ne’tempi moderni, e nell’oscuro distretto d’un piccolo principato, quale si è quello di Massa Carrara. Ben ordita n’è la trama, e artificiosa la composizione.

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“Le passioni, al dire di Schlegel, vi sono con finezza e accorgimento ritratte; si richiederebbe piuttosto in quella più calore, perciocchè in un tragico subbietto egli si manifesta un cotal freddo e sottile osservatore, qual si richiede alla commedia.”
L’ultimo lavoro drammatico di Lessing, cioè Natanno il Saggio, è quello ove più che mai dalle antiche regole si dilunga; lo chè fa dire a Schlegel che più che gli altri si conforma alle veraci regole dell’arte. Vero è nondimeno che la religiosa tolleranza ivi è posta in azione con assai naturalezza e dignità. I Crociati formano il fondo del quadro. Comparisce in su la scena con alcuni immaginati ma non inverisimili personaggi il gran Saladino, ritratto con fedeltà sulla scorta dell’istoria; e quasi si pone in dimenticanza che i principii e le massime di tolleranza onde questo dramma è ripieno, erano ignoti nel dodicesimo secolo. Ma le generali verità che vi sono profuse, raffreddano la scena, e l’azione non ha un moto rapido abbastanza. Il poeta quivi si è riconciliato colla versificazione conveniente alla tragedia; e benchè i versi ne sien giudicati duri e trascurati, pur danno al dialogo più forza e nobiltà.
Senza giudicare del merito e dell’incontro di Lessing, noi crediamo di poter dire che non si debbe locare tra i primi autori drammatici. I suoi drammi d’un genere nuovo per l’Alemagna sono scritti all’esempio degli Inglesi. Era riservato a Goethe e a Schiller di levarsi a concepire un altro sistema da quel degli antichi diverso, e di mostrare in ciò il loro ingegno. Il primo lavoro di Goethe fu Goets di Berlichingen, in cui si è proposto di ritrarre gli ultimi tempi cavallereschi, e il passar che si fece dalla libera rozzezza alla pieghevole docilità. Ivi si rappresenta l’antica alemanna cordialità nella più affettuosa maniera; e grande impressione vi cagionano le interessanti situazioni. Ma questo, come gli altri maggiori di Goethe non paiono scritti per rappresentarsi, eccettuandone però il Clavigo, urbana tragedia sul far di quelle di Lessing, in cui quegli ha seguíto il racconto del francese Beaumarchais, aggiungendovi una catastrofe di sua testa.

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“Oltre i difetti proprii del genere, ella, come dice Schlegel, ne ha uno tutto suo, che il quinto atto non si riferisce ai precedenti.”
Nel dramma di Stella, Goethe ha posto in su la scena l’istoria del conte di Gleichen; ma senza avere incontro, a parere del medesimo critico, il quale afferma che un tal dramma sol può carezzare i cuori naturalmente deboli per essere ammolliti. Questo poeta per dimostrare ch’egli, se avesse voluto, potea seguire le usate forme drammatiche, scrisse l’Ifigenia in Tauride, ove tu senti il gusto dell’antica Grecia. Questa tragedia si tiene dagli Alemanni per lo più squisito lor classico lavoro.
Ma la più bella fra le tragedie di Goethe è, per giudizio dei più critici, il Conte di Egmont, che sente dell’isterico e insieme del romantico. Vi si trova la stessa eloquenza che in Werther, e risveglia i più vivi movimenti, e le passioni vi spiegano la più patetica forza. Se non che questa tragedia lascia il mondo reale per levarsi ad una regione tutta ideale; ed oltre a ciò, un maraviglioso scioglimento non può esser proprio d’un argomento istorico. Nel suo dramma sul Tasso, Goethe ha saputo condire con un generale interesse un particolare accidente, col farne uscire il contrasto della vita cortigiana cogli affetti d’un poeta. Pura, nobile ed elegante è la poesia di un tal dramma, e il Tasso vi parla un linguaggio degno di sè; ma i locali costumi, ed anco il carattere di quel poeta vi son ritratti con poca verità. Il Dottor Fausto ovvero la Scienza infelice si è la più straordinaria Opera di Goethe; e in questa si vuole che egli abbia per avventura spiegato più genio. Ma non si dee tacere che non se ne può fare un maggior abuso; e che quello è l’eccesso della poesia romantica. Questo solo possiamo concedere agli entusiasti ammiratori di Goethe, che anco nelle più bizzarre invenzioni egli si dà a vedere per gran dipintore dell’uman cuore.

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“Essendo, così dice Schlegel, fornito di un ingegno drammatico, piuttostochè conoscitore dell’arte della scena, quasi tutti i suoi drammi non sono di tal natura da essere rappresentati. Il suo ingegno non può star chiuso tra i confini del teatro; e quando vi si vuole rinserrare, perde a assai della sua originalità, che tutta ritiene quando a sua posta può mescolar tutti i generi: ma qual è quell’arte che non abbia i suoi limiti?”

