Cita bibliográfica: Gasparo Gozzi (Ed.): "Numero CIII", en: L’Osservatore veneto, Vol.1\103 (1761-01-27), pp. 430-434, editado en: Ertler, Klaus-Dieter / Fuchs, Alexandra (Ed.): Los "Spectators" en el contexto internacional. Edición digital, Graz 2011- . hdl.handle.net/11471/513.20.488 [consultado el: ].


Nivel 1►

N° CIII

A dì 27 gennaio 1761 M. V.

Cita/Lema► Excursusque breves tentat.

Virg., Georg., lib. IV.

Tenta piccioli corsi. ◀Cita/Lema

Nivel 2► Metatextualidad► Gentilissimo e amorevolissimo pubblico, dal cui animo ho riconosciuto che qualche cosa sono stati que’fogli che ho fino al presente dettati, io sono giunto a quel termine in cui debbo dimostrarti la mia riconoscenza. Egli è già passato un anno che co’miei vari pensieri ho procurato d’intrattenerti, e tu, pieno di grandissima cortesia, ti sei appagato di tutto quello che mi dettò il cervello di settimana in settimana; e mi desti, pel corso continuo di dodici mesi, segno della tua magnanima cordialità ed affezione. Per dire qualche cosa della mia gratitudine, chè tutto non potrei certamente, io ti confesso che mi sono provato molte volte, e rimirando la picciolezza delle opere mie, mi sono tanto atterrito, che non ho potuto andare più oltre. Riandando così da me a me i passati miei fogli, ho veduto che spesso non erano di tanta dignità, che ti dovessero comparire dinanzi, e tali altri non trattavano l’argomento da me eletto con quella o facondia o chiarezza che avrei voluto. Egli è bene il vero che l’amor proprio il quale signoreggia, quantunque mascherato, ogni cuore, mi somministrava qualche scusa, e dicevami ora che il breve tempo concedutomi dall’obbligo ch’io preso mi avea di dar fuori due fogli alla settimana, era stato cagione di qualche oscurità e negligenza: ora che il mal umore o la poca mia salute mi aveano avviluppato il cervello; sicchè io perdonava a me medesimo quello che non mi gradiva nelle mie scritture. E peggio mi avvenne ancora, che talvolta gonfiato da un ventolino di superbia, diceva: Se gli argomenti miei non sono maneggiati con tutto quell’artifizio che ad essi conviene, io ho però in ognuno di quelli qualche onorato merito per l’invenzione, nella quale una poetica fantasia ha gran parte; e, dai versi in fuori, si può dire che in tutti questi fogli si vegga un’immaginativa traportata e invasata dalla cocentissima fiamma delle Muse, alle quali io ho volentieri fin da’miei primi anni servito. Io ho inoltre cercato in più luoghi di ravvivare l’amore alle buone arti, le quali sono di non picciolo utile alla società degli uomini, come quelle che con la soavità loro entrando a poco a poco nelle menti e nel cuore de’giovani, introducono in que’teneri e giovanetti animi un certo garbo e una certa buona grazia di gusto, che, senza avvedersene essi punto, divien costume, e si stende per tutte le loro operazioni in tutta la vita. Ho qua e colà scoperti molti difetti delle genti, tenendo sempre in mano il freno della fantasia, sicchè non trascorresse alla soverchia licenza, sfuggendo a tutto mio potere non solo la malignità, ma anche ogni apparenza di quella. Tutte queste cose io ho pure eseguite nei passati fogli, diceva io, e non è però stata picciola impresa e fatica. Ma comecchè io ragionassi meco in tal guisa per confortarmi, sentiva nella coscienza mia una cosa che non cessava tuttavia di rodere e dirmi segretamente: Tu la pensi male, tu non di’il vero; guarda, bene a quello [431] che mediti. Non sarebbe egli il tuo meglio, proseguiva questa segreta voce, che tu riconoscessi la tua picciola attività, l’insufficienza tua, e che riconoscessi quello che sono i tuoi fogli dalla cortesia del pubblico? Quando udii queste ultime parole della coscienza, mi avvidi ch’essa avea grandissima ragione, presi la penna in mano e deliberai di seguire la sua volontà, anzi la giustizia delle sue ammonizioni; ma non sapendo con quali parole manifestare il sentimento mio, mentre ch’io fantasticava accettando e ricusando vari pensieri, mi addormentai, e mi apparve dinanzi agli occhi questo

Nivel 3►

Sogno.

