Citation: Giovanni Ferri di S. Costante (Ed.): "Sezione II", in: Lo Spettatore italiano, Vol.1\02 (1822), pp. 51-67, edited in: Ertler, Klaus-Dieter / Fuchs, Alexandra (Ed.): The "Spectators" in the international context. Digital Edition, Graz 2011- . hdl.handle.net/11471/513.20.782 [last accessed: ].


Level 1►

Sezione II

De’Latini

Tra’Latini, siccome tra’Greci, i primi moralisti furono poeti che subito si volsero alla poesia drammatica, trasportando nel teatro romano i soggetti adoperati nell’ateniese. Spesse volte sono copie le loro imitazioni; conciofossechè lunga stagione i Romani trattassero come cose di conquista anche le lettere e le arti, con usurpar tutto, e crear nulla. Pochi e brevi frammenti a noi giunsero dei primi tragedi latini Andronico, Nevio, Ennio, Pacuvio ed Azzio. Le tragedie che nel secolo di Augusto uscirono fuori, e furono la Medea di Ovidio ed il Tieste di Vario, poste per Quintiliano di sopra alle migliori Opere de’latini Tragedi, si sono perdute. Del teatro latino sole ne restano le dieci tragedie sotto il nome di Seneca, come che non più di quattro, secondo l’opinione de’critici, sieno di questo scrittore. Vero è che molti colpi di passione e di carattere, e gran quantità di morali sentenze profferte con dignità, con forza e con brevità, vi campeggiano. Questi pregi si osservano in quasi tutte le tragedie di Seneca, e singolarmente nella Medea, nell’Ippolito e nella Troade, dalle quali i migliori Drammatici del moderno teatro, Cornelio, Racine e Metastasio, tolsero molti tratti, ed anche varie scene onde abbellirono le Opere loro.

Quantunque la commedia si convenga essere [52] la dipintura dei costumi di quella nazione per la quale si scrive, nondimeno i comici autori latini, non altrimenti che avessero fatto i tragici, buona pezza o traslatarono o imitarono i greci componimenti. Nelle sole commedie dette Togate e nei Mimi ritrassero i costumi della nazione. Non abbiamo, come ognun sa, del teatro latino se non se qualche avanzo dei primi Comici, e parte delle Opere di Plauto e di Terenzio. Veramente il primo più che il secondo avea comico ingegno; ma non sì, che egli abbia rilevati i costumi e i caratteri, per modo che singolar grado fra i morali dipintori gli si consenta. Se toglie da natura, le più volte il toglie di là onde meno il dovria; da chè mostra sulla scena con una stomachevole verità i costumi delle femmine più svergognate e tutta l’infamia dei bordelli. A dir vero, Plauto fece una sola commedia di carattere chiamata l’Aulularia, ossia l’Avaro, nella cui imitazione Moliere lo soverchiò. Plauto tien la sua fama dal gran conoscimento della sua lingua, dai comici punti delle sue scene e dalla gaiezza del dialogo, salvo ove casca nella buffoneria.

Terenzio non ha veruno di que’vili caratteri che forma Plauto; nè del buffone, nè del licenzioso, nè del grossolano egli sente. Solo, fra’Comici antichi fino a noi sopravvivuti, ha dimostrato il cuore umano, che in tutti i secoli è lo stesso. Dall’uso comunale e quotidiano della vita sono pigliati i suggetti. Induce egli nel teatro la conversazione delle persone dabbene; la favella delle passioni, il vero senso [53] della natura. È pura la sua moralità e ammaestrevole. Gli odiosi personaggi ch’ei prende sono o famigli, o parenti, i cui vizi sono sempre, almeno col disprezzo, gastigati. Quantunque Terenzio ponga la scena delle sue commedie in Atene, pur dipinge in genere i romani costumi.