Dopo la comparsa di Goethe fu introdotto sulle scene alemanne Shakespeare, e con grandissimo incontro. I critici van buccinando che dalle traduzioni si può avere un’imperfetta idea di quel sommo poeta, essendone con nulle alterazioni sfigurate le Opere. Ma dovevano essi considerare ancora, se sarebbono sofferte traduzioni troppo fedeli. In questo tempo apparve Schiller, poeta da fare una forte impressione e sulla moltitudine e ad un tempo sugli uomini colti. Sendo d’un libero ingegno sino a toccare i confini della temerità, si lasciò nondimeno subitamente strascinare dall’esempio. Ne’suoi tre primi lavori si scorge il carattere di Lessing e di Goethe, e la presupposta maniera di Shakespeare. I Briganti, suo primo dramma non men terribile che stravagante, fu di tale effetto che l’eroe trovò imitatori. L’altra, cioè il Conte Fieschi, è assai difettosa nell’orditura e assai debole per l’effetto. La terza, l’Amore e l’Intrico, è un dramma patetico, ma esagerato tanto, che in cambio ai profondamente commovere, tormenta gli spettatori con penose impressioni.
I principii della morale e similmente dell’arte potevano rimproverare a Schiller queste Opere giovanili; ma dopo il quinto lustro puri ed austeri furono i suoi scritti. Don Carlos è il primo lavoro in cui egli seguì un novello sentiero; ed è anco nel novero delle buone Opere. Vi ha molta profondità nei caratteri, e forza e passione negli incidenti; se non che troppo impacciato n’è l’intrico; e i molti pensamenti che l’autore vi ha sparsi sull’umana natura e sullo stato sociale, sono vere dissertazioni che raffreddano la scena. Tenne più fedelmente dietro all’istoria nelle altre tragedie istoriche. Wallestein gli suggerì l’argomento di due drammi i più nazionali che sieno stati rappresentati sul teatro alemanno. L’interesse e la grandezza del subbietto e la bellezza de’versi destarono il più grande entusiasmo, e l’Alemagna riconobbe in Schiller un Shakespeare. Maria Stuarda è forse di tutte le tragedie alemanne la meglio ideata, e la più affettuosa da produrre un grandissimo effetto, e ad un tempo più morale di tutte. Si può dire però che l’autore troppo si briga di esercitare tutto il rigore della giustizia poetica, pigliandosi pena d’Elisabetta dopo la morte di Maria.
Shakespeare ne’suoi componimenti istorici di Enrico VI si era mostrato ingiustamente parziale colla Pulcella d’Orleans; ma Schiller ha cercato di vendicare quell’illustre eroina che liberò dal giogo straniero la patria; e con ragione dà carico ai Francesi di non essere stati in verso di lei conoscenti, nè aver cancellato la memoria dei poemi di Chapelain e di Voltaire. Questo istorico argomento è anco meraviglioso ma il poeta ne ha menomato l’interesse nell’ultimo atto, introducendovi un mirabile di sua invenzione contrario a quello dell’istoria. Egli compose la Fidanzata di Messina per far ricevere un novello sistema drammatico che traeva i cori sulla scena; e questo argomento è quello dei Fratelli nemici. In questa tragedia si scorgono i segni del bell’ingegno di Schiller; ma poco alletta, uscendo fuori dagli usi moderni senza trasportarci negli antichi tempi. Guglielmo Tell, secondo Schlegel, è la più perfetta Opera di Schiller: in cui però, compiuta la principale catastrofe, vi ha un atto inutile, che in sul teatro a ragione si tralascia. Questo dramma, che spira la cordialità dei vecchi tempi, il rusticano eroismo e la sincera pietà, è tutto acconcio a commuovere ed a rincuorare. Morte innanzi tempo furò questo poeta virtuoso, la cui pura anima tributava omaggio alla virtù ed alla eterna bellezza, offrendogli in sagrificio le sue particolari inclinazioni. A lui era incognito quel geloso amor proprio, il quale ha tante volte la letteraria gloria oscurato.
Dachè Goethe e Schiller sono fra i trapassati, Verner è stato il primo scrittor drammatico dell’Alemagna. Nelle sue tragedie ha egli accoppiato l’allettamento e la dignità della Lirica; la qual cosa però, facendolo ammirare come poeta, toglie ad un tempo non poco alla rappresentazione. Onde che se ne’suoi componimenti tu cerchi solamente canzoni, odi o religiose o filosofiche, li reputerai d’una singolare bellezza; ma se li consideri quai drammi destinati al teatro, vi scorgi non poche sconcezze. Non pare adunque ch’egli si sia sempre proposto di comporre per la rappresentazione, ma piuttosto che abbia voluto impiegare l’arte drammatica per diffondere un suo mistico sistema di religione e di amore. Avvenimento di grande importanza pel mondo, e massime per l’Alemagna, si è la Riforma, argomento del suo Lutero, nel quale assai bene è dipinto quanto risguarda l’effetto delle nuove opinioni. Caratteri con forza pennelleggiati, varietà di situazioni, discorsi eloquenti danno anima a questa teatral composizione. Werner è uomo osservatore, buon conoscitore dell’uman cuore; e solo è da dolere che si lasci troppo in balía della sua immaginativa, e che vi accumuli tante singolarità ed allegorie le quali nè ad un subbietto cavato dall’istoria, nè al teatro in nessun modo si affanno. Non meno originale è il dramma di Attila che racchiude bellezze sufficienti per parecchi drammi eziandio regolari: tali sono la dipintura della Corte dell’imperador Valentiniano, il carattere di Attila e quello del gran papa Leone, i quali in più scene sono ben dichiarati, e mostrano un poeta istorico che si accosta a Tacito. Gode lo spettatore di vedere in tal dramma l’antica Roma punita da un barbaro dell’essere stata cotanto in verso il mondo tiranna: ma quivi similmente tu vedi quel miscuglio di allegorici caratteri non conformi a natura.
Werner ha scritto sui Templari un dramma in due volumi, intitolato i Figli della Valle, Opera che molto alletta gl’iniziati nelle dottrine degli Ordini segreti. Il poeta vi si studia di congiungere i Franchi-Muratori ai Templari, e di mostrare che tra quelli si sono ognor mantenute le tradizioni medesime ed il medesimo spirito. Un tal poema ha fatto in Germania una grande impressione. Degno di ricordanza si è un altro suo lavoro, cioè il romanzo drammatico intitolato la Croce sul Baltico, il cui argomento è l’introduzione del cristianesimo in Prussia e in Livonia; perciocchè vi hanno assai vive dipinture delle fisiche e morali cose che si spettano al Nord; e in quelle si ravvisa un poeta che significa e descrive quel ch’egli sente in se stesso. Nell’altro lavoro intitolato il Ventiquattro di Gennaio ha con assai verità rappresentati i costumi della Elvezia; ma se nelle tragedie ha poste parecchie situazioni che giovano a render bella la Lirica, anzichè ad ispiegare le teatrali passioni, in quest’altro componimento ravvicina di troppo i costumi alla verità, e talora ad una cotal verità cui le belle arti non deggiono imitare.
Kotzbue pel talento drammatico non agguaglia i quattro ultimi autori già da noi ricordati, ma li supera nella cognizione degli effetti del teatro, o sembra almeno essersi più di quelli proposto che si potessero rappresentare i suoi drammi. Gli Ussiti, i Crociati, Hugone Grozio, Giovanni di Montfaucon, la Morte di Rolla, dovunque si recitano, sono di un grande allettamento, e la più parte di essi racchiude qualche incidente di una singolare bellezza. Dall’ultimo il celebre Sheridan ha tratto l’argomento del suo storico dramma per nome Pizzarro, che rappresentato sulle scene inglesi, è molto piaciuto, ma dalla critica è stato rilegato tra i lavori di un falso genere. Spesso Kotzbue è stato tacciato di non ritrarre i suoi personaggi nè coi colori propri del loro secolo, nè coi lineamenti nazionali loro attribuiti dall’istoria; e se gli è dato ancor carico di non aver sempre rispettato la virtù severa e la religione positiva; i quali difetti però, che nelle sue prime Opere si scontrano, hanno talvolta renduto i critici ingiusti in verso il suo drammatico ingegno.
Era Kotzbue dell’avviso di Lessing, che bisognava scrivere in prosa pel teatro, e ad ogni modo ravvicinare la tragedia al dramma. Negli autori drammatici che hanno seguíto questi principii, si trova quasi sempre la semplicità e l’interesse, benchè in essi si desiderino le altre qualità del genere tragico. Tali sono, oltre a quelli per noi già menzionati, gli autori dell’Agnese Bernau, di Giulio di Taranto e del Don Diego e Leonora.
Tra le tragedie prosastiche che si levano sul dramma, vuolsi annoverare qualche saggio di Gerstenberg. Egli ha tratto dall’Alighieri la Morte di Ugolino per subbietto d’una sua tragedia, la quale contiene maschie bellezze. Quel momento nel quale il conte sente chiavare l’uscio della torre ov’è rinserrato, cagiona la più terribile scossa che l’anima possa ricevere:

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“Ella è, dice madama di Staël, la morte vivente.”
Ma la disperazione non si può sostenere troppo a lungo, senza essere faticosa e penosa. Un Drammatico danese, Oehlenschlaeger, ha traslatato egli stesso in tedesco le sue Opere, perciocchè la simiglianza delle due lingue agevola lo scriver bene in entrambe. Quei componimenti hanno piaciuto assai nel teatro, ed allettano leggendoli; essendo che l’autore spesse volte alla regolarità dei Francesi accorda la diversità delle situazioni amate dagli Alemanni. L’istoria e le favole dei paesi abitati un tempo dagli Scandinavi vi si rappresentano in modo poetico e vero. Adolfo Mullner ha scritto una tragedia intitolata la Colpa, che sempre ha riscosso applausi in teatro; e vi ha un’ammirabile semplicità nei caratteri, scene patetiche al sommo, assai naturalezza e forza nell’espressione; se non che l’orror che ne desta è più acconcio a ributtare che a commovere; ed anco troppo uso egli fa delle vulgari superstizioni. Gli vien dato lode per avere adoperato diversi metri sempre convenevoli ai vari affetti dell’animo, siccome praticarono i Greci. Abbiamo del medesimo autore altre composizioni drammatiche, alcune delle quali spettano alla commedia, quali sono la Regina di Golconda, gli Affidati, la Dubbiosa, il Ventinove di Febbraio.
Le più delle alemanne tragedie le quali dai medesimi autori non si destinavano alla rappresentazione, sono ciò non ostante poemi irregolari assai belli. Uno dei più degni di essere ricordati si è la Ginevra del Brabante, lavoro di Tieck; il quale interessante subbietto è scritto con quella semplicità che agli antichi costumi si addice; ma forse la fedeltà dell’imitazione è soverchia. Klinger, noto per altre Opere ove la profondità non è minore della sagacità, ha composto una tragedia intitolata i Gemelli, di un grande interesse; nella quale mirabilmente è ritratta quella stizza e quella gelosia onde è invaso un cadetto contro il diritto di anzianità; e vi signoreggia calore ed eloquenza di stile. Fra gli autori che son rimasi fedeli all’imitazione degli antichi, si annovera in primo luogo Collin, le cui tragedie, il Regolo e la Polissena, piacerebbero ne’più regolari teatri. Nella sua maniera di scrivere si trova congiunta l’elevatezza e la sensibilità, per modo ch’egli accorda il gusto degli antichi con quel de’moderni.
L’ingegnoso e dotto autore del Corso di Letteratura drammatica si congratula co’suoi concittadini d’aver creato pel teatro una scuola nazionale fondata sui veri principii dell’Arte. Ma è da dolere che egli non abbia per chiaro modo e preciso spiegato in che consistono cosiffatti principii. Se giudicar se ne dee dalla pratica de’più celebri autori, che mai presenta la storia del teatro alemanno? Opere da non potersi rappresentare, come che la rappresentazione sia d’ogni lavoro drammatico l’obbietta primario; drammi istorici, ove s’introducono personaggi immaginarii, o allegorici, con un far maraviglioso ed un ideale contrarii alla verità; tragedie scritte in prosa, nelle quali si è preteso talvolta di assimigliare rigorosamente alla natura il dialogo, e altre parti della composizion teatrale, con violare in tal guisa ogni imitazione poetica; Opere indefinibili, in cui la Lirica sottentra il più delle volte in luogo della Drammatica; commedie infine in cui l’immaginazione inventa così i personaggi come gli argomenti, ed a cui si è dato il nome di arbitrarie, quasi che la natura potesse sottoporsi agli arbitri. Per certo noi possiamo dubitare che una colta nazione, che ogni dì più s’avanza in fatto di buon gusto, si voglia lungamente compiacere di simiglianti spettacoli. Inutili sono gli sforzi per diffondere e dilatare questa maniera romantica, surta nell’età di mezzo, in quei tempi signoreggiati dalla barbarie, dall’ignoranza e dalla superstizione: il teatro, appresso i popoli inciviliti, sempre si accosterà necessariamente alla maniera dei classici, la quale ha fiorito negli aurei tempi dell’antichità.
Resta che noi parliamo degli scrittori che hanno trattato la teorica della morale, di quelli che hanno applicato i loro principii ai costumi e ai caratteri, e finalmente di quelli che si sono studiati di abbellirli colle finzioni. Innanzi ai moralisti dogmatici si vuol locare Leibnizio, il più vasto ingegno cui abbia generato l’Alemagna, e uno de’più grandi nei tempi moderni. Egli abbracciò tutto il regno del sapere; e la moral filosofia non fu quella in cui con meno ardore intendesse col suo scrutatore e creatore intelletto. Nell’indagare i principii della natural teologia, e quelli del diritto naturale e delle genti, piantò sulle più sode fondamenta i principii della morale. Molti illustri suoi discepoli ne adottarono ed estesero la dottrina; ed affermar si può che da’suoi principii sulle origini delle idee, sulla moral libertà, ec., sia proceduta tutta la novella filosofia, la quale in Alemagna ha tanto potere sugli spiriti.
Il dotto Puffendorf ebbe il vanto di formar per primo un vero corpo del diritto della natura e delle genti, e di compier l’impresa già con tanta gloria incominciata da Grozio. Quegli abbracciò nel suo lavoro lo stato naturale dell’uomo, e quanto risguarda l’umana società; e stabilì i principii della morale e i comuni doveri dell’umanità. L’adempimento di un’Opera così grande non è priva di difetti, contenendo ella troppe questioni e troppa metafisica scolastica sugli esseri morali, sull’intendimento e la volontà, e sopra altri principii non necessari gran fatto al soggetto. Si nota ancora l’ammasso di citazioni spesse volte inutili e fuor di luogo, e la pompa dell’erudizione che stanca il lettore. Non ostante questo, la varietà, l’importanza e spesse volte ancorarla novità delle materie, la sottigliezza dell’ingegno, la solidità del discernimento, la profondità della dottrina, la chiarezza ed il metodo danno a quest’Opera il pregio di far epoca nella storia della giurisprudenza e della morale. Barbeirac ne ha dato una traduzione con note e commentari che la rendono più pregevole: e si può considerare come un compendio di quell’Opera il libro di Puffendorf, tenuto in moltissima stima, intorno ai Doveri dell’Uomo e del Cittadino considerati secondo la natural legge.
Cristiano Tommasio scrisse egli pure sui principii del diritto della natura e delle genti, deducendoli dal senso comune, secondo la supposizione di Puffendorf. Bizzarro nei titoli delle Opere, diè per introduzione alla moral filosofia un’Arte di amare secondo la ragione e la virtù, soli istrumenti d’una vita felice e tranquilla. Divulgò poscia la Medicina contro l’Amore irragionevole e la Dottrina della cognizione di se stesso; la Giurisprudenza Divina, ed altre Opere parecchie, le quali insieme unite possono formare un compiuto trattato di morale. Ma per gli spessi cangiamenti che fa nella sua dottrina è più acconcio a trarre i lettori in un dannoso scetticismo, che a fornirli di veraci insegnamenti.
Il più chiaro fra i discepoli di Leibnizio, quegli che per la vastità delle sue cognizioni più che altri se gli accostò, fu Cristiano Wolfio, il quale assai distesamente trattò sui fondamentali principii della morale in una grande Opera sul Diritto della natura e delle genti. Appresso avendo posto mano ad un gran sistema di teoria pratica filosofica, non ne potè compiere se non la parte della morale, ove, a modo de’geometri, dimostra i principii dei diritti e dei doveri. Ma in quanto al metodo geometrico in materie non geometriche, avvisa un critico che in cambio di arrecare chiarezza, precisione e forza, come alcuni pretendono, genera confusione, prolissità e dissipazione. Per sua cagione e per la soverchia minutezza delle superflue proposizioni, non si gusta interamente la sua dottrina, comecchè il più sia utile e soda; e meno di quello che essere potrebbe giova alla scienze ed alla società la morale wolfiana.
Senza scrivere grossi volumi, tormento de’leggitori, e senza caricare di soverchia erudizione la filosofia, Eineccio ne ha dati gli Elementi della Morale molto precisi e sostanziali, e più acconci ad ammaestrare che una lunga Opera. Ma oltre a questo, ha composto un altro libro sui Doveri dell’Uomo e del Cittadino, il quale, benchè egli annunzi di dichiarare l’Opera di Puffendorf sullo stesso argomento, pure attesa la novità e l’ampiezza delle sue idee si dee considerare siccome Opera originale.
Molti altri Alemanni nei loro Corsi di filosofia o di giurisprudenza hanno discorso le diverse parti della morale; ma i più scrissero in latino, non si adoperando ancora il loro volgare nella pubblica instruzione. E vuolsi osservare che quasi tutti questi morali scrittori erano professori, e che la morale riguardavano piuttosto come obbietto di studio che di letterario trattenimento; e dalla maggior profondità ce’loro studi procede per avventura che eglino si mostrarono assai più religiosi che parecchi d’altre nazioni.
Fra gli Alemanni che, scrivendo di morali e filosofiche cose, usarono l’idioma volgare, si nomina come uno de’primi, e di quelli che l’hanno fatto con maggior laude, Gianaugusto Eberhard. Di lui abbiamo un’apologia di Socrate, nella quale, senza copiar Platone e Senofonte, ha saputo trattare questo bellissimo argomento ed oltremodo allettare. Ha dato ancora una Teoria del pensiero e del sentimento, in cui si dà a vedere generalmente per discepolo di Wolfio, dichiarandone i principii con uno stile adorno, quanto il subbietto lo consentiva. Sembra aver egli adottato l’opinione di Leibnizio, non doversi le nostre idee attribuire alle nostre sensazioni, ma nell’intelletto risiedere una special forza creatrice.
Mosè Mendelson, ebreo di nascita, di mezzo al disagio e all’industria si consecrò allo studio delle belle lettere e della filosofia, senza rinunziare in verun modo nè la credenza nè i riti della sua religione; ed il suo amico, il rinomato Lessing, fu quegli che lo incoraggiò e lo consigliò. Primo lavoro di questo filosofo ebreo furono le Lettere sui sentimenti, la cui precisione, chiarezza ed eleganza fecero assai maravigliare, e porsero un esempio di stile che giovò a perfezionare la lingua alemanna. Quest’Opera, venuta alla luce nel 1755, contiene il sistema di Wolfio, da lui discusso più a fondo. Dodici anni appresso diè fuori il suo Fedone, ovvero l’Immortalità dell’Anima, fatto ad imitazione dell’eccellente dialogo di Platone col medesimo titolo. Il filosofo alemanno vi dichiara con forme drammatiche e con molta nobiltà e allettamento i concetti e la dottrina del più saggio fra i Greci; ma vi aggiunge tutta la profondità dei principii di Leibnizio e di altri filosofanti moderni; cosa ch’egli adempie con rara perspicacità ed eleganza. Le dimostrazioni dell’immortalità dell’anima son tratte dall’accordo delle morali verità, e in ispecial modo dal sistema dei nostri diritti e doveri: nelle quali cose, quanto può far l’ingegno e l’eloquenza a cosiffatte trattazioni convenevoli, tutto ivi per eccellenza si compie.
Mendelson ha dato ai suoi scritti l’impronta dell’ebraica semplicità, e spesse volte rende la morale sensibile per mezzo di apologhi alla foggia degli Orientali. Ha egli fatto per ammaestrare la sua nazione parecchie Opere che possono chiamarsi altrettanti monumenti d’un ingegno perspicace, di una dolce morale e d’un energico stile. Ma soprattutto il suo nome si è segnalato nella sua Gerusalemme. Nella prima parte di quest’Opera egli stabilisce con chiarezza e profondità i principii di tolleranza, e nella seconda si contengono acute considerazioni sulla religione degli Ebrei. Questo lavoro gli tirò addosso le persecuzioni dal canto de’Rabbini, i quali non poterono vedere senza sdegno ch’egli più avesse cara la verità e l’umanità, che i tenebrosi sogni dei Talmudisti. Questo filosofo compiè la letteraria carriera, pubblicando le sue Mattinate, che sono ammaestramenti indiritti ai suoi figliuoli sull’esistenza di Dio e sui principii della morale; la qual Opera non è inferiore ad alcun libro simigliante cui vantino le altre nazioni.
Tommaso Abbt, uno de’più domestici amici di Mendelson, scrisse un trattato della Morte per la Patria, nel quale mostra ed ispira i più nobili affetti e i più generosi. In un’altra sua Opera intitolata Del Merito accuratamente esamina, ma con una mente meno accesa quali sieno le cose per le quali si acquista rinomanza e venerazione, e che perciò si appellano meritevoli.

