L’Osservatore veneto: Numero XCVII

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N° XCVII

A dì 6 gennaio 1761 M. V.

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Dialogo XIII.

Ulisse, Volpe e Corvo.

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Dialog

Utopie

Ulisse. Anche la virtù quando non viene accompagnata dalla fortuna, non ha al mondo quel buon fine ch’ella merita. Questa benedetta fortuna ha che fare con tutte le cose del mondo. La mi sembra il castone in cui si chiudono le pietre preziose per farne anella. Queste risplendono e scintillano mille volte più quando sono dentro ad esso, che fuori; e quando le sono slegate, ci vuole l’occhio finissimo dell’artefice per riconoscere che veramente sono preziose. Così avviene della virtù; s’ella non va intorno assecondata dalla fortuna, appena v’ha chi possa credere ch’ella sia quella ch’ell’è; e in iscambio di lode, acquista beffe e vitupèro. Cotesto povero figliuolo d’Elpenore ebbe però una gran disgrazia a non trovare chi gli credesse mai che fosse virtuoso; e finalmente chiuse la sua vita in un cervo. Sua ventura ha ciascun dal dì che nasce. Ma che fa costà quel corvo su quell’albero, e quella volpe di sotto a lui? Pare che schiamazzino, e che sieno l’uno contro all’altro adirati. Io avrei caro d’intendere qual sia la cagione della loro stizza. Mi farò vicino ad essi, e comincerò a ragionare, per indurnegli a favellar meco. – È egli però possibile, ch’essendo quest’isola abitata da soli animali, voi non cerchiate almeno d’avere un poco di tranquillità insieme, e di passare il tempo in qualche quieta e onesta conversazione? Perchè siete voi così in collora? E perchè vi state voi rimproverando, non so di che, con tanto calore e con tanta furia? Potrei io mai mettermi fra voi per mezzano, e terminare le vostre risse? Le altercazioni sempre rinvigoriscono fra coloro che hanno l’ira in corpo: perchè di rado assegnano le vere ragioni della stizza loro, e si sfogano in villanie e vitupèri. Sicchè, vi prego quanto so e posso, ragionate meco quietamente, chè io vedrò s’egli si potesse ricomporre il vostro litigio. Corvo. Io ti prego, forestiere, va’a’fatti tuoi, e lascia ch’io conficchi un tratto questo mio acutissimo e durissimo becco negli occhi al più iniquo animale che mai fosse al mondo. Volpe. Anzi, ti prego io, forestiere, va’; e lascia che cotesto bell’umore scenda da quell’albero; che ti prometto, non mi pare di poter veder l’ora di strozzarlo. Ulisse. Voi dovete pure essere stati uomini un tempo; e vi siete così dimentichi della ragione, che non ascoltate più chi cerca di mettere la pace tra voi? Corvo. Tra noi non può essere più pace in eterno. Volpe. Saremo nemici finchè avremo vita. Ulisse. Ditemi la cagione, e vi prometto di non parlarvi più di pace; ma di prendere io medesimo il partito di colui che avrà la ragione dal suo lato, contro a colui che avrà il torto. Corvo. Bene. A questo modo son io contento; ascoltami. Volpe. Anzi ascolta me: colui è un parabolano, uno sventato; e io fui filosofo. Ulisse. Dunque ragioni prima il corvo. Non mancherà a te il modo di sciogliere gli argomenti suoi con la tua capacità. Se tu fossi il primo, egli, che non ha molta levatura, ne rimarrebbe troppo ravviluppato. Corvo, parla.