Quella drammatica poesia che chiamavano mimi, era di due modi: l’uno aveva qualità dalla buffoneria e dalla disonestà, l’altro era casto per la materia e per lo stile, e fu detto etologico, cioè morale. Sopra tutti i mimografi acquistò fama Publio Siro, i componimenti del quale abbondavano di sì belle sentenze morali, che fin dai tempi degli Antonini se ne fecero raccolte. Sono quindi arrivate fino a noi, e quasi tutti i moralisti se ne provvidero. Ciascuna sentenza si sa ch’è chiusa in un verso. A quelle di Publio Siro sono talvolta uniti i morali distici i quali portano il nome di Catone maggiore, ma sono di autore assai più recente.

Una maniera di poesia quasi parente della drammatica, e volta tutta intera alla descrizione de’costumi, è la satira. La quale sin da principio fu un componimento in azione, così come la prisca commedia de’Greci, imitata poi dai Latini. La riformò Lucilio, e ridusse in poemi didattici; e fu così che Quintiliano affermò “Tutta nostra è la satira.” Trenta libri Lucilio ne compose, e pochi brani fino a noi se ne salvarono, i quali sono ancora sì distesi, che si può stimar di leggieri lui aver naturalmente ritratti i costumi de’Romani, [54] concepite idee giuste della virtù, presa a scherno la superstizione, e riconosciuta la unità di Dio.

Orazio diede alla satira una perfezione insuperabile. Siccome avvisa Quintiliano, egli nella conoscenza dell’uomo fu più che in altro eccellente. Acconcia a tutte le menti ed appropriata a tutti i tempi è la verità de’suoi ammaestramenti; e sì ne dirizza a procedere di bene sempre in meglio, tanto per noi quanto per altrui. Orazio de’poeti morali è il più amabile, e perciò il più utile; non predica il vero, ma il fa sentire; nè comanda sapienza, ma la fa amare. Da una immensa varietà di colori, di digressioni, di dialoghi, di finzioni, di apologhi, di caratteri, e da un giustissimo uso di forme drammatiche prende egli sua proprietà, per la quale a tutti gli altri Satirici passa innanzi. Le sue epistole, a chi sottilmente guarda, non hanno scopo diverso da quello delle satire; e se non che minor gagliardia di pensieri vi si trova, esse hanno quella facilità e quel naturale andare che all’epistolar composizione si richiede.

Persio con passione ammirava Orazio, e ben lo descrisse in una satira, e lo imitò spesse volte; ma non sì, che punto fra loro si somiglino. Persio fa vista di essersi faticato in imitare Orazio nei drammatici modi che questi tiene con tanto vantaggio; ma non gli è venuto fatto com’egli avvisava. Mal condotti e tal fiata intercisi sono i suoi dialoghi; e questo e la soverchia sua brevità concorrono a farlo oscuro. Persio si è fatto singulare con una moralità sana, con una stretta logica e con uno stile [55] grave ed ardito. Non ha egli satira la quale non manifesti una dipintura pennelleggiata con vigore, e non contenga massime ripiene di verità. Ciascun s’accorge dello amore ch’ei porta e che procaccia alla virtù. Oltre a ciò, i suoi precetti sono d’uom savio, e assai de’suoi versi sono divenuti proverbi morali. Non è dunque senza ragione l’aver detto Quintiliano che molta e vera gloria s’è Persio acquistata.