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“La Germania, diceva Mendelson, ha in lui perduto uno scrittore eccellente, l’umanità un filosofo amato, gli amici suoi l’amico più caro, ed io un compagno nel sentiero della virtù.”
Zimmermann, nell’Orgoglio nazionale, lo chiama un grande ingegno, ed un uomo virtuoso, la cui ricordanza non gli occorre giammai al pensiero senza versar lagrime.
Engel, a modo di Mendelson, insegnò la morale in un modo drammatico. Semplicissime sono lo (sic.) sue finzioni; ma giovano assaissimo per l’allettamento e pel patetico. Nessuna cosa maggiormente commuove, come il quadro in cui dipinge un vecchio impazzato per l’ingratitudine del figliuolo, i cui rimorsi sono ritratti con tocchi fortissimi. Pieno è questo scrittore d’idee filosofiche e di malinconici e teneri affetti. La sua morale è purissima; la teoria della virtù è vuota di cupidigia, nè ammette la dottrina dell’utilità.
I moralisti alemanni hanno scritto sugli affetti e sui doveri con sensibilità, religione e candore. Ma rade volte si trova nelle Opere loro quella ingegnosa pratica del mondo che è singolar pregio degli inglesi e francesi dipintori de’costumi, come sono La Bruyere, Addisson, ec. Nondimeno si può nominare Cramer, autore dello Spettatore del Nord che ha seguito con lode le orme di quei celebri moralisti. Se non porge il medesimo diletto, ha però sodezza ne’pensieri, e discernimento nelle osservazioni e nelle critiche. Garve più d’ogni altro moralista alemanno si è rivolto a parlar del gran mondo, della politezza, della moda, ec. Dal suo stile traspira la voglia di apparire uomo di mondo, pratico de’costumi, delle usanze e delle opinioni delle sollazzevoli brigate, e di giudicare senza parzialità della città e della Corte. Ma le comunali idee, onde ne’suoi scritti parla sui diversi subbietti, manifestano ch’egli per udita ragiona, senza avere osservato quei fini e delicati accorgimenti che il social conversare ne porge. Quando però egli parla della virtù, mostra puri lumi e spirito sereno. Sopra tutto è commovente e originale nel trattato della Pazienza, che scrisse posciachè fu aggravato da una mortal malattia, cui sopportò con raro coraggio; e quanto allora sentì dentro se stesso, trasfuso è in quell’Opera con molta novità.
Fra i moralisti alemanni dipintori di costumi e di caratteri, Rabener ha un posto eminente; ma indebitamente fu annoverato tra i poeti.

