Citazione bibliografica: Giovanni Ferri di S. Costante (Ed.): "Sezione III", in: Lo Spettatore italiano, Vol.1\03 (1822), pp. 69-190, edito in: Ertler, Klaus-Dieter / Fuchs, Alexandra (Ed.): Gli "Spectators" nel contesto internazionale. Edizione digitale, Graz 2011- . hdl.handle.net/11471/513.20.783 [consultato il: ].


Livello 1►

Sezione III

Degl’Italiani

La lingua italiana, stabilita per classici autori fin da cinque secoli, è reputata la più bella delle moderne, e quasi l’una delle antiche. Assai volte, e più nelle Opere degli stranieri, si va ripetendo esser Dante, il Petrarca e il Boccaccio stati i padri di quest’idioma; il che senza fallo è vero, se dir si voglia solamente che tutti e tre, di altissimo ingegno accesi, hanno dato più ricchezza, vigore, nobiltà ed eleganza alla lor lingua. Ma non però che siano da posporre tanti altri loro contemporanei, ed eziandio precessori, i quali scrissero Opere che fanno testo di lingua, e che portano quello stil semplice, puro e preciso, per lo quale dagli altri secoli si distingue il Trecento.

I poeti precorsero ai prosatori. I primi, e particolarmente Guido Guinicelli, Guittone di Arezzo e Guido Cavalcanti, trattarono, secondo che il gusto de’tempi chiedea, soli argomenti di amore; ma la più parte empierono i loro versi di alte sentenze e di precetti che la platonica filosofia, recata in ordine di questa passione, potè lor porgere. Nè guari di tempo stette che la poesia fu consegrata a vestir la moralità di bellezze; e ne diede esempio Brunetto Latini, il quale un suo poema in versi settenarii rimati chiamò Tesoretto, perchè vi raccolse le regole della sapienza. Ebbe la gloria di esser maestro di Dante, se non forse ancor [70] quella di avergli fatto concepire il disegno della Divina Commedia; conciossiachè il suo Tesoretto abbia la forma d’una visione, ove l’autore si smarrisce per una selva, s’avviene in un antico poeta, e per sua guida lo prende; descrive luoghi fantastici, e dipinge immaginevolmente i vizi e le virtù.

Francesco Barberino tenne dietro a Brunetto Latini, stato altresì suo maestro, e compose un trattato di filosofia morale in versi, colmandolo di fruttuosi ammaestramenti a persone di ogni sorte. Ma correndo allora l’usanza di dover per novelle e per ciance amorose piacere, il Barberino, per andare a seconda della corrente del tempo, pose nome alla sua Opera: Documenti d’Amore. Quando ebbe insegnata agli uomini la norma del vivere, compilò un trattato del Reggimento delle Donne, tra verso e prosa, ove i precetti di moralità sono fatti sensibili, e di finzioni abbelliti. Or questa seconda Opera del Barberino, autor citato spesse volte dalla Crusca, fu pubblicata per la prima volta nell’anno 1815.

Allo ingegno di Dante riservato era non pur la vera e quasi estinta poesia risuscitare, ma quella sustanzialmente alla moralità congiungere, a scuola del genere umano. Ingegno creatore ed originale, dispregiò temi di favole e di storie, e quella materia elesse che più doveva potere il suo secolo scuotere. Il mondo invisibile e i tre regni della morte egli fece suo canto, col felice ardire di disporre la dipintura dell’altro mondo alla riprensione e riforma di questo. Gemea a suo tempo l’Italia [71] fra gli strazi delle furiose parti, entro una quasi general barbarie di costumi e di lettere, e sotto il giogo di mille opinioni e usanze superstiziose, che sono, al dir del famoso Parini, l’unico asilo ed il solo conforto degli uomini crudeli e delle malvage coscienze. Considerata dunque la sventurata disposizion del secolo, il suggetto per Dante scelto era il meglio acconcio ad occupar la mente de’suoi contemporanei, a farli pensare il loro utile, ed a ferir profondamente i loro animi. E come colui che delle dottrine le quali poteano allora conoscersi, avea tesoro, strinsele tutte e fuse nel suo poema, ove teologia, filosofia morale ovvero naturale, sacra e profana storia, tutto quanto è recato in azione con tante scene che rapidamente l’una all’altra succedono, ed infiniti personaggi rappresentano, dipinti sempre coi più vivi e naturali e più variati colori. Ma quello, ragiona il critico filosofo Gravina, che del suo poema forma il codice della sapienza, non che della poesia de’suoi giorni, e in parte de’secoli posteriori, è la morale dottrina. Evvi essa esposta a parte a parte per l’intero tratto del suo poema, ove, per via di rappresentazione e descrizione di ogni atto umano e con la varietà dei caratteri, dà più viva idea del vizio e della virtù, e più motivi di fuggir quello e seguir questa, che ne diano le diffinizioni e le regole dei filosofi. I poeti, e più Dante, sono eguali ai filosofi per la copia di sentenze atte a convincere l’intelletto, ma superiori per l’efficacia delle espressioni, numeri e figure, [72] valevoli a muovere la fantasia e mutare il corso delle operazioni1 .

Del gran potere che sopra il suo secolo ebbe il poema di Dante, non è da dubitare, per poco ch’uom riguardi, che, vivente l’autore, pubblicamente il popolo cantava i suoi versi, e diventò anche lo scopo degli studi e dei commenti più faticosi. Ben è vero che di sì bel successo, il qual fu confermato ancora dai secoli illuminati, egli non è tanto tenuto alle dottrine ricolte nella sua Opera, quanto alle poetiche dovizie ond’è piena. Lo stile è degno di colui al quale fu maestro ed autore Virgilio. Percuote con la forza delle dipinture, commove con la compassione, incanta con la sua grazia e freschezza. Il pittor terribile del conte Ugolino è pure il pietoso pittore di Francesca da Rimino. Nè di rado levasi a voli altissimi, senza mai cessar d’esser vero, semplice, ingenuo, come la stessa natura, della quale egli, a modo degli antichi, fu imitator fedele. Avea Dante tutte le doti di un gran poeta, nella maggior perfezione; salvo se dir non si volesse ch’egli fallì la continuanza della purità di stile, la quale dai tempi e dalle vicende, in ch’egli scrivea, gli era contesa; tutto che nei luoghi ov’è puro (ed è in molti più ch’altri non s’avvisa), egli resta non che primo, ma di lungo tratto sopra tutti quanti.

Dante ebbe imitatori poco meno che fra’suoi coetanei. Era egli discorso per lo mondo [73] invisibile; e Fazio degli Uberti si mise a circuire la terra, a descriverne tutte le parti, ed a toccar la storia eli tutte le genti che l’abitavano. È il Dittamondo altresì una visione, ovvero una fila di più visioni, ove l’autore prende per guida lo storico e geografo Solino a quel modo che Dante avea preso Virgilio. Grande era ed ardito questo divisamento, nè senza pregio n’è la esecuzione. Chè i fatti più gravi rammemora Fazio, e costumi descrive e caratteri; ma più che d’altro si briga egli di far noti gli uomini di maggior virtù. Vero è che il Dittamondo ha pochi lettori; ed è ciò perchè poche edizioni se ne trovano, e quelle scorrette sì, che appena si possono leggere. Una nuova ne apparecchia un Letterato di gran fama, cioè il conte Giulio Perticari, che di note critiche e storiche la vestirà, restituendo in certo modo all’italica letteratura una delle più preziose sue Opere.

Ancora Federico Frezzi fabbricò sull’esemplare di Dante un gran poema, e lo nominò Quadriregio, per avervi cantati i quattro regni, d’Amore, di Satan, de’Vizi e delle Virtù. Tutto è morale il suo fine, ed ogni cosa vedesi in atto e rappresentazione. Da Minerva, dea della Sapienza, è scorto l’autore. Il primo libro, partito in più canti, mostra quanti siano i lacciuoli che Amore ci tende, e come il guardarsene sia malagevole. Il secondo libro contiene il regno di Satan, che è quello del mondo usurpato da esso e tiranneggiato. Il terzo fa vedere non sotto larve il vizio, nè sotto allettatrici apparenze, ma nella sua vera forma e [74] co’suoi propri colori. Il quarto poi illustra il regno delle Virtù, ciascuna delle quali possiede il suo tempio e tiene la sua corte. E nota che lo stile del Frezzi, avvegnachè tanto ardito e figurato non sia, quanto è quello di Dante, nondimeno rende alcun odore di tutte queste sostanze. Onde par manifesto ch’egli tutto nella Divina Commedia abbia posto suo studio.

L’immortale Petrarca fu lungo tempo celebrato più per un filosofo morale, che per un poeta, come vedremo nella seconda parte del presente articolo, dove daremo contezza de’suoi trattati filosofici. Nessuno contraddice essere lui stato il più morale poeta di tutti gli antichi e moderni. La passione che più delle altre ispira le disoneste pitture, come tutti sanno, fu nel suo cantare espressa con sensi continuamente delicati, nobili e virtuosi, i quali egli primiero mise in pratica; e come sentì, così mostrò quanto sulla natura e sugli effetti di amore avea Platone concepito, sollevandosi sempre alla bellezza morale. Fra le sue poesie più direttamente morali sono i Trionfi, piccolo poema in più capitoli a terza rima in forma di visione, come la Divina Commedia di Dante, col quale fa vista di aver voluto contendere. E come che questi Trionfi, siano una fatica della sua vecchiezza, nondimeno portano bellezze convenienti a’suoi più freschi anni. Quello di Amore è veramente il trionfo di Laura, e quello della Morte è il più poetico di tutti, il più patetico e il più grave.

Nessun poeta è stato ne’moderni tempi letto ed ammirato più generalmente che il Petrarca, [75] e nessun altro ebbe tanti imitatori. Ancorchè Dante gli fosse precorso, egli attinse tutte le sue forze dal suo proprio ingegno, e si compose un linguaggio poetico che in sua natura rende eleganza, purità, gentilezza e armonia. E con tanta felicità gli vennero elette le parole, che ne’suoi versi non si trova una locuzion che sia vecchia. Oltre a ciò, il Petrarca formò il linguaggio del cuore e del sentimento. Il perchè nelle sue poesie spira una dolce malinconia e una pietosa soavità che a vere note le profonde affezioni del poeta dichiarano. E come che i sensi di siffatte espressioni eccedano la intelligenza del più degli uomini, nondimeno, per la sola lor forma, son care ed allettano. Nè di minor meraviglia è l’abbondanza e la pienezza sua delle immagini e dei pensieri, e i fiori e la prontezza della favella, e quel suo puro concento che le orecchie continuamente ne molce. Ed avviene per così singulare adunamento di tali qualità, che i suoi versi senza fatica e quasi da se medesimi si affiggono nella memoria. Senza che lo amador di Laura, il poeta del virtuoso amore, se pon mano a materia morale o politica, è forte, è sublime ed è grave. In qual altro idioma edificò la poesia lirica tanto bei versi, quanto son quelli con che sferza egli i vizi e il vituperoso letargo della Italia, la quale, mentre che i Barbari si partivano sopra lei le sue spoglie, non sentia di se stessa? Quando mai carità di patria, nei felici tempi della Grecia e di Roma, isvegliò più forti sentenze e concetti più alti? Zelo della virtù, ira magnanima contro gli scandali e [76] contro le pubbliche scelleratezze diedero al Petrarca spesse fiate lo stil gagliardo ed eccelso dei profeti. Il perchè si tolse questo immortal poeta e si tenne il primo seggio fra i Lirici.

Emulo poi di Dante, propose il Petrarca di porgere un poema eroico alla Italia; se non che giudicando che il nostro volgare non potesse aggiugnere fino alla dignità della epopeia, in latino compose la sua Affrica, volendo sopra quella piantar la sua gloria, che senza fallo, quando vi avesse adoperata la lingua per lui recata a tutta la perfezione dello stil poetico, egli avrebbe acquistata. Or l’Affrica, in che il Petrarca seguì lo stile di Virgilio, è fuggita dalla memoria degli uomini; laddove le sue volgari poesie, delle quali egli parla quasi con disprezzo, lo preservano dalla seconda morte.

Al Boccaccio, amico e scolare del Petrarca, toccò la gloria di aver primo egli tratta fuori una maniera di epopeia in lingua volgare, e di aver inventata la ottava rima, la cui forma, come la meglio disposta, fu quindi amata ed abbracciata da tutti gli Epici italiani. Diede le spalle a visioni ed a sogni che di tutte finzioni poetiche erano divenuti materia; e seguitando l’esempio degli antichi poeti, creò un’azione, o, vogliam dire, una favola, la quale per via di casi artificiosamente annodati egli condusse allo scioglimento. Sono suoi poemi la Teseide e il Filostrato, storici argomenti dei tempi eroici, ed in quelli fece apparere la facilità e la copiosità delle descrizioni e dei ragionamenti, non che la immaginazione nelle [77] incidenze e nelle particolarità; salvo che ambedue, ma singolarmente il primo, perchè hanno scarsità di allettamento e di fine morale, ed oltre a questo lo stile generalmente è debile e scolorito, non sono troppo letti. Ma bene al Boccaccio si aspettava di aprire le arche ricchissime della lingua e dello stile nelle sue prose.

Il primo poema epico non fu dato all’Italia se non se due secoli dopo il Boccaccio, da Giorgio Trissino; il quale se avesse avuto tanto ingegno, quanto ebbe arte, sarebbe stato per avventura uno esemplare perfetto, ed al gran Torquato avrebbe preoccupata questa gloria. Ma più che un poeta omerico, il Trissino fu un servile imitatore di Omero. Tutto n’avea, disse Voltaire, fuor che l’ingegno. Ma intemperata è questa critica, come che non saria più giusto il dire col Gravina, che nel corpo intero del poema il Trissino inventò quel che avrebbe Omero inventato, se il medesimo argomento trattato avesse. Nondimeno è chi tiene con questo famoso critico, in quanto egli loda Trissino, aver esso insegnato sotto le favole la vita civile e la dottrina de’suoi tempi, ed avere così ridotta al suo vero uso la poesia. Per la profonda conoscenza che questo poeta avea della greca e latina letteratura, si pose in mente di risuscitare il gusto degli antichi nei più alti generi di poesia; nè questo glorioso divisamento, almeno nella poesia drammatica, gli venne del tutto fallito.

Mentre che molti poeti si provavano nella epopeia classica, era chi creava la romanzesca. [78] Tra i coltivatori di tal genere, innanzi all’Ariosto, furono Luigi Pulci e Matteo Boiardo i più notabili. Il primo scrisse il Morgante maggiore, e s’avvisò di voler beffare tutte le invenzioni romanzesche della Cavalleria, attribuendo ai celebri paladini imprese e ragionamenti ridicoli, donde l’immortal Cervante prese argomento a comporre il suo Don Quisciote. Vedesi nel poema del Pulci immaginazione, ingegno e sale, non che uno stile di certa semplice e nativa leggiadria, tutto che egli, quando gli piace, sappia levarsi alla vera grandezza epica. Disse il rigido Gravina che sotto il ridicolo sì della invenzione, come dello stile, non lascia il Pulci di rassomigliare costumi veri e naturali nella volubilità e vanità delle donne, e nell’avarizia ed ambizione degli uomini, suggerendo anche ai principi il pericolo al quale il regno e se stessi espongono con obbliare i saggi e valorosi, e dar l’orecchio e l’animo agli adulatori e fraudolenti2 . Ma siffatte moralità non bastano a scolpare il Morgante del mal gusto, delle follie e via più della scostumatezza e della perpetua mistura che vi si annida di sacro e profano in qualunque parte. Pure questo miscuglio, che spesso è un empio scherno e degno di riprensione e di vitupero, mostra che fu cagione al Pulci di recarsi a far la satira de’suoi contemporanei. Perocchè cominciare e finir con le preghiere tutti i canti era divenuto un abito troppo noioso, che molti [79] poeti, avanti il Pulci, avean preso, e che ritennero i mendicanti poeti, i quali cantavano su per le strade, come per lo modo più acconcio ad attrarre la popolare udienza. Al Pulci nel trattare un soggetto che lo stesso Lorenzo de Medici gli avea proposto, e nel dover leggere il suo poema ad una brigata d’uomini illustri, quali furono Poliziano, Marsilio Ficino ed altri membri dell’Accademia Platonica, parve il meglio d’ogni altra cosa, per aggiungere al destinato segno di dar diletto a quella compagnia, il seguire l’esempio de’suoi antecessori in un modo lusinghiero e sollazzevole.

Poichè il Pulci, gabbandosi di ogni regola, altro non imprese che a ridere e far ridere nel suo poema; il Boiardo venne a trattare il tema dell’Orlando Innamorato con più contegno e con più gravità. Egli fu il primo che, senza porre in non cale gli Epici antichi, produsse la vera epopeia romanzesca. Ampio e ben ordinato è il disegno del suo poema e ben pennelleggiati sono e ben contrastati i caratteri, e i casi naturalmente indotti e con artifizio appiccati. Anche le finzioni sono nuove e belle e differenti, in guisa che abbracciate furono in parte e continuate dal grande Ariosto. Proponimento era del Boiardo allettare e piacere col dipingere costumi e caratteri. Al parer del Gravina, egli, sotto i varii personaggi che pone in azione, rappresentò i vizi e le virtù, come le rappresentavano gli antichi nelle divinità che inducevano; onde, a somiglianza dei primi poeti, il Boiardo menò sulla scena, sotto la figura [80] ovvero l’emblema dei maravigliosi personaggi, tutta la morale filosofia. È il vero che alla fertilità dell’immaginazione non si pareggia lo stile del Boiardo, che debole, negletto e duro è spesse volte; ma morte non matura gli tolse il poter terminare e rivedere il suo poema.

Dopo sessant’anni ch’era pubblicato l’Orlando Innamorato, e dopo che l’Ariosto avea fatto vedere la vera forma di trattare questi epici romanzi, cadde in animo a Francesco Berni di rinnovare lo stile del Boiardo, e si studiò di conservarne quasi tutta la sostanza de’suoi pensieri. Or questa copia, come quella che fu di nuova natura, ha fatto restare quasi in dimenticanza l’originale. Conciossiachè al Berni, quantunque per avventura venga meno il fuoco, la vigoria e il color poetico dell’Omero ferrarese, pure non falliscono al tutto le predette qualità; ed oltre a questo, unisce ad alto grado la facilità, la leggiadria, la vivacità e certa sua naturale eleganza. Non pertanto è da dolersi del Berni che non abbia voluto al Boiardo conservare eziandio la lode di aver rispetto alla convenevolezza ed ai costumi.

Tutto che nell’aringo de’romanzi epici fossero il Pulci, il Boiardo ed altri poeti precorsi all’Ariosto, pur l’ingegno di questo tanto vi si parve maggior di tutti, che ne sembra l’inventore. Non è da negare, l’epopeia romanzesca differir dall’eroica; ma si potria egli concedere che sia da meno, quando essa può bellezze in sè capire più variate? Perchè si penerebbe a locar l’Ariosto a lato ad Omero [81] e a Virgilio, se pregi d’ogni maniera egli seppe nella più alta poesia porre insieme? Ma conciofossechè a noi, senza passare il confine di questo Saggio, non potesse venir fatto di mostrare il carattere di quel gran poeta, ci restringeremo a disaminarlo in quanto appartiene alla morale. L’uno de’maggiori dipintori della umana natura si è l’Ariosto. Varietà, copiosità e verità di caratteri si agguaglia in lui con la ubertà delle invenzioni. In tutti i suoi personaggi si ritrova delle passioni, dei vizi e delle virtù la più viva dipintura e la più fedele. Dice il Gravina che i movimenti da svegliare nel cuore umano, amore, odio, gelosia, avarizia, ira, ambizione, tutti si veggono nel Furioso sotto il color proprio e naturale. La scuola della morale vi è pure insegnata sotto vaghi racconti, autorevoli esempi ed ingegnose e dilettevoli allegorie. Ove sono altrove più morali finzioni che l’isola di Alcina e il regno di Logistilla; ovvero il fiume in che il Tempo gitta i nomi degli uomini, e quei melodiosi cigni che ne li portano al tempio dell’Immortalità; ovvero quella non meno originale che filosofica idea del buon Astolfo, il quale va sulla Luna per lo senno del suo cugino Orlando, e ve ne trova parte ancora del suo; ovvero quell’arma scellerata che adopera il barbaro Cimosco, e che Orlando toglie al suo vil possessore, e seppellisce nel mare tempestandola di maledizioni? Quante altre finzioni non vi sono, in cui la moralità si sposa allo spirito, alla poesia, alla piacevolezza? Venne notato dal Gravina che l’Ariosto sparse i sentimenti di filosofia e [82] teologia naturale in molti luoghi, e più artificiosamente in quel canto ove S. Giovanni e Astolfo convengono insieme. Non ha critico alcuno che non confessi il poema dell’Ariosto esser fatto per destare nobili e generosi sentimenti; ma non però che si debba senza rincrescimento trapassare l’avere lui inframmesse dipinture e narrazioni alla onestà ed alla verecondia ingiuriose. Vero è che a voler considerare che quasi tutti quegli squarci biasimevoli non hanno a far gran cosa con l’Opera, e che ne si possono rimovere senza nuocere all’orditura del poema, di leggieri si comprende lui averli ivi tramischiati per fare a grado della udienza alla quale recitava i suoi canti, siccome era la Corte del duca di Ferrara. Ed avvegnachè si potesse qualcuno maravigliare che una Corte ben costumata, alla quale usavano donne che dovean essere del loro sesso lo specchio, potesse udir versi sì liberi e dissoluti; pur non fia tanto da maravigliarsene a chi di quei tempi conosce i costumi. Ma è ben dovuta somma lode all’abate Avesani, per lo cui studio l’Opera del maggior de’nostri poeti classici è finalmente uscita di stampa in tal forma, che innocentemente può star tra le mani della studiosa gioventù.

Quantunque l’Ariosto acquistato si fosse così splendida fama, non perderono ardire altri poeti a correre l’aringo dell’epica romanzesca. Ma solo l’Alamanni e specialmente Bernardo Tasso vennero in rinomanza. Il primo, dopo il suo poema didattico della Coltivazione, che più onor gli fece, compose il Giron Cortese con maggior regola che negli altri poeti [83] di romanzi non si trova, ordinando senza interrompimenti il filo delle cose. L’eroe degno del nome che porta, si può dire che una scuola vi abbia di cortesia: conciossiachè tutti i suoi fatti consistano in gentilezza e magnanimità, nè le sue parole dican altro che nobili e virili sentenze. Oltre a questo, è scritto con dignità e con ornamento il poema, nè vi è parte la qual non dichiari pien di gusto e di sapere l’autore: se non che povertà di fuoco poetico e di allettamento toglie che sia molto letto. Quindi l’Alamanni, vago di formare un poema cavalleresco sotto le regole più severe dell’epopeia, scrisse, alla guisa dell’Iliade, l’Avarchide, che per la vecchiezza dell’autore soffre il celo di quella età, e meno assai del primo si legge.

Bernardo Tasso fra i poeti di romanzi tiene il secondo luogo per l’Amadigi, dove egli, dotato di fecondo poetico ingegno, avanza tutti nella dipintura delle delicate passioni, nè per la descrizione di assalti e di battaglie cede a nessuno. In moltissimi suoi canti parla natura, nè si desidera ricchezza d’immagini, di sentimento e di pensieri. Vi comincia ogni canto con un ingegnoso prologo ora di sapienza, ora di teneri amori, or di piacevoli scherzi, come fece l’Ariosto, al quale egli tenne dietro eziandio nelle tre azioni principali del poema, che di molte digressioni intersecate cambiano gli attori e le scene continuamente. E conciofossechè a Bernardo Tasso, per natura dell’animo suo, piacesse molto l’ordine e la norma, egli condusse dapprima sopra un disegno regolare dieci [84] canti del suo poema; ma poi, a suggestione de’suoi amici, seguendo il gusto del tempo, si trasviò dall’unità dell’azione e dell’interesse, e si rivolse ad una irregolarità, la quale, come quella che d’arte nasceva, ebbe sembiante di essere troppo regolare. Ma fia sempre l’Amadigi a grado di coloro che ancora amano la pittura delle soavi e gentili affezioni, tutto che disprezzate sotto il termine di romanzesche; non che a quelli che tutti i tesori di cui è ricca l’italica poesia, vogliono conoscere. Che se non è tanto letto quant’esso il vale, è da recarne ogni cagione alla lungaggine del poema di cento canti composto, al dispregio sopravvenuto delle cose cavalleresche, e forse al difetto di sostanza storica, la qual ne’poemi adornar si può con la favola, ma non supplire.