Giovenale è insieme gran dipintore e gran moralista. Per un’ardente natura e per una sensibilità profonda di che era egli dotato, sdegnosamente descrisse i vizi; e con l’impeto della sua eloquenza, e con la fiamma e con la gagliardia che lo riempievano, sarebbe egli stato lo esempio de’Satirici, se non fosse che alcuna volta trascorre in declamazione. Del rimanente il suo stile si confacea alla sua materia. I capricci, le debolezze, i difetti e i vizi comuni della umanità in genere non furono tanto da lui colorati, come certe malvagità particolari d’un popolo fuor d’ogni misura avvilito e corrotto sotto un governo esecrabile. Scrisse dopo gli orridi tempi di Tiberio, di Caligola e di Nerone, ond’ebbe a ritrarre eccessi e mostri non prima conosciuti. La moralità di Giovenale sta bene alla natura e dignità di un’anima immortale, come quella che sulla esistenza di un Dio e della sua provvidenza si edifica. Qual pagano moralista mai con più forza affermò già esser colpevole chi propone di peccare, e gli Dei punire la semplice volontà di far male? Chi disegnò più spaventevol quadro della coscienza che rimorde? Chi [56] dettò mai doversi la conservazion della vita in pregiudicio dell’onore considerar per la somma delle colpe? Non pertanto Giovenale spesso ha colori soavi, e ne fanno testimonianza i suoi versi sulla pietà che dovrebbero risuonar sempre nella bocca di tutti. Ride egli talvolta ancora, come fa nella satira del Rombo, divenuta famosa per la mirabile dipintura dei cortigiani di Domiziano; ma il suo riso è il segno più amaro del disprezzo. La satira dei Voti, non ostante che i pensieri siano eccedenti, contiene passi maravigliosi; ma la più bella è riputata quella su i Pregiudizi della Nobiltà.

Della satira di Petronio qui farem motto per solamente significare che in vece di moralità vi si conosce una cinica licenza, e che in luogo della dipintura de’costumi de’suoi tempi vi si scorgon accidenti bassissimi d’una brigata della più vil condizione. Critici di acuto giudicio pensarono esser impossibile che sia questa la satira la qual Petronio, già diletto a Nerone e quindi sua vittima, gli mandò, secondo che Tacito afferma, innanzi morire. Conciofossechè un giovane e baldanzoso imperatore non potesse venir sotto la persona di Trimalcione, brutto vecchio e da poco; nè si potessero le cene di Nerone comparare ai ridicoli desinari di questo canuto idiota; nè la moglie sua Fortunata, così zucca al vento com’egli stesso, per niente somigliare la imperadrice Poppea, l’una delle più belle, delle più care e piacevoli donne che allor vivessero.

Lucrezio fu il primo de’latini poeti a por mano ad un filosofico argomento. Come quasi [57] tutti gli Atei più rinomati, egli nacque in un secolo turbolento e sciaurato; e trovatosi nelle guerre civili di Mario e Silla, e non arrischiandosi di dare carico dei mali della sua patria a’giusti e saggi Iddii, volle rovesciar dal suo trono la provvidenza, la quale pareva che alle passioni d’ambiziosi tiranni abbandonasse il mondo. Egli dichiarò la dottrina di Epicuro in un poema cui la malagevolezza del subbietto non gli ha impedito di abbellire colle ricchezze poetiche. È il vero che non vuolsi locare tra i morali poeti colui che negò la divinità, e le bizzarrie del paganesimo confuse coi sacri dommi della natural religione. Ma contuttociò, secondo l’avviso di parecchi critici, non deve essere ripigliato, come si fa in generale cogli Epicurei, di farsi maestro di voluttà, d’immodesti e d’inverecondia. V’ha nel suo poema di molte rigide massime di morale, e da commendar sono le cose ch’egli dice del niente dell’umane grandezze, del dover fuggire amore, por freno alle cupidità, procacciarsi la tranquillità della mente, dispregiare la morte, ec. Onde che, se il suo poema non si dee porre in mano dei giovanetti, si possono però, come ha fatto taluno, raccorre insieme in una antologia tutti questi squarci morali colle più belle parti del Lucreziano poema, quali sono l’introduzione, il sagrifizio d’Ifigenia, ossia i mali della superstizione, l’origine della società e l’invenzione delle arti, la peste d’Atene e l’elogio del Savio, cioè d’Epicuro, che dal poeta è in certo modo deificato. Così pare che non per altro egli atterrar volesse tutti gli altari dell’universo, [58] se non per innalzare sulle ruine di quelli un tempio a quel Greco famoso.