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“Questo scrittore favorito della nostra nazione, dice Ramler, ha parlato in prosa a modo di Luciano e di Swift. È un ingegno sollazzevole, satirico senza acrimonia, piacevole nello stile e pieno di vezzi, giusto e instruttivo nel biasimo e inesausto nelle invenzioni. Qual galleria d’immagini! qual varietà di caratteri nel Testamento Swiftiano, nella favoletta del Primo Aprile, nel Dizionario Alemanno, nella Cronaca e Tabella de’Morti, nei Proverbi di Pansa, e massime nelle sue lettere! Noi lo raccomandiamo ai nostri leggitori, siccome un autore che non meno di Molière sa intertenere più classi di spettatori e sferzare più specie di pazzie.”
L’obbietta di Rabener era di promovere il bene, di sfuggire la noiosa pedanteria, di far amare la sana filosofia e di ridurre al vero lor prezzo così le bagattelle più del dovere stimate, come le cose importanti più del dovere trasandate.
Giorgio Zimmermann è di quegli scrittori che hanno applicata l’istoria alla pratica della morale, come si vede nel suo trattato dell’Orgoglio nazionale. Va egli considerando le diverse inclinazioni degli uomini secondo i diversi paesi; dichiara quai titoli può avere ciascuna nazione per essere stimata dalle altre, e ne pone in guardia contro quegli odii nazionali i quali talvolta inducono un popolo a tenersi per natural nemico di un altro: quest’Opera è scritta con semplice stile, ma non senza grazia. Simile a questa è un altro suo lavoro letto con egual piacere e interesse, voglio dire il suo trattato della Solitudine, nel quale non si propone già di lodare quella misantropia che fa fuggir gli uomini dagli uomini; ma raccomanda l’amor del ritiro, cosa che può farsi anco in mezzo a numerose società, ove che si consacri qualche ora all’intertenimento dell’intelletto ed alla calma del cuore per assaporarne le delizie.
Molto stimato è ancora nell’Alemagna il Saggio sui grandi Uomini di Hirschfeld, il quale, giustamente bilanciando i vantaggi del nascere da una illustre prosapia e quelli delle ricchezze, non riconosce l’uom grande che nella magnanimità, nel subblime pensare e nei generosi fatti; e dimostra che l’uomo non è veramente grande se non per sè solo. Giambernardo Bassedow ha raccolto nella sua Pratica Filosofia molte verità acconcie a rischiarar l’intelletto e ad indirizzare il cuore nell’esercizio delle morali virtù; le quali cose da lui s’espongono con tale chiarezza, che allettano eziandio i meno adusati alle filosofiche ricerche. Giovanni Gioachino Spalding ebbe nel suo trattato della Destinazione dell’Uomo la medesima mira di Bassedow. Dieterch Tiedemann ha nelle sue Ricerche sull’Uomo raunate e comparate fra loro le osservazioni degli antichi e moderni filosofi risguardanti la natura e le operazioni dell’anima umana. Usa egli con molto avvedimento della critica; e perciò utilissima è quest’Opera a bene intendere le vere massime de’filosofi greci. Si è anche acquistato rinomanza co’suoi concetti sopra Platone, pei quali ha renduto agevole la dottrina di quel sommo filosofo. Giannicola Tetens, inteso egli pure ad analizzare le operazioni dell’umano intelletto, ha pubblicato le sue Ricerche filosofiche sopra la Natura umana e il suo svilupparsi, nelle quali