Il figlio di Bernardo Tasso, il gran Torquato, veggendo la gloria per lo suo padre e per l’Ariosto acquistata coi romanzi epici, attinse dal fonte stesso il suggetto del Rinaldo, suo primiero poema, pubblicato nell’età di diciannove anni, e sufficiente a prenunciare ch’egli era nato ad aprirsi nuovo cammino, perchè molte regole degli antichi, e quella principalmente dell’unità, vi aveva egli adempiute. Di che miglior prova diede col disegno della Gerusalemme liberata da sè concepito nella sua più fresca giovinezza, e tanto comparabile a quello di Omero, quanto a tutti gli altri antichi e moderni Epici superiore. Certo l’Ariosto era pervenuto alla perfezione nel genere romanzesco e irregolare, che in processo di tempo [85] sotto il nome di romantico è montato in pregio, ed ha mosso più d’uno a volerne dettare in alcun modo le regole. Ma Torquato si mise ad una vera epopeia, intimamente costituita della unità di azione e d’interesse, e tutta nelle sue parti ad un fine solo ordinata. Egli fu primo fra i moderni che tentò sì alta invenzione, la più gloriosa per l’ingegno umano, e che l’eseguì con tanta felicità, che un uom che l’uguagli, ancora non nacque. Laonde così tiene Tasso nella sua epopeia classica il primo seggio, come l’Ariosto nella romanzesca; ed acuto e cauto giudizio ha bene sentenziato non aver luogo veruna comparazione fra questi due sommi poeti per disegno, per genio e per istile tanto fra lor differenti.

Non ha poema in tutta Europa più letto e più vantato che quello del Tasso; imperciocchè a tutti è noto che al pregio del ben’insieme risponde quello delle parti; che le descrizioni, le narrazioni, i ragionamenti, le digressioni hanno ugualmente bellezza inestimabile; che i voli sublimi e i passi dilettevoli non furono mai tanti in altrui; che quell’interesse il quale alletta e lega il lettore, s’aumenta sempre con lo andare innanzi, per maniera che il poeta di canto in canto sopra se stesso trascende. Per rispetto alla moralità, la Gerusalemme è una delle più grandi e più belle dipinture che della natura umana fosse delineata, e una delle più utili scuole che mai gli uomini ammaestrasse. Perciocchè tutto il fine delle cose umane e delle divine vi sta maravigliosamente rilevato; e i popoli della Europa contro quei dell’Asia [86] e dell’Affrica vi producono una diversità di religione, di costumi, di usanze, che dischiude incircoscritto campo a grande varietà d’immagini e di caratteri. In questa parte il Tasso è maggiore di Virgilio, nè minore di altro poeta, tranne Omero. Il perchè avendovi ognuno, siccome nell’Iliade, differenti caratteri, e quelli essendo in tanta copia e con sì bell’accordo fra sè digradati, ne torna la dipintura di tutte le passioni e delle differenti lor qualità. E conciofossechè discepolo di Platone fosse Torquato, in tutto il suo poema impresse vestigi di Platonismo, e per tutto segnò la disposizione del suo intelletto, che verso il bello ideale inchinava: di che fanno fede la magnificenza e la bellezza de’suoi concetti e de’suoi principii, i quali all’ardente studio delle cose oneste e lodevoli danno movimento. Onde non si legge poema che più di questo ad inspirar grandezza e forza di animo sia più efficace. Oltre a ciò, prese il Tasso da Platone lo amore dell’allegoria; per maniera che stimando egli i primi poeti aver di questo artificial velame adombrate le più alte verità morali, riconobbe allegorie continue in Omero e in Virgilio, e ne trasse esempio nella Gerusalemme. È il vero che tutte le sue finzioni non rinchiudono viste filosofiche; ma seppe egli, meglio che alcun altro poeta, non essere il maraviglioso quello che più nelle finzioni ci rapisca, ma le verità che per entro il loro velo si discernono, far quasi tutto lo incantesimo.

All’ultimo quel Tasso, non meno glorioso che sventurato, compose sopra la creazione del [87] Mondo un poema ch’egli chiamò le Sette Giornate: ma appressandosi egli al terminar di sua vita, e in mezzo alle sue disavventure, altro non gli erano simiglianti fatiche se non se un passamente di noia. Per la qual cosa fra i due primi e gli altri cinque libri è differenza notabile: chè quelli contengono molte e maestose bellezze, con una ubertà di stile che singularmente confassi alla materia; e gli altri non si possono credere che tanti bozzi. Che se al Tasso avanzato fosse spazio di compir, come le due prime Giornate, tutto intero il poema, semplicità saria l’estimare che egli non avrebbe a noi lasciato un esemplare di poema filosofico. Nel vero l’argomento presta copia di ogni maniera di descrizioni; ma queste son troppe, nè le incidenze e le discussioni morali, filosofiche e teologiche, seminate nel mezzo, hanno potenza di allettare convenevolmente. Forse che lo ingegno del Tasso, ponghiamo che di tutta sua forza fosse stato signore, avrebbe fatto riparo a questo difetto ch’è quasi inseparabile dai componimenti di sola descrizione.

Il sedicesimo secolo, quel tempo avventuroso che assai poeti nell’eroica poesia vide sperimentarsi, non si accese di minor fuoco per l’arte drammatica. Mentre che alle nazioni di Europa rappresentavansi i misteri e altri componimenti insensati e stravolti, cui l’idiotaggine dei tempi e la villania de’costumi porgeano alimento, l’Italia ripartoriva l’arte drammatica non altrimenti fatta che gli avi suoi l’avessero adoperata. Entrò primiero in campo il Trissino con la tragedia di Sofonisba, ordinata con ogni [88] regola in guisa che non pure lo scolare degli antichi, ma il dipintore della natura vi si ravvisa per tutto. Ancora Bernardo Ruccellai, che meglio è noto per lo poema delle Api, sulle orme del suo amico Trissino, scrisse le tragedie della Rosmunda e dell’Oreste senza punto straniarsi da veruna delle forme drammatiche dei Greci; anzi imitò molte scene del loro teatro, siccome i maggiori Tragedi moderni hanno di poi fatto. E dal Trissino al Ruccellai questo è da discernere, che il secondo ha più forza e più poesia nello stile, che il Trissino; ma se quest’è semplice di troppo e di colori sprovveduto, l’altro è troppo figurato talvolta e troppo lirico. Ancora Vincenzo Martelli con la tragedia della Tullia illustrò la tornata dell’arte, e si trasse fino alla prima schiera; e se non fosse che morte lo estinse di ventotto anni, n’avria per avventura la perfezion ritrovata. Ancora il famoso Alamanni, scrivendo la tragedia dell’Antigone, s’ingegnò di trasportar nel suo linguaggio le bellezze di quella di Sofocle. Similmente Lodovico Dolce compose tragedie, e tenne dietro ad Euripide, nè fu di ciò senza lode; ma la migliore è la Marianna ch’egli formò da se stesso; e sebbene male l’imitasse e in brutto stile il francese Tristan l’Hermite, pur ebbe un incontro quasi uguale a quello del Cid del gran Corneille. Ancora Speron Speroni scrisse la Canace, la quale di quel gran rumore che fece a quel tempo, non era degna; perciocchè se da quella venne il primo esempio dello stile che poi tennero il Tasso e il Guarini nelle lor Pastorali, non però questo si [89] confà alla tragedia: di che il gran Torquato si fu bene accorto nel suo Torrismondo, ove adoperò stile animoso e nobile, e molto da quello dell’Aminta diverso, e vi seguì la via de’Greci, e vi mise i Cori, che son pezzi di lirica poesia bellissimi.

Fra le migliori del XVI secolo sono contate le tragedie di Cinzio Giraldi, le quali tuttochè dalla semplicità degli antichi argomenti si dilunghino, pure fecero in teatro quella molta forza onde sono scritte. E il simigliante è da dire di Pomponio Torelli, fra le cui tragedie leggesi una Merope, che egli, se alle convenienze teatrali avesse meglio studiato, non avrebbe ad altri lasciata a trattare. Havvi l’Astianatte del Grattarolo, imitazion libera e bella delle Troiane di Seneca; havvi l’Edipo dell’Anguillara, che per lo volgarizzamento delle Metamorfosi si fece più illustre; havvi la Semiramide di Muzio Manfredi, che a far tragedia di siffatto storico argomento fu il primo poeta; ultimamente havvi la Orazia del rinomato Pietro Aretino, che severissimamente trattò questo soggetto, poi ritrattato dal gran Corneille. Primo fu Pietro Aretino colui che diede esempio delle tragedie istoriche in grande spettacolo, cinquant’anni avanti che alzasse la fronte Shakespeare, il quale n’è stimato inventore. Le tragedie in questo paragrafo allegate si leggono tutte quante, eziandio con più altre, o nella scelta pubblicata dal Maffei, o nell’Antico Teatro Italiano. Il loro fine morale non differisce punto da quello dei Tragedi greci, a cui tennero dietro gli autori, molti de’quali, a modo d’Euripide, [90] moltiplicarono troppo in ammaestramenti morali e in ragionamenti filosofici, e più che altrove nei Cori, non avveggendosi che dagli antichi poeti furono ordinati a render generali quei pensamenti e quelle sentenze che aveva fatte nascere l’azione.

Dall’imitare gli antichi ricoverò sua vita la vera tragedia, e la buona commedia altresì, e l’una e l’altra ad un tempo; se non che questa avanzò quella di lungo tratto, tra perchè lo ingegno di chi la coltivò fu peravventura più grande, e perchè la necessità di ritrarre i costumi del tempo preservò da servile imitazione gli autori. Molte son le commedie del detto secolo, alle quali nè lo andamento naturale, nè il fuoco e la gaiezza del dialogo, nè l’arte dell’intrigo, nè il ridicolo degli accidenti, nè la dipintura dei costumi in alcuna guisa mancano. Il perchè gl’Italiani non pur di avere la buona commedia ravvivata, ma di aver formati ancora gli esemplari di quella, sono gloriosi. Che se non sono questi componimenti oggidì rappresentati, e se si fugge di consigliarne la lettura, non ostante che lo stile sia classico, colpa ne furono i tetani, e la lor corruzione di che pute la loro fedele dipintura: anzi è tanta la licenza delle parole e delle cose, che a nessuno cape nell’animo al presente come alle Corti meglio costumate, ed innanzi ancora ad un sommo Pontefice si siano potuti rappresentare di quelli eziandio più scandalosi. Vero è che certi di questi autori comici, e principalmente il Machiavelli, fanno censura di quei costumi stessi che essi rilevano, facendo ad [91] arte che gl’interlocutori dichiarino esser men che ordinate e men che giuste le Opere loro, e così ricogliendo dalla dissoluzion medesima un’ombra di moralità. Ma quel rimedio poco giova, nè toglie a quelle commedie che siano pericolose. E convien del tutto giudicare che i loro autori, ai quali dell’avere scritto per lo secol proprio non si vuol dir male, furono più pittori di costumi, che moralisti.

La gloria di aver composta in su la norma degli antichi la prima commedia si concede al cardinal Bibbiena, come ch’egli la debba partire col Trissino, con l’Ariosto ancora e col Machiavelli, i quali scrissero al suo tempo, e tutti e tre per esperienza mostrarono di essere venuti a nuovi campi discorrere. Certo la Calandria del Bibbiena ridole generalmente odore delle commedie Plautine, da lui spesse volte imitate; perciocchè vivo ed eccitato è il dialogo, lo stile ornato e piano, e gl’incontri sono oltremisura comici; e se non fosse che i costumi allora correano malvagi, per la sostanza e per la forma egualmente ella sarebbe ancora il trastullo e lo incanto del Pubblico. Il Trissino essendosi posto in cuore di ricondurre in uso tutti i gran generi di poesia per le tracce degli antichi, sì tosto come ebbe la Sofonisba pubblicata, trasse fuor la commedia dei Simillimi, nella quale accostossi ai Menechmi di Plauto, e misevi i Cori, tutto che nella commedia non fossero stati sofferti dagli antichi.

L’immortale Ariosto non bene uscito ancora degli studi, e inteso tuttora alla sposizione di Terenzio e di Plauto, inventò le due prime [92] sue commedie, la Cassaria ed i Suppositi, che in processo di tempo a piacer della corte di Ferrara versificò. Ancora ne scrisse tre altre, la Lena, il Negromante e la Scolastica; e questa da lui lasciata imperfetta, fu da Gabriele Ariosto suo fratello menata a compimento. Citazione/Motto► « Le commedie dell’Ariosto, dice un famoso critico molto per noi seguitato in queste notizie, saranno sempre e per tutta Italia apprezzate non solamente a cagione dello stile facile e chiaro più che alcun altro d’italica poesia, ma per la proprietà conveniente ai diversi attori, che pensano e parlano sempre in modo naturale, ancor che sia con arte, e portano seco una verità e una semplicità che pare impossibile; e perchè il calore e l’impeto del dialogo non si rallenta mai; e finalmente perchè in tutti i comici incontri le persone non dicono cosa che piaccia se non per quell’accidente o per lo contrasto dei caratteri con quelle stesse circostanze. Chi legge le commedie dell’Ariosto, può inferire ch’egli le abbia tolte dal suo ingegno investigativo e dolcemente maligno; e che natura facendolo de’maggior poeti che mai ci fossero, gli abbia principalmente infuso lo intelletto di ravvisare e rilevare i caratteri, i vizi e il ridicolo della gente. E questo suo privilegio non è meno evidente nelle sue commedie che nelle satire, e nella parte comica dell’altro suo poema3 . » ◀Citazione/Motto

La commedia risurta in Italia se non aggiunse al satirico ardimento della greca, non [93] si tenne alla timidezza e alla discrezione della latina. Conciossiachè l’Ariosto faccia sentire delle sue punture non che ai potenti, ai magistrati, ai giudici ed agli avvocati, ma ancora ai monaci; la qual libertà satirica conoscesi eziandio nella Calandria del Bibbiena, ma di più forza nelle commedie del Machiavelli; io dico di quell’altissimo ingegno che avendo considerate le intime potenze e le più occulte giunture dell’ordine sociale, aguzzò l’occhio anche al vizio ed al ridicolo, che l’aspetto di quello in tante guise trasmutano, e diletto prese di renderne immagine nelle sue commedie. Il perchè alla lode di essere uno de’maggiori uomini di Stato accoppia egli il pregio d’esser uno de’migliori autori comici ai tempi moderni. Chè l’intrigo delle sue commedie è menato con molto artifizio, gl’incontri son nuovi e comici, schietto il dialogo, e caldo e spedito, e i caratteri mirabilmente veri. E ben si vede, leggendo le sue commedie, quella sommità dalla quale sì gran maestro riguardava e giudicava gli uomini ch’ei ritraeva tanto al vivo, e il disprezzo bassissimo di ogni falsità e ipocrisia da lui sotto meridiana luce dinudata. E in tre commedie con tanto ingegno assalì gl’ipocriti, che a poter inventare non lasciò cosa alcuna all’autor del Tartuffo.

Due commedie scrisse Ercole Bentivoglio da Ferrara di caratteri e d’intrigo, molto dilettevoli, e nominate il Geloso e il Fantasma. Fu pure chi all’Ariosto lo agguagliò per la leggiadria, per la natural forma ed agevolezza dello stile, non riguardando che può esser uomo di [94] molta vaglia, e non pertanto assai di lungi da questo scrittore incomparabile.

Per l’uno dei migliori e senza quistione il più copioso degli autori comici ch’ebbe il XVI secolo, fu Gian Maria Cecchi, fiorentino, il quale alla guisa di Plauto e di Terenzio cinque commedie compose, ma così francamente che paiono al tutto originali; conciofossechè l’arte di acconciar gli antichi argomenti ai tempi, ai luoghi ed agli usi moderni in lui si trovasse grandissima. Poi cinque altre sono da lui stesso inventate; e sarian buone per la riprension dei costumi, se fuor di modo non fosser licenziose: si dee credere che simigliante difetto abbia operato che altre sue quindici commedie siano rimase a giacer manoscritte. Di quel comico ingegno che al Cecchi non si può contendere, fu ricco ancora Francesco d’Ambra, pur fiorentino, che massimamente nelle commedie d’intrigo, le quali trionfavano a quel tempo, fu molto eccellente. Nel vero l’intrigo delle sue composizioni è vivo, è stretto, è ordito di più fili, che tessuti a bello studio, e naturalmente adoperati, fanno capo tutti quanti ad un solo. E oltre a questo, la forza del dialogo pareggia la invenzione e la tela della favola.

Similmente altri quattro Toscani che d’altre loro Opere ancora giusto ed alto grido ricolsero, e sono il Lasca, il Firenzuola, il Gelli e il Salviati, stanno bene nella schiera de’buoni comici autori di quel secolo. Ma il Grazzini, più noto sotto il nome del Lasca, si brigò di dare al teatro italiano gusto e costumi di sua [95] nazione, pigliando a gabbo i servili imitatori degli antichi. Sette furono le commedie ch’egli scrisse in prosa, e con meno intemperanza de’suoi coetanei; ma le migliori sono la Pinzochera, la Strega e la Spiritata. Il Firenzuola poi cavò da Plauto i suoi Lucidi e la Trinuzia; ma l’imitazion sua per la grand’arte con che seppe mutare i color locali, e quelli al costume vestire de’tempi suoi, ha tutto il sembiante di originale composizione. Oltre a ciò, nessun autor comico in leggiadria e natural piacevolezza di dialogo lo trapassa; il che si vuol dire altresì delle commedie del Gelli, intitolate l’Errore e la Sporta; non che di quelle del Salviati, il Granchio e la Spina.

Nè fra gli autori che ebbero ingegno veramente comico, si dee negar luogo a Nicolò Secchi da Brescia, componitore di quattro commedie, l’una delle quali, cioè l’Interesse, porse a Molière il tema e più scene della Stizza amorosa. Similmente fra le commedie che meglio riuscirono, sono ammirate quelle di Luigi Grotto, di Girolamo Parabosco, di G. B. Calderani da Vicenza, di Cristoforo Castelletti, di Sforza degli Oddi, di Cornelio Lanci da Urbino, di Bernardino Pino da Cagli, d’Angelo Ruzzante e di Andrea Calmo; i quali ultimi due furono i primi a corrompere di gerghi differenti le commedie. In fine abbiamo le commedie del famoso Pietro Aretino, le quali, rimosso ogni dubbio, sono da troppo meno che le buone altre di quel secolo, non che per eleganza e purezza di stile, e per regolarità di tessitura, ma per modestia eziandio, se non di materia, almeno [96] di locuzioni, rozze e plebee. Non sì però che a traverso di questi difetti non fosse nell’Aretino il vero ingegno drammatico, ed una originalità cosiffatta che nulla tiene dello spirito d’imitazione. Perciocchè esemplari greci nè latini egli non guarda, ma la sola natura umana con tutti i vizi e le turpezze della sua guasta età. Continuamente nelle sue commedie tocca di rimbalzo le circostanze locali, e senza troppo riguardo i vizi nota così dei grandi, come del vulgo, per siffatta maniera, che nessuno ha più fedel dipintura de’suoi tempi fatta, perchè nessuno così liberamente mai scrisse.

Abbondevole di componimenti drammatici non fu più del Cinquecento alcun secolo. Conciofossechè compagnie col nome di accademie allora si raccogliessero a dovere il teatro degli antichi rinnovellare, occupandosi chi era di loro non solamente a scrivere, ma bene ancora a rappresentare nei solenni tempi le lor favole. E primi a farsi eccellenti in simiglianti spettacoli furono i Rozzi da Siena, che, divenuti famosi e chiamati a Roma, vennero a dar diletto con loro rappresentazioni a quel sommo Pontefice che diede il suo nome a sì gran secolo. Appresso i Rozzi seguirono gl’Intronati della città medesima, i quali rappresentarono più commedie, che pubblicarono in una raccolta, più volte poi ristampata; e di queste le più belle sono l’Amor Costante d’Alessandro Piccolomini, gl’Inganni d’Adriano Politi, gli Scambii del Bulgarini e la Peregrina del Bargagli. Poi il numero delle commedie uniche, o che sono l’unico titolo dell’autor loro, è quasi [97] infinito. Qui ne menzioneremo una e altra di soli quegli scrittori che per altre loro Opere son celebrati. Benedetto Varchi, uomo di costumi gravi, s’avvisò di riprendere e correggere con una modesta commedia le tante inoneste favole del suo tempo, e scrisse la Suocera, a similitudine della Ecira di Terenzio; quella, dico, che dell’antico teatro è la più costumata commedia. La Flora del famoso Alamanni sicuramente è delle Opere sue la migliore, come quella che ha più scene assai comiche, un dialogo vivace e naturale, e lo stile sincero e corrente; salvo che a voler contraffare soverchiamente il giambo degli antichi, egli i versi ne fece di sedici sillabe e sdruccioli, i quali dispiacquero, perchè troppo remoti alla natura del verso italiano, quale a cosiffatte poesie si richiede. De’migliori scrittori che all’Italia mai provenissero, l’uno si fu Annibal Caro, il qual fece con la sua commedia degli Straccioni giudicar senza fallo, che siccome valse molto in ogni maniera di lettere alle quali diede opera, similmente nella drammatica egli sarebbe in alto pregio montato, chi considera come tutti i comici artifizi sono ingegnosamente impiegati in quella favola, e come essa è la più festevole di quel tempo, tuttochè si conti fra quelle ove con più passione e con più natura sono esercitati i sentimenti di amore. La Idropica del Guarini indegna non parrebbe dell’autor del Pastor Fido, se non fosse che troppo, siccome quella famosa pastorale, ella si distende. Ma farem fine a questa breve enumerazione con lo Aridosio, che lavoro fu di tale cui più la [98] politica storia, che la letteraria diè vanto; io dico di Lorenzino de’Medici, ucciditore del duca Alessandro. Imita questa favola gli Adelfi di Terenzio e la Mostellaria di Plauto, ma per modo che le scene originali dell’autore all’imitate non cedono; senza che la tela è bene ordita, e puro e leggiadro e facile lo stile.

Nè si tennero nel XVI secolo gl’Italiani alla sola rinnovazione della tragedia e della commedia; ma due generi drammatici, quali sono il dramma pastorale e il dramma lirico, ignoti eziandio agli antichi, inventarono. Forse che veggendo gli orrori delle scene tragiche, e la intemperanza e lo scostume delle commedie, cadde nella fantasia di qualche poeta di crear la favola pastorale per dipingere a rincontra i piaceri dell’innocenza nell’immaginata età dell’oro. Il primo che mise il dramma pastorale in una forma regolare, fu Agostino Beccari ferrarese, che scrisse il Sagrificio: nè guari andò che l’Aretusa di Alberto Lollio e lo Sfortunato di Agostino Argenti si mostrarono. E il Tasso veggendo rappresentare quest’ultima, il che avvenne nella sua età di ventitrè anni, divisò di fare l’Aminta, che poi fu la maggior Opera di tal genere. Ben è vero che in essa quantunque i costumi dei pastori siano fedelmente ritratti, pur sono di pastori eroici, quali fur dipinti per Longo ed Eliodoro, ma non di mandriani di Teocrito. Magico è lo stile, poetico sempre, e nondimeno semplice le più volte e naturale. Dilettevoli imitazioni di Anacreonte, di Teocrito, di Mosco e di Virgilio fuse insieme, smaltano tutto il poema con tal magistero, che lo [99] stesso artifizio se ne occulta. Oltre che, ben disegnati sono i caratteri, i pensieri delicatissimi, gli affetti più caldi e più veri, che non sono nelle altre Opere sue; chi dice, perchè egli de’suoi propri sentimenti parlava.

