Citation: Gasparo Gozzi (Ed.): "Numero CI", in: L’Osservatore veneto, Vol.1\101 (1761-01-20), pp. 422-425, edited in: Ertler, Klaus-Dieter / Fuchs, Alexandra (Ed.): The "Spectators" in the international context. Digital Edition, Graz 2011- . hdl.handle.net/11471/513.20.486 [last accessed: ].


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N° CI

A dì 20 gennaio 1761 M. V.

Level 2► Level 3► Letter/Letter to the editor► Metatextuality► All’Osservatore una compagnia d’Incogniti.

Prima che sia da voi posto fine a tutti i fogli che dovete compiere nel corso d’un anno, de’quali ve ne mancano pochi ancora, noi abbiamo a spiegarvi un nostro desiderio. Lasciateci parlare liberamente. L’impresa da voi tolta d’osservare i costumi degli uomini, è grande, è ampia, e voi siete solo. A noi è paruto sempre che un solo non potesse tutte le cose vedere. C’è un’altra difficoltà, che un solo vede sempre con gli occhi suoi e colorisce tutto con la medesima vernice, per modo che la varietà, sopra ogni altra cosa cara al pubblico, non vi si ritrova. Voi medesimo ve ne siete avveduto più volte; onde col cambiar fantasie ed invenzioni, vi siete ingegnato di produrre diversamente i vostri pensieri. Di ciò nacquero le novelle allegoriche, le favole, i ritratti, i ragionamenti a solo, le lettere, i dialoghi delle bestie con Ulisse, e finalmente di questo con l’ombre. Non possiamo negare che non abbiate lungamente fantasticato, che non si veda ne’fogli vostri varietà, e che non meriti qualche lode l’aver voi empiuto con diverso stile anche i componimenti vostri, secondo che lo richiedevano. Con tutto ciò non sono ancora tanto variati, quanto occorre. In tutti si vede sempre quel solo cervello che pensa, immagina e detta. Questo non si può travestire, che altri non se ne avvegga. Oltre a ciò un’altra cosa si vede ancora. Non tutti i giorni sono uguali. Egli è impossibile che un uomo sia sempre d’un umore, e che la salute sua sia sempre quella medesima. Leggendo i fogli vostri, abbiamo detto più volte fra noi: “L’Osservatore oggi sta bene, è di buon umore; oggi egli ha il polso nelle mani del medico; a questo foglio si conosce che, quando lo scrisse, avea malavoglia, malinconia, stizza.” Volete voi più? Che domandando informazioni del fatto vostro, ritrovammo che così era, come avevamo sospettato. Noi, in cambio di dolerci d’una certa disuguaglianza ne’fogli, come quelli che siamo vostri buoni amici in ispirito, cominciammo a portarvi maggior affetto e a dire più volte così: “Cotesto uomo dabbene è degno non solo di scusa, ma che altri cerchi d’alleggerire il suo peso. Infine, infine, c’è una certa utilità ne’fogli suoi, che sarebbe male ch’egli per istracco gli abbandonasse, o prolungasse il lavoro svogliato. A noi sopravanza molto tempo dalle faccende nostre, molte ore abbiamo d’ozio; a che non assecondiamo noi la sua buona volontà, e non gli prestiamo qualche particella del nostro ingegno? Quanto è all’osservare i costumi, noi ancora non siamo ciechi e veggiamo la parte nostra, e forse con occhi diversi da’suoi. Questo sarebbe varietà, se ci occupassimo. Egli n’avrebbe alleggerimento; il pubblico diletto maggiore.”

Questo dicemmo fra noi e non furono solo parole. Sono più giorni, anzi più mesi, che abbiamo fatto parecchie scritture, e ce le leggiamo di tempo in tempo. Ora finalmente che giunge il termine dell’anno, e che le vostre obbligazioni col pubblico sono vicine al termine, ve ne facciamo avvisato. Se l’offerta nostra vi gradisce, ce ne farete cenno. E perchè vediate aperto il nostro animo, vi aggiungiamo ancora che non è solo il desiderio di giovare a voi e di torvi una parte delle fa-[423]tiche, che ci mova. Non so quale spirito ci ha tutti invasati. Dappoichè abbiamo scritto, non ci pare di poter vedere quell’ora, che le scritture nostre vadano in istampa. Tutti ne siamo così invogliati, che se ci negaste questo piacere, ci parrebbe che il mondo ne rovinasse addosso. Sicchè vedete che voi non ci avete obbligo veruno, ma noi piuttosto saremmo obbligati a voi della vostra condiscendenza. Eccovi la nostra intenzione. Attenderemo da voi la risposta, e se quella ci verrà quale vien da noi desiderata, vedrete subito quali sieno le nostre fatiche nelle mani del Signor Paolo Colombani. State sano e risolvetevi a quello che vi pare. Addio. ◀Metatextuality ◀Letter/Letter to the editor ◀Level 3

Level 3► Metatextuality► L’Osservatore a’Signori Incogniti.