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Utopie

Corvo. Grammercè. Tu hai dunque a sapere ch’io fui di Sparta. Lasciommi il padre mio, morendo, assai giovane ed erede d’una buona e grossa facoltà, tanto che io fra tutti gli altri giovani del mio paese vivea molto onoratamente, ed era de’principali stimato. M’accettavano uomini e donne nelle loro conversazioni, ed era universalmente amato, e tanto più perch’io avea un certo ingegno naturale e alla buona, che dava piacere ad ognuno che m’udiva. M’abbattei un giorno a costui a caso per la via, il quale con certo suo logoro mantelletto e con un bastoncello in mano se n’andava assai malinconico e pensoso, borbottando fra’denti non so che, e stralunando gli occhi, ch’egli parea un invasato. Non ti so negare che una figura così strana mi percosse l’animo, onde affisatomi a rimirarlo, non potei fare a meno di non ridere così un poco; di che egli avvedutosi, e fattomi il viso dell’arme, si rivolse a me con una furia che mai la maggiore, e cominciò a dirmi: “Che hai tu dunque, o giovane, che ridi del fatto mio. Ti sembro io dunque così fatto, che meriti d’essere deriso da te? Ecco l’usanza di cotesti gonfi e boriosi, per avere de’beni di fortuna, i quali giudicano delle genti all’apparenza d’un mantello, come se appunto l’anima e l’intelletto dell’uomo stessero nella filatura della lana, e quegli che ha miglior panno intorno, avesse per conseguenza intelletto migliore. Non alle botteghe de’panni si compera il cervello, no; ma nelle scuole della santissima filosofia viene acquistato. E se tu in iscambio di perdere il tempo in cose vane e che non montano un frullo, ti fossi occupato negli studi e ne’sagrari delle scienze, vedresti che questa mia consumata cappa e questo mio bastoncello vagliono molto meglio di quella tua attillatura e di quella tua studiata grazia di vestimenti.” Volpe. Che ti pare? Non si dà egli forse da sè medesimo la zappa sul piede? e non avea forse il torto? Non fu quello un saggio e santo ragionamento? Ulisse. Così mi pare. Ma lascialo venire al fine. Corvo. Tu di’bene. Lasciami conchiudere. L’ardimento e la sicurezza con cui mi ragionava, ebbero, lo confesso, tanta forza nell’animo mio, che vergognandomi di me medesimo, feci tra me queste brevi riflessioni. Egli è però vero ch’io non ho mai curata la coltivazione del mio ingegno, e fino a qui ho abborrito la fatica e gli studi; onde potrebbe pur essere che costui avesse ragione. Avvezza tra gli agi e la’ricchezza, non ho altri pensieri che quelli che mi furono da quelli e da questa ispirati. Conosco d’avere fino a qui amato l’ozio sopra ogni altra cosa del mondo; e non è però l’ozio quello che acuisca gl’intelletti, e ne gli faccia volare molto alto. Fatte brevemente fra me queste poche meditazioni, mi rivolsi a lui che digrignava ancora i denti, come se avesse voluto mangiarmi come il pane, e gli dissi: “Buon uomo, chiunque voi vi siate, abbiatemi per iscusato. La soverchia mia giovinezza, e il poco uso nelle cose del mondo, mi fecero in un involontario errore cadere. Confesso che fino a qui io mi sono curato poco di quelle dottrine che abbelliscono lo spirito dell’uomo; ma da questo punto in poi io intendo di rimediarvi. Accettovi, se voi lo volete, per maestro e per padre. Siatemi guida col vostro purissimo lume a que’sagrari della filosofia che poco fa avete detto.” Appena ebbi profferite queste parole, ch’egli aperse le braccia, mi circondò affettuosamente il corpo, e mi baciò in fronte. “Sì, figliuolo,” disse, “sì, vieni alla scuola mia; e fra poco tempo ti prometto la vera conoscenza della virtù; e saprai, se mi presti fede, riconoscere con giustissima bilancia qual differenza si debba fare tra uomo ed uomo.” Volpe. Non gli promisi forse io cosa da avermene obbligo fino a tanto ch’egli è vivo? Ulisse. Sì; ma lascialo proseguire. Corvo. Lo accolsi in casa mia, dove niuna cosa vedea che non mostrasse di averla in grandissimo dispregio. I morbidi letti, le laute mense, le parate stanze, tutto gli era fastidioso, e non cessava mai dal dirmene male; comecchè intanto se ne valesse, ed agiatamente vivesse. Incominciò ad ammaestrarmi, e in tutte le sue lezioni v’entrava tanta superbia, ed un dispregio tale di tutti gli uomini, che a poco a poco questa malattia s’appiccò intorno a me ancora; per modo che non passò molto tempo, che là dove prima io era amato e ben veduto da ogni genere di persone, m’erano