Il Guarini, come colui che non pur giungere, ma avanzare il Tasso agognava, pospose nel suo Pastor Fido la vera natura del dramma pastorale, ed un cotal misto produsse, cui di tragicommedia pastorale diè nome. Conciossiachè l’Aminta, in cui l’unità, l’accordo e un deciso carattere alberga, sia veramente un pastoral dramma; laddove di parti difformi ed aliene essendo il Pastor Fido composto, traslatando le corti alle capanne, e facendo agli attori suoi ragionar tanto e filosofare, che basterebbe se di scuola uscissero di rettorici e di sofisti, viene a riescire un mostro drammatico. Il perchè come dell’Aminta muove quasi a dire un olezzo di antichità che inebria l’altrui mente, così spesse volte il Pastor Fido gitta fortore di moderna vernice. Chi ben discerne, queste due favole pastorali non si possono con ugual prezzo stimare: se non che non è da contendere al Guarini fra tanti difetti una gran quantità di somme bellezze che non si lasciano da quelle del Tasso deprimere; e più ancora che la sua dipintura delle tenere passioni è maestrevole, con tutto che, per essere troppo, vivace e seduttrice, rende alla giovinezza la lettura del Pastor Fido pericolosa; nè quantunque il Guarini v’abbia un tesoro versato di oneste e filosofiche sentenze, attinge un fine morale.

[100] Molti seguaci ebbero il Tasso e il Guarini; ma le loro favole il più non hanno di siffatta poesia che il nome. Per le migliori sono reputate l’Alceo dell’Ongaro, la Diana Pietosa di Raffaele Borghini, l’Amoroso Sdegno del Bracciolini e la Filli di Sciro del Bonarelli.

Fu la poesia drammatica, tosto che risurse, accoppiata alla musica, che prima nelle tragedie, poscia nelle pastorali fu compagna dei cori, ed eziandio delle scene. Similmente si maritò nelle commedie ai prologhi e agl’intermedii, i quali in poco tempo diventarono intere azioni musicali. L’invenzione di ampliare questo genere, recandolo agli argomenti gravi e spaziosi, fu di Ottavio Rinuccini, che fu poeta così di buon giudicio, come di molto ingegno; e fece prima in musica mettere con canzonette e recitativi la sua Dafne, quindi l’Orfeo ed Euridice e l’Arianna, dando loro il titolo di tragedie per musica. In questo modo dall’origine del melodramma, ovvero opera, fu pensato non dover la lega della musica levare che il dramma lirico abbia lo stesso intento della tragedia, siccome in processo di tempo Apostolo Zeno e il Metastasio più visibilmente il mostrarono. Nel sedicesimo secolo ancora, ma verso la fine, uscì fuori la commedia in musica: nè alla invenzione di quella fu mestieri altra cosa, che un poco più dilatar gl’intermedii e frapporvi i recitativi. Opera buffa e non comica essa chiamasi, credo di certo, perchè molto per tempo tralignò. Ma il Gigli, il Goldoni, il Casti e più’altri hanno chiaramente provato il maritaggio della musica non torre via di necessità il buon [101] gusto, il buon senso e il moral fine alla commedia.

Tanto innanzi passarono nell’arte drammatica gl’Italiani nel sedicesimo secolo, che alla perfezione poco di lungi parean che fossero; se non che i rivolgimenti che provò Italia nel secolo seguente discader fecero il buon gusto e la gentile letteratura; ed a sentirne il danno fu primiero il teatro. Delle cagioni principali di quel discadimento l’una fu la sospettosa, inattiva e arbitraria signoria che n’ebbero i tre Filippi di Spagna, posseditori sovrani di quasi mezza Italia, ed oppressori del rimanente sotto spezie di farne guardia. E così come la potenza degli Spagnuoli vi penetrò, vi s’intromise ancora il gusto esagerato e romanzesco di quelli; nè stette guari che fu ricevuta nel teatro la vantata Arte Nuova del Vega, mistura di tutti i generi drammatici e violazion d’ogni regola. E questo è ciò che al presente si appella genere romantico, di che il Vega è tenuto in grande esemplare, non ostante che il biasimasse egli stesso, come vedremo in altra parte di questo Saggio.

Allora da cosiffatti mostri spagnuoli preser sembianza i componimenti drammatici sul teatro italiano. Le commedie stesse edificate a ritrarre i costumi, i vizi e le ridicolezze, furono corrotte per lo gusto romanzesco; di che fanno fede quelle di G. B. della Porta, di Nicola Amenta, di Gio. Briccio, di Francesco d’Isa, di Prospero Bonarelli e di Cola d’Ameno, riputate le migliori di questo secolo. Alla quale infezione la sola commedia rusticale, che allora [102] fu primieramente inventata, non fu sottoposta, per la ragione che essendo intesa a rilevare i caratteri contadineschi, e dipingere i costumi e le passioni di gente grossa e materiale, non potè da natura e verità dipartirsi; e la Tancia del minor Buonarotti, esemplare di tale genere, n’è buona testimonianza.

Or, secondo che si veniva guastando la commedia regolare, avanzavasi e si accampava in più teatri la commedia improvvisa detta dell’arte. Il quale spettacolo non solo fu ben noto al secolo precedente, ma si ha per fermo che tenne mai sempre stanza in Italia, e che gl’istrioni improvvisatori sono propaggine dei mimi antichi. Costoro, come tutti sanno, non iscrivevano i loro componimenti, seguivano nuove e strane usanze, e le più volte non avevano altri teatri che i palchi in su le piazze alzati. E se malgrado delle politiche mutazioni sono fin qui continuati, ciò incontra, perchè avendo proponimento di sollazzare il popolo, essi ne hanno sempre adottato il linguaggio e il gusto, anche quando erano guasti e corrotti. Quegli antichi scrittori che dei mimi ragionarono, molto bene e per punto descrissero la foggia e la maschera dell’Arlecchino, attor principale della commedia d’arte; gli altri, cioè il Dottor bolognese, il Pantalon veneziano, il Capitan napoletano ec., furono così ricevuti come i varii dialetti surgevano, e i differenti stati pigliavano usi, abitudini e ridicolezze particolari, in tal guisa che, per la gara e gelosia di quelli, diveniva l’opposizion dei costumi e dei caratteri più forte. È il vero che dalla commedia regolare colse [103] utilità quella d’arte, ed apprese più artificio e norma nei disegni e nelle tessiture. Il perchè in sul mezzo del sedicesimo secolo Flamminio Scala, grandissimo commediante improvvisatore, compose certi suoi bozzi, nei quali ritrovasi fecondità, ingegno ed anche inventiva, e li fece stampare come per uguagliarsi agli autori drammatici del suo tempo. E chi maravigliasi dei seguaci e dei successi ch’ebbe la commedia d’arte, riguardi come in simiglianti favole ciascun attore, rappresentando sempre una persona, ne ritraeva egregiamente il carattere, e come tutto il loro ufficio era il compiere scene che già in tessuti bene immaginati erano accennate, e come essi sovente eziandio della tradizion teatrale si provvedevano. Pur la commedia d’arte, quantunque per la natural semplicità e gaiezza del dialogo, e per la ridicolezza degli accidenti, e per lo giuoco vivo degli attori, fosse dilettevole, non doveva avere in sua dote la varietà dei caratteri e la sagace e profonda pittura delle passioni.

In questa età di general dicadimento eziandio la tragedia patì danno dal falso gusto; e tragici componimenti usciron fuori sì mostruosi, che di nominarli tragedie gli stessi autori si vergognarono. Non pertanto ebbe di molti poeti che le leggi osservarono dell’arte, e drammi composero con molta verità, quanto alla dipintura dei costumi e delle passioni; ma con poco giudizio, quanto allo stile, che talvolta è troppo esquisito, e talvolta troppo gonfiato, giusta il tempo che discorreva. Al seicento dunque le migliori tragedie furono l’Evandro del Bracciolini, [104] l’Erminia del Chiabrera, il Solimano di Prospero Bonarelli, la Cleopatra del cardinal Delfino, l’Aristodemo di Carlo Dottori e il Corradino d’Antonio Carriccio; parecchie delle quali tragedie si leggono nella raccolta pubblicata dal Maffei.

Ma nondimeno il corrotto gusto del diciassettesimo secolo, come che molto si distendesse, non fu tanto generale, che molti scrittori, massimamente toscani, non se ne sapesser guardare. E certo fiorirono allora gli eccellenti poeti Tassoni, Chiabrera, Maggi, Filicaia, Menzini, Zappi, Guidi, Manfredi; e l’esemplare della sagra eloquenza, io dico Segneri; e i famosi storici Davila, Bentivoglio, Pallavicini; e i filosofi e critici ed egregi scrittori ad un tempo, Galilei, Dati, Redi, Magalotti, Bartoli, Gravina e tanti altri. Poi in su la uscita di questo secolo si consigliarono letterati e dotti di mettere tutte le forze a rivocar gli scrittori allo studio e alla imitazione dei buoni esemplari così moderni come antichi; e a tal fine si accolse e formò l’Accademia degli Arcadi. Di che non fallirono gli effetti, tra perchè le scienze procedettero avanti, e perchè rifulse la francese letteratura che fiorente in quell’età mosse una bella gara di gloria.

Nè guari andò che, ristorato il buon gusto, si rimise ancora nell’arte drammatica, e condusse il famoso Gigli da Siena, scrittor puro e leggiadro, e di piacevolezza pieno e di sale, a scrivere la primiera commedia di costumi e di caratteri nel genere regolare, ove ne imitò varie del francese teatro, e specialmente la maggior [105] opera di Molière, cioè il Tartuffo, ma con tale industria che alle imitate cose si consuonano acconciamente quelle d’invenzione sua propria. Per simile modo pose acuto studio ne’miglior Comici francesi G. B. Fagiuoli fiorentino, prima che a tesser le sue commedie si traesse, le quali per la gaiezza popolare, per la gran verità nella pittura de’costumi, per la semplicità e schiettezza del parlare, non che per lo disegno ben pensato e per lo regolare andamento, avrebber gran pregio, sì veramente che in generale avesser tutta la forza comica che vi si richiede, e cui niente può supplire. Indi il rinominato Maffei, che s’avvisò di voler l’italico teatro riformare, senza tenere appresso servilmente ai Francesi, mise fuori primo la tragedia della Merope, e poscia la commedia delle Cerimonie, la quale, formata a imitazione di Molière, tutto che assai vaglia, pur non può, come la Merope, esser per esemplare proposta.

Similmente al Chiari, che per isciagura fu di abbondevole ingegno, venne talento di essere un correttor del teatro; e dieci libri di commedie compose, nè senza successo, a cagione della novità; ma scrittor triviale non ostante il suo studio, basso non ostante il tuono elevato, morale con seccaggine, egli è stato dalla oblivion tranghiottito. Quando ecco si levò il Goldoni, e la riformazione indarno per altri tentata menò a compimento. Il che non potea venir fatto, se non se ad un grandissimo pittore dell’umana natura, ed al miglior Comico del suo secolo e della sua nazione, rimosso [106] ogni dubbio. Qui non accade di raccontar gli ostacoli che nel suo alto cammino ognora gli si paravano davanti, e furono da tanto che ultimamente gli fecero quel paese stesso abbandonare, al quale egli procacciava gloria. Manifesta cosa è ch’egli molte fiate dovea compor le sue cose con incredibil prestezza, e che di cento venti sue composizioni ben un terzo sono poco meno che bozzi; salvo che risecandone queste tante imperfette, nessuno autor drammatico appresenta sì ricco e sì variato teatro. Conciofossechè il Goldoni avesse una inestimabile ubertà d’invenzione, onde attignea sempre argomenti nuovi di commedie; uno ingegno senza pari nel macchinar gl’intrighi e annodarli e disnodarli con verisimiglianza; un gran fuoco nel dialogo che sempre è vero, sempre animato, e sempre corrente al suo fine; una sua naturale ed inconsumabile vena di piacevolezza, con una compiuta conoscenza non che de’modi della sua nazione, ma eziandio del cuore umano. Per la qual cosa nessuno autore drammatico dipinse tanti e sì diversi caratteri al disegno della natura, come fece il Goldoni, che non contento di pennelleggiare co’più vivi colori i protagonisti delle sue favole, li cinge ancora ai attori subalterni, i quali avvegnachè siano di un carattere assai rilevato, pure in luogo di affogare, sollevano il principale. Tutto giorno si ravvisano, nel conversare, i costumi che il Goldoni ritrae; e i ragionamenti ch’egli assegna a’suoi interlocutori, ci vengono sentiti continuamente con chi noi usiamo. In somma è cosiffatta la sua illusion drammatica, ch’uom [107] s’avvisa in una vera azione, e non ad una rappresentazione trovarsi.

Che se i Francesi ebbero ragione di poter Molière appellare primo loro moral filosofo, possono ancora gl’Italiani così dinominare il Goldoni. Perciocchè conoscitore del cuore umano, rivelator delle passioni e delle disposizioni degli animi, e discernitor dei gradi di quelle, ancor non ci apparve maggior di lui. Egli non ad altro riguarda se non a censurare i vizi, i capricci e le ridicolezze, ma pone in azione la moralità, e se alcuna volta la induce in sermone, egli il fa con sì natural modo e sì compostamente, che non è mai fastidiosa, nè si oppone alla parte comica. Nè di rado avviene che il moral fine a cui si dirizza il Goldoni, e che sì bene ricuopre, si comprenda dal solo titolo delle sue favole, siccome è a dire l’Uomo prudente, la Moglie savia, la Fanciulla onorata, la Buona Moglie, il Vero Amico, il Tutore, il Cavaliere e la Dama, la Figlia obbediente, l’Avvocato, la Madre amorosa, ec. Molta fu del Goldoni l’arte di onorar la virtù senza fallire al fine della commedia, che è quello di dilettare ammaestrando; e però nessuno esce di vedere una sua commedia senza aver appreso ad emendare e a migliorare se stesso.

Mentre che il Goldoni sudava a ristorare il teatro comico formando gli esemplari della vera commedia, Carlo Gozzi gli attraversava la strada con favole del tutto fantastiche o piene d’incanti, alle quali il mirabile e la pompa dello spettacolo acquistarono un plauso popolare, ed indi con [108] romanzesche composizioni, in cui l’interesse del romanzo fu da lui sostituito al maraviglioso. Molto ingegno e molta immaginazione egli ebbe nel far queste opere drammatiche; ma l’incontro teatrale durò poco tempo. Citazione/Motto► « Perchè, dice un apprezzato critico, quelle non si confanno allo spirito italiano, e piuttosto hanno faccia di essere uscite di penna tedesca; e di ciò fa prova la infatuata accoglienza che lor fu fatta in Germania, ove furono ristampate e volgarizzate, ed ove solamente è viva e chiara la fama del Gozzi4 . » ◀Citazione/Motto

Alle pedate del Goldoni s’avviò l’Albergati, che con molte Opere, e singularmente col Ciarlatore maldicente, per la verità dei caratteri e per la vivezza del dialogo si mostrò degno di quell’alto maestro. Oltre a questo, ne’suoi scritti regna una leggiadria dei modi della buona conversazione, non che il pregio della lingua. Più delle sue piccole commedie, in cui dimora maggior gaiezza, si tien conto che delle grandi. L’Albergati corse pure con lode la via del dramma, ovvero della commedia di sentimento; e il suo Prigioniero, in cui vuol dimostrare l’abuso dell’autorità paterna, fu coronato dall’Accademia di Parma.

Alcun tempo il genere delle commedie di sentimento, o, voglio dire, miste, seguitando le tracce delle commedie lagrimevoli usate al teatro francese, o delle tragedie cittadinesche ricevute dagl’Inglesi e dai Tedeschi, ha signoreggiato la italica scena. E chi prima vi si fece [109] onore, fu Camillo Federici da Torino, che imitò talora e molte fiate somiglia il tedesco Kotzebue, famoso drammatico. Acconciamente sono conserti il più gl’intrighi suoi, non che pel bene ordinato andamento, e per belli e piacevoli incontri e per forza di sentimenti egli sostien l’azione. Dall’altra parte la verità dei caratteri, la vivacità e la naturalezza del dialogo spesso non vi si sente, come si converrebbe. La moralità vi alberga, ma non di tanta forza, quanta se men palese fosse, ne avrebbe. Le migliori Opere del Federici son reputate i Falsi Galantuomini, i Pregiudizi dei paesi piccoli, la Elvira de Vitry, ovvero il Cappello parlante. Vero è che conducitore di una comica compagnia, e componitore al servigio di quella, il Federici troppo rapidamente scrisse le sue favole.

Maggior ingegno e minor dottrina che il Federici ebbe Francesco Avelloni; se non che quando pon la scena fuor di quello che egli vide co’suoi occhi, non indovina il vero nella dipintura dei costumi e dei caratteri, che altrimenti sa egli ben ritrarre. Ha vivo e naturale il dialogo, ed impiega ingegnosamente la piacevolezza comica, là dove il tema non la rifiuti. Pare che lo Avelloni avesse tolto a seguire il francese Beaumarchais, brigandosi, a modo di quello, di sollazzar gli spettatori col notar gli abusi dell’ordine stabilito delle cose. Nel Cianni della sua Lanterna magica spesso si ravvisa il Figaro di Beaumarchais: ma la commedia del Mal genio e buon cuore e quella dell’Omicida per punto d’onore ebbero nel teatro assai lode, e fu a buon diritto.

[110] Molte delle commedie di sentimento e dei drammi che sono stati nell’italico teatro prodotti, furono tolti dai romanzi francesi, inglesi e tedeschi: e perciocchè il genere non è malagevole, Antonio Sografi e il cavaliere Greppi n’acquistarono fama; ed alletterà sempre il Werther del primo, e piacerà sempre la Teresa e Claudio del secondo. E per simile la gente, cui molto cale d’esser commossa, e nulla delle vie che vi si tengono, fia sempre graziosa e favorevole alle romanzesche commedie del Villi, del Gualzetti ed eziandio del Gamerra. Ma il sano giudizio vitupera queste mostruose composizioni, e commenda quegli autori che con effetto men popolare, ma con più discreto ingegno alla commedia di costume e di carattere danno opera; siccome fecero e fanno il Sografi, Gherardo de Rossi, il conte Giraud e il Nota. Del primo, morto poco tempo è, sono molte favole, e singolarmente quella di Olivo e Pasquale, che di stare a lato delle migliori di Goldoni non sarebbe indegna, da che ben figurati i caratteri e ben contrapposti sono, e gli accidenti assai comici, e il dialogo eccitato e naturale e gaio, e la moralità in azione, non altrimenti che alle cose drammatiche sia richiesto. Nelle commedie di Gio. Gherardo de Rossi romano la pittura dei costumi e dei caratteri della sua gente è ben fedele; conciossiachè avendo i capricci e il ridicolo degli uomini ben compresi, egli ha scritto come uom di sperienza e insieme di buon gusto. Connette egli le sue commedie d’incontri assai comici, e di avvenimenti improvvisi, ma naturali. La [111] miglior di quelle si è le Lagrime della Vedova. Per lo cammino della vera commedia si è messo pure, e con molto onore n’è riuscito il conte Giraud, similmente romano, le cui favole e segnatamente l’Aio nell’imbarazzo, ch’è la più da ridere, sono per li comici incontri e per la vivezza del dialogo lodevoli. Nè gli è punto ignota l’arte della compassione, e il suo Priore di Cerretto, pien di ridicoli accidenti e dei sentimenti più delicati, ne fa fede. Forse che il conte Giraud a pubblicare il suo teatro si è troppo affrettato; ma non ha egli già fornita la sua drammatica via, nè fia senza ragione l’aspettarne commedie più degne eziandio delle composte. Il Nota è giovane ancora, ed è stato così commendato dagli spettatori che dai leggitori intendenti. Da che nelle sue commedie il concetto disegno e lo spedito corso è di grande artificio, i caratteri ben sostenuti, e il dialogo puro, vivace e naturale; salvo se esse non fossero anzi seriose che no, quantunque eccitino curiosità ed interesse.

Questi furono i passi onde nel diciottesimo secolo la commedia italica s’innoltrò. Voltaire, quantunque gelosia lo stringesse per la gloria ch’egli al teatro francese avea cresciuta, dovette affermare che gl’Italiani tostochè abbiano un teatro regolare, sormonteranno le altre nazioni nell’arte drammatica. Ma sciagura si è che la Italia, ove sono tuttavia più metropoli e più corti, non possiede ancora questo regolar teatro. Per la qual cosa le prime opere di quest’arte sono in balía di vagabondi istrioni, che sovente ai drammi più irregolari e mostruosi [112] le accompagnano. Anzi ogni spesa ed ogni studio agli spettacoli in musica è impiegato, come se lo spettacol più utile, e da dover piacere a civile e illuminata nazione, non fosse la commedia e la tragedia.

Con tutto che manchi un regolar teatro, la tragedia è tanto oltre venuta nel XVIII secolo, che la meta di perfezione, a cui la condussero i Francesi e gl’Inglesi, ha oggimai toccata. Chi primiero s’avvisò di riformar la tragedia, fu Pier Iacopo Martello bolognese, che dietro ai Francesi, e specialmente a Corneille, inviatosi, credette che per simigliarli bisognasse abbracciare un verso che la forma dell’alessandrino francese contraffacesse. Il qual metro, dal suo nome detto Martelliano, s’acconcia via meno allo stil tragico, che il verso sciolto, di cui Voltaire portava invidia agli Italiani. Or le tragedie migliori del Martello furono la Perselide, l’Ifigenia in Tauride e l’Alceste; e se non fosse che il metro Martelliano le danneggia, più se ne apprezzerebbero le molte e grandi bellezze e la perizia dell’arte drammatica. Alla riformazion del teatro pose mano altresì l’inclito Gravina, e compilò della tragedia un eccellente trattato; ma volle ai precetti giunger l’esempio, nè vi fu mai prova tanto perduta. Pure la poesia drammatica è tenuta al Gravina d’aver formato il buon gusto ed eccitato l’ingegno dell’immortal Metastasio.

Ma Scipione Maffei, che fu di grande e vero ingegno, non cercò da schiavo le orme dei francesi Tragedi; e solo del loro esempio, come di quello de’Greci, traendo frutto, si pensò [113] di comporre tale un esemplare della tragedia, quale egli l’aveva concepito. Onde la sua Merope, che vide la luce nel 1713, fu di tanto effetto, che nessuna favola di teatro l’agguagliava in Italia, e ne suonò fama per tutta Europa. Citazione/Motto► « La Merope, disse Voltaire, è una tragedia degna de miglior tempi di Atene. » ◀Citazione/Motto Volle dimostrare il Maffei potersi tessere una tragedia senza amore, e rimuoversi dal gusto romanzesco che troppe volte occupa il teatro francese; nè gli venne fallito. Due grand’uomini d’ingegno, Voltaire e l’Alfieri, trattarono questo tema sopra modo compassionevole e teatrale, nè al Maffei fu tolto il suo primo lauro. E se questi non ha tutta l’arte del Voltaire, e se il suo stil semplice e nudo torna una e altra fiata troppo famigliare, ciò non impedisce che una dovizia di bellezze poco meno che antiche, e da soverchiar tutti altri pregi, lo dotino. Ed ove alcuna cosa biasimare al Maffei si volesse, gli è l’ambizione d’universale ingegno che adoperare e toccar più oltre la tragica musa gl’interdisse. Che grandi cose non doveano aspettarsi da tale che per un saggio seppe un esemplar perfetto formare?

L’esempio e la gloria del Maffei a più poeti fece invidia; ed indi a poco venner fuori il Bruto, la Virginia e il Seiano di Saverio Pansuti, che fedelmente e con rigore dipinse i carratteri; vennero il Crispo e la Polissena di Annibale Marchesi, che n’avria guadagnato suo luogo fra i buoni Tragedi se non avesse troppe volte i Francesi seguíti; vennero la Democide di G. B. Recanati e la Didone di Gian Pietro [114] Zanotti, ambedue per la dipintura delle passioni e per la bellezza dello stile apprezzati molto; venne l’Ulisse il Giovane di Domenico Lazzarini, la cui tragedia fia da commendar per lo stile, ma producendo una innocente vittima del fato, riesce stomachevole più che attrattiva. E questo è prova che in simiglianti temi non può dimorare un fine morale, e che se i moderni li fuggissero, farebber senno. Avvenne ancora che Antonio Conti, il quale fu pure filosofo e poeta, abbattutosi alla rappresentazione di una tragedia di Shakespeare, invaghì della tragica musa, e compose quattro tragedie, che furono il Giulio Cesare, il Giunio Bruto, il Marco Bruto e il Druso; le quali avvegnachè nel teatro non siano di molto effetto, pure sono ben ordinate, e la verità dei caratteri e il moral fine compiutamente conseguono.