Fra i morali poeti Virgilio, che de’Latini è il più alto, senza fallo tiene il campo. Nella moralità vince egli Omero. Le più dignitose e tenere affezioni dell’anima, il valor virtuoso, la graziosa compassione, l’amicizia eroica, la pietà filiale, e l’amor paterno e materno, sono con grandezza disegnate nell’Eneide. In Amata, madre di Lavinia, sì propriamente con tanta natura e con tal novità di colori ha trattato il sentimento materno, che altro poema non se ne vanta. Gli eroi d’Omero sono compiuti uomini: laddove Virgilio ne ha i suoi guerrieri dipinti ancor garzoni, quali sono Eurialo e Niso, Pallante e Lauso, la cui filiale pietà fa sì bel contrasto alla inumanità ed alla empiezza di Mesenzio. La palma di Omero sopra Virgilio per la variazione e forza dei caratteri non è da negare. Ma si può consentire ai censori che insulsi personaggi appellano il forte Cloanto, il prode Gia, il fedele Acate, e che non rammentano Didone, Turno, Camilla e i predetti essere di fantasia di Virgilio, e formar la più attrattiva bellezza del poema? Nessun altro poeta immaginò un carattere simigliante a Didone, che solo i sentimenti più compassionevoli del cuore, amore, disdegno, rimorso e vendetta, in sè chiude. Nè altro poeta, come Virgilio, ha l’ingegno di produrre soavi commozioni e penetrar fino al cuore d’un colpo, e con semplici scene e pietose occupar di forza l’altrui attenzione. Degli scrittori di sentimento è desso il più perfetto esemplare.

[59] Non è senza ragione se fra i poeti intesi a dar bellezza alla moralità, si penò a locar quello il quale fece tanti versi lascivi, e dettò regole atte a corrompere i costumi. Ma due Opere egli scrisse, e sono i Fasti e le Metamorfosi, che non meritano siffatta censura. Perocchè Ovidio quando ebbe composta la Scuola di amore, celebrò nei Fasti l’osservanza del culto e dei riti religiosi. Nelle Metamorfosi poi adunò le finzioni dell’antica poesia, che di utili ammaestramenti e di verità molto abbondano; e di leggier si discerne aver mirato i loro inventori ad alto segno morale. Il che diede a Platone materia di scrivere che gli antichi sapienti avean disposto che il primo latte da far suggere agli uomini fosser le favole, e si dovesser giudicare un alimento che senza troppa fatica trasfondasi allo spirito, e quello a nutrimento più fermo apparecchi. Il poema delle Metamorfosi è uno de’più bei doni che n’abbia fatti l’antichità. E di tanto frutto fu reputata in ogni tempo quest’Opera, che ai Greci stessi, i quali si gloriavano d’essere maestri dei Romani, si accese cura di doverle in loro idioma recare. Disse bene il saggio Einsio: Citation/Motto► “Ovidio è sempre il dipintor delle passioni e dei costumi; semina ogni luogo di belle sentenze e di figure maravigliose. Che se descrizioni passionate e seduttrici per lo pericolo di lor lettura diedero sospetto alla severità dei più rigidi, segno è che costoro non s’accorsero che il vizio evvi dipinto sempre coi colori che lo rendono orribile, e la virtù con lo incanto che innamora.” ◀Citation/Motto

Il poeta più filosofo dell’antichità è forse [60] Lucano, che tutto è compreso di spirito stoico. Nella pittura dei caratteri prevale; ma in quella di Catone, che tanto è a dire, quanto dell’eroe dello stoicismo, egli trascende se stesso, così quando ridice i ragionamenti, come quando descrive i portamenti di quello. Tanto sublimi sono gli esempi morali che egli vi adduce, che tutta l’antichità niente che gli uguagli ne trasmise. E chi disse Lucano aver voluto compensar con la grandezza delle sentenze il difetto dell’invenzione, salvo che l’Ombra lagrimosa della patria che sulla riva del Rubicone si dimostra a Cesare, fa molto argomento che l’ingegno di questo poeta avrebbe potuto immaginare maraviglie le quali, senza far male alla gravità e dignità della storia, si confacessero al soggetto. Furono critici, e fra i tanti il perspicace Blair che biasimò il tema scelto da Lucano, come non conveniente all’epica poesia, da che le guerre civili, e più le tanto feroci e dispietate, quanto quelle romane, producono negli animi un odio e un fastidio contro l’umana natura. Ma se intento dell’epopeia è il dover porgere di grandi ammaestramenti agli uomini, ove sono altrove di maggior momento che quelli della Farsalia? Quel tanto di che è da rammaricarsi, si è che essi non furono più fruttuosi, se tante volte si son rinnovate le grandi scelleratezze dell’ambizione. È il vero che Lucano ebbe ingegno originale, per maniera che delle bellezze onde il suo poema riluce, non è debitore che a se stesso. Ma di certo avrebbe meno difetti s’egli nel verde della sua vita non fosse cadute vittima della tirannia di Nerone.

