Sugestão de citação: Gasparo Gozzi (Ed.): "Numero XCIV", em: L’Osservatore veneto, Vol.1\094 (1761-12-26), S. 394-397, etidado em: Ertler, Klaus-Dieter / Fuchs, Alexandra (Ed.): Os "Spectators" no contexto internacional. Edição Digital, Graz 2011- . hdl.handle.net/11471/513.20.479 [consultado em: ].


Nível 1►

N° XCIV

A dì 26 dicembre 1761.

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Dialogo X.

Circe, Ulisse, Picchio, Ghiandaia, Rosignuolo e Alloro.

Nível 4► Diálogo► Utopia► Circe. Convien pur dire che sia vero che noi altre femmine ci ostiniamo a correre dietro a coloro fra gli uomini, i quali non si curano, o mostrano di non curarsi del fatto nostro. Appena ci siamo avvedute che uno è preso al laccio, non ne facciamo più conto veruno; egli è come il pesce nel canestro: il pescatore lo tiene per preda già fatta, e gitta l’amo per averne un altro che nuota in libertà; e più gli dispiace un pesce che fugge, di quello che gli dieno contentezza parecchi, chi da lui già posseduti. Sono pervenuti all’isola mia tanti uomini, e di così varie nazioni, ch’io avrei potuto eleggere fra loro un innamorato a modo mio; e perchè mi si mostrano così di subito affezionati e teneri di cuore, gli ho tramutati in animali. Cotesto Ulisse solo, il quale sta in contegni, e mostra d’aver tanta voglia dipartirsi di qua, m’è a poco a poco entrato cotanto nell’animo, che mal volentieri lo veggo a spiccarsi di qua, e vorrei che ci rimanesse ancora per qualche tempo. È egli possibile ch’io non abbia tanto ingegno da poternelo ritenere? Non è così facile. Ho studiato il costume suo per potermivi adattare, la qual cosa m’è giovata più volte, e non trovo da qual capo io debbo prendere questa matassa. Io mi sono con alcuni finta donna di lettere, con altri tutta piacevole e quasi pazza, con alcuni altri fino bacchettona; e la cosa m’è riuscita: con Ulisse non ho arte che mi basti. Un modo solo io ritrovo, e questo debbo tentare. Egli, per quanto mi sembra, ha una gran voglia d’imparare cose nuove, e principalmente di quelle che appartengono a’costumi. Per buona fortuna l’isola mia è piena di novità, ch’egli non ha ancora vedute, nè le sa. Tentiamo questo modo per arrestarlo. Chi sa? forse mi potrebbe riuscire, almeno per qualche tempo. Di cosa nasce cosa, e il tempo la governa. S’egli s’arresta qui, a poco a poco lo scoprirò meglio; e potrebbe anche venire un giorno in cui egli pregasse me che gli facessi grazia di ritenerlo. Allora non so quello ch’io farò; ma intanto oggidì ho questa voglia, e convien cavarsela. Eccolo ch’egli viene di qua; comincerò ad allettarlo con le curiosità di quest’isola.

Ulisse. La ben trovata, la mia gentilissima Circe. Io attendo dalla grazia tua che tu mi dia qualche buon indirizzo pel mio viaggio alla volta d’Itaca. A che ne siamo? Hai tu gittata per favorirmi quella tua maravigliosa arte?

Circe. Sì, Ulisse, non avendo io altro diletto che quello di compiacerti. E se tu mi presti fede, m’hanno dimostrato diversi segni che tu non debba partirti di qua così tosto. Vogliono gli Dei che tu non ab-[395]bandoni quest’isola fino a tanto che tu non hai vedute e comprese altre maraviglie notabili che sono in essa.

Ulisse. Oimè! e sino a quanto dee durare ancora la nimicizia degli Dei contro di me, sicchè io non possa un giorno rivedere la mia patria? E quali altre maraviglie può avere quest’isola maggiori di quelle che ho già vedute e udite fin ora? Io non credo d’aver a veder cosa più mirabile, che uomini tramutati in bestie, le’quali hanno la favella umana.