Mentre che la tragedia avanzavasi, non si rimase indietro la poesia melodrammatica, cui diede miglior forma Silvio Stampiglia, l’uno dei fondatori di Arcadia, ristorando al lirico stile il buon gusto, ed accostando alla tragedia il dramma con la scelta dei soggetti storici. Fu poeta Cesareo, e prima nello ufficio suo gli fu sostituto e poi successore il celebrato Apostolo Zeno. Questi, come uomo che accorgimento di critica ad ingegno di poeta congiungeva, fornì di riformare il lirico dramma, la cui perfezione al Metastasio era serbata. Nei greci Tragedi avea lo Zeno speso suo studio, ma via più nel seguire i Francesi, e delle ricchezze loro s’accomodò. Egli è maggior del [115] Metastasio in fatto d’invenzione, e non gli è minore per altezza di sentimenti, per fedeltà di caratteri e per eccellenza di moralità. Preciso e gagliardo è il suo stile, e non pute de’corrotti modi che ancora infestavano l’età sua. Ma l’armonia, la eleganza e i bei colori onde il Metastasio divenne il più compiuto esemplare del lirico stile, non si sentono nei drammi dello Zeno. I migliori sono l’Ifigenia, il Papirio, la Sirita e Nitocri.

Certo fra que’pochi e sommi poeti che di splendore empieron la Italia, si dee sedere il Metastasio, il quale è per eccellenza il poeta del cuore. E chi dei moderni ebbe mai tanto ingegno di risvegliar la pietà nelle cose compassionevoli? Chi tanto incantesimo di lingua, e chi solo collo stile con più grazia dipinge, e con più armonia ricerca l’orecchio? Chi tanto arredo di opere, le quali altamente nella memoria di un popolo intero si scolpiscono? A voler poi ne’suoi drammi riguardare il fine morale cui solo ne ristringe il presente Saggio, si discerne esser quello così determinato, come efficace; e si pare nella scelta degli argomenti, nella pittura dei caratteri e nelle sentenze e nei principii di moralità sempre ad un modo. Oltre a ciò, non recò mai sulle scene il Metastasio quegli esecrabili fatti e atroci che raccapricciano la natura, e travagliano la compassione; ma di quelli si provvide che gli parvero acconci ad istillar sensi di umanità, e quella cotal bontà di tutti i tempi e di tutte le condizioni, la qual più che niuna altra virtù partorisce il bene delle famiglie e di tutta la società. [116] Porge ogni suo dramma una scuola in pratica dei doveri di maggior momento: perocchè il Demofoonte, la Issipile e la Ipermestra sono lo specchio del coniugale amore e della pietà filiale; l’Olimpiade è la favola della fedele amicizia; il Demetrio addita come alla vera gloria si dee posporre l’amore; il Catone in Utica, il Regolo e il Temistocle accendono amor della patria; la Zenobia dimostra i doveri di una regina, siccome il Tito, le virtù di un buon sovrano.

Nei caratteri per Metastasio dedotti dalla storia, come quelli formati dalla sua immaginazione, si accoglie quanto ha la umana natura di più bello, di più grande, di più interessante. Pare che il poeta, in conforto de’miseri mortali, ne faccia veder la dipintura delle loro cose più eccellenti, e la immagine della perfezione di cui sono capaci. Il perchè gli attori del Metastasio inebbriano gli animi d’una soave e nobile virtù, per la quale non pur dee l’uomo onorarli, ma ancora innamorarsi di seguire i lor fatti e d’imitare le virtuose lor gesta. Anzi è sì graziosa e sì amabile la virtù loro, che eziandio fra quelle disavventure vorremmo preporre le loro tribulazioni alla felicità dei loro persecutori.

Ma quantunque i soggetti e i caratteri dal Metastasio figurati abbiano un fine morale tanto espresso ed evidente, non è men manifesto nelle sentenze di che ingemma le sue favole il moralista poeta. Da che nessuno mai ne fece copia maggiore, come che esse spontanee, naturali e brevi siano in tal forma, che non è [117] alcuna la quale abbia sembianti di non si trovare in suo proprio luogo. Sempre dalle circostanze e dalla passione sono esse attinte, non mica trascinate a forza, ed a far mostra di sapere e d’ingegno. Moltissime di cosiffatte sentenze suonano in bocca di tutta gente, ed alle menti eziandio di maggior senno piene da se stesse si appiccano. Per certo null’altro poeta drammatico, tranne Euripide, ha tanto favellato il sermone della filosofia quanto il favellò il Metastasio, che, morale non meno che il poeta greco, scrisse con più arte e con più verità di quello.

È chi di avere infemminito il cuore, e vilificata la scena con la troppo viva dipintura dell’amore e della seduzione, riprende il Metastasio, senza por mente a questo, che il più universale, il più attivo e il più dolce degli affetti umani è amore, e che il poeta morale perviene alla perfezione dell’arte, se gli riesce di purificare questa passione, e dell’onore e della virtù renderla famigliare e sorella. Or chi meglio del Metastasio aggiunse a questa nobil meta? A chi venne mai fatto di sublimare questi dolci sentimenti dell’anima fino alla sommità della virtù? E non che amare senza rossore, come fanno quegli eroi, ma chi potrebbe di tale amore, che tanta magnanimità, tante belle opere detta, temere sconcio? Chè il Metastasio, laddove il soggetto alla grandezza d’eroe non gli consenta di accompagnare l’amore, non lascia per questo di renderlo amico della innocenza e della virtù.

[118] Molti imitatori ebbe il Metastasio, e il Calzabigi è fra loro il più notabile: se non che il dramma lirico dopo quel gran poeta diventò cosa o più malagevole, o meno perfetta, a cagione della musica, la quale impedisce che tali poemi siano così conserti e sviluppati, come a voler piacere e allettare si converrebbe. Non è chi non sappia i drammi del Metastasio non essere da gran tempo riposti sul teatro se non monchi, e di diletto e di forza spogliati.

La tragedia non trovando ostacoli per gire innanzi, come trovò il lirico dramma, s’avvantaggiò tanto, che la mercè dell’Alfieri, alto salito fra i primi Tragedi, aggiunse a perfezione. Precorsero al celebre Astigiano alcuni valenti poeti; e Gasparo Gozzi, scrittor de’più chiari del secolo decimottavo, e non di un genere solo, scrisse tre tragedie, e sono la Elettra, la Medea e l’Edipo, nelle quali seguitò certo i Greci, ma non altrimenti che ad un grande ingegno si richiedesse. Similmente, per andare a talento a’suoi cittadini, compose più drammi storici, e gli appellò rappresentazioni; le quali tutto che a gusto classico non si confacciano, pure allettano, e sono belle di stile, che nelle Opere del Gozzi risplende sempre. Ingegno tragico fu dato ancora ad Alfonso da Varano, e sventura è stata che tre sole tragedie, il Giovanni di Giscala, il Demetrio e l’Agnese martire del Giappone, egli abbia scritto. Nelle quali, oltre all’andamento regolare, alla forza e brevità del dialogo e all’altezza dei sentimenti, si ammirano i costumi bene osservati, i caratteri [119] costanti e rilevati, non che forte e nobile e del tutto tragico lo stile; salvo che l’allettamento non è vivo appieno, e però forse a leggere più che a rappresentare esse piaceranno. Singolar luogo ancora fra gli italiani Tragedi tiene il Gesuita Granelli, quantunque le sue tragedie si convengano solo ad un collegio. Non però che egli non avesse potuto farsi oltre fino alla prima schiera, pogniamo che alle cose teatrali avesse inteso con più studio, nè i riguardi che alla sua condizion dovea glielo avessero interdetto. Ma grande nell’arte lo dimostrano il Sedecia, il Manasse, il Dione e il Sella per l’original novità che ha loro impressa, per l’arcana conoscenza del cuore umano, per lo pregio della orditura e d’una stil magnifico e vigoroso e conveniente al coturno. Al Granelli non mancò l’emulo, qual fu il suo collega Bettinelli, che, quantunque da meno di lui, scrisse apprezzate tragedie, il Gionata, il Demetrio Poliorceto, il Serse; e gli gravava che nei drammi alla gioventù destinati dovessero le donne aver bando dal teatro; e rammaricavasi che fosse scandalo e colpa una madre, una sposa, una sorella, e molto più le amanti eziandio le più costumate e più savie, rimovendosi per tal modo la natural fonte degli affetti umani più dilicati.

Mentre che gloriosamente operavano questi poeti, un’avveduta Corte sentì la forza che sovra i costumi d’una nazione esercitar può il teatro, e si avvisò di bandir premio ogni anno a chi meglio facesse un componimento tragico, o comico, e di fondare un regolar teatro, in che buoni attori, e sufficienti a rappresentar [120] le migliori opere, si potessero ammaestrare. Ma questo egregio divisamente della Corte di Parma non perseverò tutto il tempo che a dovere agguagliare le speranze si richiedeva. È il vero che da ciò si ebbero più drammatiche opere, le quali, come che ad eccellenza non salgano, pur sono da commendare per la trama e per lo stile. Delle cosiffatte sono la Zelinda del conte Orazio Calini, il Valsei del Perabò, il Corrado e la Rossana del Magnacavalli, l’Auge del Trenta, il Prigioniere dell’Albergati. Altri poeti ancora furono stimolati dalla gara; e se ne vide l’Achille del Savioli, il Giulio Sabino del Bevilacqua, il Valdomiro e la Bibli del Campi; e nota che quest’ultima si vuole fra le più buone tragedie del XVIII secolo annoverare.

Sprone dell’esempio altrui non fu mestieri all’immortale Alfieri, che, forzato dalle sospinte del suo proprio ingegno, giunse ad essere il poeta della libertà. Politico è il fine di tutte e sue tragedie: la facondia, l’ardore, la impetuosità di quelle prorompono dal sentimento che tutto lo scrittor commovea, e con tutta l’anima lo facea scrivere. Il perchè non fu detto male, che eziandio se non si dovessero appellar belle tragedie, di necessità sarebbe da ammirar quelle come bellissime azioni. Ricolse in uno l’Alfieri la grandezza dei caratteri e degli accidenti, l’altezza dei sentimenti e degli affetti, e la verisimiglianza e la semplicità e l’unità del disegno. Nè perchè fra i Tragedi del primo grado sia egli il più recente, è tuttavia meno originale. Che se ad alcuno esemplare egli drizzò [121] l’occhio, quello furono i Greci, e singolarmente Sofocle più perfetto di tutti gli altri. Perciocchè semplice è sempre la loro tragedia, non troppo involta e di agevole andare. Senza sforzo alcuno si apparecchia, si annoda e si disviluppa l’azione: e facendo vista che l’arte vi faccia il meno di tutto, indi avviene che è la più grande opera dell’arte e dell’ingegno. L’Alfieri dunque, invidioso de’Greci, si fece coscienza della drammatica unità, chiamando ad una sola azione, ad un interesse solo il teatro; nè strane giunte vi fece, nè vuoto alcuno vi lasciò. Tutte le parti secondarie, siccome que’confidenti fuor di luogo, sono andati in esilio dal suo teatro, e le sue tragedie a quattro o cinque interlocutori egualmente essenziali ristrinse. S’impose l’Alfieri una legge di porre con un dialogo vivo ed animato l’esposizione in azione, ed in vece di narrazioni, discuoprire agli occhi degli spettatori la catastrofe tanto quanto le convenienze gliel comportano.

Coteste son le regole che sì rigide come nuove a sè l’Alfieri prescrisse. Sempre d’alto affare e di gran cagione sono i temi che imprende: ed è da por mente a questo, che quantunque volesse egli essere inventore ed originale, più volte si mise in argomenti che altri poeti avean trattati, e con laude. A voler le tragedie dell’Alfieri considerar per rispetto ai caratteri, alle passioni ed allo stile, i primi sono con verità profondamente rilevati; e chi discerne, si meraviglia della varietà loro e dell’abbondanza. Quanto agli affetti, nessun poeta ne fu mai più violento eccitatore, perchè nessuno mai seppe [122] parlare il liguaggio di quelli con più vigore, con più impeto e con più fuoco. Le profonde e terribili e feroci passioni il più signoreggiano presso lui: nè pertanto di meno, là dove l’argomento il conceda, egli sa destare i soavi e pietosi sentimenti; e secondo che abbisogna, rapisce, infiamma, commuove, intenerisce la gente. Lo stil dell’Alfieri è sua propria cosa, non epico nè lirico mai; salvo se quel color poetico della tragedia, la quale è un poema, e non mica una ignuda imitazione della natura, non gli fallisse. Ma tuttavia gli è tanto semplice, naturale, preciso, rapido e dignitoso insieme e passionato e facondo e pien di concetti, che d’altre doti non ha mestieri. Forse che all’Alfieri si potrebbe acconciare quel che di Lucano disse Quintiliano; cioè, che men poeta che orator fosse; la qual riprensione si potea dirizzare ad un poeta epico, e non di certo ad un tragico, almeno fino allo stesso segno.

Furono critici che, disamando i principii e le opinioni dell’Alfieri, si fecero a dire non aver le tragedie di lui verun fine morale. Chi sa render le cause di così fatta censura? Schedoni nella sua Lettera sopra le tragedie dell’Alfieri risponde Citazione/Motto► « che nella lotta fra i gran delitti e le grandi virtù mostra la calamità dei virtuosi; che in tal guisa non muove terrore, ma coraggio a chi pensi di imitare i malvagi, e non fortezza, ma spavento a chi brami di combatterli. » ◀Citazione/Motto A quel che pare, non sovvenne al predetto critico delle due strade per onde la tragedia egualmente aggiunge al suo fine morale, cioè facendo ai buoni opprimere i tristi, e per [123] converso. Per la prima via negli spettatori accende amore della virtù, e fa loro argomento che rade volte è fortunato il maleficio: per la seconda sveglia odio ed orror dei malvagi, e compassion dei virtuosi che a torto sono soverchiati da quelli. Or quest’ultima via non falla che non fia più efficace, come quella che più altamente percuote l’animo. Dall’altra parte non è mica vero che alla virtù si scemi coraggio per la vittoria dei malfattori. A chi non sarà più a grado essere Zopiro che Maometto? Chi non torrebbe anzi patir la disavventura di Britannico che simigliar a Nerone? Tale si è il moral fine della tragedia, quale della storia. Che se questa è utile, ciò non incontra solamente perchè fa pervenire ai tempi futuri la gloria e la virtù di coloro i quali fecero onore e bene all’umanità; ma principalmente perch’essa cita davanti al suo tribunale coloro che flagellarono le nazioni, quantunque non ne portasser pena, e perchè li condanna ad una immortalità vituperevole.

Quello che suole avvenire a tutti gl’ingegni i quali imprendono nuovo cammino, avvenne all’Alfieri. Da prima fu segno agli strali di mille ingiuste censure, e poscia esemplare divenne d’imitatori senza numero. Primo e maggior di tutti questi è Vincenzo Monti, il più celebrato de’nostri poeti viventi. Nello Aristodemo, che è una delle più compassionevoli tragedie del teatro italiano, si sente la scuola dell’Alfieri alla nobiltà dei caratteri, alla gagliardia de’sentimenti, alla semplicità dell’azione, al difetto di ogni esterna pompa, ed allo allettamento che senza amor vi persevera; ma non che altresì lo ingegno [124] particolar del Monti non vi riluca per l’armonia, per l’eleganza, per la favella poetica, la quale giunge al piacer dell’intelletto sempre il ricreamento dell’orecchio. La dipintura dei rimordimenti di un’ambizione appagata dal sagrificio degli affetti di natura è il fine morale di questa tragedia. E nota che quando alcun disse solamente Shakespeare aver saputo le angosce dei rimorsi eziandio lungi dalla paura del gastigo appresentare, l’Aristodemo del Monti, come osserva bene un critico inglese, ancor non vedea luce. Nel Galeotto Manfredi, altra tragedia di questo gran poeta, è la dipintura degli orribili effetti della gelosia, e, come nella primiera, la forza regna dei caratteri e la eloquenza delle passioni. La terza ed ultima tragedia del Monti, il Caio Gracco, è forse superiore alle altre. I romani caratteri sono rappresentati con tal dignità, forza e verità, che l’autore vedesi avere non già tolto in prestito tai cose dai latini istorici, ma tratto dal proprio fondo. Non è stata mai fatta una più bella difesa dei protettori della romana libertà contro gli attentati dell’Aristocrazia, nè in un modo cotanto affettuoso ed eloquente; ed il celebre Tragico francese Chenier, che trattò lo stesso argomento, deve cedere la palma all’illustre italiano. Sono degne di plauso anche le tragedie di Ugo Foscolo, il quale seguì le tracce dell’Alfieri. Ma non andò per la via dell’Astigiano il marchese Giovanni Pindemonte, che contro le regole di quel maestro, il quale si faticò di render semplice la tragedia, si studiò a suo potere di adornarla di tutto ciò che più forte possa ferir [125] gl’animi e gli occhi; e come quegli che sa ben l’effetto teatrale, empie le scene e le avviva, e per via di spettacolo sorprende e vince l’altrui immaginazione. Nel linguaggio dei teneri sentimenti suole egli molta anima e verità diffondere. Ma perciocchè lo stile del Pindemonte le più volte non è limato e corretto, nè poetico appieno, accade che la lettura delle sue Opere tragiche non ha quello che le sue scene hanno. I Baccanali, il Salto di Leucade, la Ginevra di Scozia, i Coloni di Candia sono le sue migliori tragedie quasi tutte inventate da lui, facendo prova di avere uno ingegno che crea.

Del conte Alessandro Pepoli, tuttochè trapassato nel mezzo di sua giovinezza, sono rimasi cinque volumi di tragedie, e ne sono le più buone l’Eduigi, il Sepolcro della Libertà e l’Irene, nelle quali si è travagliato di seguir l’Alfieri, non sullo andamento delle sue composizioni, ma sulla facondia e brevità del dialogo. Ancora fra gl’imitatori dell’Alfieri si discerne G. B. Nicolini di Firenze, la cui Polissena con la semplicità dell’andamento, con la grandezza dei caratteri, col vigor dello stile porta altresì concetti e sentimenti alti e pieni di robustezza. Farem fine a queste notizie dei tragici autori col nome d’Ippolito Pindemonte, poeta vivente dei più buoni, di cui vanno attorno l’Ulisse e l’Arminio, due tragedie assai pregiate, la prima delle quali è fatica di uno imitator dei Greci molto franco, e la seconda fa vedere un alto animo che a pennelleggiare con dignità un gran carattere ha messe le sue forze.

[126] Ora si vuol far menzione dei poeti che hanno rilevati i costumi e spiegate le dottrine di moralità tanto nei poemi contenenti finzione, quanto nei sermoni e nelle satire e nelle pistole e nelle favole versificate. Succedette bene agl’Italiani di aver coltivato il genere eroicomico; anzi tutto che si tenga questo dai Greci, pure ne attribuirono l’invenzione a se stessi, e lunga quistione fecero, se dal Tassoni o dal Bracciolini dovesser quella conoscere. Ma del vero esemplare provvide nella più parte del suo poema l’Ariosto, cui nessuno ancora potè pareggiare. Conciossiachè egli natural sempre, lontano dall’esagerare, lasciò stare quel mescolamento di serioso e di burlevole che qualifica il Tassoni, e che da prima sorprende il lettore, ed al fin gli dispiace. Che se la Secchia Rapita si pone fra i buoni poemi italici, ciò procede singolarmente dal pregio dello stile; riguardando che le sue finzioni son più strane che ingegnose, nè vi sono caratteri, nè interesse, nè eziandio fine morale. Anzi ha torto qualche critico che pone avere il Tassoni avuto proponimento di biasimar le guerre tra gl’Italiani, ond’erano fatti schiavi de’forestieri; dachè siffatta intenzione, la quale senza fallo è da commendare, non apparisce così chiaramente. Ancor più bizzarra invenzione è lo Scherno degli Dei del Bracciolini, il qual conduce sulle montagne della Toscana gli Dei del Paganesimo, e per recarli ad un fatto ridicolo gli accampa e rauna con villani e lavoratori. Per così fatte invenzioni il Bracciolini mena orgoglio di aver porta mano al trionfo della vera religione e della sana [127] moralità sopra gli antichi errori. Che s’egli talvolta non sorvolasse più alto della qualità di questo mal genere, e non ispiegasse tratti di buona poesia sparsi di diletto e di ornamenti, il suo poema, già poco letto, sarebbe al tutto dimenticato.

Ancora del secolo XVII sono commendati due poemi eroicomici, che sono il Malmantile Racquistato di Lorenzo Lippi, e il Torracchione desolato di Bartolomeo Corsini; se non che l’uno e l’altro, e vie più il primo, hanno tanti riboboli e idiotismi toscani; che gente della stessa nazione la quale sia men che usata a quel volgare di proverbi, malagevolmente gl’intende. Gran poesia, nè pittura di caratteri e di costumi, la quale, ad una faticosa lettura metta compenso, non vi abbonda. Per lo contrario poche Opere poetiche con tanto diletto si leggono, quanto ne porge il Ricciardetto di Nicolò Fortiguerra, reputato l’estremo dei poemi romanzeschi; se non che colle strane finzioni, e col ridicolo che vi signoreggiano, vi si fa la censura di quelli. Certo il Fortiguerra per ingegno e piacevolezza non è da meno che i suoi predecessori: conciossiachè il suo poema contenga una viva ed artificiosa satira dei costumi e dei caratteri, nè perdoni ad alcuna condizione degli uomini. Piano e sempre corrente è il suo stile, e spesse fiate splendido e magnifico; e quantunque alcuna volta paia negletto, nondimeno i vezzi della sua negligenza glie ne impetrano grazia.

Gian Carlo Passeroni, poeta molto originale, se di buon gusto fosse stato, potea forse seder [128] tra i primi. Ma per isciagura no si sa a qual genere si debba il suo poema, intitolato Cicerone, attribuire. Perciocchè promette egli di recitarci la vita e i casi di questo grand’uomo; ma poi trentatrè canti non bastano a farlo uscir di fanciullo. Cercare in quel poema invenzione di favole, regolarità di orditura e legamento di parti, sarebbe perduta opera; dachè è una composizione irregolare, comechè proponga il poeta di ammaestrare altrui dilettando. Vi biasima i vizi degli uomini, batte le male usanze che nella società regnano, e per tutto semina dettati di sapienza e di moralità che ben possono formare l’uom virtuoso e il buon cittadino. È il vero che il Passeroni conosce il cuore umano altamente, ed ha ingegno sottile, e fertile e ricca e scelta dottrina. Oltre a questo, lo stil suo è naturale ed agevole, pien di sale e di gaiezza; salvo che talora è negletto, il qual difetto con le lunghissime digressioni e la disordinata forma del poema toglie lo allettamento e lo fa collocare tra i poeti di secondo ordine.

Fiorì un poeta morale scevro dei predetti vizi, e fu il famoso Parini, inventore di un nuovo genere di poemi, ed autore del Giorno, che peravventura ne sarà sempre l’esemplare. Manifesta cosa è ch’egli facendo vista d’insegnare ad un giovane signore il modo di spender il tempo, riprende con una delicata e continua ironia di costumi effeminati le frivole occupazioni e i galanti vizi dell’alta condizione degli uomini. Ubertà d’invenzione, regolarità di disegno, misura di concetti, acume di motteggio, [129] forza d’immagini, piacevolezza di digressioni ed evidenza di descrizioni sono la sua dote maravigliosa. Sa il poeta l’arte di far grandi le minime cose e di nobilitare le più trite e più basse; anzi con la variata imitazion de’suoni dipinge la varietà stessa della materia che tratta. Il perchè egli riempie le orecchie altrui senza urtarle giammai con quella scabra favella che spesso è sulle labbra dei poeti filosofi. In somma egli accoppia la proprietà delle locuzioni e la felice scelta degli epiteti alle forme dello stil più preciso e più leggiadro e sonante. Nè di meno si vuol lodar questo poema eziandio per rispetto alla morale; dachè sferzare d’un modo più pungente, più vivo e più forte il tristo spendio delle ricchezze, le sciocchezze della moda, l’imitazione de’forestieri costumi lo scandalo de’cicisbei la prosuntuosa ignoranza e tutti i vizi di coloro che son diletti alla fortuna, è quasi impossibile. Può questo poema andare come un trattato di morale composto all’uso del bel mondo. Che se gli sferzati pel satirizzar suo nol tengono sempre davanti al loro specchio, come l’autore lo consiglia per ironia, non è però vero ch’esso non abbia un gran potere usato sui costumi del gran mondo; e che per tema del ridicolo non gli abbiano tolto che si diffondesse. Veramente il Parini colse il frutto del suo poema come in merito di una buona azione. Il suo carattere nobile e virtuoso era degno del suo ingegno.