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“seguendo, come dice il signor Ridolfi, le traccie di Locke, fonda i suoi ragionamenti sull’osservazione e sull’esperienza. Ma in simigliante indagazione spesse volte si giunge a tal punto ove l’osservazione e l’esperienza falliscono al filosofo, che, volendo procedere più innanzi, è sforzato di ricorrere all’analogia ed anche all’ipotesi5
Questo è lo scoglio cui non sempre ha saputo schifare il dotto Tetens, e dove più spesso ha rotto Carlo d’Irwing nel trattato che ha per titolo Esperienze e Ricerche sull’Uomo. I principii fisiologici non vagliono giammai a spiegare i fenomeni della mente e del cuore umano. Di cosiffatta materia si trova una breve analisi nella Storia della filosofia di Gianamadio Buhle, là ove si tratta dell’alemanna filosofia circa la metà del secolo XVIII.
Ragion vuole che tra gli scrittori i quali hanno arricchito l’alemanna letteratura, ed illustrato la Svizzera lor patria, si ricordi con onore Giovanni Sulzer. Questi dee la rinomanza alla sua Teoria generale delle Belle Arti, nella quale non si sa se più egli addimostri sensibilità e fino gusto, ovvero profonda filosofia e sublimi pensamenti. Intese in ispecial modo a mostrare i morali effetti delle belle arti in un’Opera che ha per titolo: Le belle arti considerate secondo la loro origine, la vera loro natura e l’uso migliore. Innanzi di porsi a meditare sulle belle arti, avea contemplato le meraviglie della natura; lo che si scorge nelle sue Osservazioni morali sulle Opere della Natura. Stato egli essendo discepolo di Giovanni Gessner, il Plinio di sua nazione, quella prima Opera apparve sì grande che meritò d’esser tradotta in parecchie lingue.
Hanno preteso alcuni filosofi di ridur la morale a scienza rigorosamente provata così nei principii, come nelle sue conseguenze; e che non ammette nè obbiezione nè eccezione veruna, dachè quei primi principii si sono adottati: alla quale impresa primo si accinse il celebre Kant, vasto non meno che profondo ingegno, le cui prime Opere si furono diversi scritti sulle fisiche scienze, i quali ne mostrarono una grande sagacità e molta vastità di sapere. Quindi meditò sulla natura dell’umano intendimento, e diè fuori la Critica della pura ragione, la quale lo ha posto allato de’primi metafisici, e assai seguaci gli conciliò. A questo trattato successe l’altro intitolato la Critica della ragion pratica, che comprende la morale; il qual lavoro poscia con altri scritti sulla medesima facoltà gli hanno acquistato altrettanta fama, quanta prima i trattati di metafisica. In quello si propose di stabilire che fondamento della morale è il dovere, non l’utilità; e i suoi principii sono austeri e simiglianti a quelli degli Stoici. Questo filosofo, che avea riconosciuto la necessità del sentimento nelle verità metafisiche, ha voluto spacciarsene nella morale, da’cui motivi ha tronco eziandio la religione, avvisandosi egli che dando alle nostre azioni per iscopo una vita futura, si veniva ad alterare la disinteressata purità di quell’altra. Molti filosofi si sono levati contro questi principii di Kant che tutto riferiscono all’inflessibile legge del dovere; ed hanno mostro che se il sentimento non secondasse la morale, sarebbe difficilmente obbedita. E nel vero come possono insieme accoppiarsi senza il sentimento la ragione e la volontà, quando essa volontà dee far piegare le nostre passioni?
Sì è dato biasimo a Kant di essere oscuro nello stile, e d’avere adoperato una maniera di termini difficilissimi a intendersi. Nondimeno, quando egli preferisce il suo linguaggio scientifico, e massime quando parla della morale, lo stile n’è chiaro, semplice e forte. Quanto meravigliosa allor fare la sua dottrina! Come esprime il sentimento del bello e l’amore del dovere! Con qual vigore li diparte entrambi da ogni calcolo d’interesse e di utilità! Nobilita egli le azioni per le cagioni loro, non per gli effetti, e porge all’uomo una grandezza morale. Qualunque possa essere la sorte de’suoi sistemi di metafisica, egli è di quei filosofi che hanno onorato l’Alemagna. Avendo consacrato la lunga sua vita a meditar le leggi dell’umano intendimento, non andò in cerca di gloria, di cui assai tardi godè, e mai non uscì di Konisberga sua patria. Solo tra i Greci si trovano esempi di una vita così a rigor filosofica, in cui non mai si mescolò colle focose passioni degli uomini, e cui fra tanto impiegò a fabbricar arme per chi era destinato a combatterle.
I più celebri filosofi successori di Kant sono Fichte, Schelling e Jacobi. Hanno preteso i due primi di rendere più semplice il metafisico sistema di Kant, ma coll’introdurre un filosofare ancor più sottile, o, a meglio dire, collo spingere il sistema d’idealismo ad un rigore scientifico a cui ben pochi aggiungono. Fichte tutto deriva dall’attività dell anima: Schelling tutto riferisce alla natura, e si studia di alzar la materia infino allo spirito; le Opere dei quali filosofi solo indirettamente appartengono alla morale. Ma pure dal sistema del primo risulta una stoica morale, la quale non ammette alcuna scusa; perciocchè tutto procedendo da noi, noi dobbiamo rispondere dell’uso che facciamo di nostra volontà. Schelling inferisce dal suo sistema nobilissime conseguenze sulla necessità di coltivare nella nostr’anima le immortali qualità. Non si dee negare che la sottilissima filosofia degli Alemanni, mentre che spiega una grande potenza per isviluppare gl’intelletti, non ne spieghi ancora sulla morale della nazione tra cui regna.
Jacobi si è mostrato nemico della filosofia di Kant; ma nol combatte già qual sostenitore dell’opinione sulle sensazioni, ed anzi lo ripiglia di non essersi fondato sulla religione considerata come la sola filosofia possibile nelle verità che trapassano l’esperienza. Assaissimo si stimano in Alemagna le metafisiche Opere di Jacobi; ma la maggior celebrità ei l’ebbe come moralista. Ha egli impugnato la morale fondata sull’interesse, dando alla sua per principio un sentimento religioso; il che divide la sua filosofia da quella di Kant, che tutto riduce all’inflessibile legge del dovere. Ma egli va errato quando pianta per principio che si debba seguire interamente quello che può consigliarci il movimento dell’anima. Nè ha per avventura posto ben mente alle conseguenze che il più degli uomini ponno inferire da questi principii; perciocchè qual risposta può darsi a coloro che, dilungandosi dai doveri, presumessero di dire che hanno obbedito ai movimenti di loro coscienza?
Schleyermacher ha divulgato un dottissimo libro sull’esame di diverse morali, considerate come scienze. Egli vorria trovarne una in cui tutti i ragionamenti possero perfettamente concatenati, e il cui principio tutte racchiudesse le conseguenze; ma sin qui non sembra essersi arrivato a tanto. Ad un profondo sapere questo scrittore unisce assai spirito e immaginazione; le quali doti si scorgono ne’suoi Soliloquii, in cui facendosi ragione de’sentimenti e pensieri suoi, si abbandona alla contemplazione delle più importanti verità, e indaga specialmente le cagioni della felicità. La lettura di queste considerazioni, spesse volte astratte, è resa dilettevole dallo stile elegante e fiorito, dalle finzioni, e dai varii e interessanti episodi. A lui ha procacciato un gran nome anco l’eccellente traduzione dei Dialoghi di Platone.
In questo Saggio noi abbiamo compresi alcuni scrittori i quali hanno seminato nella storia le più importanti morali verità; al quale scopo hanno specialmente rivolto la mira gli alemanni istorici Muller, Schiller ed Herder. Il primo, che ha scritto l’Istoria della Confederazione Elvetica, univa ad un profondo sapere poetico immaginativa ed oratoria eloquenza. Valente pittore e dei fatti e degli uomini, può essere tenuto pel vero classico istorico dell Alemagna. Ma indebitamente gli si è voluto apporre il titolo di Tacito alemanno. Spira, è vero, la sua storia, come quella dell’autore latino, il più caldo amor della patria, l’odio dei tiranni e la filantropia: ma in cambio di scegliere alcuni avvenimenti e di porgerne con precisione le particolarità, ha egli il difetto d’una soverchia lunghezza, e di narrare quelle particolarità che non facevano duopo per renderne interessante il racconto. Talora egli affetta la concisione, l’andamento e il tuono sentenzioso di Tacito; ma il più delle volte il suo stile è ricco, abbondante e periodico. Talora egli imita la semplicità delle cronache del mezzo tempo, le quali due maniere diverse fra loro si oppongono. Egli ha scritto una Storia Universale che dopo la sua morte fu divulgata.
Ancora Schiller occupa un alto scanno tra gli storici filosofi, tra coloro cioè che considerano i fatti come altrettanti argomenti in conferma della opinione. Ha egli stesa l’Istoria della Guerra de’Trent’Anni, la quale è una delle epoche in cui la nazione alemanna ha spiegato maggior energia. Ella è scritta con un sentimento di patriottismo e di amore per la libertà e pei lumi che onorano il cuore e l’ingegno dell’autore. Di una singolare bellezza sono i ritratti dei principali personaggi, e tutte le riflessioni sono parto delle meditazioni di uno spirito nobile e generoso. L’intendimento da lui proposto è la tolleranza e la libertà, ed è adempiuto coi più magnanimi concetti e coi più fermi principii. Non è minore il diletto dell’utilità che si ritragge dalla sua storia, benchè a lui si rimproveri di non essere stato interamente instrutto degli avvenimenti.
Herder, a simiglianza di Schiller, vuolsi per la sua morale e pel talento locare tra i primi letterati dell’Alemagna, i quali per più titoli sono il più venerato consesso che il mondo incivilito ne presenti. Il suo libro intitolato Filosofia dell’Istoria dell’Umanità è una delle Opere alemanne che si leggono con più interesse e diletto. Le politiche osservazioni non sono così profonde come quelle di Montesquieu nell’Opera sulle Cagioni della Grandezza e del Decadimento de’Romani; ma pure, attesa la sua grande immaginativa, ha potuto egli internarsi ne’più remoti tempi e con quella fiaccola inoltrarsi per mezzo alle tenebre. Allettano oltremodo i suoi capitoli intorno a Persepoli, a Babilonia ed agli Egiziani.