[61] Alla semplice e nuda moralità di Esopo accoppiò Fedro il diletto della poesia. Onde egli a ragione dice che le sue favole corrono il doppio fine di piacere e di ammaestrare. Conciossiachè non pur lo stile elegante e naturale ad un tempo, e puro insieme e succinto, ma la più salutevole e meglio fondata moralità vi dimori. Così viene a servir al primo insegnamento della fanciullezza, come che nessuna altra età nè condizione vi sia che principii eccellenti a menar la vita non vi ritrovi. E veramente le favole di Fedro sono nel genere naturale e semplice l’una delle più perfette Opere dell’antichità. Non si contenta già di raccontare, ma dipinge ancora, e alcuna volta di un tratto e non più. Quella leggiadria e quella squisita gentilezza possiede, la qual propriamente segna e addita, gli scrittori del secolo di Augusto. Anzi a Fedro talora incontra che s’innalza lo stile, e fa fede assai che l’autore aveva potenza di trattare più gravi argomenti.

Avieno, che sotto l’antico Teodosio visse, le favole di Esopo in versi elegiaci convertì, come se quelle di Fedro non fosser note appieno, mentre che egli pur ne parla nel suo proemio. E qui si vuol porre mente a questo, che di sì buon favolatore i soli Avieno e Marziale tra gli antichi hanno fatto menzione. Vero è che nessun pregio di quei tanti che si ammirano in Fedro, hanno le favole di Avieno.

I Latini, perciocchè tutto avevano furato ai Greci, attinsero da essi ancora la morale ordinata a scienza. Bene è noto aver fatto Cicerone il gran proponimento di tutta trattare la [62] filosofia de’Greci, e cinque anni di solinga vita, come che turbati alcuna volta dalle bufere politiche, essergli bastati a fornirlo. Fece sua a dottrina de’Greci; ma n’elesse il meglio, e lo adornò d’idee ch’erano sue del tutto. Ancora pose teoriche nuove, di che non aveva ombra fra i filosofi greci; e tale si è quella fondamentale di annodare tutto l’ordine del mondo sociale e morale allo adempimento de’doveri che, per lo bene di ciascuno e di tutti, ha verso tutti ciascuno. Niente che possa compararsi al suo trattato Degli Ufficii hanno mai scritto gli antichi o i moderni sulla moralità. Lo avvolge tutto quanto sul paraggio e sul concorso dell’onesto e dell’utile, che certamente all’uom sociale è la prova di tutti momenti e il paragone della probità. Senza diffondersi egli spone tutti i doveri della vita, e precisamente tutte addita le virtù che nei diversi stati debbono gli uomini seguitare. I doveri di convenienza, che con quelli di precetto sono essenzialmente più incatenati che i vulgari non avvisano, sono da lui molto meglio fatti conoscere che dai greci moralisti. Le altre Opere filosofiche di Cicerone che direttamente riguardano la moralità, sono le Quistioni Tusculane, nelle quali si studia di trovar modo, qual più sostanzial si possa, da pervenire a felicità. Ancora il trattato Della Natura degli Dei, nel quale intende, più che ad altro, a provare e giustificare la provvidenza; e similmente i dialoghi della Vecchiezza e dell’Amicizia, indiritti l’uno e l’altro all’amico Attico, il primo come lettura di comun conforto ad ambedue nell’ultima [63] scena della vita, e l’altro per testificargli la propria amicizia. Molti nel leggere il primo provano quell’istesso piacere che Cicerone afferma di aver sentito nello scriverlo; perciocchè non solamente toglie loro la molestia dell’età, ma la rende eziandio soave e gioconda. L’altro, in cui riferisce i ragionamenti di Lelio, l’illustre amico di Scipione, è un pregevole e dolcissimo libro il quale, risguardato dal lato della morale, dee reputarsi una delle più belle Opere dell’antichità; leggendo la quale siamo vivamente commossi; tanto più che ivi ne si porgono i veri caratteri e i sentimenti de’migliori e de’più grandi uomini di Roma.