Tra le Opere classiche è il poema del Parini annoverato; ma la severa censura vi ha scoperti alcuni difetti, tra i quali sono il troppo uso della [130] mitologia, le allusioni alla storia ed alle scienze, le locuzioni esquisite e i modi latini. Gli hanno ancora biasimato uno andamento troppo alto a cui spesse volte si mette, ed una prodigalità di ricchezze poetiche. Ma chi non avvisa richiedersi a cosiffatte composizioni l’artificio di rilevare i piccoli oggetti col contrasto dello stile, la qual cosa procacciò lode a Boileau ed a Pope nel Leggío e nel Riccio Rapito?

Da questi due famosi poeti più che da altri prese esempio il Pignotti nella sua Treccia donata; nè il fece senza utilità. Il perchè quelli imitando, egli finse di molte ingegnose allegorie, come a dire il Tempio della Moda, il Palagio della Pazzia ec., non che di parecchie digressioni assai conformi all’azion principale, siccome a dire l’Origine dei Cavalieri serventi, gli Amori di Zefiro e di Flora ec. Aggiungi una grande varietà di caratteri e d’incidenze e di pitture e di descrizioni tutte ridenti e copiose. Da Pope il Pignotti trasse la nuova mitologia dei Silfi aerei, dimostrando immaginazione nel ritrovamento del soggetto, ed arte e giudizio nella disposizion delle parti. Pieno di leggerezza è lo stile del Pignotti, non senza leggiadria e gentilezza; e vi si sente il sapore dell’Ariosto che gli ha prestato chiarezza e facilità di modi e di locuzioni, i quali pregi chieggono perdono delle negligenze che gli si possono imputare. Ebbe il Pignotti, siccome il Parini, proponimento di mordere i costumi del gran mondo, e sotto le forme più pungenti e più dilettevoli porse ammaestramenti di moralità. Ambedue per vie differenti pervennero allo stesso fine.

[131] Ma G. B. Casti nel suo poema degli Animali Parlanti non si circoscrisse, come il Parini e il Pignotti fecero, a dovere operar la censura di una sola parte della società, ma si spaziò dentro tutto il sistema morale e politico, e i vizi e gl’inconvenienti ne aperse. Sposò lo apologo all’epica poesia, ed a modo di Esopo attribuendo alle bestie gli umani affetti, ritrasse non pur le Corti e le passioni che vi regnano, ma gli arcani ancora della politica, i partiti, le guerre e le rivoluzioni. Concede agli animali i propri caratteri, secondo lor natura e lor circostanze; e la verità con cui li fa parlare ed operare, è siffatta, che il leggitore del suo poema non si ricorda dell’allegoria, e gli sembra di volgere una storia. Oltre a ciò gli Animali Parlanti, che per la invenzione e per lo componimento sono mirabil cosa, splendono di tutti i lumi dell’ingegno e dell’arte. E lo stile che sempre è naturale ed agevole, ha ornamento ancora, e come la materia il dimanda, spesso in grandezza monta e in magnificenza. Vive sono le descrizioni, variate le similitudini, e molto acute le allusioni, che di tratti ingegnosi e frizzanti sono continuamente sparse. E se non fosse che lo stile non è sempre forbito e troppo disteso è il poema, sicuramente saria venuto molto più perfetto.

Sono altri poemi più o meno lunghi, i quali alla dipintura de’costumi ancora ed agli ammaestramenti intendono della morale. Ed è giusto che per prime sieno qui nomate le Visioni sacre e profane di Alfonso Varano, non che per la gravità degli argomenti, per lo ingegno [132] ancora con che sono scritte. Questi con tutto che giunga alla morale la religione, e dottrine teologiche tocchi a guisa dell’Alighieri, non cade in minuzie e sottigliezze; ma lo stil pieno ed elegante conserva, e forte e dignitoso. La Visione sopra il vero e falso Onore, e quella sopra la Vanità della terrena bellezza, sono le più splendide. Vola più volte il Varano fino alla sublimità dei profeti, da cui mostra che sia ispirato. Lo stile dei santi libri fu seguitato ancor da Camillo Zampieri nel Tobia, poema sopra l’educazione, dirizzato al bersaglio di conquidere i principii dell’Emilio di Gian Giacomo Rousseau. Il qual poema non pur contiene egregi consigli e precetti sufficienti a formar l’uomo da bene, ma poesia di stile e allettamento possiede ancor entro il soggetto. I piccoli poemi sulla Moda e sulla Commedia dell’ingegnoso e piacevole G. B. Roberti diletterebbero maggiormente, se ciò non fosse che son puliti con troppo studio e con troppa lima. Il che non è da dire del Colpani, il quale ne’suoi poemi morali e filosofici, senza perder leggiadria, se ne va molto più semplice. Ancora il Bettinelli nel suo poema sulle Raccolte e sul Giuoco delle Carte è ingegnoso e mordace, e tien dello stile dell’Ariosto, al quale si vuol conformare. Le Conversazioni, La Moda di Clemente Bondi hanno di molte artificiose pitture e descrizioni fiorenti, non che piacevolezza e facilità. Il poema sulle Quattro Parti del Giorno e quello dei Viaggi son i meglio notabili fra le poesie d’Ippolito Pindemonte, il quale di sua natura corre la via del sentimento, con [133] una pensosa malinconia, la qual dilicatissima versa in tutte le sue Opere molto allettamento.

Il cavalier Vincenzo Monti, che abbiam già veduto tra i primi Tragici italiani, ha levato di sè tanto grido non pur nell’Italia, ma in tutta l’Europa eziandio, che dell’immensa sua riputazione sì debitamente acquistata può dirsi quel che l’Alighieri di Omero affermò:

Che sovra gli altri come aquila vola.

A lui va debitrice l’Italia di poter gustare nel suo melodioso idioma la natia semplicità e sublimità del

Primo pittor delle memorie antiche.

A lui similmente ella dee, come anche al figliuolo dell’amor suo e compagno delle sue dotte fatiche, il ch. conte Perticari, l’essersi determinato finalmente quali sieno le veraci bellezze e il carattere del suo universale linguaggio5 . Le prime poesie pubblicate dal Monti nel fior dell’età fecero conoscere all’Italia di possedere in lui un novello originale poeta. Formò egli il suo stile delle principali bellezze dei primi esemplari, ma senza seguirne servilmente nessuno. Additò ai poeti italiani, più che non aveva fatto Varano, la vera maniera d’imitar Dante, e richiamolli dal torto sentiero nel quale si erano messi colla scorta degli Accadi e di Frugoni. Nelle sue liriche poesie, cantando anche le nozze e i predicatori, triti argomenti che [134] solevano una volta consumare i più begli ingegni italiani, seppe il Monti dipartirsi dalla volgare schiera rivestendoli di novità. In quelle del genere erotico regnano la delicatezza e la grazia, e senza ricopiare le monotone finzioni e frasi de’Petrarcheschi, sfugge pure la disonesta licenza dei più recenti poeti; nel che diremo aver lui ben meritato della morale per avere inspirato nei giovanili cuori un puro e virtuoso amore. I filosofici poemi, quali sono tra gli altri la Bellezza dell’Universo e il Prometeo, e quelli di religioso argomento sono trattati con uno stile sempre variato e fecondo, con una versificazione franca e armoniosa, con immagini nuove, piene di forza e di evidenza, con sublimità di pensieri e con tutto l’estro e il calor poetico. Risplendono meravigliosamente queste doti nelle cantiche intitolate il Pellegrino Apostolico e la Bassvilliana, le quali basterebbero ad assicurare all’autore un alto seggio tra quegli uomini insigni che coi loro scritti hanno fatto onore alla propria nazione.

La satira non è stata meno che alcun altro genere di poesia coltivata per gli Italiani. Senza dubbio fu primo poeta satirico Dante, nè senza ragione alcun savio giudicò la sua Cantica doversi anzi satira che commedia chiamare. Ben è vero che per impeto, per fuoco e per violenza nessun moderno Satirico lo agguargliò. Lorenzo de’Medici, uomo de’più illustri che abbian fatto onore alla moderna Italia, oltre a’suoi altri titoli di gloria, s’ebbe ancor quello d’aver nel secolo quindicesimo ristorata la buona poesia, e per conseguenza di starsi [135] sopra un alto scanno fra i poeti italici. Perciocchè non riguardando i suoi lirici versi, dove non imitò servilmente il Petrarca, abbiamo tra le mani i suoi versi morali e filosofici, non proceduti altronde che dalla sua propria invenzione. Espose egli molta scuola della filosofia platonica nei capitoli appellati l’Altercazione. Ancora il capitolo ch’egli dirizza all’Animo suo, reca un esemplare della satira morale. Senza che i capitoli dei Beoni sono una artifiziosa e agrissima satira contro gli ebriosi. Chiarezza, eleganza e semplicità sono la natural dote di Lorenzo. Dopo lui scrisse vere satire Antonio Vinciguerra veneziano, segretario della sua repubblica; il quale non è molto gentile, ma vigoroso assai, e ritrae le cose vivissime agli occhi della mente, e batte con tal forza il vizio, che muove e volge gli animi.

Poco appresso al Vinciguerra trasse fuor l’Ariosto, il quale produsse siffatti esemplari di satira, che non ostante la gran moltitudine dei successori, non furono ancora avanzati. E vi si conosce quella natura, quella agevolezza, quello incantesimo e quel sale che fu di lui proprio e di lui solo. Nè altro Satirico fu più simigliante ad Orazio: e il sentenzioso, l’arguto, lo scherzevole è per lui così delicatamente adoperato, come fu per quel sommo Latino, in forma drammatica seminando te satire sue di dipinture, di novelle e di apologhi. All’Ariosto fu comparato lo stile delle satire di Ercole Bentivoglio; ma non vi si accostano assai nè per la ricchezza dei pensieri, nè per la accesa dipintura dei costumi. Potrebbe stimarsi un [136] esemplare di stil satirico quello di Pietro Nelli senese, ove la sfrenata libertà, nella qual trascorrono le satire per lui scritte, non gli fosse giusta cagione di biasimo. Le satire del celerato Alamanni meritan lode per la sostanza; ma lo stile è troppo alto e poco trastullevole, quantunque puro sen vada, e ornato e poetico. Sarebbe pure satirico poeta dei migliori, come fu dei più valenti Lirici, il famoso Chiabrera, quando avesse i suoi sermoni meglio isnodati e distesi; ma la pittura ch’ei fa dei costumi, avvegnachè breve e veloce, va a grado ad altrui, per la viva e fida somiglianza del vero. Oltre ciò, non ha fiele nè rabbia, ma lo accende un amor della virtù sincero e focoso: per la qual cosa egli, non avendo i modi di Orazio, ne ha più volte la piacevolezza, l’anima e la filosofia; ed a quella guisa conversa con teco, ragionando delle umane follie, non altrimenti che soglia farsi tra gli amici. I sermoni sulla Nobiltà, sul Teatro del mondo e la Difesa della poesia sono i suoi migliori. Fece satire Salvator Rosa molto salse e vivaci; salvo che talvolta son basse e talvolta troppo erudite. Non ha molto buon gusto, e sovente incorre nella declamazione; nè men riprensione egli merita delle dissolute pitture che a poeta gastigator de’costumi e maestro del ben fare sono laide e biasimevoli.

Tra lo stil di Orazio e quello di Giovenale si contenne Benedetto Menzini, un dei migliori Satirici italiani; perciocchè per guisa del primo usa egli lo scherzo, il sale e la variazione delle forme, ora dialogo, ora finzione, or dipintura [137] di caratteri compartendo: e ad esempio del secondo scrive con impeto, e si scalda e si avventa altrui, e per simil modo alcuna volta declama eziandio. Gli argomenti suoi raffigurano i costumi non più del suo secolo e della sua nazione, ma generalmente di tutti gli uomini e d’ogni tempo; e sono il disprezzo dei grandi contro le lettere, le persecuzioni che agl’ingegni ed al senno procaccia la stoltezza e l’invidia sotto larva di religione, l’avarizia dei cherici, la ipocrisia dei falsi devoti. Alle satire del Menzini s’appressarono nella forza e nella eleganza quelle di Lodovico Adimari fiorentino, il qual si propose principalmente di sferzare e ammendare i vizi delle donne. Da poi che l’aureo secolo di Roma trapassò, non sono state scritte satire latine meglio che quelle di Luigi Sergardi, pubblicate sotto il nome di Quinto Settano, che spesso ha i vezzi di Orazio, il peso di Persio, la vigoria di Giovenale, senza mai rendersi un servile imitatore. Ne traslatò molte egli stesso in versi italici, le quali benchè sian da meno dell’originale, pur ne mostrano il pregio.

A nessun di costoro che abbiam qui lodati, tranne l’Ariosto, è secondo Gasparo Gozzi, che a dir di molti si è palesato emulo d’Orazio e vincitor del Chiabrera; nè così fatta lode gli disconviene. Quanto è mai l’artificio, il riguardo e la variazion delle tempre, ora leggeri e soavi, ora gravi ed amare, onde i malvagi costumi, le ridicole usanze e il falso gusto riprende! Vi sono vive descrizioni, caratteri bene effigiati e allusioni sottilissime. E più ancora egli tien dietro ad Orazio nell’usare avventurosamente le [138] forme drammatiche, mischiandovi le novelle, le favole, le allegorie, e non cessando mai di variar i modi e lo stile. Non senza lode si possono il Pignotti e l’Alfieri contar fra i poeti satirici, perciocchè il primo nelle satire e nelle pistole seguitò molto bene Orazio e Giovenale, e seppe con felicità l’anima e la maniera di quei due grandi poeti ai moderni costumi acconciare e vestir similmente la filosofia di colori poetici: là dove Alfieri, che per lo suo ingegno e per la sua natura parea dover massimamente al genere satirico poter riuscire, fece satire le quali, tuttochè sian forse le cose migliori delle sue Opere postume, non son degne di stare nella prima schiera.

Molta cura posero gl’italici poeti in un genere che meno degli altri avea sembiante di essere malagevole; di tal natura sono gli Sciolti, i quali generalmente fra le epistole e i sermoni morali e filosofici si possono annoverare. Vi ebbe splendore il Frugoni, uno dei migliori Lirici che illustrassero la Italia; il quale più di prima nobilitò gli Sciolti, dando loro ornamento e risonanza; salvo che, per lo avervi troppe fiate usato il suo lirico stile, si è convertito in un esemplare pericoloso. Assai bene v’imitò Orazio con più giudizio, e non con minor ingegno l’Algarotti; e ben gli saria stato, se nelle sue pistole non vi si sentisse forse troppo la durezza della fatica. Volle a questi due sedere a lato il Bettinelli, pubblicando insieme coi loro gli Sciolti suoi; ma sanamente ha giudicato la critica lui non possedere l’ingegno poetico del primo, nè la copia dei concetti del [139] secondo. Certo gli Sciolti di Appiano Bonafede discorron liberi e forti e rapidi e ornati, ed han calore e vita. I suoi ragionamenti sulla Educazione, sulla Pace e la Guerra, sulla Bellezza, sulla Solitudine e sulla Morte ec., son buoni esemplari. Si conviene ancora dar il primo luogo fra i migliori agli Sciolti di Melchior Cesarotti, come pure aquelli di Agostin Paradisi, perocchè ad uno stil sempre bello e sonante accoppiano ingegnosi e sodi concetti. Per simile sono in pregio i versi sciolti di Giuseppe Pellegrini, di Angelo Mazza, di Antonio Ceruti, di Lorenzo Mascheroni e d’Ippolito Pindemonte, il quale, scorto da un sano discernimento, ha schifato nelle sue Pistole il lirico andamento, comechè il suo stile s’innalzi coll’argomento. Trovasi in lui varietà e leggiadria, e quel sentire che è tutto suo proprio.

Dell’apologo si travagliarono assai gl’Italici, cioè di quel genere di poesia che più direttamente alla moralità si aspetta. Il nostro volgare più di qualunque altra lingua vi si acconcia, conciossiachè quantunque sia pien di ornamenti poetici, esso conserva la sua forma semplice e nativa. Accio Zucco veronese nel quindicesimo secolo pubblicò le favole di Esopo poste in sonetti, e quella stampa fu più volte reiterata. Ancora Mario Verdizotti nel 1570 stampò in 4.° una raccolta di cento favole morali in versi di metri differenti, e di bellissimi intagli in legno le corredò. Ancora Cesare Pavesi, sotto il nome di Pietro Targa, diede alle stampe nel 1569 una raccolta in 12.° di cento cinquanta favole tratte da diversi autori e ridotte in ottava rima, e la fregiò di figure. Ma si aspettava al grande [140] Ariosto la gloria di metter fuori lo esemplar degli apologhi nelle sue satire: e se non fosse che pochi egli ne ha composti, non avrebbe la Italia da portar molta invidia alla Francia del suo La Fontaine, di cui sulla entrata dell’ultimo secolo più favole volgarizzò Tommaso Crudeli, senza perderne le meravigliose bellezze; e poi intorno a quei tempi stessi Angelo Maria Ricci diede in luce le favole greche di Esopo volgarizzate in rime anacreontiche con molta piacevolezza e leggiadria.

In processo di tempo sorsero molti favolatori in Italia che punto non cedono ai più eccellenti delle altre nazioni. Fra questi è di maggior fama Lorenzo Pignotti per la infinita gentilezza onde è ricco, con uno stil pittorico, e un verseggiar dolce e sonoro, e con una facilità, la quale, come la sorella della avvenente semplicità, non lo abbandona giammai. E quantunque non siano troppo felici i temi d’invenzione sua, pure a quelli che altri famosi favolatori ebbero per mano, sa procacciar tutta apparenza di novità; salvo se dir non volessimo che talora trascorre ai troppi ornamenti, togliendo per tal modo alla novella la sua velocità. Egli generalmente dirizza le sue lezioni alle principali classi della società.

Allo apologo sta bene qualunque stile, e può essere salso e ingegnoso, ma non però che gli sian tolte le qualità che alla narrazione per sua natura si richiedono. Le quali più volte vengono meno nelle favole esopiane di G. B. Roberti, come quelle che generalmente sono d’uno stil pomposo vestite; nondimeno esse sono ben pensate, [141] e di giuste e sane moralità piene. Avanti il Pignotti passò Aurelio Bertóla, quanto alla avvenentezza ed alla semplicità, ma quanto ai colori ed all’armonia gli rimase indietro. È il vero che le sue favole sono di sua propria invenzione, e questa le più fiate è molto ingegnosa. Gian Carlo Passeroni ha di natura e di semplicità quanto basta allo apologo; se non che troppo egli è piano e scorrente, il perchè le sue favole hanno di coltura e di brevità gran bisogno. Trecento favole contiene la sua raccolta, e fra quelle potrebbe una buona scelta aver luogo. Bartolomeo Chiappa fece vista di tenere i modi del Bertóla, e Guadagnoli di Pisa quelli del Pignotti; nè male vi riuscirono.

Di Gherardo de’Rossi, già per noi commendato fra gli autori comici, va circolando una raccolta di favole molto apprezzate, non che per lo ingegno dell’invenzione e per la forza della moralità e per lo stile ornato e poetico, ma con questo che non si lascia mai trascorrere di là dalla natura di cosiffatti componimenti. Il pisano De Courreil imitando fece più belle le favole letterarie dello spagnuolo Yriarte. Finalmente Perego milanese scrisse favole sopra i doveri sociali, destinando allo ammaestramento della gioventù la sua raccolta che di moralità contiene tutto intero un trattato. E perciocchè alla utilità del suo divisamento giunse il pregio dell’invenzione dei soggetti, e quello ancor dello stile, occupa uno splendido luogo fra gli italici favolatori.

Quegli Italiani che prima scrissero versi, abbiam veduto essersi volti a ricordare gli [142] ammaestramenti di moralità, che tanto è a dire quanto della scienza più utile all’uomo: nè dei prosatori avvenne altrimenti. Che più scrittori in su lo entrare del tredicesimo secolo volgarizzavano i moralisti, mentre che parecchi altri ad esporli ed imitarli si mettevano. E nel vero Brunetto Latini il quale avea, col suo Tesoretto in versi, dettati i precetti di morale, poi li prese per principal elemento del suo Tesoro, a modo di una enciclopedia composto, che contiene il compendio dell’Etica di Aristotile, e un trattato dei vizi e delle virtù. Ma concioffossechè Brunetto, al tempo che il fece, dimorasse in Francia, lo scrisse in lingua francese, onde fu recato nella italiana per Buono Giamboni contemporaneo di lui; e questo volgarizzamento è uno dei primi testi del nostro idioma. L’Etica poi d’Aristotile ridotta in compendio fu stampata a parte, senza che l’original francese del Tesoro sia stato mai posto alle stampe.

Guitton d’Arezzo, uno dei più nominati coetanei del Latini, come nobilitò alcun poco lo stil poetico, e diede forma stabile al sonetto, così pose con le sue Lettere le prime fondamenta della prosa italiana. Queste sono distese in diversi argomenti di morale; ma dormirono nei manuscritti fino al secolo ultimamente passato, quando il dotto Bottari le riscosse dall’ingiusta obblivione, e con molte note erudite le illustrò. A quel tempo stesso compose Albertano Giudice da Brescia più trattati in latino di morale sulla Forma della onesta Vita, della Consolazione e dell’Amor di Dio; ma perciocchè furono, vivente l’autore, trasportati in volgar [143] fiorentino, cosiffatto volgarizzamento, che è testo di lingua, fece fuggire l’originale dalla memoria di tutti. La qual cosa può dirsi altresì del trattato dell’Avversità della Fortuna d’Arrigo da Settimello, la cui traslazione, similmente del Trecento, è di pura e adorna favella, e piena di spirito e di vita; laddove il Teatro latino in versi elegiaci è villano e duro, e poco al presente ricerco, come che in pregio sia stato molto.

Nei predetti moralisti del Trecento leggonsi gli insegnamenti dei filosofi antichi; e Bartolomeo da S. Concordio, scrittore dello stesso secolo, pensò, siccome gli venne fatto, di raunarne i più gravi ed i più utili, dando loro il titolo di Ammaestramenti degli Antichi. Miseli egli in ordine, e un regolar trattato ne formò, con aggiungervi del suo quanto era mestieri a dover collegare simiglianti sentenze e farle star bene insieme. Egli le ha recate nella volgar lingua con uno stil breve, preciso, succoso ed energico, e tutto proprio a servirci di modello non solamente per la purità della lingua, ma ancora per lo stile che si richiede a trattar certe materie di notabile importanza e grandezza6 . Il Salviati, dopo aver lodato lo stile di questo libro, conchiude che la favella di esso è la più bella che si scrivesse a quei tempi. E veramente Bartolomeo scrisse prima che il Boccaccio; il perchè dello essersi inventato uno stile che non si è a verun patto invecchiato, ed è tuttora il più perfetto esemplare [144] della lingua italiana, egli solo a se stesso è tenuto.

Non guari appresso sopravvenne l’immortal Petrarca, che lunga stagione fu più famoso come filosofo moralista, che come poeta. Bolle dei papi, decreti del senato veneto, lettere privilegiate dei re, lo appellano preclaro lume di scienza morale. Nè di vero si può ristare da maraviglia, veggendo un uomo in tempo di corruttela e d’ignoranza, fra quelle rivoluzioni che tormentando l’Europa, facean calcare ogni legge così di morale come di politica, aver potuto salire a sì puri, a sì grandi, a sì sapienti principii. Si assise egli a lato ai moralisti antichi senza già toccarli. Ne’suoi trattati sul Disprezzo del mondo, sulla Vita solitaria e su la Vera sapienza, si discerne lui non solamente avere i principii ruminati dei filosofi antichi, ma quel che ancora più nel commenda, è aver la natura investigata del cuore umano. Di che rendono assai felice e filosofica testimonianza i due libri dei Rimedi contro l’una e l’altra fortuna. In essi dimostra come è più malagevole il soffrir temperatamente e senza alterazion di animo la lieta fortuna, che non con forza e con dignità la contraria. Disavvantaggio è stato l’aver lui scritti in latino i suoi trattati di morale, i suoi dialoghi e le sue lettere, di che moltissime sono, tra per la loro ampiezza e per lo peso della materia, tanti altri veri trattati. Se non che egli avea riposta nelle Opere latine ogni speranza di gloria; nè ebbe l’antivedere di averla ad attendere singolarmente dalle poesie scritte in quel volgare, il quale da lui [145] stesso avuto a vile, era pur da lui condotto alla perfezione. Ultimamente, sebbene abbia egli composti i suoi trattati in latino, dee di ragione avere il primo luogo fra gl’italiani moralisti, come colui che non che le lettere e gli altri nobili studi rimise in piedi, ma più veramente la scienza morale. Vi ha non pochi volgarizzamenti delle morali Opere del Petrarca, ma i più apprezzati sono quelli di Remigio Fiorentino e di Francesco Orlandini.