Nivel 4► Traum► Egli mi parea di essere appunto a quel tempo in cui tutti gli uomini, lieti della loro semplice libertà, vagavano per boscaglie e montagne, e ritraendo il bisogno alla propria vita dalla terra, in comune si godevano un quieto riposo ed un vivere spensierato. Quando, non so come, si apersero le lucidissime porte dell’Olimpo, donde mi parve che uscisse una voce che col tuono e il fragore di una procella esclamò: “Non è bella quanto io vorrei la faccia della terra; vadasi, e si cambino l’erbe e le piante selvagge e di mal aspetto in domestiche e di bella veduta.” Poichè queste parole furono dalla voce mirabile profferite, io vidi scendere dal cielo un picciolo fanciullo con le ali appiccate agli omeri e con un arco alla mano, da cui non cessava giammai di scoccare infinite saette; le quali qua e colà volando con indicibile impeto, ferivano intorno le genti, e parea che avessero ad uccidere ogni uomo. Ma che? n’avveniva tutto il contrario. Più vivace colore tingeva a tutti i feriti le guance, scintillavano gli occhi loro di una più vitale e graziosa luce; e gli uni agli altri correvano incontra, profferendosi tutto l’animo ed ogni loro servigio e attenzione. Nello stesso punto io vidi a dividersi in più parti la terra; e a tutti coloro ch’erano quivi, toccarne una porzione, la quale fu da ogni uomo che l’avea sotto di sè, aperta con vanghe, marre, aratri, erpici; per modo che quel terreno il quale avea un solido aspetto, e qua rialzato dai monti, colà dalle fondure avvallato, prese una faccia uguale da ogni parte, e divenne bellissimo agli occhi dei riguardanti. E poco andò poi, ch’io vidi migliaia di mani moversi da tutt’i lati, gittar sementi, sarchiare, rimondare alberi; di che, come ne’sogni avviene, in poco d’ora si vide tutto essere divenuto un giardino ripieno di fiori e di bellissime frutte. Mentre ch’io stava guardando con attenzione quella così nobile maraviglia, si accostò a me il fanciulletto con l’arco suo, e mi parlò in questa forma: “Oh dormiglioso, o pigro! che fai tu in questo comune lavoro ed in questo universale movimento? Credi tu forse di averti a godere le delizie altrui, e l’aspetto di questo ameno terreno senza punto moverti e standoti continuamente con le mani a cintola? Non sei tu forse di quella medesima stirpe di cui sono tutti gli altri uomini? Adunque che non fai tu ancora quello che vedi qui fare ai compagni tuoi? Non sai tu che la società che qui vedi, è formata d’uomini che vivono l’uno per l’altro? E non conosci tu che questa bellissima terra, rimirata sempre dall’onnipossente occhio di Giove, riceve di punto in punto bellezza nuova da’suoi abitatori?” – “Oh! qualunque tu sia, celeste giovanetto, che in tal forma meco adirato ragioni, dimmi tu quello ch’io debba fare per appagar le tue voglie, e mi vedrai pronto ad ogni tuo cenno.” In [432] tal guisa risposi al fanciullo. Quando egli sogghignando con una certa sua malizietta, si pose la corda dell’arco alla guancia, e da quella scoccò una saetta che velocemente volando mi percosse qui nel petto appunto, e penetratami nel cuore, tutto in un momento lo accese; e levatosi in sull’ale, mentre che da me spariva, esclamò ad alta voce: “Va’, tu non hai di bisogno d’altri ammaestramenti, oggimai tu medesimo saprai da te qual dee essere l’opera tua.” Allora io rivolgendo il guardo, che seguito avea il mio feritore per gli altissimi campi del cielo, alle circostanti genti, mi sentii tutto rintenerito, e fui preso da un grandissimo amore di quelle, e diceva fra me: “Oh! nobile e veramente grande animo ch’è quello di quanti ho qui intorno, i quali senza punto curarsi di pensiero o sudore, abbelliscono con l’opera loro questo terreno, e i miei desiderosi occhi riempiono della sua maravigliosa bellezza. Io mi godo pure questi fruttuosi alberi e questi coloriti fiori. Questo è pure quel terreno, in cui dopo il corso de’giorni miei in questo mondo ritroveranno le ossa mie ricovero e asilo: adunque che fo io? e che indugio più? che non adopero queste picciole mie forze a coltivarne la patte mia insieme con tutti gli altri?” A pena ebbi terminato di ragionare in tal modo, che vergognandomi di me medesimo, adocchiai in un cantuccio certe poche pertiche di terra, che non erano state dirozzate ancora, e quivi andato co’miei ferruzzi, cominciai a razzolare in quel modo ch’io potea, tanto che ne feci solchi, e gli ridussi a condizione da poter essere coltivati. Benchè io vedessi che il terreno da me lavorato non avea tanta grazia che potesse fare competenza col restante, io mi vedea concorrere intorno infiniti abitatori del luogo, i quali dalla cortesia dell’animo loro guidati, venivano per diporto a vedere, e mi davano sempre maggiore spirito all’opera, e taluni, credo per empiermi di coraggio, m’andavano dicendo ch’io era un buon agricoltore, m’assicuravano che il mio picciolo poderetto dava loro nell’umore, e ne speravano buon frutto. In questa guisa sempre più io desiderava di compiacergli, e non passava dì o notte ch’io non pensassi di aggiungere qualche cosa alla mia coltivazione, nè avea altro in animo che le buone parole le quali mi venivano dette, sicchè io mi sarei contentato per gratitudine quasi di spirare sulla faccia loro per vedernegli veramente contenti. Nè bastava a molti di quelli che venivano, l’esaltarmi con tante non meritate lodi; ma di tempo in tempo mi avvisavano di quello ch’io dovessi fare per migliorare la mia possessioncella; e spesso alcuni di sementi di fiori, e di piante mi furono liberali. Oh! esclamava io sovente, in qual guisa potrò io mai soddisfare all’obbligo mio? In qual guisa almeno ringraziar con parole tanta cortesia e così grande? Io posso veramente dire che questi nobili animi mi diedero la pioggia ed il sole a tempo con le loro commendazioni, acciocchè cresca la bontà del terreno mio; e potrebb’essere forse, che tanta gentilezza m’inanimasse ad intraprendere il lavoro di una quantità di terra maggiore. Mentre ch’io così diceva, mi risvegliai col cuore di gratitudine ripieno, e sempre più bramoso di non essere mutile in quella società in cui vivo. ◀Traum ◀Nivel 4 ◀Nivel 3