Seneca, senza tutto imprendere l’ordine di filosofia come Cicerone, trattò molti utili argomenti di moralità. Tutto con gli Stoici egli sente, ed è l’oratore del Portico. Ogni via di persuasione avevano i suoi predecessori schivata, e per trattar con la mente, mai non fecero motto al cuore. Ma Seneca tutta sparge la severa dottrina degli Stoici dei colori dell’eloquenza. Pien di moto, di fuoco e di altezza, spirò ne’suoi scritti il disprezzo della vita e della morte, sublimando l’uomo di sopra le cose sensibili e caduche, e le virtù di sopra tutto. Come gli altri filosofi della sua setta, così è stato egli ripreso di voler toglier l’uomo più ad alto di sua natura, e d’aver immaginato un sapiente che non ci può essere. Ma non ci fugga dall’animo che avanti al cristianesimo le virtù che più facevano onore all’umanità scaturivano da questa setta. Citation/Motto► “Se per un attimo mi lasciasse il pensiero d’esser cristiano, [64] dice Montesquieu, mi saria forza contar fra le sciagure del genere umano la distruzione della scuola stoica.” ◀Citation/Motto

Il vecchio Plinio, che tutti gli argomenti di maggior peso accolse nell’Opera sua, neppur la moralità vi pospose. Quasi tutti i libri ei cominciò con lo adornamento di tratti morali che a tutti tempi e a tutti luoghi si confanno. Entro quelle eloquenti sue carte sentesi l’anima di filosofo alla virtù trasportato. Qual buon lettore non lo accompagna nell’ira, allorchè fissando lo investigativo sguardo tra le dovizie di natura, egli tanto s’infiamma contro il mal uso che noi de’suoi doni facciamo? Alle più curiose novellette, ad ogni particolarità che altrui più faccia vaghezza, sa Plinio accoppiar di belle e robuste considerazioni, le quali non commendano meno la sensibilità della sua anima che la forza del suo ingegno. Nel vero non è in Plinio più che in Seneca la schiettezza, semplicità e leggiadria che fa riconoscere gli scrittori del secolo d’Augusto; ma egli, non altrimenti che Seneca faccia, gran quantità reca di tratti i quali sono egregi esempi di eloquenza e di filosofia, e recati insieme possono giovare all’ammaestramento della gioventù.

Fra i pratici moralisti dee aver per cagione di sue lettere un posto distinto anche Plinio il giovane, nipote e figlio adottivo del celebre naturalista. Incontra spesso che le morali lezioni esposte in libri, ove si tratta delle virtù in altrettanti capitoli, o noiano per l’aridità de’precetti, o leggermente commuovono gli animi: laddove le lettere sanno elle sole instillare nel [65] cuore, prima eziandio che se n’avvegga, i sentimenti per lor dichiarati. Ivi prendiamo inavvedutamente dimestichezza colle virtù, mentre che le rinveniamo nel continuo esercizio de’più comuni doveri della vita civile, e ci ricrediamo dell’errore che a noi le dipingeva come poste al di là dell’umana natura. E siccome ne sembra esser elle costato piccola fatica, così ci sentiamo infondere ardire a praticarle e speranza di riuscirvi. Ciò avviene d’ordinario leggendo le lettere di Plinio. Non altro da quelle traspira se non se candore, disinteresse, modestia, riconoscenza, fedeltà inverso gli amici animo superiore alla sciagura ed alla morte stessa, e infine orrore pel vizio e ardore per la virtù. Forza è, leggendo tali lettere, concepire stima ed amore per l’autore, e sentirsi mosso da una tacita vaghezza di simigliarlo. Quand’anche v’abbiano altri scrittori dotati di una naturalezza e facilità maggiore della sua, null’altro troverai d’una morale che tanto ti alletti e ti persuada.