Tanto nel Petrarca, quanto forse in tutti i moralisti dei due primi secoli della italiana letteratura, si notano molte considerazioni ascetiche, ovvero spirituali: cosa di necessità partorita dagli studi teologici, che allora andavano innanzi a tutti, e con tutti gli altri erano sempre accoppiati. Dunque fiorirono molti contemplativi moralisti di gran fama: ma perciocchè non è qui proposito farne motto, noi vogliamo solo nominare il più celebrato di tutti, Iacopo Passavanti; conciossiachè egli abbia luogo fra i classici scrittori, e siasi brigato di dare allettamento e piacevolezza alla morale. Fu coetaneo del Boccaccio, come che nato qualche anno prima; e potè non pertanto leggere il Decamerone, ch’egli, al dir del Salviati, imitò nel fatto dell’esser puro e nella guisa dei favellari, ma con istile più semplice. Oltre a ciò, lasciò l’uso dei vocaboli antiquati più che nelle sue Giornate non avea fatto il Boccaccio. Di molti esempi stanno entro lo Specchio di Penitenza del Passavanti, che sono vere novelle morali, edificanti e da comparare, quanto allo stile, a quelle del Boccaccio.

[146] Annoverar questo ultimo scrittore nella prima schiera dei moderni, come dipintor di costumi e di caratteri, non fia grave a persona; ma il porlo fra i moralisti io mi avviso che più lettori farà maravigliare. E non è da negare che le disoneste dipinture in molte delle sue novelle sono di grandissima riprensione degne; nè per altro si possono scusare, che per la corrente di quei tempi. Ma va errato chi quella Opera afferma esser tutta piena di cosiffatte pitture, come pare a molti; conciossiachè un troppo maggior numero ve ne abbia di quelle che non sono se non comiche, piacevoli, dolorose e altresì tragiche, ed hanno generalmente in azione la morale. Vero è che si diffuse questa falsa opinione per fallo di parecchi suoi imitatori, e maggiormente del famoso La Fontaine, il quale da lui tolse soggetti di una sola specie, scegliendo sempre ciò che ha forza di tentare la sensualità, e la immaginazione accendere e corrompere. E per questa maniera sonosi quelli privati del maggior incantesimo dell’Opera del Boccaccio, cioè di quella sua ricca ed immensa varietà; e l’hanno fatto stimare uno scrittor sempre dissoluto, non ostante che i temi men che onesti null’altro campo abbiano nella sua gran dipintura se non quello che aveano in quei tempi i costumi.

Similmente è incolpato il Boccaccio di aver maltrattate alcune cose che più sacre eziandio della morale son tenute, e di aver detto male degli uomini e di Dio, e fatti profani certi oggetti che al culto stesso e alla vera credenza si [147] appartengono. Ma più critici, e sopra tutti il savio e pio Bottari, lo hanno tolto a difendere da’suoi censori. E a dir vero, il Boccaccio più volte percuote sopra i monaci con impeto e con ira, e i vizi e le disonestà ne appalesa: ma risponde l’apologista, che i più violenti di quegli sgridi non differiscono punto dalle lamentanze le quali di quegli stessi peccati facevano i maggiori uomini del suo secolo; e che non è lecito a chi vituperevolmente vive cessare la censura, per la ragione che contro le sfrenatezze e gli scandali il più efficace rimedio è la censura medesima. Nè sono meno ingiusti i rimproveri di empietà che si sono fatti al Boccaccio, chi considera ch’egli col trarre la larva ai falsi santi non è stato irriverente ai veri; e facendosi beffe dei finti miracoli con finte reliquie operati, aguzzava l’intelletto de’suoi contemporanei, i quali, dagli impostori ingannati, confondeano le superstizioni più irragionevoli con la religione.

Rincrescevole cosa è che alcuna fiata il Boccaccio abbia le leggi della onestà trapassate; ma guardando a quella parte della sua Opera la quale non merita cosiffatta rampogna, non è da negarsegli il titolo di moralista. Chè dipintura di costumi e di caratteri tende sempre da se stessa ad un fine morale, sì veramente ch’essa dia giusta censura di quelli, e orror del vizio e amor semini della virtù. Or quale scrittore giammai seppe con colori più evidenti, più naturali e più vivi dipingere le passioni? Chi descrisse meglio di lui gli orribili effetti degli odiosi appetiti, quali sono avarizia, [148] orgoglio, invidia e vendetta? Chi le dolci affezioni e le nobili e le generose che onorano l’umana natura, e sole hanno potenza di condurre alla buona e vera felicità, ne dimostrò più care ed amabili? Non è qui dove saria ben fatto chiamar del Decamerone tutte le novelle di cui manifesto e palpabile è lo scopo morale, e negli animi altamente s’interna: ma noteremo solamente le ultime del libro, che sono la storia di Tito e di Gisippo e quella della Griselda, le quali sono con giustizia reputate la norma e l’esempio dell’eloquenza italica. Nella prima è lo specchio della magnanimità e dell’amicizia, e la chiude un’altissima lode di questo prezioso sentimento. L’altra contiene una prova incomparabile di dolcezza, di pazienza e di sommission coniugale; e nella gran marea dei romanzi, pochi son quelli che tanto allettino e tanto importino. Fu per modo innamorato di questa novella il Petrarca, che egli si dilettava di raccontarla, e la traslatò in latino per compiacere a coloro che non intendeano il volgare.

Non si vuol pretermettere che mentre al Boccaccio si concede il nome di moralista, sua spezial prerogativa è quella di pittor dei costumi e di scrittore. Ancor non venne fatto ad uomo di pennelleggiare una tavola che più acconcia fosse a fare i costumi di un secolo e gli uomini d’ogni secolo comprendere Nè v’ha condizione dal semplice villanello fino ai grandi Re, che ivi insieme con le lor passioni, con le loro usanze e col lor linguaggio non sia rilevata. Ogni sua novella è un breve dramma [149] in che ciascun attore, senza mai discordare da se stesso, parla ed opera secondo che al suo carattere si appartiene. Infinita è la varietà dei generi e dei soggetti, ove il Boccaccio è sempre di narrazioni, di descrizioni e di dialoghi copioso; nè mai separato dalla verità, dalla leggiadria e dallo allettamento. Son queste le doti che gli uomini del più severo gusto vi ammirano, e che, non so dir come, fecer lui maestro dell’un dei maggiori pittori della umana natura, qual fu Molière, il quale studiava il Decamerone per apprendere a naturalmente rappresentare i vizi, il ridicolo e le bizzarrie degli uomini.

È senza contraddizione il Boccaccio lo scrittor più grande del Trecento: io dico di quell’età dell’italica letteratura, quando vivea nella lingua una semplicità, una grazia, una proprietà di vocaboli e di locuzioni che parean da natura, e più e meno da tutti gli scrittori possedute. Fra’quali ebbe gran parte Lapo da Castiglionchio, di cui restò una lunga Epistola, ovvero Trattato, scritto al suo figliuolo in ammaestramento e consiglio di varie cose, e spezialmente della Nobiltà. Trattavi egregiamente di chi nasce nobile o plebeo, e dei vantaggi che hanno gli uni sugli altri; e per questo rispetto deve un sì valoroso scrittore aver luogo fra gli autori moralisti. L’ultimo dei Trecentisti si giudica Agnolo Pandolfini, nato in Firenze nel 1365, e lungo tempo stato al governo della Repubblica, ch’egli con grande accorgimento guidò. Nelle ore di ozio e di solitudine egli, a somiglianza dei romani senatori antichi, [150] occupavasi nell’economia e nell’agricoltura, e quindi il Trattato compilò Del Governo della Famiglia, il quale per la materia e per lo stile senza fallo è la miglior Opera morale nella lingua italiana: e tutto che i componitori del Vocabolario della Crusca spesse volte lo abbiano allegato per testo, pure non se n’è fatta la stampa che nel 1734. E questo è prova, nè certo è la sola, che quei famosi compilatori esaminavano le parole, senza tener conto dei pensieri e dello stile, nei testi di lingua. Precetti ed ammaestramenti sulle cose che più spesso incontrano nella vita civile, sono sparsi nell Trattato del Pandolfini, il quale non li porge in una forma ideale e generica, ma in ispezial modo gli assetta a tutto quel che al governo si richiede della famiglia, ai particolari obblighi di quelli che la formano, agli affari e agl’interessi domestici che di necessità sopravvengono e continuamente ritornano.

Aurei veramente e degnissimi non pur di esser sempre tenuti alla memoria presenti, ma impressi a caratteri inconsumabili nel cuore, sono i pensieri e le sentenze ond’è piena l’Opera del Pandolfini. E chi vuol giudicar sanamente, non sarà dubbioso a collocarla fra i migliori trattati di filosofia morale che sulla disciplina e correggimento dei costumi ne lasciarono gli antichi. Quanto alla dicitura, essa è tale appunto quale da tutti i maestri di ben favellare nei dialoghi è prescritta, cioè semplice e naturale, ai ragionamenti improvvisi e famigliari somigliantissima; ma graziosa oltre modo e leggiadra, e adorna di quella purità e [151] vaghezza che maravigliosamente fioriva in quel secolo avventuroso. Le trasposizioni del Boccaccio e gli arcaismi degli altri Trecentisti furono dal Pandolfini schifati.

Il senno di questo grand’uomo e la conoscenza delle discipline sociali in tanta fama salirono, che il famoso Leon Battista Alberti lo indusse nel suo Dialogo delle Virtù Morali, non altrimenti che Platone avesse fatto di Socrate, per maestro; e Matteo Palmieri nel libro della Vita civile il prepone alla scuola di nobili giovani e bene inclinati. Que’due scrittori vissero nel secolo XV, e il primo scrisse in latino il suo Dialogo delle Virtù, siccome tutte le altre sue Opere morali, che per Cosimo Bartoli, Accademico Fiorentino, furono tutte quante con molto adornamento volgarizzate. L’Alberti scrisse ancora un Trattato della Famiglia, ma non fu mai stampato; e la sua rinomanza gli provenne massimamente dalla sua Opera di Architettura che gli meritò il nome di Vitruvio Italiano. Quanto ampia materia Matteo Palmieri abbia abbracciata nel suo trattato della Vita civile, si può rilevare da queste parole che fa dire ad Agnolo Pandolfini, principale interlocutore del dialogo: Citazione/Motto► „Piglieremo un fanciullino nuovamente nato, e conducerenlo infino in vecchiezza, narrando quello che si confà a ciascuno virtuoso per ciascuna età, e in qualunque grado o dignità si trovasse.“ ◀Citazione/Motto Così egli forma un perfetto cittadino, e il modo gl’insegna onde di tutte le politiche e cittadinesche virtù si adorni, e non lascia intatto alcun luogo della morale filosofia. [152] È anche da lodarsi il Palmieri per essere stato il primo a trattare in lingua volgare con ampiezza un così utile argomento, senza perdersi dietro a sottili e immaginarie investigazioni. Lo stile non manca di eleganza e leggiadria, e nella forma del dialogo apparisce l’imitazione dei dialoghi di Tullio, e massime di quelli dell’Amicizia e dell’Oratore.

Gioviano Pontano, del predetto secolo, perchè nacque l’anno 1426, come ebbe assai desto ingegno, così fu letterato grande e vero filosofo: e le sue poesie, e le sue storie, e le sue morali Opere sono riputate di pari pregio. In queste ultime, già scritte con eleganza e piacer molto, leggiamo il primo esempio di un filosofo libero e chiaro, il quale, calpestando le false opinioni dei volgari, dirizzasi al solo lume della ragione e del vero. Fu primo il Pontano a menare in campo il sistema di far consistere nel fuggire ambedue gli estremi, la felicità e la perfezione. I temi de’suoi principali trattati sono la Liberalità, l’Obbedienza e i Doveri del Principe. Educato egli tutto alla scuola degli antichi, tutte in latino scrisse le Opere sue. Ma nondimeno in lui si ravvisa ognor l’uomo che seguita le spinte del proprio ingegno, e non la via de’servili imitatori. I Trattati morali del Pontano furono per Iacopo Baroncello e Gaspare Mazzaciuoli volgarizzati.

Il XVI secolo, che fece tanto onor all’Italia col fiorir delle lettere, delle scienze e delle arti fin là dove poterono salire, ebbe ancora gran copia di moralisti: de’quali furon molti che [153] riuscirono eccellenti dipintori e scrittori eleganti, siccome al luogo dove fu parlato de’poeti, toccammo; e mostrarono in ogni forma e agevolarono gl’insegnamenti morali, e fecerli dilettevoli. Ma chi facesse a questa scienza far grandi e veri passi innanzi, risalendo ai principii generali, non è forse stato in tanta schiera di moralisti. E la cagione fu questa, che la filosofia di Aristotile avea troppo dominio, e nessuno attentavasi ad uscir dei principii dell’Etica di questo grand’uomo, nè capiva nell’animo a persona che alcuna cosa vi si potesse aggiungere. Il perchè, sebbene foss’ella un compiuto trattato di morale filosofia, pur s’allunga troppo in sottili speculazioni, e non racchiude appieno la conoscenza del cuore umano e la natura delle passioni. Non pertanto fra la moltitudine dei comentatori e degli scolari di Aristotile ci ebbe di quelli che, se non mossero, prepararono alla scienza morale il passar oltre. Tali furono Bernardo Segni, che ad una eccellente traslazione dell’Etica di Aristotile fece un commento assai piano e intelligibile; Galeazzo Florimonte vescovo di Sessa, di cui sono più ragionamenti sull’Opera stessa, e sovente ristampati; e Felice Figliuzzi da Siena, il quale sopra l’Etica d’Aristotile scrisse in volgare italico dieci libri molto apprezzati.

Alessandro Piccolomini non si tenne ai soli principii di quel filosofo, ma colse il fiore di quanto avea scritto Platone sopra la instituzion dell’uomo e del cittadino, e vi frammise quello che la meditazione e lo studio del cuore umano gli poterono apprestare. E senza fallo i suoi [154] dodici libri della Instituzione morale sono l’Opera più perfetta che di siffatta materia ci fosse, come quella ove l’autore alla profondità delle dottrine e alla nobiltà dei pensieri congiunse la leggiadria dello stile e la chiarezza dell’ordine. Egli la scrisse in volgare per distruggere l’opinione di coloro i quali teneano che ai suggetti filosofici non fosse idonea questa lingua. Ma non gli tenne dietro il suo parente Francesco Piccolomini, il quale scrisse in latino uno intero trattato di filosofia morale, che per lo più compiuto lavoro che bramar si potesse fu ricevuto. Dove egli frappose ancora un trattato della norma da seguitare nello investigare la verità fra le materie che hanno a far con la morale.

Speron Speroni fu altresì l’uno dei primi a scrivere in volgare trattati morali. Pochi scrittori di quel secolo ebber tanta fama, quanto egli, ch’è ancora in pregio nella italiana letteratura. Di lui si disse ch’era il più facondo dei filosofi e il più savio degli oratori, e fu gridato il Platone italiano. Nell’età di vent’anni lesse filosofia nelle scuole di Padova, e i punti più forti della morale trattò ne’dialoghi e ne’ragionamenti. Notabili sono i suoi dialogi Dello Amore; Della Dignità delle donne; Della Cura della famiglia; Dell’Amicizia; Della Fortuna, ec.: i suoi ragionamenti Dell’Amor di se stesso; Della Conoscenza di se medesimo; Della Virtù; Dell’Onore; Degli affetti; Della Morte, ec. Nè lo stile dello Speroni ha quella affettata eleganza, nè quella prolissa verbosità, nè quella noievole languidezza di che [155] sono i tanti suoi contemporanei accusati. Si può dire, con pace del Boccaccio, del Bembo e del Casa, lui aver perfezionato i numeri del periodo italiano, siccome Isocrate del greco e Cicerone del latino; tanto scrisse con dolce, e grave, e varia, e costante armonia. Sperone ebbe la gloria d’essere maestro dell’immortale Torquato, il quale dice nelle sue Lettere: Citazione/Motto► „Mentre io in Padova studiava, era solito di frequentare, non meno spesso che le pubbliche scuole, la privata camera di Speroni, che mi rappresentava la sembianza di quell’Accademia e di quel Liceo in cui Socrate e Platone avevano in uso di parlare.“ ◀Citazione/Motto

Pietro Bembo non fu meno dello Speroni celebrato; anzi di nessuno scrittore in quel gran secolo più alta nominanza suonò. Con la più ornata purità scrisse egli le due lingue latina e italiana in verso e in prosa, e più che uomo giammai diede opera a fondare le regole del volgare italico. Imitò Cicerone, il Petrarca e il Boccaccio, nè mai alcuno fu di maggior ingegno fornito; se non che egli saria per certo da troppo più stato, se a’suoi autori non fosse andato tanto appresso. Veggendo il Bembo come i costumi del suo tempo erano laidi, pensò che rivocare in vita i principii di un conversar nobile e delicato fosse utile, dubitando non freddamente fossero accettati i semi di una severa morale. In cosiffatto proposito scrisse gli Asolani, che sono dialoghi filosofici di amore, ove si comprende aver lui voluto contendere col Boccaccio, e possederne la ricchezza e la leggiadria di stile nella dipintura [156] dei costumi e nelle descrizioni, ma venirgli meno la precisione e la semplicità.

Molti scrittori di gran nome, e più il Castiglione e il Della Casa, lasciando trattar ad altri i grandi principii della morale, si volsero a commendare le minori virtù, ovvero, secondo che Aristotile le chiama, mezzane virtù, le quali, perocchè l’uso loro è d’ogni momento, troppa influenza esercitano sopra la felicita sociale. Compose Baldassare Castiglione il famoso libro del Cortigiano, annoverato fra i primi classici italiani. Il quale, quantunque sia dirizzato ad insegnare il come possa uno diventar piacevole ed utile ad un principe, confassi ancora a tutti coloro che intendono a piacere e ad avanzare nel gran mondo e nella società in generale. Il Cortigiano è sommamente commendabile per lo bel costume e le buone creanze che vi s’insegnano; le quali sebbene nella lor forma esteriore siano alquanto diverse da quelle che ora usiamo, pure, perchè sono una espressione della gentilezza dell’animo la cui essenza non cambia giammai, così servono anche oggi ad ispirarla e mantenerla7 . Nel vero il Cortigiano spira nobili e dilicati sentimenti. Oltre a questo, è ridondante molto di massime giuste, di sode considerazioni, di tratti ingegnosi, di scelta erudizione e con arte intessuta. Ancora lo stile è naturalmente leggiadro e piano in guisa che senza snervare e rallentare l’orazione, egli l’adorna e fa bella. Il Castiglione si comprende che, [157] seguendo Cicerone, appreso avea l’arte del dialogo; se non che egli assai cautamente e con discrezione usa lo stil rotondo e sonoro: insomma l’Opera sua è un esemplare perfetto di eloquenza didascalica.

Giovanni Della Casa, come scrittore, è de’primi della nostra lingua, anzi il migliore di tutti dopo il Boccaccio, secondo che affermano vari critici, e non dee occupare l’ultimo luogo tra gli autori moralisti per gli eccellenti suoi trattati del Galateo e degli Uffici comuni. Quanto al primo non dee parer frivolo, come dice egli stesso, saper quello che si convenga di fare per potere, in comunicando e in usando colle genti, essere costumato e piacevole e di bella maniera: il che nondimeno è o virtù, o cosa molto a virtù somigliante. Gli ammaestramenti che in esso ci porge, oltre al presentare una piacevole dipintura delle sollazzevoli brigate di quell’età, sono ancora e sempre saranno di una utilità somma, come quelli che il modo c’insegnano di vivere nel civile consorzio, e ci parano dinanzi una ricchissima abbondanza dei diversi caratteri umani, senza conoscere i quali non si può nemmeno sapere come trattar si debba cogli uomini e come acquistarne l’amore. E perchè la materia parrebbe alle volte troppo tenue e minuta, opportunamente è condita colla varietà di novellette e di esempi, la cui naturalezza e leggiadria è più agevole a sentirsi che ad esplicarsi. Una non piccola parte del trattato è impiegata ad insegnare il modo con cui raccontar si debbano nelle brigate accidenti, o novelle, o istorie; del che [158] non si maraviglierà chiunque avrà osservato che gli uomini si adunavano allora insieme per godere vicendevolmente dei piaceri della società, per comunicarsi le cognizioni acquistate ed alleviare le pene della vita, non già per tacere e per gittare inutilmente l’ingegno, il tempo e talvolta ancora le sostanze.

Non inferiore al Galateo è il trattato degli Uffici, benchè per la lingua men reputato del primo; ma l’argomento è di maggior importanza per la morale. Perciocchè in quello ha l’autore raunato, come egli dice, alcuni ammaestramenti, e quasi composta un’arte di quella amicizia la quale è tra gli uomini potenti e ricchi e le persone basse e povere, e a cui l’odioso nome della servitù, per la somiglianza che ha con lei, è stato posto. L’autore ben distingue tra i bassi amici quelli che prestano l’uso delle membra corporali da quelli che per l’industria, per l’ingegno, per l’esperienza delle cose, e finalmente per lo valore dell’animo, e non del corpo, sono stimati e avuti cari. A tutti insegna quali siano gli uffici loro, ed anco a’superiori l’arte del sapere usare della maggioranza, e specialmente come amorevoli e umani esser debbano cogli amici inferiori, e come sia loro debito il ricompensarne l’onestà e le fatiche. Non si dee per ultimo tralasciare che questo trattato, quantunque dall’autore scritto in latino, nulla sente di traduzione, ed ha quella franchezza che il mostra piuttosto originale che copia.

Tre altri Fiorentini illustri, il Firenzuola, il Gelli e il Salviati, si studiarono di rendere [159] agevoli e graziosi i precetti della morale. Alle finzioni i primi due si appigliarono. Agnolo Firenzuola finge nei suoi Discorsi degli Animali che un buon Re avesse nella sua Corte un filosofo il quale alla gran dottrina aggiungea la vera bontà, e alla bontà una urbanità e una modestia grande; ch’egli costumava, in luogo di giullari e buffoni, per suo passatempo ragionar con lui e domandargli risoluzione di tutte quelle cose che gli tenevano la mente dubbiosa. Il filosofo prima recitata la sua opinione, la confermava colle vive e vere ragioni, di poi con alcune facete favole e novellette, delle quali per propria invenzione egli era un altro Esopo. L’Opera del Firenzuola è scritta in uno stile quanto mai dir si può nitido ed elegante, e pieno di amenità e di leggiadria. Mal fatto è che a favole morali abbia egli accoppiate novelle men che oneste. Ma si potrebbero queste lasciar fuori in un’edizione ordinata ad ammaestrar la gioventù, ed unirle alle altre sue novelle le quali pure non hanno dote di moralità. Il Firenzuola non solamente siede fra i primi favolatori moderni, ma fa gran vista di aver dato esempio e soggetto all’autore degli Animali parlanti.

Giambattista Gelli, ottimo scrittore di prosa ed acuto filosofo, ha il merito di pascer graziosamente lo spirito in un tempo colla bellezza dello scrivere e colla novità delle idee; cosa rara negli scrittori di quella stagione. Non v’ha fra’dotti europei chi non volesse aver letti i dialoghi del Gelli intitolati I Capricci del Bottaio e La Circe. La semplicità, la naturalezza [160] e il garbo dei dialoghi, congiunto a una, sincera eleganza lontana parimente da ogni trivialità e raffinatezza, rendonli oltremodo piacevoli ed importanti. Le cose filosofiche vi si discorrono colla massima facilità e con metafisiche riflessioni superiori alle cognizioni di que’tempi. L’ingegnoso trovato di far ragionare il Corpo di Giusto coll’Anima di lui, onde spiegarne il mutuo commercio, piacque ai filosofi non meno che agli uomini d’ogni condizione, i quali apprendevano cose inosservate, benchè riconosciute tosto verissime dall’intimo senso nostro. I Capricci non superano La Circe nè in bellezza, nè in importanza. Ulisse impetra da Circe ch’ella faccia tornar uomini quanti Greci avea trasmutati in bestie, a patto ch’essi ne siano contenti. Ricusanlo le bestie tutte per la infelicità dell’umana condizione, eccetto un elefante che fu già filosofo, il quale, dopo lunga disputa, in grazia dell’umano intelletto, acconsente di tornare uomo. Avvi in questi dialoghi molte belle cose pertinenti alla morale ad alla fìsica, esposte con cert’aria di novità ed un contrasto di stile fra la semplicità delle bestie e la nobile gravità di Circe e di Ulisse. Parve a molti che le Opere del Gelli si risentissero di quella libera filosofia che rinacque in Italia prima che altrove. Esse infatti racchiudono grandi e utili ma libere verità, per cui riescirono ingrate a molti e furono censurate, mentre tutte le colte nazioni ne fecero o traduzioni, o imitazioni8 .