Circe. Ulisse, tu non sai ancora a mezzo le mirabilità di quest’isola. Tu credi che solamente le bestie favellino; ma quanto vedi qui intorno, ha spirito e intelletto umano. Non sono già io quella che abbia tramutato in forme nuove i primi corpi; ma da tutti gli Dei fu fatto questo uffizio. E voglio che tu sappi, che quanti alberi, sassi e fiori, fonti e fiumi tu vedi nell’isola mia, furono già uomini e donne, de’quali tu avrai udito più volte a narrare le tramutazioni che vennero fatte. Tutte le trasformate cose furono dagli Dei in questo mio luogo trapiantate, ed io sono la custode di quelle. Io ti dico cosa la quale non ho mai detta a verun uomo che viva, nè l’avrei anche detta a te, se tale non fosse il volere degli altri Dei.

Ulisse. Io mi credea d’essere in un’isola del tutto disabitata, e, a quello ch’io odo a mano a mano, essa avrà più abitatori che gli altri luoghi. È tale questa novità, ch’io avrò caro di vederla, come n’ho veduto tante altre. Di grazia, fammi parlare a qualche albero, come fino a qui m’hai fatto parlare con pipistrelli e marmotte.

Circe. Io ne lascio l’elezione a te. A cui vorresti favellare?

Ulisse. Che ne so io? A quel verde alloro ch’io veggo colà. Andiamo ad esso.

Circe. Andiamo. Sai tu chi sia quell’alloro?

Ulisse. L’albero de’poeti.

Circe. È vero. Ma prima ch’essere alloro, sai tu chi fosse?

Ulisse. S’egli è quel primo alloro che pose le sue radici in terra, sarà stato Dafne, la figliuola di Peneo amata da Apollo.

Circe. Tu hai detto bene. L’è dessa.

Ulisse. Di grazia, affrettiamoci, perch’io muoio di voglia di farle diverse interrogazioni.

Circe. Adagio prima. Sta’un poco ad udire quegli uccelli che cantano sugli alberi ad essa vicini, de’quali quasi sempre ve n’ha un nuvolo che le canta intorno. Quivi è ora un picchio, una ghiandaia e un rosignuolo. Cotesti uccelli furono già poeti, e io gli ho vestiti di piume; nè per tutto ciò cessano di verseggiare, e cantano intorno all’alloro per meritarsi una ghirlanda. Quando pare all’alloro che ne sieno degni, esso si crolla, e l’uccellino vittorioso vola, e col becco ne spicca il bisogno suo, e se ne va trionfando; gli altri se ne vanno spennacchiati.

Picchio. Qual mai dalle profonde viscere della terra

Mosse subito zolfo alle citta di guerra,

Che uguagliasse la fiamma che accese nel mio petto

Il vago di Nigella imperïoso aspetto?

[396] Qual di Marte furore, avido di rovine,

Empiè mai tanto il mondo di stragi e di rapine,

Quanto la bella donna, senz’aste nè bandiere,

Ne fa colla possanza di due pupille nere?

Misero me! che acceso, in van pietade invoco:

Ondeggio in un gran mare col cor pieno di foco.

Chiamo la morte, è sorda: non m’odono gli Dei;

Volgomi a lei, nessuno è più sordo di lei.

Ulisse. Il picchio ha terminato il suo canto; e l’alloro non si move.

Circe. Quell’alloro, quando non ode passioni espresse naturalmente, non concede mai le sue frondi. Ti par egli che un tremuoto, una battaglia, e altre siffatte cose si possano paragonare alla passione dell’amore? Tali iperboloni non ispiegano nulla, per essere troppo grandi; e poi, dopo d’essere stato sull’ale un pezzo tant’alto, il poeta ha dato del ceffo in terra con quell’ultimo verso; oltre a quel giocolino di parole del mare e del foco. Odi, odi ora la ghiandaia che apre il becco:

Ghiandaia. All’apparire

Di Cloe gentile,
Veggo fiorire
Giocondo aprile.

Quando è lontana,

Copre di gelo
La tramontana
Terreno e cielo.

Cerco ristoro

Da’miei sospiri,
E intanto moro
Fra’miei deliri.

Sazia il mio core

Quand’ella riede:
Mettile, Amore,
Radici al piede.

Ulisse. Io non veggo che la ghiandaia abbia fortuna migliore del picchio; l’alloro sta saldo.