rimasi solo alcuni pochi intorno, i quali, pel bisogno che aveano della mia mensa, lodavano l’elezione che avea fatta di tal maestro; ed inalzavano alle stelle il mio avanzamento, ragionando tutti di filosofia, divenuti sapienti a cagione del ventre. Ma non sì tosto il mio buon maestro mi vide impacciato il cervello nella vanagloria e nella pazzia delle sue false scienze, ch’egli sopra ogni altra cosa cominciò a biasimare le ricchezze, e a provarmi con certi suoi argomenti e garbugli, che non può l’uomo sapere quello ch’egli sia, se prima non s’è spogliato di tale inutile fardello. “Vedi,” mi diss’egli un giorno, “o mio figliuolo e discepolo, s’io ti dico il vero. Tu essendo ricco, e pieno di tutti gli agi della vita, sappi che puoi fino a qui avere tutte quelle cognizioni che può acquistare un uomo nelle ricchezze accostumato. Ma quando pensi tu di poter bene comprendere anche tutte le cognizioni de’poveri, se tu non sei tale? Io non potrei giammai co’miei precetti farti acquistare l’intelletto del povero, se tu non sei tale in effetto. Quello stento, quelle fatiche continue de’malestanti non l’hai provate giammai: e non è possibile che tu possa fare le meditazioni che nascono da quelle, se tu non istudi con grande animo di liberarti dagl’impedimenti che ti legano il cervello ad una sola condizione fino al presente. Sciogliti quanto puoi, non ti dico in un tratto, ma a poco a poco. Spendi largamente fino a tanto che tu possa un giorno acquistare le riflessioni de’debitori: e da quelle felicemente passato all’inopia e all’indigenza, ne guadagnerai quelle de’poverelli. In tal guisa in iscambio d’avere quelle conoscenze che può avere un uomo solo, avrai quelle di tre, e sarai in tre doppi addottrinato.” Tal proposizione, che in effetto dovea parermi una pazzia, mi parve maravigliosa, massime avendola egli colorita con una grande eloquenza e con molti falsi argomenti; sicchè non mi parea di poter veder l’ora d’esser povero, e di mettermi indosso quel mantelletto e di prendere anch’io quel bastoncello, ne’quali m’accertava egli che consisteva la vera beatitudine e la tranquillità della vita. Cominciai a darvi dentro a braccia quadre, a spendere e a spandere; anzi avea creato lui mio maggiordomo e dispensiere, sicchè in breve tempo mi ritrovai aggravato di debiti, e pieno veramente di nuovi pensieri. Io volea ritrarmi allora da questo nuovo modo di filosofare, e a poco a poco ritornare a quello di prima; ma non ebbi più tempo, e a mio dispetto mi convenne cadere nell’abisso della povertà, la quale m’aggravò di tanti e così nuovi pensieri, ch’io fui più volte per privarmi di vita. Ulisse. E allora quali consolazioni ti dava il tuo maestro? Corvo. Quali? Egli m’avea già piantato. E non so come, deposto il mantelletto, facea una morbida e grassa vita, ridendosi della mia soverchia credulità, e sguazzando senza punto ricordarsi di me, come se non m’avesse mai conosciuto.
Ulisse. Che rispondi tu, o volpe, a questo ragionamento? Volpe. Che siccome mancavano al suo le meditazioni dei poveri, mancavano all’intelletto mio quelle de’ricchi: ed essendo io stato suo maestro fino allora, egli divenne maestro mio nell’ultima dottrina, che non avea imparata ancora. Corvo. Odi tu! che dopo così pessimo inganno, egli tenta ancora con la maschera della virtù d’avere ragione. Nè si ricorda che a sua cagione mi convenne fuggire dalla patria mia, donde pervenni a quest’isola, e fui da Circe vestito con le penne del corvo. Egli è vero che non istetti lungo tempo a vedere la mia vendetta, perchè venendo qui il mio buon maestro per godersi le male acquistate ricchezze in sollazzi con Circe, ella lo fece tramutare sotto agli occhi miei in quella volpe, della quale avea la coscienza anche prima della tramutazione. Queste sono, o forestiero, le cagioni degli odii fra noi, e di’ tu ora qual di noi abbia il torto. Ulisse. Quanto è a me, giudico che l’abbiate tuttaddue. Egli, perchè si valse dell’astuzia nell’ingannarti; e tu, perchè, veramente di poco cervello, prestasti fede a così solenni bugie che si toccavano con mano. Ma l’uno e l’altro portate la pena dell’error vostro. Io vi consiglio però ad acquietarvi, e a cavare quella tranquillità che potete dalla vita presente; ricordandovi che ognuno di voi ha perduta la sua quiete nell’altre due condizioni di vita per non esservi contentati l’uno della sua prima povertà, e l’altro della sua prima ricchezza.