[161] Letterato di alto grido fu il Salviati, e degno è di seggio fra i moralisti per li suoi dialoghi dell’Amicizia che, dopo il trattato di Cicerone, con piacer molto si leggono; perocchè vi dimostra l’utilità, il diletto, la maestà e la necessità dell’amicizia. E molto sono essi apprezzati non solo per la molta erudizione e per lo diritto giudizio della critica, ma per lo stile ancora tutto vivace e fiorente, con una favella singolarmente forbita e nitida, ed un’avvenentezza naturale insieme e nobile. Assai meritò del volgare italiano il Salviati, tra perchè fu l’uno dei primi autori del Vocabolario della Crusca, e perchè co’suoi Avvertimenti della lingua diè molto aiuto a costituirne la purezza e la leggiadria. Nè per tanto di meno è da perdonargli l’aver, sotto il nome dell’Infarinato, egli pel primo esercitate le sofistiche, parziali e ingiuriose censure dell’Accademia della Crusca contro il poema dell’immortale Torquato, le quali moltiplicarono le disavventure a questo grand’uomo, e un prezioso tempo gli tolsero ch’egli alla gloria sua e alla italica letteratura avria potuto consacrare.

Tra le più tiranniche persecuzioni, dalla invidia concitate e dalla sconoscenza e dalla stoltezza, scrisse il più delle sue prose il Tasso, che l’uno de’più alti scanni fra gl’italiani prosatori gli edificarono. Ne’suoi dialoghi e ne’suoi ragionamenti dirizzati alla critica, egli tratta della eroica poesia non altrimenti che avesse Cicerone trattato dell’eloquenza, che tanto è a dire, quanto a modo di un gran maestro dell’arte. Nel comporre i suoi dialoghi di morale [162] tenne dietro a Platone, e forse dopo Cicerone stesso nessun altro nei dialoghi filosofici riuscì meglio del Tasso. Egli tratta con profondità, con dignità e con diletto la materia, ed è sopra tutto mirabile per la invenzione, per la maniera di condurre gli argomenti, e per la varietà e importanza dei soggetti da lui presi ad illustrare. Tutti i punti della morale che maggiormente giovano al bene tanto degli uomini quanto della società, ha egli toccati. E fra’suoi dialoghi sono in più pregio tenuti quelli del Padre di Famiglia, dell’Amore, dell’Amicizia, delle Virtù, della Clemenza, della Nobiltà, della Dignità, del Messaggero, della Virtù femminile, della Corte, ec. Epici furono chiamati per Aristotile i dialoghi di Platone; il quale epiteto si conviene singolarmente a quelli nei quali veggonsi in azione i personaggi ch’egli v’induce, e specialmente Socrate. Or son molti i dialoghi del Tasso che per diritto si vorrebbero nominare epici, non che per le sentenze, ma per le dipinture piene di quella grandezza che appalesa il poeta eroico. Salvo che in Torquato, come spesso ammiransi bellezze degne del suo maestro Platone, così talvolta inciampasi in certe sottigliezze, di che non sono privi i dialoghi di quell’antico ragionatore.

Le Opere morali del gran secolo le più famose e le più apprezzate abbiamo fin qui poste in ischiera: ma ve ne sono ancora più altre che pur meritano di esser menzionate, siccome le Operette morali di Scipione Ammirato, i Dialoghi morali e il trattato della Nobiltà delle [163] Donne scritti per Lodovico Domenichi, la Instituzione delle Donne composta per Lodovico Dolce, i dialoghi della Morale Filosofia fatti da Antonio Bruccioli, gli Avvertimenti morali di Girolamo Muzio, i Discorsi morali di Francesco Bocchi, ec. E nota che gli argomenti trattati dai moralisti di quel secolo sono quasi uniformi, come quelli che il più parlano dell’amore, dell’eccellenza delle donne, della nobiltà e dell’onore. Ed è una maraviglia vedere quella gran moltitudine di Opere non aver altro fine se non che la difesa, la lode e la scuola delle femmine; il che fa argomento che a quei tempi si usasse di dovere a quelle piacere per via di lettere, come da prima per atto di arme s’era usato. Simiglianti scritti senza alcun dubbio furono atti in gran parte a mitigare e far belli i costumi: ed altrettanto è a dirsi di quel gran numero di trattati che a que’tempi stessi comparvero sull’Onore. I quali a dover soffogar lo spirito della vendetta erano dirizzati, che si era concepito e sparso in tanti secoli di guerre civili e di divisioni, ed erasi sempre nudrito per opera dei Governi deboli e senza regola, i quali, non guardando a far sicure le persone, inducevano la necessità della vendetta personale, ovvero di quella, come la chiama il grande Bacone, giustizia selvaggia. Più d’uno, forse diffidando di poter far meglio, scrisse in favor del duello, ingegnandosi di por qualche modo e di dar un ordine alla vendetta. Ma furon molti che scrissero in contrario, e non senza profitto, e fra questi è più da stimare G. B. Possevino, autore [164] d’un dialogo dell’Onore, come ancora Fabio Albergati che fece il Trattato di ridurre a pace le private inimicizie.

Assai moralisti ebbe ancora il secolo XVII, i quali però non aggiunsero, in quanto a scrittori, al valor del secolo precedente, da che quasi tutti sapeano di quel pestilenzioso gusto che allora discorrea. Di tal numero fu Emanuele Tesauro, che ingegno ebbe ed immaginazione senza modo, e non gli sarebbe male appropriato, se si chiamasse il Marini della prosa; siffattamente sfrenato fu nello stil figurato, e con tanto studio si distillò nei pensieri sottili e ritorti. Di costui ci è un Trattato, nel quale si è affaticato di agevolare e far piacere la morale filosofia. Più semplicemente e via meglio scrissero altri moralisti, siccome fecero Benedetto Fioretti, il quale produsse i suoi Esercizj Morali sotto il nome di Udeno Nisieli; Gio. Battista Muzi, il quale trattò della cognizione di se stesso; Francesco Bracciolini, già di maggior grido fra i poeti, il quale diede una Istruzione alla vita civile; Pietro Belmonte da Rimino e Vincenzo Nolfi da Fano; e questi scrissero ambedue per ammaestrar le donne; il primo la Instituzione della Sposa, e l’altro la Ginipedia.

Ma degni fra i moralisti sono di special menzione due famosi scrittori del detto secolo, Daniele Bartoli e Sforza Pallavicini. Il primo così mise mano alle lettere come alle scienze, e fece vedere, in ogni materia che trattò, spirito ardito e fertile, dottrina varia e profonda, e uno stil vivo, gagliardo e schietto. Delle sue Opere morali le più notabili sono le Recreazioni del [165] Savio, la Geografia trasportata al morale, e l’Uomo di Lettere difeso ed emendato. Nella prima si trovano morali considerazioni sulle maraviglie della natura; nella seconda il Bartoli, perciocchè molto fu buon geografo, concepì l’avviso, non so se più singolare che felice, di riferire alla geografia la morale; nella terza poi si contiene un trattato non meno solido che artificioso, con che l’autore, dopo avere contro gli assalti della ignoranza e della invidia schermito il letterato, gl’insegna i modi che sono acconci a non voler la dignità perdere del suo carattere e la influenza dell’ingegno. Il perchè se avesse egli voluto chiamare quell’Opera, Morale del Letterato, avria potuto farlo. Il Pallavicini poi, che prima fu Gesuita come il Bartoli, e quindi cardinale, ebbe gran fama dalla sua Storia del Concilio di Trento. Ma il suo trattato Dello Stile e del Dialogo gli merita luogo altresì fra i migliori critici, siccome gliel concede fra i buoni moralisti il trattato Del Bene, benchè sia teorico più che pratico, conciossiachè vi parli sovente la lingua filosofica delle scuole, anzi di molte quistioni teologiche frammetta alle sue discussioni. Nondimeno in quell’Opera, tutto che troppo acume di dottrina vi si vegga, i principii di morale sono con robustezza trattati. Grande eziandio si è la conoscenza ch’egli vi produce della filosofia degli antichi, ma non però che vana pompa di erudizione vi spieghi. E lo stile, siccome ad un dialogo filosofico si conviene, è chiaro, agevole e naturale.

Dai falsi modi e dagli errori del Seicento si [166] tenner lontani più che gli altri, siccome fu non ha guari notato, i Toscani, e prestarono ancora opera a rivocare il buon gusto; e di questa schiera sono Lorenzo Magalotti e Antonmaria Salvini, ai quali si conviene eziandio un seggio fra i moralisti. Conciossiachè quel primo fu da molto nelle lettere e nelle scienze; ed essendo segretario della famosa Accademia del Cimento, compilò i Saggi di Naturali Esperienze, ove egli usò una stile degno delle scienze, cioè chiaro, preciso, semplice ed elegante, da essere norma altrui. Poi nelle sue Lettere scientifiche ed erudite con molto sottile ingegno e con assai largo sapere trattò di fisica e di altre facoltà varie quistioni tutte utili e dilettevoli. Ma l’Opera del Magalotti più da prezzare si è quella delle Epistole contro gli Ateisti; le quali tutto che siano dinominate famigliari, contengono pure uno stile conveniente al soggetto, perchè ha nobiltà, forza, agevolezza e leggiadria. Il vero principio di moralità, con cui viene a risolver gravissimi nodi, egli in quest’Opera determinò; la quale non ostante che da quei che troppo vaghi son della purezza, sia biasimata talora d’aver modi e locuzione men che italiani, e sentir dello straniero, è nondimeno tenuta per buona e per bella nel nostro idioma. Ancora il Salvini, che fra l’estremo del decimosettimo secolo e il cominciamento del diciottesimo fiorì, siede fra gli scrittori che la lingua e la italica letteratura aiutarono. Compose Opere di un gran pregio in più di un genere; ma qui farem motto dei soli Discorsi Accademici, i [167] quali per la più parte intorno a’morali argomenti s’aggirano. Sono piccoli saggi molte volte in forma di dubbi, nei quali va l’autore investigando il pro e il contra di utili e gravi e piacevoli quistioni. Havvi ingegno, havvi filosofia, ed una variata e non comunal dottrina. Aggiungi lo stile che sempre è terso e corrente, e di atticismi pieno e di tutti i più bei fiori della lingua. Il perchè non solo non merita l’accusa di soverchia e servil purezza, ma si dee commendare di avere alla lingua recata dovizia di nuovi vocaboli e di nuove locuzioni; e poche Opere italiane abbiamo, la cui lettura siffattamente ammaestri e diletti; anzi sono di quel numero che non essere di continuo ristampate è gran fallo.

Fra i moralisti sono da collocare altresì due scrittori che fecero luminoso l’ultimo secolo, e che per tutta Europa son celebrati, il Maffei ed il Muratori. Nato il primo di stirpe illustre, dopo che fu glorioso nella milizia, si rivolse ad espugnare i falsi principii del punto di onore ond’era già surta la scienza chiamata Cavalleresca. Sopra la qual materia aveano veduto i due precedenti secoli venire una pioggia di trattati che tutti gli animi occupavano, per modo che chi più si opponeva ai fondamenti della morale e della religione, più richiesto era e più spesso letto. V’avea per tutte le città dottori di cosiffatta scienza chiamati Mediatori di pace, che facendosi arbitri e giudici di tutte le contese, erano sovente sofistici e cavillatori a impedir la pace, più che a conchiuderla non erano i contenziosi. Ma si accampò il Maffei, e con [168] tanto senno, e con tal virtù d’argomenti, e con sì gagliardo e nobile e puro stile diede sopra l’orgogliosa scienza cavalleresca, che quanti trattati ne andavano attorno, caddero tutti nel disprezzo e nell’oblio; nè per altro sono ricordati al presente, se non per la ragionata contezza che il Maffei stesso ne porge. D’una grande e vera potenza fu l’Opera sua, che per autorità senza eccezione ancora si allega; il che senza fallo è la più gloriosa vittoria che possa uno scrittore guadagnare.

Poco prima che quest’Opera del Maffei nascesse, avea scritto anche del punto d’onore il Muratori nella sua Introduzione alle paci private; se non che questi diede solamente consigli ai mediatori di pace, i quali, non altrimenti che i sofisti nei piati legali, più volte in vece di prevenire ed acconciar le contese, le muovono e le alimentano. E convien dire che questo spirito di conciliazione e di giustizia condusse pure il Muratori a pubblicare un trattato intorno ai Difetti della Giurisprudenza, per dimostrare nelle leggi e nel procedimento di quelle tutto ciò che colla morale non concorda, e per conseguente è ingiusto e da riformare. Appresso, egli fece un libro di Filosofia morale, che gran cosa è tenuta fra le Opere le quali sopra questa grave materia siansi scritte. Nè di Aristotile interprete, nè del sistema d’alcun filosofo egli è stato seguace, nè dietro alle vane speculazioni s’è ito pascendo di vento; ma tenne ordine ed usò chiarezza nello esporre i principii della morale, e spese arte ed ingegno nel compilare un trattato [169] pratico ed agevole alla intelligenza di qualunque lettore. Ancora immaginò il Muratori che alla morale si potesse legar la politica, ed egli il fece nel suo trattato Della Pubblica felicità, la quale da cosiffatta Opera fermamente si trarrebbe, ove i Governi a quei dettati si sottomettessero. Ma nella prima schiera degli scrittori moderni s’è collocato il Muratori con lo avere accesa per entro la storia e l’antichità la face della critica filosofica; come che non sia men da lodare per le tante altre Opere, le quali di alto pure ed ampio sapere, di giusto spirito filosofico e di fervido amore verso l’umanità sono ricche e preziose.

Fra gl’Italiani che del pari furono illustri nelle lettere e nelle scienze, e scrissero bene il nostro volgare e il latino, e non meno in prosa che in versi, si vuol numerare Francesco Maria Zanotti, segretario dell’Istituto di Bologna. I commentarii per lui sotto quell’ufficio scritti lo degnarono del soprannome del Fontanelle italiano. Ma da che i confini di questo Saggio non ci lasciano troppo spaziare, qui non farem parola che della sua Morale Filosofia, secondo la opinione dei Peripatetici, ridotta in compendio. La quale Opera è fatta per la gioventù, e singolarmente per coloro che nella eloquenza e nella poesia pongono studio. E questo è quello che dovria ponderar chiunque afferma, il Zanotti aver potuto scrivere un’Opera di più profonda materia. Egli vi tratta delle disposizioni e delle passioni degli uomini, dei vizi e delle virtù, del giusto e dell’onesto, della felicità e del sommo bene. Ed aprendo e mostrando con [170] molto ordine, con chiarezza e assai succintamente i principii di Aristotile, non gli si stringe nè lega egli per maniera che più una che altra volta non se ne scosti, e non rivolgasi a Platone, della cui filosofia tanto è innamorato, che fa sembiante di aver seguitato mal volentieri Aristotile. In somma il Zanotti pare che abbia proposto di trarre fuor dalle fanghiglie del parlare scolastico la filosofia morale dei Peripatetici, e quella ornare di uno stile leggiadrissimo e di tutte le bellezze e di tutti i fiori della lingua, e seminarla di sentenze or graziose e semplici, or dignitose e magnifiche. Oltre a ciò, il Zanotti, con un ragionamento pieno di alti ed acuti pensieri, confutò il Saggio di Morale Filosofia di Maupertuis, nel quale intendea questo scrittore di provare che i principii degli Stoici si dilungano sempre dal vero, e dalla cristiana religione discordano. Aspre e fiere controversie da questo scritto ebber principio a movimento di tali che per troppo zelo non vedean lume; salvo che il fine che fecero fu onorevole al Zanotti, il quale per via di ragionamenti e di epistole piene di eleganza e di sale, non che salde in ragione e fondate in filosofia, abbattè gli avversarii. È il Zanotti uno di quegl’illustri Bolognesi che per amore della patria ricusarono di essere in grande ed onorevole stato appo le Corti straniere che loro il profferiano; e poi non pur gratitudine del sagrificio loro e guiderdone delle lor fatiche attesero invano, ma si morirono in quella piccola condizione che indigenza si può chiamare.

Tre chiarissimi Napoletani, Vico, Genovesi e [171] Filangeri, seggono accanto ai sommi filosofi i quali hanno i principii della universal morale ricerchi e dichiarati. Il primo dopo faticose meditazioni sopra i tempi oscuri e favolosi, e sopra gli storici di remota antichità, e dopo una copia immensa di conghietture tratte dalle nature e dai sistemi di tutte le nazioni e di tutte le filosofie, pose in luce i Principii d’una Scienza nuova, nei quali investigando i veraci fondamenti del dritto della natura e delle genti, getta quelli altresì della general moralità. Abbonda quest’Opera di materie recondite, di principii fecondi in conseguenze infinite, di scoperte nuove fuori di ogni espettazione. Citazione/Motto► “Il sistema di quest’uomo straordinario, dice Buonafede, sebbene avviluppato in erudizioni astruse ed in pensieri singolari e talvolta oscuri, racchiude però una profonda solidità, a similitudine di quegli antichi massi che circondati di spine e coperti di edere mostrano pure la loro stabile maestà9 .” ◀Citazione/Motto

Antonio Genovesi, per la grandissima intelligenza e profondo sapere di ch’era dotato, per poco non parve nato più ad insegnar le sue dottrine agli altri che ad apprender esso le altrui. E veramente le Opere sue fecero in Italia cangiar sembianza del tutto alla filosofia. Perciocchè ogni verità che avean ritrovata gli antichi, quante cose utili avean pensate i moderni, e ciò ch’egli avea potuto ricogliere da cupe meditazioni e da caute e minute disamine, tutto ordinò nel trattato di Logica e Metafisica. [172] Toccò poi tutta la scienza morale nella sua Diocesina, che tanto è a dire, quanta è la filosofia del giusto e dell’onesto, formandone un trattato teorico e pratico ad un tempo, e certificandone i principii con gli esempi dei più chiari popoli. Nè è da contrastare che l’uno dei migliori codici che si leggano al presente della morale, sia quest’Opera. Ma dovea un filosofo il quale avea gli antichi errori distrutti e tante idee novelle edificate, avere nemici e persecutori; nè il Genovesi per maggior sua gloria ne fu privo, se non ch’egli pubblicamente li prese a scherno con le sue Lettere filosofiche ad un Amico provinciale; e queste, oltre alla forza che hanno, sono piene di finissimi sali. Per corona delle sue Opere il Genovesi vi aggiunse le Meditazioni filosofiche sulla Religione e sulla Morale, dove ad altro non mira, se non se a provare che i comandamenti della legge naturale sono confermati e a perfezion condotti dalla religione.

Accoppiando moralità e politica, formò il Filangeri della legislazione una scienza ordinata, sicura e facile ad un tempo, e in essa stesamente egli tratta dei principii che seguir si denno per compor buone leggi. Fu detto dell’autore dello Spirito delle Leggi, che il genere umano avea smarrito le sue carte, e che Montesquieu trovolle e a lui le restituì. Per simil guisa può affermarsi di Filangeri, che nel renderne in certo modo popolare l’intelligenza, gli ha insegnato a saperle conservare. Si trovano nella sua Opera moltissimi nuovi ed utili pensamenti, giuste osservazioni e soda dottrina. Mentre che [173] detta le regole, porge anche la maniera di congiungere alla teorica la pratica. Non ha per certo il suo stile la rapidità, l’energia e il colorito del Montesquieu, ma di chiarezza, di facilità, di calore non patisce disagio, se non che gli viene apposto di essere talvolta prolisso e di seminarvi per entro de’gallicismi.

Uno scrittore che al pregio delle cose aggiunga in sommo grado quel dello stile, si è Appiano Buonafede, più noto sotto il nome di Agatopisto Cromaziano. Fornito egli d’acuto e fertile ingegno, di vivace immaginazione e di vasto sapere, imprese a correre quasi che per ogni letterario arringo, e molta fama si procacciò cogli Elogi dei grandi Uomini e colla Storia della Filosofìa. Ma quelli fra gli scritti suoi che più fanno al nostro proposito, sono due brevi ma succose Opere, l’una delle Conquiste celebri, e l’altra intitolata Storia critica e filosofica del Suicidio ragionato. Comincia la prima dallo esaminare i falsi principii su i quali si fondano quelli che scusar vogliono le conquiste, e poscia dimostra che l’equità della guerra e i termini della conquista stanno soltanto nella necessità di conservare e difendere noi stessi e i nostri chiari e legittimi diritti, nella riparazione de’sofferti danni e nella discreta sicurezza per l’avvenire. Il leggitore in trascorrerla riman soprappreso da un giusto orrore inverso i conquistatori, i flagelli dell’uman genere, pei quali non pure gli oratori e i poeti, ma gli storici e i filosofi eziandio versano a man piena le lodi. Nell’Istoria filosofica del Suicidio ei ne cerca l’origine e le [174] cagioni presso gli antichi e i moderni popoli; e poi abbatte gli argomenti e i sofismi, onde si è studiato taluno, se non di giustificarlo, di escusarlo almeno, e con forte eloquenza ne fa vedere che le naturali e divine leggi ognor lo divietano.

Ancora Gaspare Gozzi, il quale fu nominato il moderno Luciano, ebbe speziale affezione alla filosofia morale. Soleva egli sottilmente i costumi osservare degli uomini, siccome si deduce da que’fogli che a punto col titolo di Osservatore, seguendo lo Spettatore Inglese, egli tempo per tempo pubblicò. Il legger que’fogli non è altrimenti che il ritrovarsi in una sala di pitture le quali per li più eccellenti maestri state fossero pennelleggiate. Conciossiachè non abbia in uso il Gozzi di compilare lunghi trattati e gravi; ma le più volte con un dialogo, con una novella, o sogno, o allegoria riesca egli al suo fine. La qual cosa parrà lieve a fare peravventura; ma di grande ingegno e molta inventiva, doni concessi ad assai pochi, è mestieri. Beffa e deride i difetti, conculca il vizio, esalta la virtù il Gozzi, nè in servili declamazioni, nè in orgoglio, nè in ipocrisia travalica mai. Che se in Italia fosse così comunale usanza e così volgar la lettura come in Inghilterra, senza quistione il suo Osservatore saria stato un grande aiuto a migliorare l’universale costume. Similmente scrisse il Gozzi del Mondo Morale; in ch’egli riguarda addentro la umana natura, trova le cause della sua alterazione, e va i germi investigando dei vizi e delle virtù, ed ammaestra ed insegna a migliorar se stesso, ed a conoscere [175] chi con noi conversa e chi noi trattiamo. Il Gozzi è uno de’più eccellenti scrittori che dopo l’aureo secolo fiorissero. Colse negli autori classici il più bel fiore, onde trasse il suo stile puro, elegante e soave, che nella sincerità de’suoi modi e nella animata leggiadria delle sue locuzioni ha pochi eguali.

Or mentre che pubblicava il Gozzi il suo Osservatore in Venezia, uscì fuori in Milano un’altra Opera delle cosiffatte, portando in fronte per titolo Il Caffè, che per una brigata di valentuomini era composta, i quali aveano tutti gran fama, siccome furono Beccaria, i due conti Pietro e Alessandro Verri, il Parini, il conte Carli e l’abate Frisi. Si raffigura nei diversi saggi di quella raccolta periodica il concetto e l’abbozzo di parecchie Opere che il nome poi di quegli scrittori tanto alto levarono. E nel vero il Caffè, l’una delle più belle cose di tale specie, è degno de’suoi grandi autori. Anzi convien far lamento che sì pochi ne siano gli esemplari, e ne torna vergogna agli stampatori che, moltiplicando libri di poco momento e per la sostanza e per lo stile, neglette lasciano le utili e piacevoli composizioni. Altre morali raccolte per la Italia discorsero, e tutte avviate in su la traccia dello Spettatore Inglese, quali furono lo Spettatore Piemontese, l’Osservator Toscano, le Lettere critiche e morali del Costantini e le Lettere capricciose dell’Albergati e del Zacchiroli; se non che quest’ultime vogliono dalle altre esser distinte, come quelle che spirito e piacevolezza versano e giocondità, e sotto forme ingegnose e dilettevoli la morale ci appresentano.