Quantunque voi vi spacciate meco per incogniti, io so benissimo quali voi siete. Vedete s’io lo so. Voi siete quattro giovani, i quali fino da’primi anni vostri vi deste allo studio delle buone lettere, e con lunghi pensieri e voglie avete tanto fatto, che avete acquistato un bel nome e gloria di valenti compositori d’ogni genere di poesia e di prosa. È lungo tempo ch’io sto notando gli atti vostri, e spesso v’ho veduti or l’uno or l’altro vicini a me, con qualche attenzione guardandomi, quasi mi voleste dire qualche cosa. Dai visi vostri ho conosciuto quando i miei fogli erano da voi graditi o no, perchè nel primo caso vi vedea lieti, nel secondo malinconici; e volli saperne la cagione. Voi sapete che al mondo spesso si trovano persone che volentieri favellano. Volete voi altro? È qualche tempo che so la vostra intenzione, e attendeva che da voi mi fosse fatta palese. Lodato sia il cielo che finalmente me l’avete manifestata. Vi ringrazio. Non vi posso negare che alle volte la malavoglia non prenda il cervello d’uno che scrive sempre. Ma se ciò anche non fosse vero, che credete voi ch’io ami cotanto le cose mie, che non mi piacciano anche le altrui? Non dico più delle mie, perchè quando anche le fossero le peggiori del mondo, l’obbligo d’un autore è d’amar più quello ch’esce della sua penna, che quel che dettano le penne altrui; e chi vi dicesse altrimenti, v’ingannerebbe. Quello stento che si fa nel pensare e nello scrivere, crea a poco a poco un certo affetto nell’animo verso le proprie scritture, ch’io credo sia quel medesimo che portano le madri a’bambini, ch’hanno tenuti tanti mesi nel ventre. Ma non altre ciance; è tempo di venire alla sostanza e al massiccio.

Genti veramente onorate e dabbene, io vi ringrazio di cuore. E non solo accetto l’offerte vostre, ma vi fo duchi e capitani di questa impresa. Udite se dico il vero. Poichè voi avete deliberato di favorirmi, la mia intenzione sarebbe che questi fogli non avessero più il titolo d’Osservatore, ma quello d’Osservatori, essendo di dovere che colà dove più persone mettono le loro fatiche, facciasi sapere al mondo che sono diversi, ed abbia ognuno quella lode ch’egli avrà meritata. Sarebbe oltre a ciò necessario, perchè la varietà meglio spiccasse, che ognuno degli scrittori mettesse in fondo del suo componimento il suo nome, non dico già nè Giovanni, nè Filippo, nè Bernardo, o altro; ma quel nome che ha in una delle Accademie, nelle quali io so pure che ciascheduno di voi è segnato. In questa guisa avrei caro e con quest’ordine che uscissero i primi vostri fogli. Se qualche altra cosa suggerisce il pensiero ad alcuno di voi, ditela liberamente, che da questo punto [424] in poi, come vi dissi, intendo d’avere ogni dipendenza, da voi. E perchè non la dovrò io avere? Non siete voi forse veri e cordiali amici i quali con ispontaneo movimento vi siete proposti da voi medesimi per favorirmi? Oltre all’essere cortesi e benevoli, eccovi aperto un bel campo di farvi onore. Quegli studi che avete fatti continuamente, aprano in queste carte i frutti loro. Giovano più forse questi fogli che i molti e lunghi volumi. Se non si stendono lungamente, se non trattano tutte le facce d’una materia, contengono almeno una semente la quale col tempo può fruttificare. Voi intendete benissimo quello che voglio dire, e conoscete quale possa essere il bene prodotto da questi fogli. Non m’allungo di più, quantunque ora avrei più ampia materia da scrivere essendo giunto al passo di ringraziarvi. Ma dovete pensare che questa lettera dee essere stampata e letta da molti a’quali non importerà ch’io vi ringrazi un poco meno di quel che io vorrei. Quando vi vedrò la prima volta, vi farò i miei convenevoli a voce; intanto siate certi della mia gratitudine e di quel vero e cordiale affetto con cui mi dico tutto vostro

L’Osservatore. ◀Metatextuality ◀Level 3

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Dialogo II.

Ulisse e Zeto.

Level 4► Dialogue► Utopia► Ulisse. Quest’ombra è più di tutte l’altro importuna. Sta’ferma. Qui non si bee fino a tanto che non ci viene Tiresia tebano.

Zeto. Tiresia tebano? Poco può indugiare ancora; io l’ho lasciato poco fa, e fui seco a ragionamento. Son anch’io di Tebe.

Ulisse. Tu lo dèi dunque conoscere, dappoichè sei d’una stessa patria.