Circe. Gli saranno forse sembrati questi versi parole, e non altro; oltre a quella chiusa, in cui per avere il piacere di veder la donna amata, le desidera questo bene di vederla divenuta un albero; la qual cosa non può piacere a Dafne, che sa il travaglio che le dà lo star ferma sempre in un luogo.

Ulisse. Sta’, sta’, che canta il rosignuolo.

Rosign. Spesso piangendo desïoso e solo,

Chiamo il nome di lei che al mondo adoro,
E dalle genti volentier m’involo.

Cerco dal mio pensier qualche ristoro,

Che mi dipinga lei vezzosa e bella;
E s’altri m’interrompe, io m’addoloro.

Chi sa che ancor la mia nemica stella

Vinta non sia da quella sofferenza
Ch’altri non vede, ed il mio cor flagella?

Onesta è Clori, e in odio ogni apparenza

Ell’ha d’amore; ma l’amor verace
Merta al fin premio, e non può andarne senza.

[397] O dolce speme di beata pace,

Tu mi sarai ne’miei mali conforto:
Nè altro voglio, finchè a lei non piace,

Fuorchè dolermi, ed a me dare il torto.

Circe. Vedi vedi l’albero che si crolla, e già il rosignuolo n’ha beccata una foglia. Il suo querelarsi naturalmente gliel’ha fatta acquistare; e io son certa che non c’è altro miglior modo di questo d’esprimere le proprie passioni.

Ulisse. Sarà come tu affermi; ma io ho sì gran voglia di favellare, a questo alloro, che appena ho avuto sofferenza d’udire.

Circe. Orsù, di’ quello che vuoi.

Ulisse. O bella e gloriosa pianta, le cui fronde sono sopra la terra grandemente da’nobili animi desiderate; se non t’è noiosa la mia domanda, io vorrei intendere da te s’egli è vero, come dicono gli scrittori, che tu avessi cotanto in odio Apollo, che da lui fuggissi veramente di cuore. Io so pure ch’egli dovea essere più bello di qualsivoglia altro abitatore della terra, quantunque sotto il vestito di pastore si ricoprisse.

Nível 5► Utopia► Alloro. Ahi! qual domanda mi fai tu ora, o forestiere? Pensi tu mai ch’io fossi così sciocca? Non lo credere. Anzi sappi ch’io era innamorata d’Apollo, quanto mai potesse essere donna di giovane alcuno. Ma a que’tempi era vestito il cuore d’una rigidezza così strana a cagione de’severi costumi del mondo, che una femmina non avea ardimento di favellare ad un maschio. Alle parole che mi dicea Apollo, io risposi sempre col voltargli le spalle, o il più il più con qualche ghigno. Non so quale speranza egli prendesse de’fatti miei; ma un giorno, egli cominciò a ragionarmi con maggior fervore che tutti gli altri. Io mi diedi a camminare gagliardamente verso un boschetto, fingendo di fuggire; ma in effetto per ascoltarlo con mio agio maggiore. Egli si credea ch’io fuggissi daddovero, e cominciò a correre; e io innanzi sempre. Quando fummo ad un certo passo, m’accorsi che il padre mio mi vedea; e non sapendo che farmi, esclamai ad alta voce: “Aiuto, aiuto.” Il padre mio che conosceva che la forza sua non potea valere contro Apollo, nè avrebbe potuto difendermi, mi tramutò, come vedi, in alloro; di che pensa s’io ebbi dispetto, e se n’ho ancora.

Ulisse. E che disse Apollo?

Alloro. Corse ad abbracciarmi, e piangeva. Il cuore batteva a me sotto la corteccia; ma non poteva più parlare: e quello che più mi spiace, è che si crede ancora ch’io sia obbligata al padre mio, di che veramente io non gli ho obbligo veruno. ◀Utopia ◀Nível 5

Ulisse. Lascia fare a me, che da qui in poi dirò la cosa come fu.

Alloro. No, ti prego. Poichè si crede che l’onestà mia m’abbia ridotta a tale, lascialo credere. L’avrei taciuto anche a te, se una forza superiore non m’avesse costretta a parlare. Non mi togliere il mio buon nome, poichè non posso aver meglio.

Ulisse. Farò quello che mi chiedi. ◀Utopia ◀Diálogo ◀Nível 4 ◀Nível 3 ◀Nível 2 ◀Nível 1