L’amico di Plinio il giovane, il rinomatissimo Tacito, è di que’pochi istorici che annoverar si deggiono tra i moralisti. Non può di lui affermarsi, come si è fatto di Salustio, che sia non più che un parlator di virtù, conciossiachè quegli amar la faccia perchè l’ama egli pure. Posto ha Salustio la sua morale in preamboli e digressioni, da più critici ripigliate come disgiunte dall’Opera: ma Tacito la ritragge per ogni linea, e cavala sempre dal subbietto, per modo che sempre è in azione, e fa grandissima forza in sugli animi. Nessuno sa infondere [66] maggiore riverenza per la virtù sventurata, nè rappresentarla in modo più dignitoso, o sia ella tra i ceppi, o sotto la mannaia de’carnefici. Nessuno sa meglio eccitare l’indignazione e il disprezzo in verso coloro che furono l’infelicità degli uomini, e contro i volontarii schiavi che tradiscono la causa dell’uman genere, incensano la tirannia e la provocano a crudeltà. Fu detto parerci i tiranni puniti nell’esser da lui dipinti: e per verità non v’è altra lettura che più riempia di terrore la coscienza de’malvagi. Tacito si è acquistato il titolo del più gran pittore dell’antichità. Perciocchè qual altro scrittore ha con più forza ritratto i caratteri? Quale nell’istoria d’un uomo ha meglio fatto in ciascuna linea l’istoria dell’uman cuore? Chi meglio di lui ha disvelato i segreti delle passioni, e meglio svolto quello strano miscuglio di virtù e di vizi? A conoscere l’uomo più assai ne ammaestrano alcune pagine di Tacito, che i tre quarti dell’altre istorie tutte. Taluno ha notato esser istruttivo fino il suo silenzio; tanto va lunge e s’interna il suo concetto; tanto egli sa con una parola, con un sol tocco destar mille idee!

Merita luogo fra’moralisti Severino Boezio che ne lasciò la Consolazione della Filosofìa. Qual parte ha mai la moralità che sia più utile e di maggior momento di quella onde s’apprende a sostener le disavventure? Dov’è chi una od altra volta non debba ricoverare a’suoi insegnamenti? Boezio, il sanno tutti, la scrisse in carcere, condannato iniquamente e senza difesa da quel Teodorico medesimo che lo aveva sommamente [67] onorato. Ivi con coraggio e con pazienza sofferse inventati tormenti, fino ad una lenta e crudel morte.

La gravità romana non parea che punto si dimesticasse con quelle favolose invenzioni a cui meglio acconsentiva la immaginazione de’Greci. Un solo romanzo ne’resta de’Latini, l’Asino d’Oro di Apuleio, che tutto quanto è filosofico e morale. Perocchè tutta l’Opera è dirizzata a provare che i vizi traboccano l’uomo in uno stato brutale, non che a far apprezzare i misteri, dando a conoscere la iniziazione a quelli non altro essere che il cominciamento di una vita nuova, virtuosa, ragionevole e benavventurosa. Nell’Asino d’Oro leggesi la favola di Amore e Psiche, la quale è una morale allegoria, ed è reputata per la più ingegnosa e dilettevole dell’antichità. I vizi dello stile di Apuleio, che spesso è fuor di regola e di semplicità, spariscono nel libero volgarizzamento che ne fece Agnolo Firenzuola. ◀Level 1