[176] Dai conti Verri, non ha guari nominati, furono altre Opere morali composte: e Pietro, il maggiore, apprezzato a buon dritto come storico e come scrittor politico, fece due ragionamenti, l’uno sull’Indole del Piacere e del Dolore, e l’altro sulla Felicità. Nel primo spiega un sistema di cui si trovano i semi in Platone; il che è questo, che il piacere non è una cosa da se stesso, ma nasce dal cessamento di un male, e che il solo principio motore dell’uomo è il dolore. Il secondo dimostra poter la sola virtù procacciarne quella poca felicità che a noi tocca; e poter la sola coltura dello intelletto additarne in ogni cosa il cammino della virtù. E queste due scritture sono da reputare non solo per la profondità e dottrina dei pensieri, ma per lo stile ancora ch’è aperto e succinto.

L’alto grido di Alessandro Verri provenne massimamente dalle Notti Romane, nelle quali per nuovo e sottile artificio egli finge e pone in su la scena i più chiari Romani antichi, ne rileva il carattere, e circa i punti più forti della politica e della morale produce fra loro le disputazioni. Certo la forza e la vita di quest’Opera muove ancora dalla sua forma drammatica; ma l’effetto che ha partorito si dedusse principalmente dall’egregia maniera onde fu compilata. Chè le parlate che vi fanno gl’interlocutori, oltre ad esser varie sempre e faconde, s’accordano bene al lor carattere: come che introdurre Scipione, Tullio, Pompeo, Cesare, Catone e Bruto a parlare con dignità, non fosse cosa lieve da ottenersi. Senza che le descrizioni e [177] le dipinture sono vigorose e splendide e compassionevoli, secondo che si richiede al bisogno; con questo che sempre terso e nobile e ornato è lo stile. Il perchè le Notti Romane quasi in tutti i civili idiomi dell’Europa furono trasportate.

Nè fra gl’italiani moralisti di maggior vaglia si dee tacere Gio. Battista Roberti, nè Giuseppe Bianchi, nè Pietro Schedoni: conciossiachè del primo, il quale è posto fra i buoni scrittori dell’ultimo secolo, si abbiano più Opere morali di non minor diletto che ammaestramento; e le meglio apprezzate sono il trattato dell’Amore verso la patria, le Annotazioni sopra l’Umanità del secolo XVIII, la Lettera sul trattamento de’Negri, i Discorsi sopra il Lusso e il trattato della Probità naturale. Giuseppe Bianchi, postosi nell’animo che la scienza dei costumi sia di sua natura una scienza di sentimento, il dichiarò col titolo stesso della sua Opera, che è la Morale del Sentimento, nella quale non d’altro si briga che di favellare al cuore, e l’amore della umanità e di tutte le virtù suscitare. Ultimamente al signor Pietro Schedoni, annoverato per la Italia fra i più valenti scrittori che vivano, cadde fortunatamente in pensiero di ordinare sulla osservazione delle Influenze morali una scienza al tutto separata dalla morale filosofica. Questa insegna i principii e i precetti; quelli dimostra come sian essi o seguitati o trapassati nelle leggi, nelle istituzioni e nelle pubbliche usanze, additando gli effetti che sopra i costumi e sul bene della società fanno. In somma è una [178] sperimentale scienza, per la quale s’impara a far giusto uso delle teoriche, delle sentenze e delle manifeste ed approvate verità. Le considerazioni dello Schedoni sono brevi e spedite, d’ingegno e di rettitudine piene, e comprese di una occulta filantropia. Forse nello applicare i principii, e segnatamente allorchè l’effetto morale esamina dell’arte drammatica, egli è troppo severo; e può essere altresì che il mostruoso abuso dei principii dirizzato a ruinare ordinazioni utili e ragguardevoli lo sospingesse alla lode e alla difesa di molte che, non ostante la buona apparenza, chi le giudica dai loro effetti, sono da radice viziose.

Del rimanente conviene ora alcuna cosa dire di quegli scrittori di prose che ad abbellire la morale e dipingere i costumi e i caratteri hanno adoperate finzioni. Fin dal cominciamento della italica lingua furono usati i romanzi; e le prime Opere di tal genere conteneano cose di Cavalleria. In alcune di quelle scritte in prosa risiede il pregio dello stile, e però sono tenuti per testo di lingua; ma la più parte furon composte in verso, che alla libertà della finzione ed al piacere della lettura fu creduto peravventura molto più confacente. Ora quelle sole che in ottava rima uscirono, son più di ottanta; salvo che di esse non camparono dalla oblivione che quelle le quali, tuttochè le lor finzioni abbiano perduto l’obbietto e il peso, si sostengono sul poetico ingegno dei proprii autori.

Vi ha pure un’altra maniera di romanzi non meno antica che la cavalleresca; e sono le [179] novelle, che mostrano la fedel pittura della vita umana, e per la verità dei colori, per la invenzione dei temi e per la dolcezza del raccontare piacciono sommamente ed allettano. Grande è il numero de’novellieri che ebbe la Italia; ma senza contraddizione il più celebrato si è il Boccaccio, quantunque il più antico non sia: da che le Cento Novelle antiche e d’incerto autore sono ragionevolmente stimate, almeno per la più parte, anteriori a qualunque novelliere. Ed esse consistono il più in leggiadri motti, in brevi avventure, in incidenze storiche; le quali cose, tra per lo stile e per la estrema semplicità loro, fanno palese che a que’primi tempi appartengono. Il perchè è questo uno dei libri in che cerca di apprendere le maniere originali e primitive chiunque ama la lingua materna. Nota, che nessuna delle Cento Novelle accoglie una cosa illecita e men che onesta, non che nel soggetto, ma neppur nella scrittura. La primiera stampa di quest’antica raccolta che fosse corretta e compiuta, si deve a Carlo Gualteruzzi da Fano, il quale, per consiglio dell’amico suo cardinal Bembo, vi mise mano.

Abbiamo di sopra tenuto ragionamento del Boccaccio, il quale, per la influenza che ebbe sulla lingua, sul gusto e su lo spirito della nazione, non può essere riguardato come un semplice autor di romanzi. Noi qui di que’suoi romanzi che son da meno che il Decamerone renderem conto. Fu la prima prosa ch’egli scrisse il Filocopo, ripieno d’inusitate narrazioni e di mirabili fatti amorosi e cavallereschi. [180] Alla declamazione ed all’enfasi trascorre lo stile; e sebbene poco o niente interessi ed alletti, ciò non ha tolto che, per riguardo alla fama dell’autore, non fosse ristampato sovente ed in altre lingue traslatato. Più naturale è lo stile della Fiammetta, nella quale la principessa Maria, natural figlia di Roberto re di Napoli, narra la storia de’suoi amori con Panfilo, o vuoi con lo stesso Boccaccio. E se non fosse che parte di questo romanzo è non già una narrazione, ma una lamentanza dell’amarezza di stare l’un dall’altro lungi, non parrebbe esso tanto uniforme e doloroso. Il Corbaccio ovvero il Laberinto di Amore è un’aspra villania che dice il Boccaccio ad una vedova, la qual prima lo aveva innamorato, e poi l’aveva schernito di questo suo innamoramento. E si dee credere che scrivesse simigliante ingiuria nell’ardore del suo dispetto, riguardando che egli malmena non solamente quella che gli avea fatta la beffa, ma tutto il sesso ancora stato per lui tante volte difeso. L’Ameto ha pure il merito di essere il primo saggio di una nuova invenzione, essendo una composizion pastorale mista di prosa e di versi, la qual fu poscia imitata dal Sannazaro nell’Arcadia, dal Bembo negli Asolani e dal Menzini nell’Accademia Tusculana. Esso è l’esemplare dell’egloga italiana. Il romanzo più breve del Boccaccio è l’Urbano, come quello che più che una novella non si distende, e vi sono alcune particolarità molto graziose ed attrattive. Tutti i predetti romanzi poca moralità e meno pittura di costumi contengono, tranne il Laberinto d’Amore.

[181] Due scrittori del XIV secolo, Franco Sacchetti e ser Giovanni Fiorentino, che poterono conoscere il Boccaccio, furono grandi e buoni novellieri, e da certi critici sono posti dopo lui senza interposizione. Le novelle del primo, come che spesse volte citate dalla Crusca, e molto fossero eziandio nei manoscritti ricerche, non uscirono a stampa che nell’ultimo secolo. Altre molte Opere abbiamo noi nominate che, giaciute in occulto entro le biblioteche, poi vider luce e la crebbero alla nostra lingua: nè son poche ancora quelle che non meritan meno, ed attendono la mano che di quella oscurità le sottragga; trascuranza e vergogna degl’Italici, ma chiaro argomento della dovizia dei primi secoli della nostra letteratura. Trecento furono le novelle di Franco Sacchetti; ma non se ne riebbero, nè se ne pubblicarono che dugentocinquantotto. Non fece il Sacchetti, come il Boccaccio, che una generale finzione le racchiudesse, frammettendovi conversazioni, ragionamenti, descrizioni e rime. Ma tutto egli narra di sua bocca, e le più volte accidenti da se stesso veduti. Le sue novelle sono più brevi generalmente di quelle del Boccaccio, e sono la maggior parte festevoli, raccontate senza veruno studio, e non altrimenti che se uno, per sollazzare altrui, cominciasse a sollazzar se medesimo. V’introduce a quando a quando le persone contemporanee, re, magistrati, monache, poeti, artisti, mercanti, lavoratori e buffoni di città e di Corte; il perchè la sua Opera è delle meglio adatte a fare costumi conoscere del suo tempo. Sempre [182] puro è lo stile, e nella lingua il Sacchetti tiene autorità. Esso è più familiare e più abituato che il Decamerone a discendere verso il comunal volgare; e molto spesso, come quello, porta locuzioni men che oneste, le quali sono da imputare al tempo in che vivea l’autore, quantunque di cosiffatta scusa egli men del Boccaccio abbisogni.

Di ser Giovanni Fiorentino è ignoto il vero nome, e per induzion si presume essere stato un frate Francescano, che scrisse le sue novelle col titolo curioso di Pecorone. Se non è pari al Boccaccio per rispetto alla invenzione ed all’artificio, poco addietro gli viene in quanto alla nettezza della lingua ed ai fiori e leggiadria dello stile. E perchè l’Opera allettasse con la unione e con la semplicità, s’ingegnò di seguire il Boccaccio, accogliendo insieme le novelle con una finzione. Per questo immaginò che un giovane, innamoratosi d’una bellissima monaca giovinetta e di santa vita, si rendè frate, e gli venne fatto di esser cappellano di quel monastero; e per tal modo potè spesso ritrovarsi con la sua bella monaca, e si convennero insieme, per passamento di tempo, di raccontarsi a vicenda una novella ogni dì. È il vero che tutto questo non è un gran fatto, e niente ha dello allettamento, nè la piacevolezza, nè la varietà del suo esemplare. Non sono più di cinquanta le novelle del Pecorone, e distinte in giornate, di che le due prime abbracciano novelle assai simiglianti per la lor trama a quelle del Boccaccio; salvo che nel minuto non passano mai i termini della onestà, e le [183] locuzioni sono ancora più costumate; ma le novelle delle altre giornate non recano più che punti storici, i quali per altro non si apprezzano, se non per li modi sinceri e nativi onde sono raccontati.

Scendendo al XV secolo, i novellieri di maggior nome furono Masuccio Salernitano e Sabatino degli Arienti bolognese; ma circa la mondezza della lingua e la semplicità e ornatura dello stile sono troppo di sotto a quei del secolo precedente. Non però che il Salernitano non sia da commendare tanto per le cose da sè raccontate, quanto pel modo che vi tiene: da che i fatti delle sue novelle sono verissimi, e ritraggono fedelmente i costumi del tempo suo. Nella prima e seconda parte della raccolta si vede il proponimento di voler solamente i disordini dei frati scoprire, e la loro falsa devozione. Nella terza si leggono intrighi e falli di amore, i quali dimostrano non essere state allora troppo caste nè troppo caute le donne. L’ultima parte è formata di tragiche storie assai notabili e gravi. Sabatino degli Arienti per lo ingegno del novellare non sale al paro di Masuccio, nè sono così nuovi, nè artificiosi, nè dilettevoli i suoi fatti, con tutto che siano alquanto naturali e facciano vista d’essere stati veri. Sabatino chiamò Porrettane le sue novelle per la ragione ch’egli le compose ne’bagni della Porretta, non guari lungi da Bologna, per dar diletto a donne e cavalieri che ivi per via di diporto si dimoravano.

Al terminare del XV secolo ed all’entrata del XVI fiorì il Sannazaro, il quale trasse a [184] più alto grado, che i suoi coetanei non fecero, le prose e i versi italiani. Della sua nominanza può egli molto esser tenuto al romanzo pastorale dell’Arcadia, ch’è una prosa frammezzata di rime, ove egli, per accendere amore della campagna e degli innocenti piaceri, dipinge i costumi, gli affetti, i sollazzi e le faccende dei pastori. Le vicende della sua vita, e massime de’suoi sfortunati amori, de’quali ha sparso qua e là le memorie, ne rendono più aggradevole e appassionata la lettura. Il fine morale dell’Arcadia per nulla differisce dagli Idilli di Gesner, salvo ch’è meno apparente. Ma quella tenera malinconia, quei delicati affetti che prendono i cuori gentili ed amorevoli, con l’aiuto di bei pensieri, di ornate descrizioni e di naturali immagini, son la ricca dote dell’Opera; onde lo stile, tenendo l’abito del subbietto, è similmente leggiadro e fresco, eccetto che l’uomo nol sentisse alcuna volta troppo limato e studiato. È chi ne’suoi versi vede soverchi latinismi: e non pertanto queste ombre e questi nei lasceranno sempre che l’Arcadia sia un’Opera classica ed originale.

Ma nel XVI secolo assai furono gli autori dei romanzi, fra i quali i novellatori non che per la invenzione e per lo stile, ma per la leal dipintura dei costumi e dei caratteri signoreggiarono. E conciossiachè singolar diletto ne porge la lettura delle novelle, a quel tempo divenne generale questo piacere; il perchè molti rinomati scrittori vi attesero, e più raccolte da dilettare, eziandio dopo il Boccaccio, lasciarono scritte. Noi quasi di volo farem qui nota dei [185] più pregiati novellieri. E per primo Agnolo Firenzuola, accoppiando nelle sue novelle il pregio dello stile e dell’invenzione che s’ammira nelle sue favole, a nessuno de’simiglianti scrittori è inferiore. E quantunque egli monaco fosse ed abate di Vallombrosa, pur nelle sue Opere non pesa la gravità della sua condizione; anzi confessa egli che per dileticare una gentildonna compose le sue novelle, nelle quali troppo più che non si conveniva fu libero.

Parimenti Francesco Grazzini, chiamato ancora il Lasca, compose trenta novelle, che in tre stazioni, da lui dinominate Cene, egli distinse. E come le nove della terza non si sono mai ritrovate, così quelle delle altre due Cene non furon pubblicate prima del 1750, benchè il Grazzini, principal fondatore dell’Accademia della Crusca, fosse tenuto per uno de’più sinceri fonti dei volgar fiorentino. Belle e gioconde ne sono le invenzioni, vivo lo stile e di naturali bellezze abbondevole; le quali cose formano il particolar pregio di questo novelliere; se non che a lui non si può perdonare quello che a pochi di siffatti scrittori non tocca, di talora varcare oltremodo, così nell’uso delle parole, come nella scelta dei temi, il confine della modestia. La qual rampogna è massimamente da rivolgere a Matteo Bandello, che fu quanto il Boccaccio licenzioso nel novellare; ed è più da condannar molto, perchè frate Domenicano era quando le scrisse, e vescovo quando le pubblicò. Ma per rispetto all’invenzione e alle piacevolezze degli argomenti il Bandello non perde con alcun novelliere; nè malagevole [186] nè tardo, nè ruvido, nè senza studio è il suo stile, che che n’abbia detto qualche Aristarco. Sono ancora ingegnose e gaie le epistole con le quali egli dona e manda ciascuna sua novella ad alcuno de’suoi amici. Delle sue novelle poi che tendono apertamente ad un fine morale, si è fatta una scelta e ne va attorno un volume. Ancora Francesco Molza fu di chiaro grido fra gli scrittori più eccellenti del XVI secolo, e compose un intero Decamerone con cento novelle, delle quali per disavventura poche in Modena, sua patria, e poche in Napoli si conservano. Ma le cinque stampate lasciano desiderio che la raccolta e la pubblicazione delle altre non sia trascurata.

Ora del predetto secolo novellatori più morali furono Sebastiano Erizzo e Gio. Battista Giraldi; il primo de’quali compose le Sei Giornate, che utili e gravi ammaestramenti di morale filosofia sotto diversi accidenti racchiudono. Che se lo Erizzo non è de’più buoni e più grandi, non si conviene ancora vilipendere il pregio del suo novellare in opera di pura lingua e di servata onestà; solo che volesse alcuno riprenderlo di troppo avere imitato lo stil del Boccaccio, e di esservi poco ed a gran pena riescito. Il Giraldi col solo titolo degli Ecatommiti, ovvero Cento Novelle, annuncia sè volere i differenti modi del vivere umano esporre, ed alla gente mostrar la via di cessar gl’inganni, dilungarsi dall’operar male, e la vera virtù seguitare. Nè tanto per la invenzione e per lo allettamento di sue novelle merita egli un posto fra i migliori novellieri, quanto per la nobiltà, [187] per la eleganza e per la severità dello stile, e aggiungi, per la eloquenza onde le parlate de’suoi interlocutori egli scalda.

Ai novellieri che nel prenotato secolo alcuna raccolta formarono, si denno aggiungere altresì Ascanio de’Mori, Gianfrancesco Strapparola e Girolamo Parabosco; dei quali il primo quantunque le più volte abbia uno stil negletto e maculato, pure alletta molto nelle sue narrazioni, ed assai modesto favella. Il che non puossi affermare delle Piacevoli Notti dello Strapparola e dei Diporti del Parabosco: se non che alcune stampe ne uscirono, ove quanto poteva offendere l’onestà del costume ne fu tutto reciso, per modo che queste novelle, miste di rime, sono rimase piacevoli ed attrattive. Si possono alle predette raccolte accompagnar quelle che consistono in novelle uniche o di piccolo numero, state da famosi scrittori del prenominato secolo scritte, delle quali molte ne furono più volte ristampate, siccome è a dire le Novelle di alcuni Autori Fiorentini (1 vol.), Novelle di Autori Sanesi (2 vol.), Novelle di vari Autori (1 vol.). Ma sopra tutte si levano quelle di Nicolò Machiavelli, di Luigi Pulci, di Francesco Doni, di Luigi da Porto, di Luigi Alamanni e di Giovanni Brevio, le quali, collocate a canto a quelle de’migliori e de’più reputati novellieri, non potrian in verun modo eclissare.

Passando al secolo XVII, senza fallo vi troveremo autori di novelle a dovizia; ma, qual più qual meno, sentirono tutti del mal sapore che quello avvelenò sempre. Celio Malespini, concioffossechè invenzione e piacevolezze non gli [188] mancassero del tutto, può gareggiare fra i primi per le dugento novelle che scrisse; e con lui son degni di nota Tommaso Costo che fece le Giornate del Fuggilozio; Francesco Loredano, al quale sono attribuite quasi tutte le novelle prodotte in pubblico sotto il nome degli Accademici Incogniti; ed il conte Bisaccioni, di cui fu la raccolta delle novelle intitolate il Porto, la Nave ec. Riguardando agli scrittori di romanzi, nessuno contrasta il migliore essere stato Ambrogio Marini che ne compose due, che sono il Caloandro Fedele e i Disperati. Quello è di molto allettamento; ma nol trae che dal soverchio maraviglioso e dall’accumulazione delle incidenze, le quali sovente affogano la principal narrazione. Questo ha forma di poema epico; e se piace, ne dee sapere egual grado al maraviglioso. Chi può negare immaginazione ed ingegno al Marini? E se non fosse che la purità, la semplicità e l’agevolezza dello stile noi sovvennero gran fatto, egli sederebbe alto assai fra gli scrittori italici.

Ma se dei romanzi che nell’ultimo secolo vide Italia si dee ragionare, essi nè per vaglia nè per numero son da comparare a quelli ch’ebbe Francia, Inghilterra e Lamagna. Non è qui luogo d’investigar di questo difetto la cagione, che per fermo a scarsità d’ingegno e d’immaginazione imputar non si può; ma bene farem vedere in questo tempo essere in tutte le Opere di finzione un moral fine assai notabile. Le nostre novelle ora sono pervenute a quello che racconti morali chiamano i Francesi: dalla qual tratta convien separare quelle che, pubblicate [189] nel 1796 sotto il nome di Giraldo Giraldi, si presumono scritte nel 1475, ma che veramente spettano al dottor Gaetano Cioni, Accademico Fiorentino, il quale per grande ingegno seppe i modi, la eleganza e la semplicità dei nostri novellieri antichi appropriarsi. Nè sono da meno le novelle di Gaspare Gozzi, che per più pregio venir possono fra le mani di tutta gente senza pericolo. Altri novellieri, siccome il Soave, l’Albergati ec., deliberarono di ammaestrare e costumare la gioventù; perchè le loro novelle dirizzarono non pure alla meta morale, ma anche al diletto e al ricreamento, e di uno stile schietto ed ornato le condirono. Qui saria fallo il tener conto di que’tanti romanzi del Chiari, i quali come che intendano ad un segno morale, ed alcun poco allettino, pur son povere cose e di vil momento.

Con la rammemorazione di tre Opere di finzione che hanno un valor vero e manifesto porrem termine a queste notizie. La prima denominata Viaggi di Enrico Wanton al paese delle Scimie, e attribuita a Lodoli veneziano, altro non è che un romanzo morale e politico ad esempio de’Viaggi di Galliver per Swift, quantunque il pregio di questo inclito Inglese non raggiunga; ma nondimeno è ingegnoso nelle allegorie, acuto e grazioso nella satira dei costumi, delle instituzioni e dei pregiudizi. Havvi ancora di Lodoli una raccolta di Apologhi in prosa che meritan lode, non che per la invenzione degli argomenti, ma pel senso morale e filosofico che vi dimora. Il secondo romanzo son le Avventure di Saffo raccontate dal Verri, [190] autore delle Notti Romane, per produrre un’Opera a simiglianza de’greci romanzi. E veramente lo stile è semplice e leggiadro, e le dipinture vi sono belle e ridenti; nè vi è cosa mai che alla onestà faccia ingiuria. Pure il non aver adornato di una o altra particolarità da far forza, un soggetto così divulgato, gli è disdicevole. E se non fosse che di necessità conviene che sia freddo un romanzo mitologico, si potria giudicare che tanto amore, tanto ingegno, un fine sì compassionevole ed un nome sì chiaro doveano allo scrittore infonder più fuoco e più fantasia suscitare, da che la storia di Saffo era d’ogni gran cosa capace. Il terzo romanzo, nel quale altamente risiede tutto l’interesse che al precedente non fu dato, sono le Ultime Lettere di Iacopo Ortis, inventate da Ugo Foscolo, scrittore vivente de’meglio estimati, il quale avria potuto chiamarlo il Werther italiano, per la storia di un amore terminato con un suicidio. Dispiace troppo che il morale effetto di questo non sia meno pericoloso di quello del Werther alemanno. ◀Livello 1

1V. Della Ragion poetica, lib. II, art. XIII.

2V. Gravina, Rag. poet., lib. II, art. 19.

3V. Ginguené, Hist. de la Litter. Ital., tom.VI.

4V. Litter, du Midi de l’Europe par M. Sismondi, tom. IV.

5V. Proposta di alcune correzioni ed aggiunte al Vocabolario della Crusca. Milano, l820-2l.

6V. Parini, tom. v, op. com.

7V. Parini Op., tom. v.

8V. Op. del Gelli, ediz. milanese dei Classici italiani.

9V. Della Ristauraz. d’ogni Filosof., tom. III, cap. XLV.