Zeto. Fa’tuo conto ch’egli è qui l’ombra di ch’io fo più conto che di tutte l’altre.

Ulisse. Qualche cagione ci dev’essere, dappoichè tu l’ami cotanto. Avrei caro d’intenderla.

Zeto. Egli è il migliore, il più saggio e il più prudente indovino, che fosse mai. Eccoti la cagione dell’affetto mio.

Ulisse. E hai tu bisogno d’indovini anche in questa seconda vita?

Zeto. Ben sai che sì. E non credere ch’io facessi mai un passo, nè dicessi parola, quando non avessi prima preso consiglio da lui. Noi siamo ciechi al mondo, e di qua ancora, quando non ci vagliamo delle avvertenze di chi sa l’avvenire e prevede quello che deve essere. Ogni altra prudenza è vana.

Ulisse. (Costui deve essere stato un bell’umore nel mondo.) Sicchè tu avrai passata tutta la vita tua fra gl’indovini, e avrai avuto ogni felicità. Io avrei caro di sapere come t’è riuscito il consigliarti con gli strologhi; e come potesti fare ad averne sempre a’fianchi.

Zeto. Che credi tu, che non ci sieno altri indovini, che quelli che favellano? A molte cose, fuorchè agli uomini, hanno conceduto gli Dei la facoltà d’avvisare altrui di quello che dee avvenire. Basta l’intendere. Io m’era così assottigliato in questa intelligenza, che in tutte le cose ch’erano intorno a me, leggeva quello che mi dovea accadere come se già fosse avvenuto. Egli è il vero ch’io v’usava una grande [425] applicazione, e non mi lasciava sfuggir dagli occhi nè dal pensiero il più menomo segnaluzzo che mi fosse dato dagli Dei per avvertimento.

Ulisse. Io ti prego, o cortese ombra, non mi negare quelle cognizioni, delle quali arricchisti la tua mente con tanta fatica.

Zeto. Volentieri, anzi ti sono obbligato che tu me le domandi. Perchè tu dèi sapere che alcuno era nella patria mia il quale mi teneva per matto spacciato, e si faceva beffe de’fatti miei, chiamandomi chi cavallo adombrato, chi fantastico, chi tralunato. Ma io volli far sempre a modo mio, e non mi curai punto delle dicerie degli altri. In primo luogo, io non mi lasciai sfuggire dalla mente invano alcuno de’sogni miei; tanto che mi ricorda benissimo che m’occupava tutta una intera giornata a studiare quello di che m’era sognato la passata notte; e non ti vo’dire quante volte ritrassi da un sogno, che dovea trattenermi in casa una settimana intiera; e tale altra volta, ch’io non avea a ragionare quel giorno con maschi, e un altro con femmine; e ch’io dovea star a sedere un altro giorno fino al tramontar del sole. Ma non erano i soli sogni i maestri della mia vita. Mi faceano scuola i gufi, le civette, il sale sparso, lo scoppiettare del fuoco, il fungo della mia lucerna. Sapeva molto bene quello che significa il riscontrare all’uscir di casa piuttosto un uomo che un altro, il mettere fuori dell’uscio il piede sinistro piuttosto che il destro; e mille altre cose d’importanza che da tutti gli uomini sono tenute per bagattelluzze, e forse per nulla.

Ulisse. Sicchè infine tu non avrai errato giammai nell’opere tue, e sarai stato il più avveduto e il più sapiente uomo di Tebe.

Zeto. Ben sai che fu così. E quando si seppe infine la mia perizia, avea un concorso a casa mia che parea una fiera. Io era il consigliere di tutti gl’innamorati e delle innamorate del paese, di tutti i giocatori, di qualunque uomo intraprendeva un viaggio. E comecchè alcuni proseguissero a dir male del fatto mio e a chiamarmi pazzo, avea tanti che mi lodavano, che questo compensava benissimo i biasimi. Tanto che era divenuto ricco, e mi godeva molto bene il frutto degli studi miei e delle mie osservazioni.

Ulisse. E quando venne il punto del morire, lo prevedesti tu prima?

Zeto. Quella fu la sola volta ch’io m’ingannai; perchè avendo fatto lietissimo sogno, e pronosticando da quello che avessi a fare un felicissimo giorno, mi abbattei ad un uomo, il quale per essere caduto in una calamità, dopo d’essere stato assicurato da me d’una gran fortuna, chiamandomi ribaldo e truffatore, mi diede tale d’un legno sopra il capo, che m’uccise.

Ulisse. Ora tu mi narri il vero frutto delle tue dottrine; e conosco che tu sei qui pazzo, quanto fosti in Tebe; e però va’, ch’io ho perduto troppo tempo con un’ombra la quale ha portato seco una pazzia così grande dall’altro mondo. ◀Utopia ◀Dialogue ◀Level 4 ◀Level 3 ◀Level 2 ◀Level 1