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“Pare, come dice madama di Staël, che egli passeggi per l’antico mondo in compagnia di un genio potente a rialzar le ruine e a rifabbricare i diroccati monumenti.”
A lui si dà taccia di usar talvolta uno stile troppo figurato, o allegorico, che nuoce alla chiarezza. Possiamo rammemorare ancora fra gli Alemanni che hanno scritto l’istoria con un fine morale e filosofico, Isacco Iselin, autore della Storia dell’Umanità, il quale intese a mostrare, essere la virtù e la filosofia i soli mezzi della felicità dell’uomo, e il dilungarsi dalle lor leggi, la sola fonte delle umane miserie.
Resta che noi favelliamo degli scrittori che hanno ricorso alla finzione per li morali ammaestramenti, e per dipinger costumi e caratteri; tra i quali scrittori vuolsi per certo nominar per primo il celebrato Wieland. L’Alemagna contava già parecchi seguaci della letteratura francese del secolo di Luigi XIV: Wieland primo introdusse con lode quella del secolo XVIII. Nelle sue Opere in prosa egli ha qualche simiglianza con Voltaire, senza esserne imitatore; e se non ha la grazia e la piacevolezza dell’illustre Francese, ha molto spirito e immaginativa, ed una erudizione profonda da lui sempre filosoficamente impiegata. Le sue finzioni non si possono già considerare come semplici romanzi, posciachè il fondo n’è storico e filosofico, il che le rende molto istruttive. Le Avventure di Agatone, da taluno paragonate col Telemaco e col Belisario, porgono un quadro dei costumi dell’antica Grecia ritratto con fedeltà e con grazia. Ma come che la parte istorica sia porse la più allettativa dell’Opera, non meno piacciono e interessano le finzioni. Le sciagure e le prosperità di Agatone, le virtù e i falli suoi fanno vedere quanto l’uomo dee vigilare sopra se stesso per ischifare i danni del vizio. Gli episodi, che vi aggiungono varietà, sbucciano tutti dall’azion principale e non menomano l’interesse. Meno dilettevole di questa è l’altra filosofica finzione del medesimo autore intitolata Pellegrino Proteo, nella quale si studia similmente di spargere dei fiori; ma troppa parte vi hanno l’analisi e la disputazione.

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“Il serio ed il gaio sono, al dir di madama di Staël, troppo manifesti nei romanzi di Wieland per potere starvi d’accordo; perciocchè in ogni cosa i contrasti ne colpiscono, ma gli estremi opposti ne stancano.”

Un’Opera veramente classica di cui va ricca l’alemanna letteratura, è l’Aristippo del celebrato Wieland; nella quale in via epistolare vengono con mirabile artificio dipinti i costumi della Grecia, e vi trovi dotti ragionamenti sui governi, sulle leggi e sulle arti belle. Ivi pure con iscelta erudizione presenta l’autore i sistemi filosofici delle varie scuole, non che l’istoria e le vicende politiche di quella famosa nazione. Quest’Opera è già conosciuta in Italia per l’accurata ed elegante versione fattane dal dottor Michelangiolo Arcontini.
L’istoria, i costumi e le arti dell’antica Grecia hanno pure somministrato a un altro Tedesco l’argomento d’un’ingegnosa e piacevole Opera. Alcibiade, le cui virtù e i vizi così illustri, e in apparenza così opposti, davano luogo a finzioni senz’offendere la verisimiglianza, fu scelto da Meisners pel suo eroe, ed ha avuto grande incontro anco in deboli traduzioni. Grazioso e sollazzevole n’è lo stile; preciso e rapido l’andamento. Fa egli piccoli quadri, e a modo di alcuni Francesi accoglie insieme i tratti più forti. Ha molto piaciuto eziandio un altro suo romanzo filosofico intitolato il Viaggio di Brancko, nel quale si trovano molti dilettevoli episodi, e massime quello di Lindau, ossia l’Invidia, che solo basterebbe a far conoscere l’ingegno di Meisners, e la sua dolce e amabile sensibilità. Egli è di quegli scrittori che si dicono della scuola francese; ma così in lui, come in Wieland si vorrebbe una certa nazionale originalità che per avventura gli avrebbe fatti più irregolari e ineguali, senza accrescerne di una dramma il talento e il genio.
Non mancava questa nazionale originalità a Goethe, come si è scorto nelle sue Opere drammatiche. Cominciò egli la letteraria carriera col famoso romanzo delle Passioni di Werther; ed è noto che l’interesse di quello è solo riposto nell’isviluppare un infelice passione, essendo per altro sfornito di situazioni e di avvenimenti. È steso in forma di lettere, nelle quali si parla di cose diverse, e poco signoreggia la passione; ma è molta la naturalezza e la verità delle particolari circostanze; senza che però veramente ne alletti, se non se il momento del suicidio, e qualche squarcio delle ultime lettere scritte da Werther alla sua madonna innanzi all’uccidersi. Questo romanzo sublime, secondo alcuni bizzarro, esagerato, snaturato secondo altri, porse diletto, o almeno meraviglia a moltissimi ettori, massime alle donne, come quello che porgeva un grand’esempio del lor potere sugli uomini, e loro procurava il più dolce piacere ch’elle abbiano, quello di essere amate passionatamente, nulla monta in qual modo. È fama che Goethe nella matura età poco conto facesse di questa sua Opera giovanile, e pare che condannasse egli stesso quella bollente fantasia che gli aveva quasi inspirato entusiasmo pel suicidio.
Willelmo Meister, secondo romanzo di Goethe, è ammirato in Alemagna, ma poco noto fuori. Questo contiene un quadro della vita umana, nel quale diverse situazioni si van succedendo in tutti gli stati e in tutte le circostanze: romanzo pieno d’ingegnose discussioni, e da essere tenuto per un filosofico lavoro, se non fosse che il romanzesco intrico non vale la fatica delle belle dipinture pel poco interesse che destano. I personaggi sono piuttosto spiritosi che importanti, e le situazioni piuttosto naturali che animate. Quel che v’ha di mirabile, si è un interessante episodio che in sè riunisce quanto l’original talento dell’autore può far provare di più animato: l’Opera in generale non alletta per altro, se non per la curiosità di saper l’opinione di Goethe su ciascun subbietto, perocchè desso è in certo modo il verace eroe del romanzo.
Il medesimo difetto si nota nelle Affinità di Scelta, terzo romanzo del medesimo autore, ove s’incontrano molti ingegnosi pensieri e fine osservazioni con una profonda cognizione del cuore umano; ma languido n’è l’interesse. La finzione, generalmente considerata, non è ben distinta, nè chiaramente se ne scorge l’oggetto. Se la morale d’un romanzo è riposta negli affetti che inspira, e non nelle massime spacciate da’suoi personaggi, v’ha luogo a dubitare non sia morale quest’Opera, cioè che non giovi a perfezionare la sensibilità.
Il filosofo Jacobi ha scritto un romanzo intitolato Waldemar, nel quale dichiara i principii e le opinioni medesime delle sue Opere filosofiche. Combatte egli il sistema che fa base della morale la propria utilità; e spiega con molta eloquenza la sua dottrina, consistente nel riferire alla sensibilità ogni umano destino; pel qual titolo si può egli ammirare: ma come romanzo, nè lo scopo nè l’orditura è commendevole. Una esagerata sensibilità, una bizzarra maniera di pensare sulla natura dell’uman cuore può piacere in teorica, ma in pratica se ne scorge la falsità, e allora ogni interesse svanisce.

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“Tutti i personaggi di questo romanzo, così dice madama di Staël, gareggiano sempre di generosità a spese dell’amore; il che non incontra nella vita, e non è bello, quando virtù nol richiegga.”