Metatextualidad► A pena io ebbi terminato di scrivere questo sogno, che mi pervenne alle mani una lettera, la quale per la novità del capriccio mi pare che meriti di essere pubblicata. Mi fu inviata da un amico mio che abita fuori di Venezia, ed è un foglio scritto a lui da un certo bell’umore ch’è venuto a godere il carnovale in questa città.

[433] La lettera è questa: ◀Metatextualidad

Nivel 3► Carta/Carta al director► Metatextualidad► Amico mio gentilissimo.

Venezia, a’dì 18 gennaio 1762.

Dite quello che volete, ma i bachi da seta e il color nero sono le due cose più degne di onore che sieno al mondo. Vadano a nascondersi le pecore e quanti altri animali vivono, o danno il pelo e le pelli agli uomini per vestirsi. Voi crederete ch’io sia impazzato a dirvi così all’improvviso queste parole; ma sono in un entusiasmo d’amore verso un mantello nero col quale vo mascherato. Nivel 4► Relato general► Il primo giorno ch’io sbarcai, mi posi in maschera con un mantello di panno d’un certo colore traente al marrone, perchè tirava un certo tramontano che mi feriva le budella; ed uscito di casa, comecchè non vi fosse alcuno che s’arrestasse per dirmene nè bene nè male, m’accorsi che camminando per le vie non vi era uomo dabbene, nè facchino che non volesse passarmi innanzi, e che passando non m’appuntasse i gombiti nel petto. Non vi potrebbe noverare un abbachista gli urti che mi furono dati, le male parole che mi furono dette, tanto ch’io ritornai a casa mezzo sbigottito, ed in più parti livido ed ammaccato. Pure accagionando di ciò la gran concorrenza delle genti che vanno e vengono, di su di giù, di qua di là, e ad un movimento perpetuo, uscii la mattina vegnente con un altro mantello tinto in scarlatto. Mi avvenne quasi il medesimo del passato giorno, e ritornai alla locanda in cui sono alloggiato, pesto e pigiato come l’uva in un tino. Sentendo il locandiere che nello spogliarmi io gittava qualche sospiro e guaio, come chi sente doglie, mi domandò quello che avessi. “Fratel mio,” diss’io, “ho fatto il mio conto di godermi il restante del carnovale in un buon letto e bene sprimacciato della tua locanda. Io trovo per tutte le vie una calca di genti che vanno e vengono con tanta furia, ch’io non so tanto guardarmi il corpo dalle urtate senza veruna discrezione, ch’io non ritorni all’albergo con parecchie lividure nelle coste e nelle braccia. Se tutti vanno alle case’loro a questa guisa, qui si dee consumare un pelago d’unguento.” Rise il locandiere, e mi rispose: “Signor mio, di tutto ciò è vostra la colpa; scusatemi, voi uscite con due mantellacci che invitano e traggono a sè tutti gli sgarbi del paese.” – “Come mantellacci?” diss’io. “Non sono essi forse nuovi e usciti dalle mani del sarto si può dir ieri?” “Fate pure a modo vostro,” ripigliò, “ma se voi non avete un mantello nero di seta, correte risico di ritornare a casa dilombato o azzoppato.” Accettai il parere del mio buon locandiere, e fattomi tosto un mantelletto nero che risplende come uno specchio, uscii con quello indosso. Oh maraviglia! che non sì tosto fui nella calca delle genti, quelle ch’erano indietro, rimanevano indietro; quelle che mi erano ai fianchi, mi rasentavano leggermente, per modo che mi parea di esser solo; e da quel punto in poi mi vendico degli urti ricevuti contro a tutti quelli che non hanno il mantello come il mio. Egli è vero ch’io non sto così bene come co’miei primi mantelli, e che mi sono infreddato; ma non [434] si può a questo mondo avere ogni cosa. ◀Relato general ◀Nivel 4 Metatextualidad► Vi avviso di quanto mi è accaduto, sapendo che avete a venir in Venezia voi ancora, acciocchè vi regoliate, e sono con vera amicizia e stima tutto di voi

N. D. S. ◀Metatextualidad ◀Carta/Carta al director ◀Nivel 3 ◀Metatextualidad ◀Nivel 2 ◀Nivel 1