Lo svizzero Hirzel ci ha dato col titolo di Socrate Moderno una storia, anzichè un romanzo, in cui fa l’elogio di un saggio agricoltore del Cantone di Zurigo, ch’egli porge per norma di coloro che professano la prima delle arti, e loro fa conoscere la dignità di loro condizione e il modo di essere in quella onorati.
Tali sono i principali filosofici romanzi usciti dagli Alemanni. Hanno egli gran copia di romanzi in ogni genere, dei quali noi qui possiamo solo toccare il general carattere, ricordandone i più reputati. Nei romanzi di cavalleria non hanno seguitato con molto scrupolo le antiche tradizioni; non conservano abbastanza i costumi d’allora, e talvolta v’intromettono l’analisi degli affetti, cosa ignota a quei buoni cavalieri. Molti romanzieri hanno scritto racconti di streghe e di sogni; avvisando che più si mostri l’ingegno in cotali invenzioni, che in romanzi fondati sugli incidenti della vita comune. Ma per conoscere il prezzo di un tal genere, basta notare che manca di verità, che il meraviglioso n’è puerile e che sol giova a distendere i pregiudizi. I romanzi erotici, più numerosi degli altri, rispettano le leggi della decenza e dell’onestà; ma si fondano alcuni sulla sensibilità, la quale non è sempre disgiunta dal danno, perciocchè vi si versano a piene mani le immagini romanzesche che possono piacere alle riscaldate fantasie, ma che gli uomini aggiustati cangiano in motteggi. Gli Alemanni non sono men fertili in romanzi che ritraggono la vita domestica; nè si vuol negare che n’hanno raccolta assai lode. Non cercare ne’lor componimenti la dilicata, piacevole e viva dipintura dei costumi e dei ridicoli; non chieder loro l’amenità, nè la giovialità francese, non la critica penetrazione, nè il gaio umor degli Inglesi; ma se ti è caro il veder la natura dipinta nelle più minute particolarità con una ingenua e dolce fedeltà; se tu ami i semplici e originali caratteri; se ti diletta la dipintura della bontà e della lealtà; se in somma tu vuoi scorgere l’uomo in tutto il suo candore, leggi gli scrittori alemanni e ne sarai soddisfatto.
Tali qualità si trovano unite nel più alto grado in Augusto Lafontaine, che è de’più celebri romanzieri alemanni. I suoi Racconti morali, le Novelle, i Quadri domestici hanno piaciuto ovunque sono cuori sensibili ed anime tanto pure da poter gustar la semplicità. Le sue Opere appartengono alla poesia pel diletto delle animate dipinture, ed al romanzo per la naturalezza e l’affetto. Le ingenue grazie ne animano lo stile; e sopra tutto egli è mirabile quando dipinge quei dolci movimenti da cui si genera la felicità. Sempre è posta in azione la morale, e lascia un’impressione favorevole alla virtù. Non è gran cosa originale, nè creatore nell’invenzione; e rade volte ne porge quella felice combinazione di circostanze che richiama sempre l’attenzione sul principal personaggio, rade volte quella progressione di verisimili incidenti che accrescono ognor l’interesse e raddoppiano la curiosità.
Questo difetto di orditura, di progressione e di unità è ancor più sensibile nelle Opere di Tieck, di Claudio e di Richter, scrittoli molto ingegnosi tutti e tre. Il primo ha riscosso lode da un genere di romanzi che si accosta alla commedia, quale si è il carattere di Sternbald, la cui lettura è amenissima. Pochi avvenimenti vi s’incontrano, e questi pochi non si conducono tutti fino allo scioglimento; ma non vi ha alcun’altra dipintura cotanto dilettevole della vita degli artisti. Pone l’autore il suo eroe nell’aureo secolo delle belle arti, e il presuppone scolaro di Alberto Duro, contemporaneo di Raffaello. Egli lo fa viaggiare per diverse contrade europee, e dipinge con diletto il piacere cagionato dagli esterni obbietti, quando si guatano da chi ha buon gusto e tenero cuore; perciocchè un artista immaginoso e sensibile scorge una quantità di meraviglie che sfuggono agli altri. L’autore ha framezzato alla sua Opera alcune poesie di grandissimo pregio, massime quella sul Ritorno della Primavera, le quali non pregiudicano all’armonia del tutto, essendo anche il romanzo poetico al sommo.
Claudio ha divulgato una raccolta sopra argomenti e generi diversi; parecchi di mal gusto, ed alcuni di poca importanza, ma di una originalità e verità che sa render dilettevoli le menome cose. Lo stile si mostra piuttosto semplice ed anco vulgare, ma per la naturalezza e il patetico ti va sino al fondo del cuore. Egli è uno degli alemanni scrittori che ha maggior copia di quel brio nazionale che in altro linguaggio non si può far trapassare. Ti sa far piangere e ridere a sua posta, facendoti immedesimare con lui; e nota, che a mescolare con lode il patetico e il comico, bisogna pur essere in sovrano modo naturale nell’uno e nell’altro.
Più celebre di Claudio, e di una riputazione maggiore in Alemagna, senza che le Opere sue per la loro stravaganza possano escire di quella, si è Paolo Richter, certo scrittore originale, ma spesso bizzarro e affettato. Chi pretende di essere originale, perde il merito di una naturale originalità. Nelle Opere sue si scontrano grandi bellezze, che maggiormente ferirebbero, se nelle dipinture fosse più disegno e più regolar composizione; perciocchè le maestre pennellate non si scorgono nella confusione del tutto. Costui costantemente mescola col sollazzevole il serio. La sua maniera di osservare l’uman cuore è piena di finezza e di piacevolezza; ma spesse volte è troppo minuto, e dipinge relazioni sociali di poca estensione. Molto somiglia a Sterne, avanzandolo forse nel poetico e nel serio dell’Opera, ma rimanendogli addietro nelle piacevolezze e nel patetico. Nientedimeno il suo romanzo contiene molti passionati episodi; e là ove è serio, spesse volte è sublime.
Questa rapida scorsa che abbiam fatto sull’alemanna letteratura, ne fa conoscere le sue grandi ricchezze. Che se alcuno ci chiede perchè elle son pochissimo note alle altre nazioni, diremo in risposta quel che si legge nella stessa madama di Staël, perpetua encomiatrice dell’originalità nazionale degli Alemanni. Accorda ella che essi troppo applauso fanno nei loro autori a quella vagante arditezza la quale, benchè libera sembri, non è sempre priva d’affettazione. Confessa, che se questi autori non possono uscir dell’Alemagna, anzichè l’originalità loro, ne sono cagione i difetti; e in fine sentenzia che si dee nei moderni tempi aver lo spirito europeo; adottar cioè non pur le opinioni, ma eziandio il classico gusto delle dotte nazioni, le quali sono formate alla scuola degli antichi, i primi discepoli della natura. E il dir così, a nostro parere, è un dar biasimo al genere romantico, di cui ella è fra’caldi partigiani.

1V. Idea della Poesia alemanna, 1779.

2V. Andres, Storia d’ogni Letteratura, tom. II.

3V. De l’Allemagne, par mad. de Staël, II partie.

4V. De l’Allemagne, par mad. de Staël, IV partie.

5V. Prospetto generale della Letteratura tedesca del signor Angelo Ridolfi pubblico professore dell’Università di Padova, ec.